Venere degli stracci

Le aporie del Salvatore psicologico

Venere degli stracci

Venere degli stracci, Michelangelo Pistoletto,1967

 

 

Mi invitano, mesi fa, a presentare il libro di un giornalista europeo sul bello dell’Italia. Di seguito riporto la riflessione che immediatamente mi torna in mente:

“Il giornalismo da solo non ha il potere di cambiare la civiltà dello spettacolo che ha contribuito a forgiare. Questa è una realtà radicata nel nostro tempo, il certificato di nascita delle nuove generazioni, un modo di essere, di vivere e forse di morire del mondo che è toccato in sorte a noi, fortunati cittadini di paesi in cui la democrazia, la libertà, le idee, i valori, i libri, l’arte e la letteratura dell’Occidente hanno riservato il privilegio di trasformare l’intrattenimento passeggero nell’aspirazione suprema della vita umana e nel diritto di contemplare con cinismo e disprezzo tutto ciò che ci annoia, ci preoccupa e ci ricorda che la vita non è solo svago, ma anche dramma, dolore, mistero e frustrazione.” (Vargas Llosa,p.44, La civiltà dello spettacolo, Einaudi, 2013)

Le transazioni intercorse, in molte situazioni, oltre la presentazione del libro, sono il pretesto per riflettere sul potere che, nelle relazioni fra persone, si annida e si nutre dei giochi di Salvatori inconsapevoli.

Di contro: pensare, argomentare, problematizzare, condividere, confliggere sono i verbi del lavoro che propongo nel cammino di Educazione alla Persona.

Il triangolo psicodrammatico di Karpman prevede tre ruoli: il Persecutore, la Vittima e il Salvatore. Quest’ultimo ritengo sia una figura psicologica più inquietante delle altre due, perché non è riconoscibile chiaramente e immediatamente. Spesso, il pericoloso Salvatore viene scambiato per un ottimista, per un volontario a servizio della patria e dell’umanità, per un pacifico.

L’ottimismo origina dall’analisi di realtà, altrimenti, è una fantasia delirante e i giochi del Salvatore rivelano distorsioni cognitive e disturbi psicologici legati all’iperadattamento, alla generalizzazione, alla manipolazione.

A proposito del libro, dopo averne apprezzato i contenuti positivi, gioiosi, ben scritti, rifletto sull’opportunità dell’operazione culturale, sulla pubblicazione che inneggia al bello d’Italia, in un periodo storico in cui la gente è spaventata, triste e arrabbiata, sotto lo schiaffo di una crisi economica che sembra eterna. Capisco il candore e l’ingenuità di chi dichiara, in cuor suo, di voler operare a favore del bene e non ammette altro, ma io scelgo di non ridurmi, per sottomissione, semmai di avviare un cambiamento con la convinzione di e in una possibile relazione.

Chi gioca nel ruolo del Salvatore, in fondo, ha paura delle ombre, non vuole vedere le mancanze. Si vergogna del vuoto e dell’assenza, mente a se stesso, talvolta, va troppo avanti o in alto, perché non può permettersi il lusso dell’archeologo del profondo.

L’elogio superlativo, l’elogio e basta, solidifica il sospetto del compiacimento, della svalutazione/ipervalutazione, della captatio benevolentiae. L’elogio risulta un’offesa, non un riconoscimento, se reiterato senza lo sfondo di un contesto ampio, che pre-veda luci ed ombre a conferire vigore plastico.

Penso che assumere in sé la totalità, l’insieme, la figura intera, conduca all’autonomia come leva di vantaggio.

In qualunque situazione e in compagnia di chiunque, salvare un pezzo rispetto al tutto, mantenere la divisione fra la luce dicibile e il buio da sottacere, solleticare il dualismo fra il bene e il peccato, fra il bello e il brutto, conferma il tornaconto del Salvatore, ma non aiuta a definire la chiarezza comunicativa, né l’eventuale originaria benevola intenzione, lasciando sul campo le vittime di una aporia circolare.

