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Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore, Einaudi, 2015

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Forse la follia che ogni essere umano si porta addosso come una possibilità, serve a conoscerci fino in fondo, a capire, a sapere davvero. Infatti, crescere è una malattia insanabile. Laura Pariani, con una scrittura abile e coraggiosa, ricorda Dino Campana, un genio pazzo, arrabbiato e triste, rinnegato ancora dai programmi scolastici e ritrovato nella solitudine delle letture intime.

Il Poeta viene rinchiuso dal 1926 al 1930 nel Regio Manicomio di Castel Pulci, un inferno di attenzioni speciali e pratiche inumane. Ripercorriamo il destino di pazzia e di poesia: una opportunità per ripensare ad una vita folle e alla follia vitale. Il dottor Carlo Pariani è lo psichiatra che ascolta il Poeta raccontare di viaggi, di amori, ascolta la storia in cui la realtà e l’immaginazione si tessono nella trama dolorosa del disturbo mentale. Il romanzo è il racconto a capitoli ed episodi di un viaggio in Sudamerica con la testa persa a fantasiare e a sentire il tremolìzio come voci di potenze invisibili. Che il vagabondaggio ricordato, a piedi o su mezzi di fortuna, sia accaduto o meno, per chi legge non ha alcuna importanza.

Il viaggio chiamato amore testimonia che la poesia ha una relazione diversa e privilegiata con la realtà. Laura Pariani modera la voce per facilitare un percorso doloroso con il corpo, con la mente, con il cuore.  E cos’altro è viaggiare se non tornare diversi, con l’occhio esercitato a vedere altre prospettive? La parola di poesia (non il poetico tout court) è sempre reale ed è sangue, lacrime, sudore, è acqua trasparente di fonte ed è torbida pozzanghera, pensiero vivo di morte.

Quello che ci rende schiavi può anche liberarci (p.173): la libertà è intesa come l’esercizio del pensare in autonomia, del godere di ogni volto, di ogni storia, come la possibilità di ogni essere umano di generare significati e valori, anche attraverso l’irreparabilità della morte. L’ombra è sempre espressione di una luce. Lo scarto e la spazzatura raccontano la disciplina alimentare. L’escluso e il nemico portano il nome delle paure. Le periferie e le trincee disegnano la tristezza dei limiti mentali e il bisogno di uno sguardo che si protegge con un orizzonte certo. Le follie tradiscono il desiderio di contare, in ogni caso, sulla relazione. Attraverso la lettura del romanzo, ci tocca ascoltare e ringraziare perfino il nostro diavolo custode.

Anche se, in fin della fiera, non so che pensare di una società che chiude dietro alti muri chi non si adegua alla cosiddetta sanità. Alla maniera del gatto che sotterra i propri escrementi. (p.158)

Ricordo una frase di Nietzsche, letta tanto tempo fa. Bisogna congedarsi da Nausicaa: non innamorato, ma bene augurando. (p.81)

Questa canzone, io la chiamavo amore oppure poesia, i miei la definivano pazzia perché, come proclamava mia madre, “l’amore e la poesia non si mangiano!” (p.41)

Tra i libri che stanno sugli scaffali di una biblioteca, alcuni potrebbero precipitarti nel dubbio, ma altri possono cantarti nell’orecchio. Libri che forse pochi prenderanno tra le mani. Avvolti nel loro silenzio finché rimarranno chiusi, coi loro segreti a cui nessuno accede. Ché anche le parole muoiono… Pensi un po’: ho passato i miei anni più belli a scrivere poesie, a consolarmi con un verso, il fulgore improvviso di una parola, un frammento di vetro scuro che pulivo e ripulivo, a volte intravedendoci il volto feroce di qualche donna. Ho scritto forse per chi in un altro tempo, magari tra cent’anni, leggerà queste mie frasi e avrà pietà di me. Che follia, vero?… perché poi tutti credono di avere un messaggio da lasciare? Perché quest’ansia di durare, di brillare attraverso i secoli? Perché non l’intensità e la passione di un solo istante? (p.153)

Dino è profondamente consapevole che le parole a volte giocano brutti scherzi; ché, quando vengono enunciati, anche i brandelli, le briciole dei fatti acquistano importanza, un’imprevista crudezza che sa di realtà… (p.85)

Dicono che sono matto, ma loro? se dovessi giudicare la saggezza degli uomini dalla quantità del tempo che dedicano alle poche cose veramente importanti, sarei costretto a tirar la conclusione che medici e infermieri sono pazzi sul serio e che questo è un mondo alla rovescia. Mi sembra vera follia sprecare ore e ore in scartoffie, timbrature, relazioni sulle varianti della temperatura corporea di un ricoverato, verifiche sulla solidità delle sbarre dei nostri letti nichelati, e non dedicare neanche un minuto al fondamentale interrogativo: CI SONO ALTRI MONDI SOTTO I NOSTRI PIEDI? Non li tocca questo dubbio, che invece a me rode interamente la catena dei discorsi. Come pure le altre due domande: SE ESISTONO COSE CHE NON VEDO, E’ALTRETTANTO VERO CHE LE COSE CHE VEDO ESISTONO? EPPOI SIAMO SICURI CHE QUESTO GIORNO PIENO DI LUCE NON DEBBA ESSERE CHIAMATO OSCURITA’? … Non sono che somari che rampano in cattedra pieni del vento della propria negra scienza catalogale. (p.40)

 

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