Ph. Fonte Silvia Meo

La viandanza e la restanza

 

 

Considero l’erranza e la restanza, le radici e le ali, come stati di vita psicologica che richiedono la confidenza con se stessi e con l’alterità, con l’intimità in ogni interazione. Attraverso le sfumature delle luci e delle ombre, rimaniamo ancorate/i al passato e proiettate/i verso il futuro. In primis, il radicamento, l’individuazione, l’abitare sono in noi stesse/i. E, dunque, possiamo andare, restare, tornare e ripartire perché le situazioni sono mutevoli e molteplici. Talvolta ci accorgiamo di essere rimaste, in quel paese, in quella relazione, pur essendo andate via formalmente. Oppure, ci ritroviamo, radicate e ferme, ormai fuori e lontane.

“Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo” (Teti, p.5)

È auspicabile tenerle assieme, come possibilità, la viandanza e la restanza, in ogni fase differente di vita e in diversi stati di salute e di relazioni. Siamo esseri umani appaesati e spaesati allo stesso tempo, appartenenti ed estranei, con gli occhi bassi e, ugualmente, con lo sguardo oltre il confine, in apprendimento con il nostro corpo e con l’altrui. La restanza richiama l’immagine interiore di appartenenza e di attaccamento, fondamentali per l’evoluzione di ogni vivente. E la viandanza esprime la domanda di curiosità, di ricerca, di conoscenza di ogni persona. La restanza può essere itinerante e utopica e l’erranza può irrigidirsi a recuperare il passato.

Sentirci esiliate/i e straniere/i, stanziali e viandanti, in fondo, è permanere nell’inquietudine la quale se non ostacola, avvia le trasformazioni. Rimaniamo sospese/i e affondate/i nella partenza o nella restanza proteggendoci, a darci il permesso di rimanere fino al giorno in cui osiamo il permesso di allontanarci, di tradĕre. Ogni azione arriva perchè compiuta e dovuta, come una evoluzione naturale.

La spersonalizzazione e la disumanità, l’arretratezza e il conservativismo, il progresso e lo sviluppo possono accompagnare sia la stanzialità sia la mobilità. In ogni caso, che si vada o che si rimanga, il movimento e il cambiamento sono e devono essere possibili, se ogni persona garantisce l’esserci, l’essere presente a se stessa, nel conflitto e nella contraddizione.

La tristezza e il godimento vissuti assieme sono il termometro; altrimenti, rischiamo di rimanere sconfitti e perdenti nel viaggio come nel radicamento. Nella viandanza e nella restanza, ci accompagnano l’essenzialità e la povertà, per goderne senza pesi, voglio dire senza giochi psicologici.

“Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno piú distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi” (Teti, p.33).

Anche nella scomodità del viaggio può ingannarci il confort di rimanere solo quel che eravamo, senza farci modellare dai luoghi e dalle persone e ritornare, così, identici al pigro sé di prima. E, invece, la staticità può divenire dinamica e consentirci di viaggiare a lungo. Chi resta persegue la trasformazione e chi parte si augura di tornare nel luogo immutato – o nella relazione – per riconoscere e per ritrovarsi. Siamo vivi e sani se restiamo con il desiderio di andare e se partiamo con la tensione al ritorno possibile. Siamo stanziali mentre erriamo e in movimento mentre restiamo, sentendo la rabbia, la tristezza e la paura, compagne nella durata, nell’attesa, nella cacciata, nel cerchio che combacia. Non per sopravvivenza, ma per essere felici.

“… farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi”: nell’autobiografia di un antropologo, come chiama il suo libro La restanza Vito Teti, ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, ritrovo studi, ricerche e riflessioni puntuali e profonde. Apprezzo le 150 pagine di questo saggio, e soprattutto mi intriga la bibliografia che racconta la via seguita, i maestri e le maestre considerate, fra saggi e narrativa, fra cultura popolare e accademica, fra economia e poesia.

“Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto. Ogni luogo non è solo articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente e richiede un’organizzazione simbolica tramata di tempo, memoria ed oblio”. (p.21).

È un luogo comune ed è un paradigma obsoleto pensare che i padri, i maschi debbano andare e che, invece, siamo confermate come buone madri e donne solo scegliendo di rimanere. Possiamo goderci la restanza in una relazione e in un luogo, avvertendo la spinta di rivoluzione verso il mondo? Andare o restare, insomma, dipende da chi stiamo diventando.

Apprendiamo ad abitare la restanza e la viandanza come figure archetipiche del cambiamento, come metafore dell’esistenza. Chi va non è necessariamente moderno e migliore e chi resta non è, tout court, omologato e rinunciatario. Il restare può esprimere la regressione e l’andare può tradursi in immobilismo. Andando o restando, il dinamismo è nell’educazione al senso.

Quando c’è qualcuna/o che attende qui il ritorno, in modo attivo e non rassegnato, allora nessuno si sente gettato nell’altrove perché “l’amore rimane, l’amore cammina”: è la dedica di Teti a chi legge.

Da studiare e da guardare:

  • Vito Teti, La restanza, Einaudi, 2022
  • Film La restanza, 2021, della regista Alessandra Coppola che racconta di giovani trentenni che decidono di restare a Castiglione d’Otranto coltivando semi antichi e curando la biodiversità.

“Le retoriche del viaggiare e quelle del restare sono infinite e disegnano scacchi della ragione che esorcizzano lo specchio in cui si riflette la maledizione dell’inabitabile altrove: forse perché viaggiare e restare, viaggiare e tornare sono esperienze e ritualità inscindibili, si presuppongono e s’intrecciano nelle loro aporie di senso per trovare senso l’una nell’altra” (p.77).

“Se non ci si sente prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo si possiede la libertà del cammino” (p.79).

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