Le persone, gli scenari sociali, le visioni antropologiche sono tutte intere e interamente interagiscono fra loro. Così come la cultura, non è <a parte> dalla politica, la quale, a sua volta, non è <a parte> dalla vita personale. In azienda, i <problemi personali> non sono separati dalle prestazioni professionali e lavorative: non è possibile, ma non è neanche etico, proporre separazioni all’interno di una stessa persona. Il potere è divisorio e solitario, la relazione sana confonde e svela, includendo scenari ampi seppure conflittuali.

Per esempio, valuto la puntualità dei treni e la terra bonificata e la costruzione della mia scuola elementare, collocandole nel sistema politico in cui furono realizzate, rimanendo nei fatti della storia tutta intera e non certo, con sguardo parziale.  Modifico la valutazione di opere, pur buone e giuste, proprio perché le inserisco nello scenario globale di quel periodo storico e non a prescindere da esso.

Ripenso all’incontro con Cristina Maria che mi racconta come la città di Napoli, <a parte la camorra>, <a parte la spazzatura>, <a parte i politici ladri>, possiede opere d’arte di eccelso valore, come la statua del Cristo velato nel Museo Cappella Sansevero. Condivido con la mia amica guida come  il marmo del Cristo velato esista in quel contesto e ne assuma la spiritualità, portando su di sé i vissuti della gente, svolgendo la sua funzione inserito in quel luogo, non a prescindere da esso. Sì, il marmo assume la bellezza e la riconsegna ai nostri sensi, perché divenga carne stessa di quel territorio.

Sono psicologa e non posso legittimare la decontestualizzazione perché non favorisco i giochi psicologici messi in atto dal Salvatore di turno, il quale “salva” a costo di non tener conto della realtà, a sua insaputa o, consapevolmente, dichiarando di volerne vedere solo un pezzo, di quella realtà.

L’opera artistica, la bellezza, la cultura, non hanno bisogno di essere ripulite dal territorio, dalla gente, dalla sofferenza del tempo, neanche dalla bruttezza. La bellezza ci penetra e decide, proprio perché bella, di sporcarsi con noi, in mezzo a noi. Essa è sempre contaminata da combinazioni di elementi noti e sconosciuti, giudicati positivamente o meno.

Il potere omologante, invece, lucida, tornisce le superfici, tiene vive le divisioni, illumina i bicchieri mezzi pieni o vuoti, ripropone l’aspetto ludico come preponderante, fortifica l’analfabetismo psicologico e la certezza che si vince o si perde, facilita la sudditanza e disdegna il pensiero critico.

Se, invece, il processo è intero e la visuale è completa, apprendiamo a legare le cause agli effetti e continuiamo a provare interesse al viaggio fatto assieme, ai pensieri curiosi durante l’incontro, alle prospettive diverse possibili, piuttosto che alla risoluzione finale e all’obbedienza.

Giudicare è misurare l’altra persona secondo la propria esperienza. Contrariamente, però, scelgo di capire le ragioni, di chiedere informazioni, di ascoltare i processi decisionali, di inserire il racconto dell’altro nello scenario della sua esistenza, di confliggere con lui: tutto questo lo chiamo relazione. La valutazione assume il valore di uno sguardo e di una lettura sulla vita dell’altro partendo consapevolmente da sé.

L’altro non è derivato da me. Io non posso che essere io, come l’altro non può che essere quello che è e tutti e due siamo già salvi perché autonomi e diversi. Utilizzando i linguaggi dell’Analisi Transazionale, io non so se sono ok e non so se l’altro è ok, ma so, per certo, che sono proprio io e che l’altro è proprio lui/lei. Di conseguenza, confermo l’ok Corral tra di noi, come metodo per rappresentare le convinzioni su di sé e sull’altro.

La psicologia marca il confine fra il giudizio, possibile per chiunque viva nel mondo, e la disciplinata predisposizione e pratica ad assumere l’alterità da parte dei professionisti, nei territori vasti dell’umano.

