Ci sono molte specie di coraggio… una è senza dubbio quella di affrontare i moschetti. Ma un’altra è quella di sacrificare i vantaggi di una condizione invidiabile per andare a vivere in mezzo a compagne e sotto l’autorità di superiori di nascita e di educazione spesso inferiori alla nostra. (Bernanos, p.32)
A Giulio,
per il coraggio come pratica di limite e di libertà
(perché ce n’è troppo, perché manca,
perché “uno non se lo può dare”)
Questa riflessione costituisce la premessa al lavoro sull’Autorità (https://www.liziadagostino.it/autorita-della-presenza-in-relazione/), inteso come un percorso formativo per chi ricopre ruoli di responsabilità all’interno delle organizzazioni.
Il ruolo è rŏtŭlus, come quel giro di azioni che una persona pensa e mette in atto in un processo sociale. Come una ruota, assumendo un ruolo, esercitiamo la circolarità, la flessibilità, il movimento e accogliamo il rischio di non saper frenare, di faticare nella salita, di schiacciare mentre procediamo.
Nelle ultime settimane dello scorso anno, ho sperimentato nelle aziende, da parte di molti responsabili, la fragilità, l’insicurezza, la tragica accidia del ruolo che condanna a non parlare, a non agire, a non esporsi, a non decidere, ricoverandosi in un angolo buio di passività e di lentezza.
Mi impegno per uscire dal tugurio delle menti dei comportamenti ripetitivi ed inconsapevoli perché abuso e disuso del proprio ruolo sono i due estremi che misurano la patologia culturale e, in molti casi, personale nell’esercizio di autorità.
Incapaci e impotenti, i manager responsabili non sanno e non possono. Di conseguenza, si esprimono con modi rabbiosi, svalutanti, prolissi. Le autorità funzionano solo nel loro contesto, costruito testardamente come una scatola a specchio che rimanda, in continuazione, la propria immagine di capo. Li immagino come una foto di animali nel loro habitat e non mi riesce di pensarli altrove, in situazioni diverse.
La recita del ruolo non è solo sgradevole, è immorale.
Bisogna curarsi.
È la paura che sottende l’immobilità e favorisce il comando, il controllo, la punizione. Riconoscere la paura, nominarla, venirne a contatto, può rappresentare una possibilità di protezione e di analisi della realtà, non neutralizzando gli interventi, ma affondando con coscienza nel vissuto e nel tessuto aziendale, assumendo il rischio della compromissione.
Negare la paura legata al ruolo non la annulla, anzi, la trasforma in malessere fisico. La possibilità è ricondurre questa al governo cognitivo, evitando di confermare modelli sequenziali e ripetitivi. Infatti, pur in situazioni diverse, le persone inconsapevolmente, ricreano gli stessi automatismi di svalutazione e di esclusione di sé, della situazione, del prossimo.
Di paura si nutre il potere in tutte le sue forme di svalutazione e di sottomissione. Nella Gestione delle Risorse Umane apprendere la comunicazione del sentimento di paura è più importante che trasferire meccanicamente un pensiero contaminato.
Il ruolo dichiara anche il limite. Infatti, in azienda, il territorio di ogni agire competente è definito proprio dal ruolo offerto e assunto. La definizione di un ruolo segnala il campo di studio e di ricerca assegnato.
“Durante la nostra esistenza sperimentiamo innumerevoli confini che ci definiscono, segnalando discontinuità, barriere da infrangere, divieti da osservare, soglie reali o simboliche. I limiti ci circondano e ci condizionano da ogni lato e sotto ogni aspetto, a iniziare dagli immodificabili dati della nostra nascita (tempo, luogo, famiglia, lingua, Stato), dall’involucro stesso della nostra pelle, dagli orizzonti sensibili, intellettuali e affettivi del nostro animo con il termine ultimo della morte. La condizione della specie umana è però contraddistinta dall’essere circoscritta dai limiti che sono mobili e cangianti, in quanto – a differenza degli altri animali – ha una storia articolata in culture che si modificano nel corso del tempo. Con un paradosso si è detto che l’uomo è l’essere confinario che non ha confini, proprio perché nel trovarli, per lo più, li supera.” (R.Bodei, p.7-8)
L’onestà della consulenza psicologica che propongo si manifesta non con l’astensione, ma con il continuo vigilare nella contaminazione, abitando la relazione.
