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A questo punto

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

Preparare il mio pensionamento. Ho superato l’età delle umiliazioni. (p.44)

Dissanguato da un taglio cesareo, l’orizzonte partorisce un giorno che, alla fine, non avrà meritato la sua pena. Io mi tiro giù dal letto, completamente devitalizzato da un sonno a caccia del minimo fruscio. Sono tempi duri: una disgrazia fa presto a capitare. (p.6)

Yasmina Khadra, Morituri, Ed.e/o, 1998

 

Le osservazioni che propongo prendono forza dalle situazioni quotidiane, dalle letture e dallo studio psicologico. Per le relazioni, questa è un’epoca aspra. Spesso l’atteggiamento concavo, democratico, viene piegato per altri scopi, non tanto cancellato ma deriso, con sarcasmo, viene fatto sentire inutile.

Non è l’utilità della formazione ha essere incompresa, non è una presa di posizione contro di me: rilevo, piuttosto, l’espressione basica della forza distruttiva. In termini medici per scotoma si intende un difetto lacunare del campo visivo correlato ad un’area di ridotta o assente sensibilità della retina. Per analogia, nel linguaggio psicologico, lo scotoma prevede l’eliminazione inconscia dalla percezione e dalla memoria di sé stessi, dell’altro, della situazione. Se non mi vedo, non vedo l’altro, non vedo la realtà.

Lo stress favorisce la generica cattiva predisposizione verso l’esistenza e manifesta la sua forma più diffusa ed evidente nella scotomizzazione. Dunque, la psicologia indica la possibilità di scotomizzare, di non riuscire a registrare il perimetro di un contesto o la presenza di sé o l’esistenza degli altri.

Negli ultimi tempi, noto che non c’è separazione fra le diverse forme di scotoma. Qualcuno può scotomizzare la situazione (es.: la formazione non serve a niente) al fine di svalorizzare gli altri ma, in fondo, buttando giù, disprezzando sé stesso. Non è solo non volersi bene, è non volersi, è negare l’esistenza, avendone perduto il senso. Quando una persona sta male, fisicamente e psichicamente, ha il potere diabolico, divisivo, di portarsi appresso i famigliari, i dipendenti, se dirige un’azienda, il prossimo tutto.

Insomma, per chiunque versi in uno stato di prostrazione, fisica e psichica, precipitando nella futilità, nel non senso, la tendenza è a buttare via tutto, a far marcire ogni cosa, insieme alla propria fine, vera o presunta.

Ci incattiviamo, sviliamo, usiamo frasi sarcastiche, affermiamo che, certo, niente ormai può servire a niente. E finisce davvero così: niente serve più a niente. I finali di copione sono irriducibili, ahimè. Il ricovero nell’atteggiamento maniacale è devastante, per sé stessi e per tutte le persone nel contesto. Muoia Sansone con tutti i filistei, è il comportamento di chi si vendica contro la propria insoddisfazione ed è consapevolmente disposto a rendere tutti vittime, per destino.

Il discorso formativo serve, invece, lì dove viene negato e svilito. Seguendo Yasmina Khadra in Morituri, sì, preparo il mio pensionamento. Ho superato l’età delle umiliazioni. Significa che continuo il lavoro di consulenza e di formazione, di autocoscienza e di condivisione. Avessi altre vite, modificherei tante scelte, tanti incontri, ma non la professione. È intorno allo σκότωμα, all’oscuramento, all’alterazione della coscienza che mi appassiona indagare.

In questo nuovo anno, rileggerò con più rigore i testi di Martha Nussbaum, di Annarosa Buttarelli, di Maria Teresa Romanini. Ho presente sempre le visioni di Luisa Muraro da completare; riprenderò le parole illuminate di Franca Ongaro e di suo marito Franco Basaglia, per approfondire, offrire prospettive diverse sulla follia umana e ipotizzare pratiche quotidiane concilianti, senza cedere sulla giustizia sociale.

 

 

 

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Le dinamiche vessatorie del micropotere

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.: Fonte Silvia Meo

Abusi occulti e manifesti – La Stanza di Virginia

Come psicologa avverto l’urgenza di partecipare, con l’impegno pedagogico, alla ricostruzione di una cultura generale dell’umano. È importante valutare assieme i processi di carattere finanziario, tecnologico, culturale, sociale e politico. Inizialmente, considero come un’emergenza la formazione sistematica alle relazioni sociali. Siamo connessi male a noi stessi e ricominciamo dall’impegno all’autocoscienza.

Le discriminazioni basate su orientamento sessuale, genere e identità di genere, su soldi e potere, su telegenicità sono sempre più sottili e radicate. L’ordine psicologico Compiaci favorisce gli atteggiamenti ipocriti, di falso assenso e abbassa l’aspettativa che ogni persona venga riconosciuta nelle sue scelte e nella diversità, per il solo fatto oggettivo di esistere e non per tolleranza.

Spesso, ci diciamo: accontentiamoci di un risultato minimo; poco è meglio di niente; essere gentili non costa nulla; non ce l’ho con lui/lei, ma con chi comanda davvero; in fondo, anche lui/lei ha qualcuno sulla testa … E, intanto, riduciamo le parole, abbassiamo lo sguardo, ce ne torniamo a casa pensando a un’altra possibile soluzione, talvolta, addirittura sentendoci incapaci e fuori da un mondo più avanti ed efficiente di noi.

La prevaricazione sistematica produce traumi collettivi e determina la riduzione, la cosificazione dell’altro in modo che non replichi e che smetta di esporre le sue ragioni. Questa fragilità a ribadire le proprie ragioni diviene ricattabilità e segna un processo comunicativo al ribasso. La repressione governativa diventa modus operandi dinanzi a tutti, anche nelle comunicazioni di ordinaria quotidianità.

Dinanzi all’azzeccagarbugli che ci spiega e rispiega, difeso dietro l’elenco di regole e procedure, scegliamo sempre più frequentemente il silenzio, l’obbedienza, la rinuncia, i passi indietro per il timore di doverci rimettere. Sopportiamo lo sguardo dell’operatore allo sportello, del dirigente, del collega che insistono a spiegarci come stanno le cose, come compilare i modelli, come ossequiare le leggi.

