Ph.Fonte Silvia Meo

La valle oscura e il cane nero

 

 

Pensare intorno al lavoro incrocia molti argomenti, politici, economici, sociologici. Mi occupo di rispondere alla domanda sempre più frequente di sollievo rispetto a manifestazioni fisiche e fisiologiche varie e uguali, più o meno persistenti: sudorazione, tremore, vertigini, nausea, cefalea, formicolii, tensioni muscolari, secchezza della bocca.

Lo stachanovismo, come modalità di lavoro e di vita, nasce nell’ex Unione Sovietica, durante la dittatura stalinista; Aleksey Stachanov, in una sola notte, estrasse una quantità di carbone superiore di quattordici volte alla normalità dei colleghi. Il termine workaholism viene introdotto da Wayne Oates nel 1971, unendo la parola work e la parola alcoholism per descrivere la dipendenza dall’attività lavorativa. Infatti, il workaolismo è il disturbo delle persone che lavorano da matti, che si ubriacano di lavoro. Mi confidano che non possono smettere o diminuire e che la tendenza a lavorare eccessivamente, in modo compulsivo, è diventata un’autocura, come il sesso, l’alcol e le droghe considerate leggere.

Molti rivendicano il diritto all’ansia, il diritto a rimanere come sono e pretendono di risolvere i sintomi per risorgere alla vita di prima, vittoriosa e fortissima, ricca di fatturato e movimentata.  Con loro, rifletto sull’eccesso di attività come sintomo, come effetto e non come causa dei malesseri fisici e psichici. Tutte le tipologie di lavoro possono diventare altamente stressanti, se scambiamo l’amore per l’attività lavorativa con il possesso ricattatorio che la mentalità legata al lavoro esercita su di noi.

L’efficienza e la prestazione sono ormai diventati il metro per misurare la persona intera. Ma avere una vita precaria, in periodi anche lunghi, lo dico a me per prima, non significa essere una precaria dell’esistenza. La dimensione lavorativa è importante, ma non è l’unico accesso alla felicità possibile.

Churchill parlava del suo cane nero interiore e penso che fosse un disturbo bipolare a consentirgli, durante la fase maniacale, l’abbondante produzione di attività e di opere. Capisco che per molte persone il superlavoro sia un tentativo di ridurre l’ansia e la depressione preesistenti. Buttarci nel lavoro, apparentemente dà sollievo, come una dipendenza qualunque; nel tempo, però, diventiamo fautori e complici di una sintomatologia dolorosa e preoccupante. Sostenendo la tesi della casualità inversa, le dipendenze persistenti, talvolta, anche di pornografia, di alcol e di droghe non sono cause, ma segnali di una strutturazione patologica dell’intera esistenza.

L’attività lavorativa compulsiva che si impossessa totalmente della quotidianità è l’effetto di un disturbo culturale e mentale. Il workaholismo prevede una visione virile della vita. Bisogna che guariamo non dalla eventuale perdita mortificante, ma dalla fragile onnipotenza che pretende di vederci vincere con forza, sempre. Bisogna che guariamo dal potere che è la nostra valle oscura. Giudicarci inadeguati a vivere la quotidianità è segnale preciso che è arrivato il momento di trasformare la visione intera del lavoro, del successo e dell’esistenza.

La cultura capitalista ci spinge a essere produttivi per sentirci vivi, a essere consumatori per acquisire sicurezza, a moltiplicare la quantità di lavoro per dirci capaci e forti. Il superlavoratore appare sempre indaffaratissimo e viene guardato con ammirazione, invidia, compiacimento. E le aziende promuovono e premiano i comportamenti iperadattivi e dipendenti. Molti corsi di burnout rimangono in superficie, invitando all’automedicazione che non risolve, all’origine, la paura, la rabbia e la tristezza.

Il patriarcato fa male agli uomini e alle donne, e insegna loro a manifestare la virilità vincendo la paura con l’aggressività. Il patriarcato come forma di dominio sul corpo e sulla terra non è affatto risolto e, raramente, viene riconosciuto. L’uomo forte e duro o la donna che non chiede mai e non ha bisogno e non dipende da nessuno sono proiezioni favorite dal culto dell’individualismo e dell’unica persona sola al comando. Il machismo utilizza l’esaltazione, il superlativo, l’eccesso e il ruolo minore di qualche essere vivente.

L’omologazione e l’assorbimento in una visione globale rivendicano le identità personali eccellenti e superiori. Ci viene promesso il successo in una società ingiusta senza volerla trasformare, senza incoraggiare una azione radicale di umanizzazione della quotidianità. Riconosciamo le cause delle malattie mentali, certamente, attraverso l’indagine e la guida psicologica, in noi stessi, ma anche nel contesto politico, economico e sociale.

