Le esercitazioni in aula

Risorse Umane in Azienda, anno II n. 11 Ottobre 1991

Nintersit aliquid inter clamorem theatri et scholas
Seneca

Dagli anni che seguirono il dopoguerra, la formazione nelle aziende non è più limitata al periodo che precede l’ingresso nell’organizzazione ma è un continuum nella vita lavorativa.

Il processo di formazione costante cui è indirizzata una popolazione di persone sempre più estesa ha delineato e chiarificato il ruolo dell’operatore di formazione.

Superando la distinzione fra la figura del docente e quella del formatore, valida più per gli enti interaziendali che per le società private di consulenza, l’esperto che va in aula è, comunque, la persona che procede materialmente alla progettazione, alla organizzazione e all’esecuzione dell’attività formativa.

Le sei, otto ore di aula mettono a dura prova gli spiriti più camerateschi dei giovani consulenti e le sperimentate capacità oratorie degli accademici.

Le esercitazioni proposte ai partecipanti possono, tenuto conto della fatica di chi parla e di chi ascolta, diventare semplicemente riempitivi, venendo utilizzate per spezzare la teoria. Comunque, la finalità, in questi casi, diviene quasi sempre quella di proporre lo spettacolo sperando di attirare e ravvivare l’attenzione dei corsisti.

Spesso, allora, corso di formazione esercitativo diventa sinonimo di divertente, coinvolgente, nuovo, ma non sempre sta a significare una situazione nella quale si è appreso e nella quale si è cambiato qualcosa.

E’ necessario che un’esercitazione sia adeguata e mirata agli obiettivi del corso. Il formatore che resta nel “qui e ora” si permette di “sentire” i suoi sentimenti, quelli degli altri e di valutare la situazione. Questo implica un processo di personalizzazione della guida del corso: è meglio che l’istruttore non sia semplicemente un esecutore del programma ma che sia consapevole del vissuto del gruppo e del proprio. Autonomia e flessibilità lo guidano nell’adattare il programma alle esigenze dell’uditorio. È, così, libero di decidere il momento in cui proporre l’esercizio senza doversi prendere, però, alcuna licenza riguardo alle tematiche fondamentali del corso.

STRUTTURARE IL TEMPO

Il programma prestabilito e definito nei particolari è l’espressione tangibile dell’accordo con il committente e, psicologicamente, serve anche a soddisfare il bisogno di struttura del formatore.

Ci sono sei modi diversi di strutturare il tempo (1)

• isolamento
• rituale
• passatempo
• attività
• giochi
• intimità

Se non si tiene conto degli elementi di sfondo, cioè del clima del gruppo e dei vari gradi di ricettività dell’apprendimento, l’esercitazione proposta può divenire isolamento, rituale, passatempo o gioco.

Infatti, se viene presentata come un compito in classe, può essere una barriera fra chi si sforza di portare avanti il programma e chi si sforza di seguirlo.

Essere fisicamente in una stanza non garantisce una reale interazione fra i membri. A volte, la gente si isola in un inefficace dialogo interiore che può portare alla svalutazione delle capacità personali, dell’efficienza del docente o della possibilità di cambiare la situazione.

L’esercitazione è un momento di riflessione, non un motivo per allontanarsi dal “qui e ora”.

Nella maggior parte dei casi, i presenti sono stati inviati ai corsi, o, peggio, obbligati a parteciparvi.

Quando ci si incontra si utilizzano tanti rituali: il modo di salutarsi, di prendere posto nei tavoli, di presentarsi e di presentare il programma, ecc.

Questi rituali sono prevedibili e riflettono l’ambiente aziendale, la cultura, il proprio modo di esprimersi e di comportarsi e proprio per questo ci si sente in essi rassicurati.

Visto che non si tratta soltanto di impartire una lezione ma di creare situazioni di apprendimento, con l’esercizio pratico si utilizza l’energia del gruppo e del formatore verso un obiettivo concreto: è, quindi, un’attività mirata, non un rituale.