Siamo sottomessi a microscopiche scritte contrattuali, mail che finiscono in spam ma, soprattutto, a referenti addottorati senza grazia che utilizzano tutti i giochi psicologici per farci sentire inadeguati, ignoranti, miseri. La tigna mostrata, senza suggerire una soluzione, tradisce la frustrazione rabbiosa di non essere i soli e i migliori sulla terra e, invece, di dover stare lì a discutere con i minimi. L’invito è a vigilare, a riconoscere dalle prime battute il gioco psicologico a È tutta colpa tua oppure quello a Psichiatria, o ancora T’ho beccato o Tribunale.

Sento sulla carne l’azione del micropotere che declassa, che compatisce per inettitudine noi, ormai, ai limiti della pazienza e della comprensione pietosa. Per sfinimento, ci iperadattiamo. Mi ritrovo compagna di strada di una umanità dignitosa ma disappartenente, di una specie creaturale oppositiva, nella sua imperfezione, al comune senso del potere e della presentabilità.

Reprimendo il dissenso e criminalizzando la protesta anche minima, viene delegittimato il diritto a confliggere, a esistere. Patisco la difficoltà nel costruire una idea di libertà, un abbozzo anche lontano di democrazia e finisco per sentirmi io stessa troppo vecchia, troppo lenta, rispetto alla fùria del mondo.

La discriminazione che troppe persone non vedono, è richiamata in un articolo di Viola Di Grado, in The Guardian, letto sulla rivista Internazionale N.1577: Come i bambini a lungo trattati male finiscono per abbassare la soglia di percezione del gesto violento, così le minoranze discriminate, inclusa la comunità lgbtq+, spesso non riconoscono l’abuso e anzi provano genuina gratitudine per quella che considerano un’accettazione parziale.

La via della giustizia sociale prevede un cambiamento di mentalità perché ogni persona fa parte di una minoranza, in qualche variabile, sotto la lente di ingrandimento. L’aspetto discriminatorio è caratteristica basica nell’essere umano, spaventato dal diverso-da-sé, e orientato al pacifico e pericoloso doppio-di-sé. Il lavoro formativo serve a nutrire la coscienza antropologica, la coscienza ecologica, la coscienza civica, la coscienza dialogica.

Il senso è trasformare il potere del ruolo in potenza delle competenze; la concorrenza con l’altro in cum currere, procedere con l’altro; l’iniziativa personale in progettazione partecipata. È bene modificare:

  • l’incarico occasionale in incarico su specifiche competenze;
  • il management tecnico in mens-agere, in azione emotiva e cognitiva assieme;
  • il successo scontato in desiderio del succedere in divenire.

Creare un’impresa non è solo fare business, provvedere unicamente al bilancio economico, perché riconosciamo l’essere umano come sapiens e demens, razionale e delirante; faber e ludens, lavoratore e giocatore; empiricus e imaginarius, empirico e immaginario; prosaicus e poeticus, prosaico e poetico.

Introiettare, sminuire o dare per scontata la dinamica del comando-controllo in una malata coazione a ripetere, è sintomo dell’inconsapevolezza rispetto all’autoritarismo incombente. Credo alle leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate.

Rileggere una riflessione di una delle mie maestre preferite, Anna Maria Ortese, conforta, sostiene e guida:

Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato: deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.

Ph.: Fonte Silvia Meo

Parola di donna

Ph.: Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.: Fonte Silvia Meo

 

 

Parola di donna – La Stanza di Virginia

 

Nel panorama del Novecento italiano, Anna Maria Ortese, è una scrittrice rimasta ingiustamente marginale e liquidata frettolosamente nelle antologie scolastiche. Nata a Roma, nel 1914, in una famiglia modesta e numerosa, interrompe gli studi, proseguendo da autodidatta il percorso di formazione. Appassionata di letteratura, segue la vocazione verso una scrittura riconosciuta stilisticamente eccellente, molto tardi, da una critica distratta. Nel 1967, è la terza donna a vincere il Premio Strega, dopo Morante e Ginzburg, con il romanzo Poveri e semplici.

Oltre al poeta scrittore Dario Bellezza, Ortese ha pochi amici, specialmente dopo aver scelto l’esilio volontario da Napoli. Ingenuamente, ne Il mare non bagna Napoli, ritrae e critica le miserabili personalità culturali del tempo, con tanto di nome e cognome. Accetta, come conseguenza naturale, l’emarginazione dai circuiti letterari del tempo e l’ostracismo culturale.

La sua estrema sensibilità e sincerità, la spinge a esporsi sempre dalla parte sbagliata della Storia. Spaesata e lontana dalla realtà, nel 1997 chiede pietà per il gerarca fascista Erich Priebke, suo coetaneo, sottoposto ad un nuovo processo per le responsabilità nell’eccidio delle Fosse Ardeatine: lo rassomiglia a un lupo ferito, visto su una foto, contro cui si accanivano, con i loro bastoni, i contadini arrabbiati per le stragi di pecore che lo avevano reso odioso. Le risposte severe, intransigenti, beffardamente ostili di Carlo Bo, di Cesare Segre, di Erri De Luca, non si fanno attendere.

Ortese propone una diversità eccessiva degli esseri umani colpevoli, vilipesi e reietti. È nel suo sguardo deformato, esageratamente intimo e profondo, il riscatto dell’umano da indagare e da rigenerare, comico e tragico, crudele e misericordioso, da contrapporre agli inganni della storia dei vincitori.  Per la Scrittrice, la memoria soggettiva, il vissuto psicologico, la verità personale ha più valore della realtà storica oggettiva. Anna Maria rimane, senza adeguamenti e riduzioni, la zingara sognante nominata da Pietro Citati.

In molti romanzi, le magiche e fantastiche allegorie poetiche consentono all’Autrice la fuga di realtà, non dalla realtà, ma una presa di coscienza dolorosa, attraverso la solitudine che affina l’approfondimento. Affonda nell’esperienza più irreale dell’irreale; agisce la fuga di realtà, verso la realtà stessa; copre per svelare, nega per riconoscere, perde per assaporare visioni differenti, si allontana per affinare lo sguardo sconfinato e immaginifico.