Coraticum, coraggio, in origine, significa “avere cuore”, solo in seguito quel cuore diviene temerario e ardimentoso. Se è vero che nessuno può governare senza colpe (Saint-Just), ogni persona può assumere il coraggio di sé, il coraggio di essere nient’altro che quello che è, lontano da diplomazie, poteri e mercimoni. Il coraggio rimanda alla dignità della persona e segnala che la quantità di denaro (spesa, guadagnata, investita) non assolve e non guarisce.
Il coraggio “uno non se lo può dare” ricorda quel poveretto di don Abbondio. L’educazione Alla persona costituisce la base dell’assunzione di un ruolo, indicandone un territorio di responsabilità. Il cammino di consapevolezza del copione personale, dei giochi psicologici agiti nell’interazione, è necessario a favore di ogni ruolo, anche quello che, in apparenza, assume minori obblighi. Il primo segnale di consapevolezza è riconoscere che è così. È semplice, può essere banale, ma è vero.
Ne “I Dialoghi delle Carmelitane”, gli episodi narrati da Georges Bernanos nel 1948 sono ispirati da un racconto settecentesco di Gertrude von Le Fort e diventano un film.
Durante i difficili anni della Rivoluzione francese, la giovane nobildonna Bianca, su consiglio del padre, il marchese de la Force, decide di entrare nel convento di clausura delle Carmelitane di Compiègne. La necessità di trovare un rifugio sicuro è più evidente di una vaga vocazione religiosa. Bianca ha paura di affrontare i sacrifici e la sofferenza e teme di non essere capace di mantenersi fedele alla scelta.
Ben presto le autorità rivoluzionarie ed il popolo accusano le monache di essere reazionarie, nemiche della patria, che accaparrano ricchezze e danno ospitalità ai fuggiaschi. Costrette ad abbandonare il convento, le monache fanno voto di essere disposte a sacrificare la loro vita affinché la religione cattolica possa sopravvivere in Francia.
Disperse in piccoli gruppi, le monache vengono arrestate, giudicate colpevoli e condannate a morte. Bianca de la Force con coraggio sale sul patibolo al posto di Madre Maria dell’Incarnazione, l’unica monaca a salvarsi, che da sola continuerà a praticare l’insegnamento del Carmelo.
Le tematiche affrontate nel romanzo e nel film sono: l’adolescenza e la maturità, il buio e la luce, il coraggio e la paura, il dubbio e la scelta, la disciplina e la leggerezza, la libertà e l’obbligo, il peccato e la salvezza. Esse non rappresentano gli opposti che riducono e mortificano l’essere umano. Sono queste, invece, fasi coesistenti, momenti diversi di complessità umana e possibili passaggi di una evoluzione continua verso la comprensione, la conoscenza, la coscienza della personale esistenza.
Studio e segnalo la filosofia e la pratica della differenza di genere, quella di Carla Lonzi e di Luisa Muraro, come un modo di stare al mondo che può diventare un modo di abitare le aziende, una cura per guarire i malesseri del troppo e del troppo poco, della separazione, della esclusione, della indisciplina dell’Io.
Il coraggio del ruolo vuol dire darsi il permesso di generare, di consegnarsi alla luce, di consentire la venuta al mondo e può essere più o meno doloroso perché è un processo sano che chiamo assunzione di responsabilità, sentimento di formazione. Il coraggio è la stabilità emotiva che incontra il pensiero di una scelta.
L’invito inderogabile è a formarsi, a educarsi, prima di assumere un ruolo di responsabilità. Non smettiamo di apprendere il governo delle umane risorse, nella direzione amministrativa, generale e commerciale, in un gruppo di persone che scelgano di fondare e/o di ricostituire una organizzazione accompagnando il divenire di comunità e di stormo (https://www.liziadagostino.it/dalla-squadra-allo-stormo/). La formazione non è un’inutile gabella o una vessazione obbligatoria. Essa rappresenta una occasione, un luogo e un tempo per pensarsi e per pensare.
…ogni cultura dimostra la sua forza e la sua modernità solo confrontandosi con tutta la realtà storica e sociale che ci sta dinanzi, solo se riesce a liberare tutti, a capirli, a farceli simili a noi. (Bianciardi, p.40)
…le idee sono tali in quanto tu puoi comunicarle agli altri, che se le tieni per te non servono a nulla, anzi, non sono nemmeno idee. (Bianciardi, p.45)
Riferimenti bibliografici
- Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, 1957/2013
- Georges Bernanos, Dialoghi delle carmelitane, Morcelliana, 1952/2008
- Remo Bodei, Limite, il Mulino, 2016
Add a Comment