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Rossella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, 2018

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Ulla, Beate, Leni, Elfriede, Heike, Augustine, Theodora, Sabine, Gertrude e Rosa, la narratrice: cosa accade al corpo e all’anima di dieci donne preposte ad assaggiare il cibo potenzialmente avvelenato di Adolf Hitler?

“Quando si mangia si combatte con la morte, diceva mia madre, ma solo a Krausendorf mi era sembrato vero” (p.108). Le protagoniste nello stomaco hanno il buco di fame e paura. Buon appetito, è il ghigno feroce che le accompagna.

“Abitavamo un’epoca amputata, che ribaltava ogni certezza, e disgregava famiglie, storpiava ogni istinto di sopravvivenza” (p.192). Obbligate a mangiare forzatamente la torta, le uova al cumino, il purè di patate, mentre gli altri muoiono di fame, le donne vengono addomesticate nel fetore della paura. Non uomini o soldati, le dieci assaggiatrici sono donne, in prima linea, a mostrare il privilegio impietoso di poter mangiare in abbondanza in un periodo di magra per tutti. Sono berlinesi, ma nessuna si sente una buona tedesca come viene loro insegnato. “Odiare, diceva la mia professoressa di Storia al liceo, una ragazza tedesca deve saper odiare” (p.85). Contrastare, sovvertire, deridere l’esistenza, è questa la regola del Führer: la vita è poco, quella di una donna è meno. Mentre agli uomini è richiesto di morire da eroi in battaglia, le donne possono incontrare una morte simile a quella dei topi, con la docilità delle vacche, come “a spiare le budella di Hitler”. La follia mostruosa proietta all’esterno la minaccia del veleno che corrode e uccide e così il dolore diviene un tratto della personalità e rende inquietanti i messaggi sottintesi. Il risultato produce follia e Rosa lo ammette. “Accadeva da mesi. Uno scollamento fra me e le mie azioni: non riuscivo a percepire la mia presenza” (p.116).

La vittima sacrificale non è mai stufa di vivere. “Ma ci sono io: non puoi aver paura. Assaggio il tuo cibo come la mamma si versa sul polso il latte del biberon; come la mamma si ficca in bocca il cucchiaio della pappa, è troppo caldo, ci soffia sopra, lo sente sul palato prima di imboccarti. Ci sono io, lupacchiotto. È la mia dedizione a farti sentire immortale”( p.179). A causa di un maternage immorale, la vittima pensa continuamente di finirla, ma si riconsegna al compito di salvare. In situazione di sudditanza, di vessazione continua, di violenza morale, le donne si abituano ad un torpore di dimenticanza e sopravvivono assumendo sulla propria coscienza una colpa senza senso. Così, muoiono un po’ per volta, convincendosi orgogliosamente della bontà del proprio ruolo di non esistenza, purché il monarca sia salvo.

L’astuzia del potere si manifesta con la prevaricazione, con l’oscenità della violenza morale: va in scena, quotidianamente, la banalità del male. Il peccato mortale del tiranno è nell’azione demoniaca di annullare la dignità dell’altra che finisce per sentirsi persona immeritevole e giustamente immolata per la salvezza illusoria del suo persecutore. “Non merito nulla, a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono” (p.82).

Sapere di poter disporre dell’altro è la vertigine, il godimento del dittatore “a nome di tutto il genere maschile”. E le donne riescono tardi e male a fare comunità, ad unirsi complici, pur riconoscendo un irreparabile desiderio di ritrovarsi umane, sane, amanti, vive, degne. E la colpa di sopravvivere ogni giorno si fa ventre originario del pericoloso legame fra Rosa e il tenente delle SS Ziegler. Nel profondo del suo cuore, Rosa sa che “non esiste alcuna ragione per abbracciare un nazista, neanche averlo partorito” (p.244). Non chiediamoci più perché una donna non ce la fa a denunciare subito, ad uscirne viva, ad urlare, ma tace, si avvicina al pericolo, quasi, lo cerca. Il male che il potere agisce contro l’essere umano è tale che lo stesso individuo che ne fa uso è vittima. Margot Wölk, l’assaggiatrice di Hitler, muore prima che Rossella Postorino possa intervistarla. Ringrazio l’autrice per aver scelto, scrivendo il romanzo, di non consegnare all’oblio la storia.

“Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo. Se considerasse la guerra un istinto naturale. È una specie tarata, quella umana: i suoi istinti, non bisogna assecondarli” (p.250)

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