La pubblicazione di questo libro rappresenta un’operazione culturale significativa. Per un adulto è difficile sentire, pensare e parlare anche come un bambino. Chiara Cannito accetta la sfida, accudendo assieme dentro di sé la voce bambina e quella adulta.
Leggo una storia terribile raccontata con il linguaggio dolce e determinato della giovinezza. L’esperienza umana di Uday è trasmessa con abilità e con potenti mezzi espressivi oltre la scelta di una narrazione semplice e terribile. Il giovane ha quasi vent’anni e ricorda l’infanzia felice nella sua Aleppo e la giovinezza di guerra. Guerra e rovina, sempre e dappertutto.
Uday corre, pensa, confida. Correre è diverso che camminare. Corro diviene una intesa con se stesso, un’alleanza per la vita. Corro e respiro, mi allontano, corro e penso, vado incontro, corro e sento la passione di vivere. Le sequenze narrative sono veloci e riconoscibili.
In questo periodo storico, al cittadino democratico europeo sembrano piacergli poco i giovani, le donne, i poveri nella guerra. Uday è ancora un extracomunitario, la sua Storia interessa a pochi e l’economia del suo Paese vale meno di niente.
Condivido il pensiero di Annamaria Bruno che dirige con curiosità e saggezza la rivista “Lettera Internazionale” fondata nel 1984 da Antonin Liehm e da Federico Coen. Scrive Bruno: “… la mia impressione è che si continui a confondere l’informazione con la formazione, delle classi dirigenti e della gente. L’opposizione tra le due sul piano spaziotemporale è assolutamente netta: l’informazione fa leva sull’orizzontalità veloce e dunque sull’abbattimento degli spazi vuoti, delle distanze, a scapito della riflessione e dell’elaborazione dei dati; la formazione fa leva invece sulla verticalità lenta, sulla costruzione nel tempo e nello spazio di una consapevolezza compiuta e dunque capace di (auto)critica. Tutto questo, come spesso accade, è più facile che lo comprendano gli artisti che non i politici o i politologi”.
Il racconto “Corro” costruisce una eccellente base di formazione, per capire nella libertà, per discernere evitando le manipolazioni ideologiche. Abbiamo bisogno di profondità, di verità essenziale che riveli l’umano a ciascun essere.
Ricordo la dialogica interculturale di Edgar Morin che mi ha insegnato a fare attenzione alle parole utilizzate per raccontare il mondo perché il mondo rischia di diventare ciò che io stessa descrivo.
Sono convinta che il luogo della ricerca psicologica sull’umano, sugli uomini e sulle donne, è la Terra e non la nazione. Achille Mbembe, filosofo camerunense scrive su Le Monde il 24 gennaio 2017: il carattere proprio dell’umanità sta nell’essere chiamati a vivere esposti gli uni agli altri, e non chiusi in culture o identità. Penso che le parole cultura, identità, origine, confine possono diventare armi pericolose senza un contesto di visione antropologica ampia e lungimirante.
Ha ragione Edward Said, scrittore e docente palestinese, morto nel 2003: … ogni scontro di civiltà è in realtà uno scontro di ignoranze che dobbiamo cercare di ricomporre a tutti i costi, da bravi “soldati della cultura”.
Chiara Cannito compie la rivoluzione di un testo che opera una filiazione con un’altra cultura. Chiara sa e rende testimonianza dell’esistenza di patrimoni immateriali dell’umanità come le persone, le relazioni, i desideri, la condivisione dell’arte e delle storie.
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