Film “Cronache di poveri amanti”, 1954, Carlo Lizzani
Scorrono foto di blitz e di operazioni poliziesche: guardo il Male, che è sempre banale, mentre ammala persone nascoste dietro la necessità di obbedire. Esse rimangono, dopo il dovere eseguito, bestie braccate dai sensi di colpa che si manifestano in modi più deleteri perché non ammessi alla coscienza e, di conseguenza, non rielaborabili nelle angosce di morte che inducono. Guardo esseri umani schierati da una parte e dall’altra, al tempo stesso, vittime e carnefici, tutti in preda agli istinti di fuga e, maggiormente, di attacco, legittimati dai deliri di persecuzione, dalla identificazione del nemico, dalla difesa ad oltranza, dalla ossessione di vincere, adesso, ad ogni costo.
Sono indignata e, ancor più, mi interessa il pensiero sottostante che intravedo, il processo decisionale che predispone le azioni violente, perché rimandano ad una umanità intera con un pensiero e una visione da curare. Non ora e non qui io discuto la necessità politica dello sgombero e le politiche d’immigrazione e le buone maniere usate, forse, prima, per allontanare la pelle nera.
Molte volte, in situazioni calde, decidendo di cedere dinanzi a piccole azioni oscene, esprimo la volontà decisa di evitare la costruzione del primo anello di una catena, per non salire nella linea della violenza. Sono sempre guardinga, anche dinanzi ad accenni di azioni, in qualche modo, aggressive perché so della fragilità umana e della facile possibilità della deriva violenta. Sono determinata, dopo, schivato il pericolo, a ritornarci per pensare assieme, per litigare ancora sulle strategie, per ascoltare, per trovare soluzioni in territori mentali, all’inizio, imprevisti e imprevedibili.
Penso che no, un gesto piccolo piccolo di riconoscimento dell’alterità, come la carezza “buona” di un poliziotto, non basta. È fragile come un rèfolo di vento in un’estate infuocata. Colgo, però, il signum, la tensione flebile, intermittente, ma di direzione costante, forse anche inconsapevole, a governare con libertà, le divise e le difese psicologiche. In quanto psicologa devo scorgere e registrare anche il minimo segnale – attenta a non finire nel ruolo del Salvatore che si immola, senza che qualcuno lo abbia chiesto e, infine, senza riuscire a salvare, davvero, nessuno. Il lavoro di coscienza e di conoscenza di sé inizia proprio cogliendo l’attimo di mancamento dinanzi alle strutture rigide del vecchio copione. Mi basta un accenno, mi basta registrare il divertĕre, il prendere un’altra direzione rispetto al solco tracciato, per agganciare qualunque essere umano in una proposta di trasformazione.
Per chi, come me, pattuisce un accompagnamento verso gli inferi della propria coscienza, significa ritornare e smettere di perpetrare un delitto verso la propria persona, prima ancora che contro qualcuno/a. Certo, la formazione dona il meglio di sé nell’opera di prevenzione, ma quando si arriva alla difesa della propria pelle, i torti e le ragioni sono da ogni parte equamente divisi.
È prima della deriva, ab origine, che intervengo sulla cura di una cultura malata, arroccata nella figliolanza e primogenitura con déi, ricordati nella mitologia greca, che vantano strumenti di potere come il ratto e lo stupro, adoperati come prassi.
La pulsione di morte è naturale nell’essere umano e i finali tragici di copione rimangono l’omicidio, il suicidio e la follia: urge organizzare un percorso formativo per interrogarci sulla morte. Non è vendibile, ma è necessario. Parto dalla educazione all’indagine dei sotterranei, perché ogni persona doni a se stessa una possibilità di rinascita. È un percorso che necessita della presenza della consulenza psicologica e filosofica, assieme.
Ridefinisco l’invito espresso con le migliori intenzioni, per la manifestazione del 28 agosto, da Ada Colau, sindaca di Barcellona che, in ogni caso, seguo e condivido. No tinc por, Non abbiamo paura. Mi piacerebbe che fosse: ho paura, ma scelgo di continuare a pensare e a capire. Dinanzi al male, dinanzi alla morte, l’invito non può mai essere a non aver paura e a reagire, quindi, come una divinità umiliata e non come una persona ferita e dolorante, com’è! Se non riconosco la paura, rischio di finire sotto gli ordini genitoriali Sii Forte e Sii Perfetto e sotto le ingiunzioni Non Sentire, Non essere Te Stesso, Non essere Sano che stanno a ricordare i copioni degli uomini e anche delle donne forti che non devono chiedere e cedere mai. C’è tanta paura da accogliere, per apprendere a proteggermi, per continuare a pensare e a costruire i cambiamenti. Take care of yourself. Intendo cuidar de mi mismo, a y sobretodo afronto mis miedos.
