Oltre i cliché e gli stereotipi consumati con superficialità, Joumana Haddad chiarisce che “le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe sono musulmane. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi… non tutte le donne arabe piegano la schiena”. (pp.23-24)
L’hijab islamico, il burqa sunnita e lo chador sciita sono le percezioni e le visualizzazioni più immediate e consolidate nella coscienza collettiva occidentale della donna araba, immaginata unicamente come sottomessa, impotente e mascherata. Dallo Yemen all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Barhein, tra i pavoni e gli struzzi, tra i vanti e le ipocrisie di società vecchie e mortifere, la libertà di espressione segue necessariamente la libertà di pensiero, altrimenti le parole si fermano solo in superficie. È il processo di ideazione e di creazione che rende sostanza la forma. Il corpo visibile ha la pelle porosa, le forme sono l’espressione più profonda di un io adulto e svelato che combacia con la sua più intima natura. Le parole non sono coperture più o meno elaborate, ma corrispondono direttamente a visioni di vita, a pensieri che si riflettono in azioni decise. Come afferma Zaha Hadid, citata dall’Autrice: “Non importa quanti progressi sono stati fatti, c’è ancora un mondo che per le donne è tabù. E in questo mondo risiede la sua libertà”.
Joumana ha 48 anni ed è figlia di una famiglia libanese conservatrice; cresce nella libreria paterna, leggendo la letteratura e i saggi che attutiscono i fischi dei missili per le strade di Beirut, trasformate in luoghi di guerra, negate al passaggio, alla cultura, negate agli scambi di relazioni. Joumana è convinta che “la vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente della donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo)”. (p.24)
Partendo dalle riflessioni di Haddad auspico un passo avanti nella consapevolezza di ogni donna che si trovi a confliggere con le proposte del potere e ad orientare lo spirito e il comportamento verso esiti non distruttivi. Chiedo di curare la personale predisposizione al conflitto aperto senza la guerra e di accudire con determinazione le scelte di vita che aprono potenzialità del pensiero e del comportamento. Oggi, come psicologa adulta, invito a ragionare e a coniugare l’attivismo con la testimonianza di una quotidianità vissuta con attenzione, con gioia e con serietà.
La rivendicazione, la sfida, la dichiarazione di guerra, la ribellione centrata sui bisogni personali manifestano una risposta di opposta forza che rimane, purtroppo, sul binario del potere. Oltre la sovversione, l’esaltazione e l’invettiva, credo nella relazione che, spesso, è parziale, che inciampa, che è fraintesa e che ha bisogno di tempo per raccontare, per spiegare ancora, per capire assieme. Quando affermo che la modalità aggressiva per rispondere all’indignazione rabbiosa è inadeguata, voglio dire che nelle interazioni, ogni persona, naturalmente, trasferisce la sostanza della propria visione di vita e che l’essere umano vigile vive decidendo equilibri possibili fra le occasioni per parlare, per aprire confronti duri senza odio e le situazioni in cui lasciare correre, perché il sangue risparmiato risulta, talvolta, più utile di quello versato.
“Un mondo migliore non è possibile senza liberare
Le menti, i corpi e soprattutto il linguaggio delle donne”
Nawal Saadawi, scrittrice, attivista e psichiatra egiziana, p.53
Al centro non sono sempre il malessere personale, la rabbia e l’offesa che mi abitano. Invito al passaggio dalla visione egocentrica, “sto male e ho diritto a stare bene”, alla scelta egocentrata, “come posso mantenere aperta una relazione che ci consenta di continuare a parlare e a raccontare le proprie ragioni?”. Il femminismo che vorrei incontrasse Joumana è proposto dal pensiero della differenza di Luisa Muraro per credere in rivoluzioni che partono da sé e che creano alleanze in cerca di soluzioni mai definitive. Il sultano esiste e rivendica la sua sessualità primordiale e ha necessità di apprendere nuovi comportamenti e intravedere cammini sconosciuti, oltre le formule binarie, questo o quello, bianco o nero, vita o morte, io o l’altro, adesso o mai.
