L’idea della malattia mentale – Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi, 2021

 

 

Mi piacerebbe leggere pensieri e studi di collaborazione nei territori della psicologia e della psichiatria. Forse l’autore aveva in cuore di trasferire la sua esperienza in versi e in prosa, e io leggo e custodisco, con comprensione e ammirazione, la fatica della scrittura e dell’attività lavorativa ricordata. Propongo una lettura critica di questo testo prezioso per la testimonianza, per le storie raccolte in quarant’anni di Reparto 77 e per i dubbi che solletica. Come lettrice psicologa sono preoccupata per le eventuali derive dell’idea stessa di malattia mentale, nell’atteggiamento e nelle visioni strutturate.

Questa esperienza scritta dello psichiatra Milone mi ha dato da pensare a lungo. Problematizzo, non cerco e offro soluzioni; l’invito è continuare a interrogarci.

Per esempio, riporto da pagina 148: “Non è cattivo chi lega, legare è faticoso. È cattivo chi abbandona il paziente”. E rifletto sull’idea maschile binaria: o legare il paziente o abbandonarlo? L’aspettativa è che legare qualcuno, anche il matto, risulti meno faticoso? Perché, seppure fragile e malato, l’essere umano dovrebbe facilmente acconsentire alla contenzione?

E a pagina 159, l’autore si meraviglia: “Gli psicologi, è incredibile, vivono in un mondo psicologico!”. Una psichiatria a cui manchi la dimensione psicologica è pericolosamente assoggettata alla tecnica applicata e al suo lato oscuro. Se manca la psichiatria psicologica, il professionista è condannato alla negazione, alla scissione da sé e alla proiezione di quello che non assume come variabili. Per lo psichiatra, il nemico diventa il malato e la sua malattia.

I progressi della tecnica e dell’economia non compensano i bisogni primari dell’animo umano. L’organicismo è una tentazione sempre dominante. Abbiamo bisogno maggiormente di continuare a credere e a coltivare l’utopia di Franco Basaglia e di Franca Ongaro, sua moglie. L’utopia a favore dell’essere umano concreto che va adattandosi alle circostanze e non della generica massa. L’utopia che cerca ancora una programmazione e un’azione politica.

Nessuna forma di costrizione è giustificabile e la coercizione può diventare l’applicazione che rimanda ad una visione utilitaristica dell’essere umano, accolto e riconosciuto solo nella separazione fra la normalità e la follia. Certo, ci sono le situazioni eccezionali che però vanno valutate caso per caso. A me interessa, ab origine, la convinzione e la decisione di non legare. Come psicologa non mi sento “esposta al male” degli altri, ma al male dentro di me; non “a guardare l’abisso con gli occhi degli altri”, ma a conoscere l’inferno della mia interiorità, in relazione con il prossimo.

Leggo a pagina13: “C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa più brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora più brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana.” E a pagina17: “Psichiatria è urla e pianto muto”.

Nessuna parola mi convince. Penso che realmente il ricovero possa diventare, come ogni detenzione, la “cosa più brutta al mondo” e, aggiungo, la più inutile. La vita di molti esseri umani è brutta a causa dell’ingiustizia, di un mondo sociale che include quelli ritenuti perfetti, forti, compiacenti e utili al potere. Ascoltare l’urlo e il pianto muto dei fragili, dei malati è l’apprendimento quotidiano, non un peso di cui liberarsi a favore della illimitata produzione. Cos’altro avremmo da fare, noi umani, se non stanare le solitudini dolorose? E cos’altro proporrebbe la psicologia se non le riletture ecologiche, ampie il più possibile, della mente e degli stati di vita differenti?

Magari l’autore non ne aveva l’intenzione ma, il fenomeno violento sul minus, sulla pazza di turno, risulta banalizzato, naturalizzato, romanticizzato; quindi, ridimensionato e giustificato; infine, rimane invisibile e impunito. La narrazione della malattia psichiatrica che usa il linguaggio emozionale rischia di confermare gli atteggiamenti moralisti e compassionevoli. Sospetto una dinamica di potere forte, non una pratica di pietà per evitare all’altro la sofferenza.

Soprattutto la Psichiatria d’urgenza e gli interventi di Tso (trattamenti sanitari obbligatori) necessitano di discernimento, di una pratica psicologica che riguardi non tanto e non solo il male negli altri, ma il male e la violenza in se stessi. L’attesa è che l’analisi personale, la formazione alla relazione, nell’esercizio delle professioni di psicologo e di psichiatra, non risultino occasionali e diluite, ma sistematiche e continuative. A fianco di un pensiero filosofico e politico a servizio degli uomini e delle donne.

Infine, il libro è Einaudi, è pieno di suggestioni e invito ad affinare l’olfatto rispetto all’idea di un potere sornione che pretende, pure, di essere poetico e che coinvolge il corpo, l’intera prospettiva di vita relazionale e di cura.

 

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