L’ampliamento degli ii, le opzioni, i colori che ogni essere umano possiede, ci consentono di rifiutare i modelli esterni e di risolvere l’ansia da prestazione e la paura di snaturalizzarci. Il lavoro di ripensamento rispetto alle relazioni, al benessere richiede tempo e siamo, invece, abituati a chiamare perdita di tempo qualunque attività che nutra la crescita interiore, non immediatamente utile, vendibile e traducibile in denaro. Il tempo destrutturato non è necessariamente tempo morto e, in alcune situazioni, non fare nulla significa consentirci di essere concavi, riceventi.

Mi conforta leggere La valle oscura, la storia di Anna Wiener, oggi corrispondente del New Yorker, la quale riconosce, dopo anni di malessere, la megalomania adulatoria del settore tecnologico. In molte aziende, ciò che conta è centralizzare il potere e sono pochissimi a sapere, a decidere, a guadagnare, con l’aggravante che le loro esperienze personali diventano verità universali. I lavoratori, sì tutti con sguardo maschile, seguono protocolli severi e ambiziosi, e con l’eccellenza delle comunicazioni, evitano le relazioni. Accade, infatti, mi raccontano, che due persone in posizioni adiacenti, si inviino mail per parlarsi.

L’aggressività passiva è il sintomo di chi deve documentare in modo ossessivo compulsivo la propria attività lavorativa. La retorica dell’esclusione, le luci da pop star per pontificare, le molestie sessuali in agguato, rendono tutti espansivi e stucchevoli, spumeggianti e dotati per natura di competenze, anche tecnologiche, indispensabili e all’avanguardia. Li vedo abbattuti sul divano del mio studio come la caricatura di se stessi. Sono figure presuntuose ed esasperanti che vivono sotto pressione, obbedienti e coperti da un’arroganza nevrotica.

Il lavoro si era incuneato nella nostra identità. Noi eravamo l’azienda, e l’azienda era noi. Piccoli fallimenti e grandi successi riflettevano in egual modo le nostre inadeguatezze personali o il talento individuale. Quella frenesia era inebriante, come lo era la sensazione che tutti fossimo indispensabili. p.79

Il linguaggio dell’acquisizione di fasce di mercato pretende la scaltrezza, la  velocità, la furbizia e richiede dipendenti moribondi davanti a video luminosi; prevede le capsule di vitamina per la concentrazione, le bevande energetiche e l’uso medico di marijuana. Sono persuasivi, concreti, accelerati e accattivanti, a costruire un mondo di determinati al successo e al controllo di alcuni gruppi su altri.  I am data driven, sono guidato dai dati, rappresenta il nuovo diktat da poltrona ergonomica dondolante. Ma l’ottimizzazione e il potenziamento della produttività si risolvono presto in numerosi disturbi del corpo.

Eravamo fortunati e succubi, e poi, senza accorgercene, eravamo diventati burocrati… forse non eravamo mai stati una famiglia. Sapevamo di non esserlo mai stati. Ma forse lo facevamo davvero solo per soldi. No, lo facevamo per il potere. Il potere sembrava ok… p.127

Il focus della consulenza e della formazione non è sulla motivazione del dipendente, ma sulla struttura culturale aziendale. Sono d’accordo con chi afferma che situare la riuscita della vita dentro il lavoratore prevede che sia appassionato e grato anche nel sacrificio e nello sfruttamento: è il perfetto soggetto neoliberale, è la forma contemporanea di accumulazione del capitale. La cooperazione richiesta punta alla produttività e pretende che ogni persona sia sana, senza sintomi e felice; invece, la solidarietà e la responsabilità problematizzano in modo circolare la persona lavoratrice, quella imprenditrice e, assieme, il contesto lavorativo.

Sono grata alle persone che si fidano, si affidano non tanto a me, ma alle nuove vie di ricerca e di trasformazione che ci vengono incontro e che, assieme, approfondiamo.

In quella visione del futuro non c’era nessuna crisi. C’erano solo opportunità. p.32

A guardar loro, sembrava così facile sapere cosa volevi e ottenerlo. Ero stata pronta a credere in loro, impaziente di organizzare la mia vita intorno ai loro princìpi. Avevo confidato che fossero loro a dirmi chi ero, cosa contava, come vivere. Avevo confidato che avessero un piano, e che fosse il piano migliore per me. Pensavo sapessero qualcosa che io non sapevo. p.172

Mi consideravo una femminista, ma il mio lavoro mi aveva messa in una posizione di incessante e professionalizzata deferenza verso l’ego maschile. p.129

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