Shahrazad racconta non per ambizione, non per vincere, non per poter sopravvivere, ma per offrire tempi e spazi a sé e all’altro al fine di pensare e diventare assieme. Shahrazad non è solo la donna che ottiene ciò che vuole con il compromesso, compiacendo l’uomo e raggirando a suo favore le situazioni in un eterno gioco psicologico a “Calzetta”, a sedurre. Non necessariamente trova un marito ricco, divenendo complice inconsapevole (?) di un sistema che mantiene la svalutazione, l’esclusione e la sottomissione. Shahrazad non si addomestica e non si arrende, semmai, parte dalla resa saggia dinanzi alla realtà e si protegge anche prendendo tempo. I muri rischiano sempre di essere rimpiazzati da altri muri e molte persone continuano a promuovere la capacità critica e il lavoro di educazione, la liberazione e i risvegli. Talvolta, la paura di essere tornati indietro dichiara solo la posizione per uno slancio più determinato e duraturo. Non si tratta di non lasciarsi intimidire, anzi, il contrario, attraverso il timore avvertito fino in fondo, ci consentiamo di non scegliere fra il ruolo di vittima o di ribelle per non rimanere nel gioco del dominio, ma osiamo rilanciare, nella differenza, le prospettive e gli scenari.
“I veli esistono in diversi tessuti e modelli. C’è il velo della negoziazione, dell’autoinganno, del compromesso, delle etichette esotiche, dei parziali messaggi politici, delle visioni ed estrapolazioni distorte, dell’apprensione e della paura, delle grette sentenze, e poi c’è il più pericoloso: il velo dei falsi simboli fabbricati dai media…” (p.124)
Oggi non si tratta di voler essere scomode e crudeli, graffianti e imprevedibili, per partito preso, ma è importante credere nelle necessità e possibilità relazionali di eros e di conflitto. Credere nel proporre e nell’ascoltare le storie. Ho una notizia per Joumana e per tutte le donne: Shahrazad è morta, non è stata uccisa. Viva è Sherahrazad. Ogni donna la custodisce. Non seduce, non rivendica, non persuade. Studia e desidera oltre la rabbia sfidante, la paura sottile, la tristezza dura. Adesso, ogni Shahrazad, regala le storie in cambio di niente.
Il passo avanti è la resistenza erotica e politica che parte dal desiderio del corpo, della mente, del cuore di ogni persona, dalle parole di moderne Sharazade, come Marthia Carrozzo
Sharazade
Le tue mani.
Le tue mani, ora.
Le tue mani,
ancora.
Il calco perfetto del tuo segno.
Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.
Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la braccata bellezza dei miei nervi a fiorire.
Promulgare il nitore dagli occhi
e dai pori, dai pori, più ancora,
tutti i numeri, a dire il piumaggio,
il tratteggio dei denti, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me.
Fatti bocca, per mordermi ancora.
Fatti aria, per farmi annaspare.
Fatti peso che schiaccia il mio peso,
senza forza, violenza, né male.
Fatti inverno per farmi tremare.
Fatti solco, voragine, apnea.
Fatti assenza che brucia lo sguardo,
tira i tendini fino a
colmare.
Fatti carne che è inversa alla carne.
Fatti lupo, nel nome, a smembrare.
Fatti siero spremuto dai polsi
per legarmi pur senza legare.
Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.
Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la sbrecciata bellezza dei miei nervi a sfiorire.
Che le mani non bastano, ora.
Che le mani non bastano, ancora ed ancora.
Che le mani, le mani non bastano ed
ora.
Che nel Libro del senno è già scritto,
conficcato ad uncino tra i seni.
Che a cercarti non servono gli occhi
Che a cercarti non servono gli occhi ed ancora
Che a cercarti non servono gli occhi, che
ora.
Che il cifrario si tasta alla schiena.
ogni lettera, in braille, sotto il derma.
Che il tuo tornio sa bene il mio dazio,
che mi danza, mi impasta, ma cieco.
Che le Tavole stanno alle reni,
proiettate a vettore di ali.
Ch’è il tuo fiato che incide e le forgia,
se mi scuci, svuotata, se stai.
Che la Legge, la tua, mi è già impressa al midollo,
se mi scavi, artesiana, mi fai.
Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.
Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la svelata bellezza dei miei nervi a gemmare.
Promulgare il nitore dai bulbi
e dai pori, dai pori, più ancora,
le tue impronte, a tradire il piumaggio,
le vibrisse di fiato, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me
Fatti mare, per mordermi ancora.
Fatti tempo, per farmi annaspare.
Fatti leve, di contro al mio peso,
senza attrito, prudenza, né male.
Fatti terra per farmi tremare.
Fatti crepa, poi sisma ed apnea.
Fatti bianco che brucia lo sguardo
e ricontami fino a
colmare.
Fatti carne che versa la carne.
Fatti lupo, nel verso, a sacrare.
Fatti siero rappreso nei polsi
per guidarmi pur senza guidare.
Fatti fame, per farti trovare.
Fatti spazio, per spingerti ancora.
Fatti piano che assorbe la luce,
senz’attese, distanza, né male.
Fatti nasse per farmi arenare
Fatti eco, scandaglio ed apnea
Fatti notte a covare lo sguardo
E raccontati
fino
a
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