In una società arrogante ed escludente, Ortese conosce e abita la quiete che rende le tre figlie di don Mariano Civile ne Il cardillo innamorato, vive, sensibili e mute come animali. Sono i monacielli, le fanciulle-uccelletto, gli spiriti della natura, le bestie-angelo, le serve, i poeti, i difettati, i bambini e i vecchi, è Damasa Figuera de Il porto di Toledo a ribaltare il paradigma vittimario con una comprensione mostruosa e autentica dell’umanità sofferente e gioiosa. Certo, la prima edizione del libro, viene portata al macero. Gli altri testi, solo nel 1988, anno della sua morte, vengono ristampati da Adelphi, grazie all’illuminato Roberto Calasso.

La comunità umana ai margini, separata, attraverso gli occhi della Scrittrice, diviene una folla inesplorata dalla mente sospesa, colpevole solo per la giustizia del mondo, una folla porosa e trasparente, a trascendere la legge, l’amor di patria, i ranghi sociali. Esistono molte prospettive, nuove e inconsuete, da cui guadare il mondo e abitarlo: il movimento verso la coscienza profonda può creare smarrimento, estraniamento. La meraviglia per il vivente prevede il cammino attraverso le ombre e gli inferi.

Le difficili condizioni economiche, isolano ancora di più le due sorelle Ortese conviventi.  In Sonno e veglia è la stessa Anna Maria a ribadire: Grande è la malinconia che provo nel sapermi appartenente alla specie umana… E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto.

Mi convince e mi appassiona la visuale esistenziale di una donna solitaria e “antipatica”, un’artista che non prende ordini, come lei stessa narra di sé. Il testo inedito che ripropongo integralmente (è il vantaggio della rivista online), Il silenzio delle donne, viene trasmesso radiofonicamente il 23 marzo 1989 da Radio Due 3131*

Anna Maria è silenziosamente isolata dal contesto, vive chiusa in sé stessa rispetto al mondo sociale e politico impenetrabile e ostile. È una persona che provvede faticosamente alla sua evoluzione, al cammino di liberazione, confidando nella possibilità della parola scritta, del pensiero indipendente e feroce, fino ad apparire inadeguata socialmente, assumendo la responsabilità delle valutazioni, delle scelte di contenuto e di stile. Rende una testimonianza integra della prospettiva psicologica radicale rispetto all’umano feribile, fragile, gettato nell’esistenza.

Non è coraggiosa come in una arrampicata sociale, non alza la posta in gioco per sfidare l’incomprensione altrui, rimane leale alla sua natura, fedele al nucleo esistenziale, tenace nella sua ricerca letteraria, confidente nelle sue capacità professionali, certamente non commerciali. Solo lavorando, dolorando, sbagliando si viene a conoscere il proprio volto… ho avuto a che fare con un po’ di miseria. Ma il coraggio è sempre intero scrive a Mattìa, Marta Maria Pezzoli, le cui lettere rileggiamo in Vera gioia è vestita di dolore, pubblicate l’anno scorso da Adelphi.

È forte, Anna Maria, perché studia, approfondisce e protegge il talento profetico. Rimane povera economicamente, ma non una miserabile. Non è una precaria dell’esistenza. Il messaggio ci arriva con energia, con il permesso a rileggere i suoi scritti, anche minori, perdonandoci, ognuna per sé, l’imperfezione e la caducità. Nei tempi odiosi che ci attraversano, il brano inedito è una guida, una mappa di orientamento.

 

*Tutta la storia della vita delle donne è piena di silenzi, di grida disumane, a volte, ma più spesso di silenzio, il silenzio delle vittime e delle parole bugiarde, della forza che si esprime in parole altrettanto bugiarde sulla acquiescenza e soprattutto la necessità delle vittime. Ma non solo le donne, e le loro larve, hanno attraversato questo fiume eterno: i poveri di tutti i tempi, gli uomini senza valore e poi gli animali, cortei infiniti di poveri animali e di bambini senza valore; perché, poveri, sono stati compagni delle donne, del loro «silenzio» disperato. Il silenzio è infatti proprio di chi non ha valore o non gli è riconosciuto dalla Forza (per Forza intendo qualunque potere) ed è quindi in balia di questa Forza, una creatura disperata. Perché parlerebbe, se la sua voce è intesa solo come un suono confuso nel vento? Da chi aspetterebbe la grazia? E la protesta (penso al gemito degli animali) in che modo potrebbe essere intesa come protesta e richiesta di tregua e non come suono insensato della materia? Di ciò che permette in definitiva, di continuare stragi e mercificazioni delle creature?

Possiamo dire oggi che almeno la donna, almeno in parte, ha trovato la parola e la usa; ha incontrato il suo proprio silenzio e lo ha rotto come uno specchio stregato. Possiamo dirlo, ma fino a un certo punto. La cosa è vera, ma fino a quando si tratti di gruppi, di categorie emergenti dal cuore di società moderne, già tanto ricche e disumane da poter essere tolleranti senza rischio. In occidente, infatti, la donna ha l’uso della voce (dico l’uso pubblico) e la benedizione del potere, ma solo perché è già dalla parte del potere (in questo caso industriale, scientifico, solo marginalmente politico) e in tal caso si trova proprio dalla parte giusta: quella di chi intende mistificare e sottomettere il dolore degli «ultimi».

Devo esprimermi con domande di colore radicale da una parte e dall’altra quasi religioso: che luogo occupano oggi la voce e il potere delle donne che hanno trovato o cercano (e troveranno) la loro importante collocazione nel quadro dei valori occidentali (valori industriali)? Che luogo occupano oggi tutti gli altri, i rimasti fuori? Che valore hanno i diritti degli ultimi (bambini, vecchi senza denaro, giovani senza destino)? E infine che luogo, che rilievo ha, nel loro nuovo potere (la parola) lo sterminato mondo animale? L’altra parte del cielo non è stata forse assunta alla dignità della «voce» solo perché ha consegnato questa voce alla perenne dittatura dell’uomo e questa voce, che ora essa usa, è quindi di nuovo vincolata ai vecchi patti del silenzio sul dolore delle vittime? Per accettare in pieno, come vorrei, l’affermazione che le donne, almeno occidentali, hanno trovato una voce e la usano davvero al femminile, secondo regole nuove, alte regole del vivere, le sole degne, dovrei essere sicura che questa pretesa parte del cielo non sia ancora semplicemente la parte del vecchio uomo.

Lo temo, perché le donne che emergono, in ogni paese dell’occidente, presentano programmi riguardanti unicamente il corpo della donna e il diritto al benessere e alla felicità del corpo, al suo trionfo direi. E questo non mi pare nuovo, tranne che nell’estensione del fenomeno, mi sembra di riconoscervi qualcosa che è sempre stato, e sempre è stato gradito all’uomo e che divide con l’antico una stessa tetra caratteristica: l’assenza di voce (dico di voce nuova, di voce umana) l’assenza di qualsiasi rivoluzionaria visione del mondo. Nella voce delle donne, almeno oggi, io vedo l’obbedienza di ieri alla loro natura, ai loro uomini, al loro privatissimo e gioioso potere. E continuo a domandarmi: su cosa vive, di che si alimenta questo potere? Vive come nel passato, con la differenza che ora gestisce apertamente il proprio essere e avere, ma nel passato, sul silenzio delle vittime: la natura e il mondo.

Crederò alla inviolabilità del corpo femminile, quando la donna avrà proclamato l’inviolabilità della natura, del mondo e si batterà per essa. Finora io non vedo che cose vecchie. Vecchio l’uso e l’abuso del corpo, il suo scadimento a merce, vecchie le bugie sull’amore, vecchia l’obbedienza ai costumi dell’uomo, vecchio il matrimonio (intollerabile, ma sempre considerato un dogma, il destino biologico della donna), vecchissimo l’aborto e la diffidenza per il controllo di sé (non sarà una nuova schiavitù?). Ma con una variante tenibile rispetto all’antico: il pubblico disprezzo del capitale genetico, di ciò che esso porta con sé dalla più profonda antichità. Il diritto di vita e di morte sul bambino si esercita come sempre a favore dei diritti del corpo e dei diritti dell’uomo su questo corpo, con la complicità della legge o della scienza.

Alimentarsi, vestirsi, sfruttare ogni occasione e possibilità per portare un piacere a sé stessi, vivendo sullo sfruttamento e l’uso efferato degli animali, il disconoscimento perenne del loro dolore, non sembra una colpa o un reato alla donna. Essa ha una voce, si dice; scrive libri, li pubblica, di lei si parla; pensa e ottiene delle leggi a suo servizio. La natura e la vita muoiono; e passano ai grandi mercati; solo la donna, la donna occidentale, resta splendida come una statua, intatta sui mercati della vita.

Siamo ancora in attesa, dunque, dell’altra parte del cielo. Quando questa parte avrà una voce, una sua filosofia, quando la donna si sveglierà e riconoscerà che solo il cielo vero, i fiumi, le foreste, il corpo dei bambini, tutti i gioielli della natura, sono veramente inviolabili, che uomo e donna non sono padroni della vita, ma figli e che occorre rispetto e compassione della natura, prima ancora che delle ideologie, se si vuole continuare a vivere sulla terra, a veder vivere la terra e se si vuole che questa non debba trascinare, nella sua caduta, anche il vincente, glorioso corpo umano; solo a questo punto si potrà dire che la donna ha rotto il silenzio. La parola, prima che suono emergente tra i suoni della natura, non può non essere che il grido della natura stessa, là dove la bontà, che è ragione, non è giunta, e la Forza posa il suo piede. Non può respirare se non a servizio di questa straziata natura. Non può scrivere sul suo sigillo segreto, quello che ha scritto un certo principe straniero sul suo stemma: «io servo!».

Non dire: «mi servo», se hai voce. Ma chiedi alla tua voce di servire. Saprai allora che la tua voce è nuova e se l’attende un’aurora… o la notte di sempre!

 

legnaia

Colors: I cigni neri, e i loro colori

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph: Fonte Silvia Meo

 

 

… una persona che ha ricevuto una vocazione autentica è potenzialmente un cigno nero, perché è unica, irripetibile, non programmabile, né lei né nessuno sa cosa diventerà, nessuno sa quale impatto avrà la sua vita su quella degli altri…

Ogni vocazione è un evento cigno nero – imprevedibile, inattesa, e con un potenziale infinito.

Luigino Bruni, pp.10/11

 

Presso il mio studio di psicologia, un pensiero condivisibile già nel primo incontro riguarda la singolarità di ogni essere umano, custode di una scatola di colori nascosta e inutilizzata che si svela, in un tempo personale e in un modo originale, attraverso il lavoro di consapevolezza.

La teoria del cigno nero si riferisce agli eventi inaspettati, imprevedibili, rari. In ogni comunità richiama la capacità di registrare l’incertezza come un’opportunità di trasformazione, rompendo le righe, mischiando le carte, perdendoci in percorsi ignoti. Il nero non è il contrario della luce ma il supporto, la premessa, la condizione per tornare a godere delle molteplici sfumature.

Scrive Alain Badiou: Il nero dell’anima non è mai una presenza banale, è sempre una rivelazione… Insomma, il nero diventa il colore dell’animo solo dopo che un qualche brutale incidente ce l’ha rivelato tale. Il bianco, invece, è semplicemente il fantasma dell’ignoranza. Ogni sapere è sapere del nero, e il nero giunge di sorpresa. (p.27)

Ogni persona rappresenta un cigno nero: dinanzi a noi è inaspettata, ingovernabile, mai totalmente catalogabile in una diagnosi definitiva, sorprendente nella possibilità di comprensione di sé e di rinascita. Il cigno nero non nega la luce e non nega i colori, semmai ne avverte la mancanza e desidera lo svelamento, la caduta del velo di difesa. Scegliendo di comprometterci nella relazione, la diversità dell’altro/a rimane come un fastidio, come un difetto, sfuggendo a descrizioni ristrette e approssimative, difendendosi dalla facile omologazione, vanificando le aspettative e la tradizione.

Il nostro apparato visivo dispone di una tavolozza di colori che va dal rosso al viola e ignora l’infrarosso e l’ultravioletto. Diventiamo migliori e capaci di essere concavi/e, accogliendo la storia diversa dell’altro essere umano, il suo copione che, necessariamente confliggendo, incontra il nostro, diverso, nelle luci e nelle ombre, negli aspetti neri e in quelli colorati.

L’altro/a ci interroga, capovolge il programma, rompe lo schema, altera la linea dritta dell’intervento formativo ben preparato. Sempre sperimentiamo l’essere eletti/e e condannati/e alla relazione, avvertendone tutto il fastidio, il peso nella responsabilità e la forte carica di éros che rimette in circolo la curiosità. Attraverso l’altro/a vediamo i vari prismi e arcobaleni, nella totalità mescolata e indifferenziata di tutte le tonalità.

Ché sia benedetta la pratica psicologica e i cigni neri che le si rivolgono, impoveriti, disarmonici e vivi nei molteplici colori svelati.

Sono grata agli studiosi da cui partono le riflessioni e le spinte per approfondire:

  • Luigino Bruni, I colori del cigno, Città Nuova Ed., 2020
  • Alain Badiou, Lo splendore del nero, Ponte alle Grazie, 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

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La testimonianza, nella realtà e nella lealtà

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.: Fonte Silvia Meo

La rispondenza delle parole al contesto e al vissuto non le rende per questo prive di valore veritativo, anzi. La verità soggettiva è più vera di quella oggettiva, perché viene dall’intimo, che è il suo luogo sorgivo, generata da esseri umani in rapporto sensibile con l’universo. E parla nel qui e ora di una situazione qualsiasi riuscendo a farsi udire nel frastuono di questo mondo.

Luisa Muraro, 2015

Ho interesse per gli esseri umani che, in superficie, appaiono sconfitti, da dimenticare, per le vite silenziose e indifese in questo mondo dove l’urlo e la persecuzione sono valutati come forza di carattere o, peggio, come forza femminile. Credo sia possibile guidare la propria crescita come testimoni credibili, partendo da sé, dalla propria storia e condividendo la riflessione con il prossimo, con le persone intorno a noi.

Qualche giorno fa, è morta Licia Rognini, vedova di Pino Pinelli, l’anarchico inspiegabilmente precipitato, la notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969, da una finestra della stanza del commissario Luigi Calabresi, nella Questura di Milano, dove era trattenuto per accertamento, a seguito del massacro di Piazza Fontana.

Nel ’69 avevo dieci anni e non ricordo nulla; nel 1982 seguii la riconciliazione istituzionale fra Licia Rognini e Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi. Contro ogni tentata archiviazione, quella pacificazione è diventata un simbolo per facilitare e nutrire la memoria. Verso i quarant’anni, negli anni duemila, lessi, sulla vicenda, Pinelli. Una finestra sulla strage di Camilla Cederna, vidi l’opera teatrale di Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico, e acquistai Una storia soltanto mia, un testo che ancora mi accompagna. Licia Pinelli rimase silenziosa e si autocensurò per una decina d’anni, prima di raccontare la storia vissuta al giornalista Piero Scaramucci che la trascrive con partecipazione onesta.

Ma perché continuo negli anni a interessarmene, come psicologa? Per non smettere di capire, di pensare, di discernere, di indignarmi, appestata come mi sento e sono, sempre di più, nelle dinamiche del dominio che sottomette, silenzia, umilia, delegittima. L’impegno dura tutta la vita, attraverso i momenti di stanchezza e i tempi lenti di rinascita: Creare è resistere. Resistere è creare, ricorda lo scrittore Stéphane Hessel.

E apprendo a non smettere la voce, continuo a distinguere la parola, quando si rivela profonda e potente, potente per energia, a favore della comunità sociale. Me ne occupo ancora perché le versioni ufficiali interessano lo studio della comunicazione, nei metodi e, soprattutto, nelle visioni che trasmettono. Mi appassiono perché, in dispregio di telecamere e di palcoscenici, una donna irriducibile e mite ha offerto la sua testimonianza quotidiana, per 55 anni, continuando a credere ostinatamente nello Stato di diritto, senza concedere nulla al sentimentalismo. L’autorità che esprime la figura di Licia Pinelli è feconda perché si costruisce nella realtà e nella relazione, nel conflitto e nella fiducia.

Apprendo che si può nutrire la coscienza civile attraverso la memoria collettiva e la riflessione sulle vicende considerate, con l’atteggiamento fermo senza che sia eroico, con la parola tranquilla e tenace. Apprendo a proporre visioni e metodologie differenti, riconoscendo e non assecondando le strutture gerarchiche e di dominio. Licia rimane una donna riservata, discreta, una testimone che non sfida, non rivendica, non urla, non svaluta: per tutto il tempo del respiro, mantiene l’orientamento alla verità, sostenendo le proprie ragioni con energia, capendo le ragioni dell’altra persona senza cedere il proprio diritto.

… la questione della giustizia per me è una cosa più ampia. Avere giustizia è che tutti sappiano la verità, scrive Licia. E per le donne, molto spesso, c’è un sovrappiù di ingiustizia e di fatica. Gli abusi, le bugie e gli oltraggi sono nelle figuracce del potere che manifesta tutti i disturbi della comunicazione: la condiscendenza, i modi bruschi, la segretezza, l’evasività.

È questa la scelta politica che trasforma e rivoluziona il sistema mentale che, al contrario, massacra e toglie il respiro. Impariamo da donne doloranti e libere a vivere politicamente la vita, ad acquisire un atteggiamento e un linguaggio di realtà, orientato al rigore e alla fermezza, più che a far la politica sotto lo sguardo del potente di turno che normalizza i comportamenti vessatori, le parole offensive e le mistificazioni. La giustizia è sempre una questione di amore e l’amore è legato alla ricerca della giustizia.

Noi facciamo sempre politica, in ogni momento della giornata, qualsiasi cosa facciamo, perché tutte le nostre scelte hanno un’influenza sulla vita sociale.

Licia Rognini Pinelli

Sai, non è che tu ti rivolti solo per amore. Se ami molto, se è solo amore, rimani schiacciata dal dolore. Reagisci se cercano di calpestarti, umiliarti, renderti zero, reagisci per una questione di giustizia, non reagisci solo per amore.

Licia Rognini Pinelli, 1982

 

Riferimenti bibliografici

  • Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia soltanto mia, Milano, Feltrinelli, 2009
  • Stéphane Hessel, Indignatevi!, add editore, 2011
  • Camilla Cederna, Una finestra sulla strage, Milano, Feltrinelli, 1971
Ph.Fonte Silvia Meo

Il paesaggio del ritorno

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

Ph. Fonte Silvia Meo

 

Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. Nel dirlo tracciò, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. Infine fece una corona intorno al centro della ruota, che poteva essere, pensai, la cima innevata del Sumeru… E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? (Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 2016, p.116)

Anch’io ritorno dal giro delle otto montagne. Le trasformazioni inevitabili, i traslochi faticosi, le traduzioni incerte di lingue e di linguaggi segnano i radicamenti e le migrazioni interiori, con tutto il tempo che è servito. Costruiamo l’abitazione per il riposo, per lo studio, per l’incontro, per la preghiera con l’esperienza anche dell’età, e con il lavoro continuo di indagine interiore.

Da due mesi, non esco più dallo studio per tornare a casa, rimango nello stesso ambiente identitario. Non avere luoghi interni ed esterni, personali e lavorativi, mi permette di godermi i disallineamenti, i progetti, le delusioni, il dolore, senza infingimenti, senza soluzioni forzate, senza diluizioni: tutto qui dentro, a contagiarsi. Non posso uscire dallo studio per riprendere fiato altrove, a casa, oppure il contrario, come prima. Rimango nella sindrome di accerchiamento, nella casa-bottega.

Dal 1984 sono entrata e uscita, dallo studio, da casa dei miei, dalla casa con mio marito; i viaggi per lavoro, per vacanza, un movimento continuo per quarant’anni, anzi, quarantacinque, contando gli anni dell’Università a Roma. Di tutte le viandanze è qui che registro la restanza, di salvezza e di alleanza. Sono dove sono sempre tornata. Certo “la potatura necessaria dei rami non deve diventare amputazione del disegno vocazionale” (Luigino Bruni, I colori del cigno, Città Nuova Ed., 2020, p.24)

Il periodo sciagurato del covid evidenziò quanto fossi consumata dai traffici e dalle mancanze, come le mie cartilagini. Come non mai, raggiungo un punto di indistinzione e il mio posto nel mondo coincide con il posto in cui vivo e lavoro. L’inadeguatezza, l’inconcludenza, l’attesa sono le condizioni, la cifra dell’abitare questo luogo. Il successo, il raggiungimento dell’obiettivo non sono gli indicatori del senso e del valore che ha, in ogni caso, l’opera incompiuta, complicata e faticosa. “Camminare nello spirito è chinarsi verso la terra, non ascendere verso il cielo. È diventare più umani, non più divini, più uomini non più angeli” (op.cit.L.Bruni, p.53)

C’è sempre un luogo a rendere possibile i legami d’anima e le guarigioni, un luogo a ridisegnare il confine, inteso come separazione e come protezione ed esperienza dell’altra persona, di là, che è diversa. Giungo alla mia dimora, prossima al mio nucleo esistenziale, sbilenca, sgualcita, determinata e felice. E ha senso sentirmi smarrita in un luogo pur familiare. Mi consegno a questo posto di lama e di ricordi, come una residenza e un rifugio, come un dormitorio e una cella, come un laboratorio, uno studio professionale e uno spazio riservato. Abito la casa dei libri che ad uno ad uno, ogni giorno, mi vengono incontro.

Le parole che ispirano questa riflessione sono dello psichiatra Vittorio Lingiardi, sulla rivista online Snaporaz, pubblicate il 26 marzo 2023: i mindscapes sono luoghi sospesi tra mondo interno e mondo esterno. Sono i luoghi della nostra soggettività: abitano la memoria e lo sguardo, esprimono la nostra connessione con la storia familiare e collettiva, fondano la nostra dimensione estetica. Se landscape è il paesaggio come scena naturale, mindscape è il paesaggio come scena psichica: lo guardiamo perché ci ri-guarda.

Nel romanzo Babilonia, Yesmina Reza scrive una frase…: «Non si può capire chi sono le persone fuori dal paesaggio. Il paesaggio è fondamentale. La vera filiazione sta nel paesaggio. La stanza e la pietra non meno che il taglio del cielo». Per salvare l’ambiente, psichico e naturale, apprendiamo a guardarlo, a raccontarlo, a dipingerlo.

Qualunque racconto parte dall’analisi personale: è il materiale della narrazione, il dialogo continuo fra la realtà, la memoria e l’immaginazione. L’essere umano è onomaturgo, è creatore di parole, è coniatore di parole, dice il linguista Bruno Migliorini, menzionato da Vera Gheno in Grammamanti.

Le percezioni visive che diventano visioni mentali, dialogo genetico-culturale, primo incontro con il volto di chi ci ha guardato. O ha distolto lo sguardo. Ogni viso nasconde un paesaggio e ogni paesaggio è abitato dall’enigma di un viso amato. I filosofi Deleuze e Guattari coniano l’espressione paysage-visage. «Tua madre», ci domandano, «è un paesaggio o un viso?».

Stamattina per tre ore ho scelto di stordirmi con il rumore degli insetti e dei gatti e con il loro odore acre, sgradevole. Nel silenzio dell’alba, la terra è differente e l’acqua intona versi stonati. I luoghi santi hanno pazienza, attendono il tempo dei giri lunghi dell’amore e della comprensione. Durano, i luoghi santi, e trasudano storie e spirito. La cura di sé prevede necessariamente un luogo di comunità antica. L’autocoscienza è un atto, l’atto di devozione verso la vita che matura uno sguardo vigile su di sé e sul contesto.