Un uso appropriato degli esercizi presuppone da parte del docente alcune riflessioni.
A cosa serve l’esercitazione che sto proponendo?
Come mi accorgerò che è stato raggiunto il risultato prefissato?
Come lo verificherò con il gruppo?
L’aula non è la vetrina delle speranze future o il palcoscenico dei racconti del passato; è il tempo, il lavoro, la possibilità per ciascuno, ADESSO, di fare un piccolo cambiamento del modo di comportarsi.

A volte, si ha l’esigenza di dare respiro al gruppo dopo l’espletamento di una parte teorica del programma. E’ adeguato un intervento che richiami la parte ludica dei partecipanti.

Ma, spesso, si ha l’impressione di un incontro ad un cocktail party dove, in genere, si utilizza il tempo per scambiarsi opinioni preconcette sul mondo e sugli altri, dove la gente può decidere di parlare di politica, di sport, di cultura ma non decide mai di essere in prima linea.

In queste situazioni di passatempo si evidenzia un largo uso dell’impersonale “si dice…“, “si sente che…” o frasi stereotipe: “ai miei tempi…“, “la televisione ha detto che…“.

Molte volte la gente compiace, specialmente in presenza di un esperto che sa e che giudica.

Ci si chieda, allora: questa persona è cambiata o si è adattata? Il partecipante pronto, che non è abituato a perdere, sa adattarsi. In realtà, prende in giro il “professore” e se stesso: questi compiace e l’altro può sentirsi bravo.

I RUOLI

Così, diventa essenziale, prima di presentare un’esercitazione, che il formatore stimoli nel gruppo un apprendimento da professionisti e non da studenti. Se nel gruppo di lavoro non ci sono adulti che si confrontano fra pari, c’è un grande spazio per i giochi di ruolo, in cui tutti si sentono a disagio e avvertono sentimenti spiacevoli.

I tre ruoli principali sono: il Persecutore, il Salvatore e la Vittima.

Il Persecutore sminuisce con prepotenza il valore degli altri.

Il Salvatore è convinto che gli altri, senza il suo aiuto, non saranno mai abbastanza capaci ed efficienti.

La Vittima si considera inferiore rispetto agli altri e, in ogni situazione, si sentirà inadeguata e incapace.

Fare esercizi è invitare le persone a scoprirsi e queste, se si sentono minacciate, scappano o si chiudono.

Nel campo clinico si parla del furor sanandi (fretta di guarire) del terapeuta; in aula, credo si possa osservare lo stesso atteggiamento da parte del docente che vuole, a tutti i costi, che l’altro capisca e risolva. Di conseguenza, incomincia ad interpretare gli atteggiamenti, le osservazioni, ad indovinare le idee, prima che vengano espresse. Togliendo così potere alla persona, trasforma il feed-back in un confronto persecutorio.

L’esercitazione, a volte, sembra essere considerata, da parte di alcuni, come l’oroscopo che permette di scoprire ciò che nessuno sa e vede. Il vuoto di conoscenza da parte dei partecipanti crea fantasie e, di conseguenza, dà spazio a comportamenti falsati ed inadeguati. E importante, per diminuire la percezione magica, che gli obiettivi e i guadagni dell’esercizio proposto siano chiari a tutti, prima o dopo lo svolgimento dello stesso.

Il concetto di sanità e di cambiamento personale non è legato solo ad una esperienza emotiva ma anche ad una esperienza cognitiva. Non si tratta, quindi, di sentirsi bene o male, dopo l’esercizio ma di capire cosa è successo, quali erano gli scopi, se sono stati raggiunti e come.

Il formatore e i corsisti devono darsi la possibilità di

SENTIRE – PENSARE – AGIRE

attraverso un processo continuo di consapevolezza personale e di gruppo. Cioè, bisogna chiedersi: cosa sta accadendo a me in questo momento, e cosa accade nel gruppo di cui faccio parte?

I VARI TIPI DI ESERCITAZIONI

In linea generale, si possono individuare tre tipi di interventi formativi, in funzione di quello che è il loro obiettivo. Si hanno quindi interventi mirati:

• al sapere
• al fare
• all’essere

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Quando questa distinzione teorica viene applicata in un programma di formazione, la suddivisione è meno evidente. Infatti i corsi sono pensati e formulati con un unico generale obiettivo di base: il cambiamento all’interno dell’azienda.