“Io non sarò mai te nè tua. Tu non sarai mai me nè mio.”: riprendo il monito di Luce Irigaray

La capacità critica esce rafforzata divenendo pratica del proprio punto di vista donato all’altra persona. Nelle interazioni, non posso che raccontare la mia esperienza che non è quella dell’altro. Posso dichiarare: “Io al posto tuo avrei detto, avrei fatto…”. Ma io al posto dell’altro non ci sono. L’esperienza suggerisce che le persone adattate e sottomesse, si irritano, pretendendo che, necessariamente, vinca questo o quell’altro, che salga sul palcoscenico il frammento, non il divenire del viaggio insieme e nel suo insieme, il tutto.

Ripenso alla brutta esperienza del dirigente malamente licenziato: l’indignazione è la chiave di lettura per non rimanere complici di un sistema che chiede anche l’assoluzione a persone, pur maltrattate, che, ancora e sempre, “lo salvano” e immaginano di  ”salvarsi” dichiarando che, nelle grandi aziende, è così che funziona, è giusto che sia così, in fondo, forse, serviva solo un po’ di gentilezza.

Ecco, è in fondo, alle radici che chiedo di cambiare, non in superficie, non le modalità di comunicazione, ma la convinzione comune sulla sacralità e la gravità della condizione del lavoro, delle persone lavoratrici e cittadine. Altrimenti, incoraggiando questo sistema antiumano, non si salva né se stessi, né il futuro possibile del pensiero organizzativo. Argomentare, problematizzare, assumere il pensiero critico: in ogni comportamento agito si realizza la visione della vita, il pensiero e il sentimento.

Icaro, attraverso la lettura psicologica, se rimane a fare il pioniere icaro, da buon Salvatore, se rischia e osa altri fragili voli di cera, altri progetti, è un ossessivo compulsivo, totalmente fuori dalla realtà, non è un eroe. Costui è un misero che dovrà lavorare sul senso del limite, sull’arroganza, sugli ordini psicologici <Sii perfetto>, <Metticela tutta>, <Sii forte>, non è un vincente ottimista.

In una azienda, la figura del Salvatore, rimanda alle <strutture di potere> di foucaultiana memoria, utilizzate per assoggettare e ammaestrare il corpo sociale, perché il gruppo dominante mantenga controllo e privilegi ab aeterno.

Il Salvatore non vede la realtà, alienando la propria esistenza nella prestazione. Vedere non coinvolge solo gli occhi. Vedere la bellezza, vedere le forme artistiche, iniziando dai libri cari, vedere le persone, significa ritrovarsi nelle tre radici del verbo greco ὁράω, orào: –ἶδ, -id, –ὁρ, -or, –ὁπ, -op.

-Id richiama l’avere idea rispetto all’alterità; -or è l’oracolo e riprende la funzione profetica in una relazione; op riporta all’opera, all’azione, alla generatività della relazione.

Uscire dal triangolo drammatico e dal ruolo di Salvatore, oltre che dall’acidità di stomaco, significa farsi carico di un lavoro disciplinato, duro, onesto, attraverso l’educazione e la formazione, ciò al fine di vedere se stessi e l’alterità inseriti in un contesto. Non ti vedo se non mi vedo.

Per l’essere umano Trieb sostituisce Istinkt, infatti, come chiarisce Umberto Galimberti:

Trieb, a differenza dell’istinto diretto a una méta, è una semplice “spinta” … Apertura al mondo e plasticità nell’adattamento fanno dell’uomo un essere la cui vita dipende dalla “costruzione” che egli ne fa, attraverso quelle procedure di selezione e stabilizzazione con cui raggiunge “culturalmente” quella selettività e stabilità che l’animale, grazie all’istinto, ha per natura…

… cultura fatta di tecnica che ne assicura l’esistenza, e di istituzioni che ne regolano la condotta. Il problema è che la tecnica non diventi a tal punto egemone da ridurre l’uomo a semplice funzionario dei suoi apparati, e le istituzioni così impotenti da non essere in grado di impedirlo. (D la Repubblica,28maggio2016)

Editing: Enza Chirico

 

 

 

 

 


Tags: No tags

Add a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *