Ph: Fonte Silvia Meo
Il mio nucleo famigliare di origine è tradizionale: sono vissuta in una famiglia riconosciuta dal governo. Il divieto di aborto, il delitto d’onore, il matrimonio riparatore, lo stupro come delitto contro la moralità e non contro la persona: no, non stavo bene, negli anni ‘60 e ‘70, quando stavamo peggio. Ovvio, non ho rancore per mia madre e mio padre, figure storiche di un dopoguerra confuso e complesso. Mi riferisco, invece, a una cultura basica che, più o meno consapevolmente, nutre i gruppi sociali. Lo stratagemma giuridico romano, in quegli anni, garantiva la paternità, la legge del padre, e ne giustificava la sovranità, mantenendo, in più, la pratica competitiva.
Nel 1975, in tutta Europa, viene riformato il diritto di famiglia, ma il paradigma gerarchico rimane: insomma, in casa bisogna che si capisca bene chi comanda, controlla e punisce! L’istituto della famiglia, come l’ho vissuto, dico adesso, è una costruzione del patriarcato, anche del patriarcato femminile, ma non è l’unica forma di convivenza possibile. Con le fisiologiche trasformazioni sociali, la famiglia nucleare ripropone, ormai, il mito fasullo della famiglia amorosa permanente. Quando parliamo di famiglia, anche in ambienti progressisti, rilevo l’uso di un linguaggio mistico. È vero che, seguendo il pensiero di Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani; di conseguenza, magari senza accorgercene, coltiviamo l’idea della famiglia guidata dalla religione e dalla politica.
La forma istituzionalizzata della famiglia rimane il fondamento della politica dello Stato. Ed è ancora vivo l’immaginario sistemico e strutturale di Giove, stupratore e rapinatore seriale a confermare, ci sembra naturalmente, i ruoli dell’uomo cacciatore e della donna preda. La visione della vita relazionale come dominio non può ridursi solo ad una trasformazione giuridica. Il maschile non è il contrario del femminile, non è il nemico del femminismo. Il maschile, prima di tutto, è una maschera. Protegge, camuffa e traveste. S’indossa, si applica, come ogni identità. (Giammei, 2024)
La legislatura cambia, ma la mentalità e il comportamento non si trasformano adeguatamente. Per difesa, rimaniamo a proteggere le ristrette mappe mentali. Si fa strada, e bisogna che ce ne convinciamo, la creazione di comunità diverse, simili a famiglie. È indispensabile leggere, discutere, ascoltare la realtà modificata della famiglia, senza schierarci, e senza difenderci con l’uso dei binomi giusto/sbagliato, normale/malato. Riflettiamo sulle aree di apprendimento di ogni figura genitoriale, nel contesto in cui vive, evitando di attribuire le colpe, gli errori, i peccati, gli elenchi di punti negativi, le punizioni. Scelgo di inserire a questo punto nel testo i riferimenti di alcuni libri, gli ultimi che ho letto, non gli unici sull’argomento, perché la riflessione possa continuare su cammini diversi, lunghi e profondi, ad aprire le prospettive, a continuare i ragionamenti.
Riferimenti bibliografici
- bell hooks, Comunione, il Saggiatore, 2023
- bell hooks, Tutto sull’amore, il Saggiatore, 2022
- Heide Göttner-Abendroth, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, 2013, nella collana Civette di Venexia
- Alessandro Giammei, Cose da maschi, Einaudi, 2024
- Lea Melandri, Amore e Violenza – Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, 2011
- Michela Murgia, Dare la vita, Rizzoli, 2024
- Mariam Irene Tazi-Preve, Il fallimento della famiglia nucleare, VandA.ed., 2021
La ristretta concezione della famiglia non giova a nessuno. In questa riflessione, la bibliografia che propongo, molto parziale, è essenziale, per continuare a discernere, non per dirci necessariamente d’accordo con le Autrici e l’Autore, non per schierarci da una parte o dall’altra.
Non si tratta di praticare modelli alternativi, semmai di liberare, allargare, allontanare la famiglia quando diviene un luogo di prigionia, offrendoci la possibilità del bene fatto bene, voglio dire, il bene consapevole e fuori dalle manipolazioni dei giochi psicologici che ci rendono perdenti.
