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Nina Berberova, Il giunco mormorante, Adelphi, 1990

 

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Questa riflessione origina da una storia d’amore, da un piccolo libro che racconta la relazione difficile, anche a causa della prima guerra mondiale, di un uomo e di una donna. Il racconto è centrato su un pensiero fondo e suggestivo: ogni persona interiormente scopre e difende la terra di nessuno, il luogo della indissolubile intimità con il proprio nucleo. Ed è grazie alla no man’s land che custodiamo la potenzialità dell’amore.

La scrittrice nasce a San Pietroburgo nel 1901 ed emigra negli Stati Uniti vivendo lo spaesamento dei transfughi dalla Russia rivoluzionaria. Soprattutto la relazione come confidenza con se stessi è il tema ricorrente nei suoi romanzi. Le storie di coppie diverse rimandano, in ogni modo, all’indagine psicologica di ogni personaggio e alla necessità di riconoscere e mantenere la libertà nell’amore.

“… se permettiamo a qualcuno di organizzare la nostra no man’s land, alla fin fine, secondo logica, arriveranno a rinchiuderti in una lussuosa camera di un lussuoso albergo, e bruceranno i tuoi libri, e allontaneranno da te tutti quelli che ami. Basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà tolto…” (p.77)

Trasformare se stessi in un giunco, questa è la benedizione: l’elasticità, la capacità di dondolarsi nella realtà che va presa in carico senza la pretesa di cambiarla.  Il giunco si propaga con i rizomi sotterranei, è molto resistente e difficilmente viene attaccato dai parassiti, come le coscienze di chi provvede in tempo ad indagare e a capire la sua terra di nessuno, no man’s land.

Nella vicenda narrata, a Parigi, a Stoccolma, a Venezia, per tutta la vita, assistiamo alla dignità degli addii. I due amanti dichiarano il desiderio di rimanere assieme e la necessità storica di andarsene. E infine, navigando verso il nucleo di sé, nei sotterranei dell’anima, si dissolve l’urgenza dell’incontro e la relazione esprime proprio nell’assenza la sua più sottile e complessa presenza.

Nella vita, tre volte finora ho sperimentato la straordinaria assenza di relazioni cave, radicate, arcane. Essa non é mancanza, ma è assoluta essenzialità: io so e tu sai. Non abbiamo nulla da dirci, dichiara l’abbandono peggiore ed è, invece, la migliore intimità possibile. Penso, attraverso il romanzo, ad un’etica del non incontro. Rilevo l’immobilità dell’assenza a causa di una eventualità di presenza totalizzante ed eccedente. Più sottile e profonda è, sempre, l’assenza dell’altro che rivela il mistero della vicinanza a se stessi. Berberova indaga con dolcezza e con determinazione il canto che lega indissolubilmente l’amore e la solitudine, il dolore e la giustizia, la realtà e il desiderio. Così, la relazione può continuare ad esistere, a prescindere dalle scelte obbligate della storia, nell’incontro doloroso e gioioso con le proprie viscere. Consapevolmente e autonomamente.

Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità. Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la «linea generale» dell’esistenza. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso, e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero. Mi fanno pena le persone che sono sole unicamente nella stanza da bagno, e in nessun altro tempo e luogo.” (pp.36-37)

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