La modificazione di un determinato comportamento presuppone, da parte del partecipante, la conoscenza e la capacità di operare autonomamente. Cioè la capacità di capire i problemi e di prendersi la responsabilità dei propri sentimenti, pensieri e azioni. Il sapere, il fare, l’essere sono legati fra di loro e diventano l’espressione sociale di un processo interno che porta la persona all’autonomia attraverso sentire, il pensare, l’agire (fig. 1).

Dove il sentire assume il significato di venire a contatto, individuare ed, eventualmente, esprimere il proprio vissuto, il proprio sentimento.

Pensare è la capacità di riconoscere ed analizzare le varie soluzioni di un eventuale problema. La persona che non si dà la possibilità di pensare appare, generalmente, confusa ed agitata.

Agire è, invece, scegliere, intraprendere un’azione per cambiare uno stato di cose, avendo chiaro l’obiettivo da raggiungere.

Di conseguenza, a livello sociale, si sottolinea un percorso parallelo.

Il sentire si evidenzia nell’esprimersi, nell’essere autentici ed adeguati. Il fare, l’operare, è l’espressione di una scelta compiuta e di una decisione presa.

Infine, la conoscenza, il sapere, diventa il termometro della capacità di apprendimento e di comprensione della realtà (fig. 2).

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Il processo ora descritto non è, però, consequenziale, le varie fasi si evolvono liberamente, senza un ordine prefissato.

Nei programmi di formazione il sottotitolo “esercitazione” comprende, in realtà, varie proposte e varie finalità che tengono conto di tale processo.

Si possono distinguere:

• il gioco addestrativo;
• l’esercizio sperimentale;
• il questionario autovalutativo.

In un corso o in una fase di un corso dove l’obiettivo principale sia l’informazione e la conoscenza si proporranno giochi addestrativi, ben diversi dai giochi negativi di ruolo dei quali si è parlato prima.

Per esempio il gioco della comunicazione ad un senso rispetto a quella nei due sensi, oppure il gioco di ascoltare o quello della comunicazione verbale, ecc.

Il gioco addestrativo non sostituisce la teoria, semmai è un rinforzo ad essa. È una competizione, una gara con regole precise da seguire, dove i partecipanti verificano la propria capacità e competenza fisica e/o mentale.

L’esercizio sperimentale, invece, come ad esempio il role-playing, serve a fare pratica, a rafforzare un’attività professionale. Sarà utile, anche se più complesso come preparazione e presentazione, in un programma o parte di programma che preveda, soprattutto l’azione, l’opportunità di praticare, di affrontare concretamente i problemi e di trovare le soluzioni.

Il questionario autovalutativo è l’esercitazione meno strutturata, più difficilmente gestibile nei risultati dal formatore, ma, sicuramente, più ricca di spunti e di riflessione.

Il questionario può facilmente trasformarsi in un mea culpa, altrimenti è un validissimo strumento per valutare il proprio vissuto rispetto a se stessi, agli altri colleghi, alla situazione aziendale.

Sia che si tratti di un programma prefissato nei particolari o di un programma con temi e tempi definiti in linea generale, l’esercitazione è sempre un’occasione privilegiata per esprimere e per agire se stessi senza messaggi segreti.

Il livello sociale e quello psicologico dei partecipanti sono chiari e congruenti: ciò significa che tutti decidono di condividere l’esperienza presente.

Va bene scegliere di utilizzare l’esercitazione: il problema nasce quando c’è la convinzione, da parte del formatore, di non poter far altro. L’esercizio pratico è una decisione del docente e del gruppo per ottenere un risultato, non è una via d’uscita obbligata perché non si sa più cos’altro proporre, perché è scritto nel programma e, comunque, perché non si riesce a tenere a bada la propria ansia.

E’ importante considerare sempre le aspettative e le esigenze dell’azienda, dei partecipanti e del formatore.

Ogni intervento formativo per essere adeguato deve essere mirato costantemente al progetto previsto.

Ci si sente, allora, alleati con Seneca nell’affermare e nell’augurarsi che è necessaria una differenza fra l’applauso del palcoscenico e il successo ottenuto in aula.

(1) E. Berne, What Do You Say After You Say Hello? Grove Press, New York.

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