Il fotogiornalista Sergio Ramazzotti scrive un libro di parole patite, di realtà e di verità, per continuare ad interrogare più che a trovare risposte, a conoscere più che a seguire opinioni o schieramenti sul suicidio assistito, sull’eutanasia, sul sacrosanto diritto al libero arbitrio. L’autore afferma di voler raccontare perché: “se non lo scrivo rischio di impazzire”. A leggere questa storia, posso impazzire davvero. Il tema è il fine vita e la lacuna legislativa, l’immaginaria patologia organica e l’attività di un giornalista serio.
Cosa accade ad un uomo quando è lui a fissare l’appuntamento con la morte? Cosa accade ai suoi sentimenti, ai pensieri, ai comportamenti? Assisto ad un colpevole aiuto ad uccidersi o registro un atto di compassione? Incontro un eroe o un codardo? Nel racconto conosco Erika, la medica svizzera che ascolta, visita e concede il suicidio ai pazienti in un monolocale di Basilea: una moderna accabadora pietosa o una spietata affarista che specula sulla paura della malattia e della sofferenza?
A tratti, l’autore si sente un avvoltoio voyeur, accompagnando in Svizzera, per quarantotto ore e per millequattrocento chilometri, l’ex magistrato sessantaduenne Pietro D’Amico, il sonnambulo che cammina verso la luce verde che indica il via libera al suicidio assistito. Dinanzi ad una scrittura umile ed energica mi impegno in un confronto libero e crudele.
Diventare compagna in questo viaggio significa meditare sull’intensità di una relazione innominabile, di due esseri umani estranei e, allo stesso tempo, legati da una intimità vitale che non consente di dimenticare. La vita, talvolta insopportabile, chiede di morire. I lettori e le lettrici non si dividono in sostenitori e in detrattori, ma creano una zona di ragionamento, di necessità, di analisi intorno alla sofferenza fisica e psichica e intorno alla solitudine in cui ogni persona precipita.
Il libro vince il premio “Alessandro Leogrande”. Come il giornalista prematuramente scomparso, Sergio Ramazzotti non presenta solo un’inchiesta e non trasferisce solo dati. Mi confronto con una esperienza al limite, diretta e destabilizzante che allontana dogmi e certezze e rimette al centro il pensare assieme, chiedendo un sincero atto di coscienza. Con la scrittura, Ramazzotti, come Leogrande, apre, non risolve, interroga e problematizza, non racconta giudicante le scelte degli altri, ma chiede a se stesso di riconoscere la paura, la rabbia e la certezza della libertà.
Cadute le grandi narrazioni e gli specialismi esasperati, l’autore propone il pensiero dell’esperienza senza ideologie. La quotidianità diviene un laboratorio di cambiamento in cui Sergio Ramazzoti offre la voce e la parola alle ombre, ai margini, alle periferie, agli scarti di una umanità destrutturata.
“… oggi per legge si può aiutare a morire solo chi è sano di mente, ma può dirsi sano di mente uno che desidera morire?” p.151
“Un letto d’ospedale è una trincea, un luogo dove dal paziente ci si aspetta che combatta. Eppure, a differenza delle trincee, quando comincia a desiderare la morte lo si taccia di viltà: da lui si esige che compia atti di eroismo, che non perda il buonumore, che fino alla fine sia d’esempio ai propri cari e addirittura li sostenga nel dolore che essi sono costretti a provare.” p.157
Ogni persona parte da se stessa e arriva all’incontro con l’altra-da-sé in una relazione che gira intorno e va in profondità. Non si tratta semplicemente di decidere da che parte stare, ma di allargare la visuale chiedendomi della solitudine, della fragilità della mente, dell’onnipotenza e dell’efficienza a cui mi sento condannata, dello spettacolo e dell’esposizione di me a tutti i costi. Come Leogrande, Ramazzotti appartiene al più sano giornalismo, utilizzando il potere delle parole di chi non idolatra il potere.
“Questa non è un’inchiesta giornalistica né un saggio, sono le parole di uno che scrive per provare a scendere a patti con se stesso.” p.92
“Ancora oggi mi chiedo se ci fosse una frase da dire migliore di quel silenzio, una frase che allora non seppi trovare e non ho trovato in tutti questi anni, per quanto ci abbia pensato quasi ogni giorno, da allora è il mio personale atto di dolore quotidiano.” p.121
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