“Cronache di poveri amanti” è un romanzo che ho riletto ultimamente e che considero adeguato in un percorso formativo che preveda il divenire persona. L’umanità adolescente è bene che si avvicini con cura alla lettura di questa storia, pensata dal fiorentino Vasco Pratolini mentre, a Napoli, si occupa della sceneggiatura di Paisà, il film neorealista di Rossellini.
L’Autore scrive, dal ’40 al ‘46, nel periodo storico del fascismo, ma il romanzo consente riflessioni a posteriori sui fascismi, cioè sulle idee fisse di una società onnipotente e inumana che punisce e produce dolore e morte. Padri come tiranni, mogli come serve offese e vendicative, amanti vittime di violenza, figli e figlie tristi e nemici/che, madri sovrane, padroni che possiedono le vite degli altri senza governare la propria… e la Signora, cattiva quanto infelice, che “segue il proprio destino da superuomo”.
Studiamo il racconto semplice dell’evoluzione complessa di una comunità di Via del Corno, a Firenze, la crescita dei suoi uomini e delle sue donne nei sentimenti, nei pensieri, nelle azioni decise.
Conduciamo vite piccole da cornacchiai, fragili e prepotenti, riconosciamo i nostri Angeli Custodi, moriamo nelle nostre “notti dell’Apocalisse”: un’occasione ancora, a capire la Storia di cui siamo comunque partecipi, a soffrire le storie personali, a scegliere come vogliamo diventare.
“Cambiar pelle non si può: occorre una volontà riservata a pochi. Solo i santi vi riescono, e qualche volta i poeti. Coloro, cioè, che credono veramente in qualcosa di eterno. Il suicidio è più facile, è alla portata di ogni intelletto medio. Ma per suicidarsi occorre non volersi bene, o volersene troppo. Bisogna credere, altrettanto veramente, che la vita non possa offrire altre gioie. Pure che queste gioie sarebbero inaccessibili o misere qualora restassimo in vita. Rari sono i Santi, più rari i Poeti. Il numero degli intellettuali medi che un giorno si accorgono di essere giunti al loro fallimento morale è, invece, sterminato. E i suicidi, al confronto, uno zero. Si apre allora ai nostri occhi, una terza strada, che è l’unica sulla quale sappiamo di poterci avventurare poiché è quella che ci ha condotti dove siamo. Si tratta soltanto di correggere il nostro passo che finora è stato faticoso, ed ha finito con l’avvilirci perché camminavamo ai margini, tra i sassi e gli sterpi che la nostra coscienza accumulava – e tutte le pietre miliari erano nostre, tante ferite al cuore! Ora, invece, decidiamo di battere la via maestra, quella sulla quale camminano milioni come noi, e di tenere lo sguardo fisso all’orizzonte. Era pur quella la mèta che ci prefiggevamo: e camminando spediti <sulla buona strada> che la raggiungeremo. Vi sono, naturalmente, anche su questa strada ostacoli e barriere, ma ci apriremo il varco assieme agli altri, e getteremo le macerie da una parte: le macerie che quando procedevamo da soli, ai margini della strada, ci ostruivano il cammino, con i loro dubbi e rimosi! Così facendo, un uomo tradisce, sì, se stesso, ma una volta per sempre. Dopo di che avrà finito di fingersi. Attaccandosi a questa certezza, con la disperazione del naufrago, toccherà subito la riva della persuasione, si sarà autenticamente trasformato. Non si ricorderà più quello che egli era. E non perché non vorrà ricordarsi, ma perché davvero non si ricorderà. Avrà, a suo modo, cambiato pelle, e creduto di conservare intatto l’Ideale. Che gli sembra lo stesso eterno, ma che invece è caduco, come il suo corpo, poiché è diventato un ideale accessibile al suo corpo. Ora egli è certo di arrivare alla mèta. Di arrivare si tratta. Arrivare cioè al giorno in cui si incontrerà con la morte, che oggi ha rifiutata siccome la vita gli offriva delle gioie che meritavano di essere godute: sono gioie semplici, umane come onesto e semplice è stato il suo spirito. Alla vita noi chiediamo il successo del nostro lavoro, la felicità familiare, l’affermarsi dell’Idea in cui abbiamo sempre creduto e per la quale abbiamo sempre lottato e siamo arrivati al limite della disperazione. Ma non domandateci le cause di codesta disperazione, si tratta di una cosa che non c’è mai appartenuta. Del nostro passato noi ricordiamo soltanto ci che ci concilia col nostro presente, e che serve al nostro avvenire. E siamo sinceri, adesso, disperatamente sinceri. Non chiamate tutto ciò vigliaccheria: dimenticare è l’aiuto che ci offre la vita, perché la viviamo.” (V.Pratolini, pp.365/66)
Riferimenti bibliografici
- Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, Bur, 2011
- Ada Colau, la città in comune, Alegre, 2016
- Di Vittorio, A.Manna, E.Mastropierro, A.Russo, a cura di, L’uniforme e l’anima, Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, ed.Action30, 2009
Editing: Enza Chirico
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