Tralascio la critica sul piano storico-sociale e propongo un pensiero psicologico sulla famiglia nucleare. Le figure genitoriali offrono un modello educativo che contribuisce alla formazione dell’essere umano, assieme all’ambiente, alla genetica, al caso che, da credente, io chiamo Dio. Questo modello, sotto forma di ordini e di ingiunzioni, Devi/Non devi, viene riconosciuto e rielaborato attraverso il lavoro personale di autocoscienza. Con dolore e con fatica, superiamo l’ordine genitoriale trasformandolo in possibilità: non più Devo essere in un certo modo ma, posso, se lo desidero, modificare il pensiero e il comportamento. Attraverso la formazione psicologica ogni persona definisce la storia della propria identità.
La famiglia è, purtroppo, un luogo in cui si possono coltivare le nevrosi. Nelle società occidentali, la sofferenza dei rapporti famigliari si manifesta in depressioni, dipendenze, aggressività. Freud, ne Il disagio della civiltà, riconosce che la guarigione della singola persona potrebbe far cadere l’intero sistema, ma la trasformazione, il passaggio che manca, è proprio qui, nella evoluzione di un apparato fisso e ossessivo, non più adeguato. Nella stanza della psicologa finiscono ad uno ad uno, oppure tutti insieme, i componenti della famiglia nucleare. E ogni persona si sente sbagliata e in colpa a modo suo. Spesso, però, sono le esigenze del sistema a essere scorrette, non sono le singole persone a tradire e a far fallire il modello. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, scrive Lea Melandri e io aggiungo che la famiglia c’entra, quando si uccide.
I cuccioli dell’essere umano hanno bisogno di figure genitoriali risolte, di un ambiente stabile nella complessità. Il migliore regalo, l’unico che possiamo fare ai figli e alle figlie è quello di proporci noi stesse come persone felici, coscienti. Il vincolo e la dipendenza sono fondamentali all’inizio dell’esperienza esistenziale; rimaniamo vulnerabili e bisognosi di un contesto, di un limite, di un’appartenenza con cui fare i conti e, anche, da tradire. La protezione nel nucleo famigliare offre il permesso di vivere l’indipendenza e la controdipendenza come passaggi verso l’autonomia di sé stessi/e.
Ribadisco che la formazione agli adulti, nei ruoli genitoriali, è indispensabile. Il copione famigliare custodisce racconti e convinzioni fondativi e modellanti. Ogni persona accetta compromessi per adeguarsi al mondo e al mondo della famiglia e dell’universo patriarcale. Niente di ciò che i genitori pensano, dicono e agiscono con i figli e le figlie, è privo di conseguenze, nel bene e nel male.
A molti bambini che hanno subito violenze fisiche o psicologiche, i genitori o chi ne svolge il ruolo hanno insegnato che l’amore può coesistere con i maltrattamenti. E, in casi estremi, che l’abuso è un’espressione d’amore. Una volta cresciuti, spesso questo pensiero bacato determina la nostra percezione dell’amore. Oltre a rimanere aggrappati all’idea che gli adulti che ci hanno maltrattati e mortificati nell’infanzia lo facessero per amore, cerchiamo di razionalizzare le ferite che ci vengono inflitte oggi da altri adulti, continuando a interpretarle come un segno d’amore. (bell hooks, Tutto sull’amore)
Le responsabilità relazionali sono al centro di tutte le trasformazioni che la famiglia tradizionale attraversa. Michela Murgia, soprattutto, in Dare la vita, ragiona su un modo di stare nel campo degli affetti svincolato dai legami di sangue. Sono passaggi, trasformazioni, possibilità da considerare, da verificare in ogni contesto psicologico, sociale, politico, economico.
Riconosco come la stessa disciplina psicologica abbia subito il dominio del pensiero virile. Infatti, risento molte gerarchie sessiste nel confronto con alcuni psicologi telegenici: l’enfasi sulla cura e il sostegno fondati sul sacrificio delle donne, mantenendo i confini di razza, genere e classe; il femminismo patriarcale a misurare con il bilancino dell’orefice le capacità delle donne all’altezza di standard storicamente maschili; il tifo per conformarci secondo le aspettative sociali di forza, di competizione, di potenziamento dell’io; la ricerca del colpevole, del nemico, del comportamento sbagliato da additare; il consiglio giudicato giusto, offerto, però, senza richiesta.
Il lavoro sulle matrici psicologiche, sui copioni famigliari, sugli stereotipi consolidati che sono spesso alla base della violenza fisica e morale, si rivela una scelta adeguata verso il cambiamento. Seguendo le parole della politologa austriaca sessantatreenne Mariam Irene Tazi-Preve, avremo sempre bisogno di psicoterapie finché saranno confermate, le statistiche e gli studi che considerano come per le donne la “famiglia” rappresenta principalmente un posto di lavoro e un luogo di responsabilità verso i figli; raramente le donne si rigenerano nello spazio familiare. Per gli uomini, invece, la “famiglia” significa ricreazione e tempo libero, serve loro da appoggio e risorsa di energia per poter essere costantemente attivi nell’ambito del lavoro.
La nostra struttura psichica è influenzata dalle relazioni famigliari, sin dai primi anni di vita. Interrogarci su di esse, oggi, significa non solo parlare di comunicazione, sentimenti, linguaggi, comportamenti, ma anche di civiltà, di politica, di economia. Il copione rappresenta un sistema di credenze e di convinzioni. Al di là della retorica scientifico-popolare, seguiamo la formazione di una comunità genitoriale significante, costituita da persone psichicamente solide e gioiose, con un orientamento alla speranza. Se fallisce l’istituzione del matrimonio, rischiano di fallire le persone che in essa si confondono. La proposta è di ripensare e rifondare la famiglia nell’idea e nella pratica, magari su base matrilineare. Non è una ricetta, non un formato vincente, è un cammino di ricerca da seguire.
Tazi-Preve scrive, ancora: Al contrario nelle società matrilineari la fine dell’unione sentimentale non pregiudica la famiglia, che è basata sulla convivenza in linea materna, mentre i compagni/mariti delle donne dormono con loro, ma poi al risveglio ritornano nella casa materna, che in queste società è ancora l’unità fondamentale della produzione. La pars costruens che rimedia al fallimento della famiglia nucleare è derivata dalle pratiche nelle società matriarcali, la cui migliore raccolta è Le società matriarcali di Heide Göttner-Abendroth.
Apprendiamo a problematizzare, una prospettiva dopo l’altra, a non chiudere i discorsi, a non dare nulla per scontato, neanche quando ipotizziamo una possibile sintonia.
Il femminismo di potere è solo un altro inganno, in cui le donne possono giocare al patriarca e far finta che il potere che cerchiamo e otteniamo ci liberi. Poiché non abbiamo creato un corpus sostanzioso di opere capaci di insegnare alle bambine e alle donne modi nuovi e visionari di pensare all’amore, assistiamo all’ascesa di una generazione di donne sulla trentina che considerano una debolezza qualsiasi desiderio d’amore, il cui sguardo è concentrato esclusivamente sulla conquista del potere… Sapere che tanto le donne quanto gli uomini sono addestrati ad accettare il pensiero patriarcale dovrebbe rendere evidente a chiunque che il problema non sono gli uomini. Il problema è il patriarcato. In Paura dei cinquanta Erica Jong mette in chiaro questa distinzione dichiarando: La verità è che non ritengo i singoli uomini responsabili di questo sistema. Lo portano avanti perlopiù senza rendersene conto. E anche le donne lo portano avanti senza rendersene conto. Ma sempre di più mi domando se potrà mai essere modificato. […] Credo che il mondo sia pieno di uomini che sono davvero perplessi e feriti dalla rabbia delle donne tanto quanto le donne lo sono dal sessismo, che vogliono solo essere amati e nutriti, che non riescono a capire in che modo questi desideri siano diventati d’un tratto così difficili da soddisfare. (bell hooks, Comunione)
Ho dato un ordine ai miei appunti, solo per iniziare a palarne, intravedendo i nuovi scenari. Consapevolmente, questo scritto è incompleto, perché è da questo punto che lo studio e la condivisione ricominciano.