A certe comprensioni si arriva solo rallentando e arrestando il movimento e la lama è come un corpo vivo fra me e il mondo, a separare ciò che non può più confondersi. Il luogo che rivela i pensieri e i desideri rinnovati attraverso lo scavo interiore, risentendo le presenze che mancano, le presenze sentite nutrendo l’ombra, non attraverso le azioni meccaniche.

E La Comunità di Ricerca  è costituita da chi rimane e passa, anche casualmente, da chi si allontana e poi ritorna, a sperimentare un’idea diversa di società fra i libri, gli agrumi, gli ulivi e l’orto minimo, fra le pezze antiche e i pensieri silenziosi, le conversazioni e le scritture condivise fra dispari.

Convinta che la psicologia e l’architettura hanno una prospettiva ampia in comune, condivido alcuni brani della profonda riflessione di João Nunes, architetto e paesaggista portoghese, dall’articolo Paesaggi, passaggi, pubblicato in Lettera Internazionale, una rivista che non c’è più e che ha contribuito alla mia formazione:

… Il paesaggio ha modificato nel corso degli anni il suo significato fino a tradursi, al giorno d’oggi, nell’insieme delle impronte lasciate sul territorio dalle diverse comunità e dai diversi individui che lo condividono, sovrapponendosi a quelle della genesi fisica del territorio stesso e a quelle corrispondenti alle trasformazioni a cui è estranea la comunità vivente. Si tratta insomma di un insieme di impronte codificato dal sistema di significati; il paesaggio sarà, dunque, il complesso di relazioni a cui tali impronte corrispondono come manifestazioni percettibili della vita: relazioni che si sviluppano tra individui della stessa comunità, tra individui di comunità differenti, tra comunità differenti, collettivamente, e tra tutti loro e il territorio; relazioni che implicano uno sforzo di sopravvivenza, un meccanismo per assicurare la sopravvivenza della comunità, un gesto di protezione delle generazioni precedenti verso quelle successive. Le impronte, in sé, sono banali (corrispondono ai marchi causati da gesti semplici, quotidiani, spesso automatici e involontari); le ragioni che stanno dietro a tali gesti sono altrettanto banali (sopravvivere, vivere, appropriarsi dello spazio, proteggere i figli, calpestare, correre, saltare, accoppiarsi). E tali impronte si imprimono su uno strato precedente fatto di altre impronte di altri individui, della stessa o di altre comunità, o su impronte di erosione, di degradazione materiale del territorio stesso, anch’esse banali, causate da pioggia, vento, sole. Sono impronte elementari, in tutti i sensi, che costituiscono la manifestazione di processi legati ai fatti basilari della vita. Allo stesso tempo, sia a causa della sovrapposizione che si attua nel corso del tempo, sia per la complessa rete di relazioni che si esplicano in un paesaggio considerando tutti gli individui, tutte le comunità, tutte le ragioni, tutti i fenomeni geologici fondamentali della geomorfologia di un luogo e tutti i processi entropici legati ai processi di trasformazione per erosione, per degradazione, per alterazione dell’ordine iniziale di formazione di tali territori, il testo che si va così costruendo si rivela complesso e difficile da decodificare. Ciò significa che il paesaggio dovrebbe essere considerato una rappresentazione complessa dei processi in atto su un territorio e della sintesi storica dei processi passati che può essere descritta oggettivamente attraverso lo studio delle caratteristiche del territorio, delle comunità e delle loro relazioni.

… Possiamo, così, pensare al paesaggio come a un concetto a cui corrisponde non una situazione che è dato riconoscere e percepire, profondamente associata alla percezione visiva – ricordiamo che la definizione corrente del dizionario per il termine “paesaggio” è: “parte di spazio che la vista abbraccia con uno sguardo” –, quanto piuttosto a una situazione associata a un funzionamento di cui percepiamo l’unica manifestazione in grado di farci capire ciò che accade quando si interferisce con quel funzionamento. Il concetto di paesaggio, in quanto direttamente associato alle impronte di ciascun momento, di ogni generazione e di ogni cultura che si sovrappongono nello stesso luogo, è profondamente legato alla trasformazione. Il paesaggio è qualcosa in continua evoluzione ed è funzionale alle convinzioni che in ogni momento portano a gesti diversi a cui corrispondono impronte diverse per la soluzione di problemi di sopravvivenza delle comunità, diversi in ogni momento.

 … trasmettere paesaggi vuol dire anche responsabilità nel suscitare presso il potere, democraticamente istituito o meno, i modelli e i valori fondamentali per una costruzione del paesaggio equilibrata e valida per le popolazioni. Così, “comunicare paesaggio” si trasforma necessariamente e implicitamente in uno strumento di costruzione del paesaggio, dal momento che “comunicare paesaggio” costruisce la possibilità di sostituire lo stato di coesione culturale di altri tempi, ma permette anche di spiegare la portata e la perfezione di alcuni processi di costruzione del paesaggio di epoche passate che costituiscono oggi punti di riferimento universali. D’altra parte, trasmettere paesaggio in modo completo e profondo, anziché attraverso la ripetizione di modelli di comunicazione superficiali e mediocri, potrà essere un modo di divulgare e discutere modelli di trasformazione includendo la dimensione economica della trasformazione, suscitando nelle persone a cui arriva la comunicazione la coscienza dei processi che stanno dietro la formattazione delle piattaforme fisiche necessarie allo svolgimento delle loro vite, e ancora permettendo loro di venire a conoscenza sia dei processi che, in passato, hanno finito con l’essere responsabili del mondo così come oggi lo vediamo, sia delle logiche di trasformazione inerenti alle opzioni di vita e alle decisioni che, prese oggi, prefigurano gli scenari del futuro. Perché, infine, trasmettere paesaggi è anche un’altra cosa: è creare le condizioni di costruzione dei paesaggi del futuro, dei paesaggi in cui i nostri figli e nipoti vivranno, è trasmettere loro, fisicamente, i paesaggi che abbiamo saputo creare.

 

 

 

Cristallizzazione

Un periodo di Cristallizzazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

La Cristallizzazione è l’ottava operazione segnalata da Eric Berne, analista transazionale di riferimento. In questa nuova fase di vita, pienamente nello Sato dell’Io Adulto, dopo l‘Interpretazione che ha definito l’ipotesi di origine copio­nale di certi comportamenti, riconosco nella mappa nuove opzioni e prendo la decisione di cambiare ancora, continuando a darmi nuovi permessi che riguardano il tempo lento e lo spazio differente. Insomma, come Berne scrive, posso usare la rinnovata licenza di pesca.

Vivo sulla carne le contraddizioni studiando e nutrendo le relazioni possibili, simmetriche e dispari. Dico che educare Alla persona, si può. Nei luoghi di lavoro, credo nel Governo Umano delle Risorse ripensando, nell’idea fondamentale e nelle metodologie, la funzione della Gestione Risorse Umane comunemente nominata.

Fondare nuove cittadinanze, si può. Non seguendo la logica buonista e caritatevole che butta l’osso al cane per non pensarci più. Come psicologa intervengo in azienda per svelare e risolvere l’ordine patriarcale che si dà per scontato, voluto dalla natura o da un dio. Non metto a tacere l’indignazione e non ignoro il significato oppositivo del malessere nei confronti di una sottocultura politica ingiusta e vessatoria per tutte le persone.

Considero nocivo il metodo manageriale quando pretende di trasformare le piccole e medie aziende, anche quelle di servizi, e le botteghe artigiane, con la mentalità da multinazionale, con un orientamento basato sul profitto e sulla carriera competitiva e verticale.

L’economia è anche economia della cura, è governo dell’ambiente domestico e aziendale. Intendo il mondo, quindi, come casa, senza dichiarare guerra per ribaltare i rapporti di potere, trasformandoli, invece, in relazione di éros, di energia circolare.

Ho capito di non potere entrare nel gioco psicologico dell’altro e romperlo dal di dentro: rimango invischiata e ferita a morte. Il gioco del vecchio, pur giovane di età, patriarca capitalista, femmina o maschio, è al rialzo, è immorale e illegale; è un gioco che aumenta l’ingiustizia sociale attraverso comunicazioni disoneste e manipolative.

Negli ultimi anni il concetto di intersezionalità si è ampiamente diffuso nel dibattito accademico e politico. La teoria femminista della intersezionalità si basa sul termine coniato dalla studiosa nera Kimberlé Crenshaw nel 1989 e sviluppata negli anni Novanta da Patricia Hill Collins e bell hooks. Esiste una correlazione fra i vari sistemi di privilegio e oppressione fra cui il sessismo, il razzismo, il classismo, l’omofobia e l’abilismo. La prospettiva intersezionale tiene conto delle interconnessioni che ci sono tra i divari sociali e i fenomeni sociali complessi a cui si riferiscono, chiamati in modi diversi: interrelazioni delle oppressioni, divari sociali multipli, determinazione reciproca, ibridazioni, oppressioni multiple, molteplicità.

Qualunque programma di consulenza e di formazione è radicale e coinvolge ogni persona, trasmettendo le visioni di pensiero intorno all’umano, prima ancora delle strutture e delle tecniche aziendali. Non c’è rivoluzione che tenga, sciopero che funzioni, parità che accontenti, quote rosa che coprano le ombre e non c’è merito valutato con le piramidi e le scale gerarchiche. Il riconoscimento di ogni persona in sé stessa non è scontato e niente garantisce la libertà di pensiero o l’ampliamento della riflessione.

Senza modificare il sistema di pensiero, le categorie mentali, le visioni di vita e di mondo, la distribuzione di cariche e di ruoli rivela sempre un gioco di potere iniquo. Promuovo la mobilitazione per pensare e agire nuove modalità di interazione, non solo per essere rintegrata o per vincere una diatriba antica, e mai a rivendicare e a ricattare. L’attività lavorativa non può proporsi come totalizzante e le persone non vogliono rischiare di ritrovarsi inglobate, agglomerate in un sistema per cui vale solo l’interesse del singolo, l’espressione performante, la convenienza privilegiata.

La vita aziendale, per i più rozzi, si manifesta come la famigghia e per i più evoluti è come la rete: in nessun caso è prevista l’idea e lo sviluppo della comunità e della cura.  L’ispirazione imprenditoriale, invece, partecipa alla creazione di una nuova modalità di mondo e di esistenza. L’esperienza lavorativa si evolve in una modalità di introspezione, di ricerca di identità professionale e produce visioni ecologiche e trasversali.

 Chi sono i clienti e le clienti della scuola di educazione Alla persona®?

Le persone ricercano il senso e il valore della vita e della vita lavorativa perché non possiamo interessarci al capitale umano redditizio, solo in relazione a quanto produce e consuma. La visione ecologica, intersezionale è fondamentale. Per gli imprenditori e le imprenditrici che richiedono la consulenza psicologica in azienda, vale ancora di più l’avvio di un ragionamento che coinvolga ogni persona a partire da sé. Cosa significa lavorare, fra diritto e privilegio? Chi sono andato/a diventando in questi anni? Cosa è il successo? Che relazione ho con il guadagno e con il denaro? Chi sono i lavoratori e le lavoratrici dell’azienda e come stanno?

La consulenza non può funzionare come il distributore meccanico di bibite: in emergenza serve e mi si chiede una presentazione scritta, una narrazione per i social, due parole in un convegno, un ascolto veloce per ricucire e rattoppare. In malafede e in mistificazione. Riconosco un circuito paesano di amici degli amici che diviene sistema generale senza possibilità di valutare il profilo professionale e psicologico adeguato ad ogni situazione.

Non tutti possono collaborare con tutti. Se non si è in sintonia su una visione di base, ogni gruppo procede faticosamente e manifestando continuamente incomprensioni. Conoscere molta gente, non significa creare comunità. Meno che mai è possibile condividere una visione lavorativa ampia rimanendo abbarbicati a gruppalità specifiche.

Nel Governo Umano delle Risorse come psicologa di teoria e di militanza, mi occupo di studiare e di curare il maschilismo, sapendo che oggi non è solo una questione di lotta di classe, di capitalismo e neanche solo di politiche femministe. Se mancano le visioni, le letture sintoniche sulle fondamenta di essere umano e di mondo, non litigo e non persuado: ogni persona ha una storia che si esprime attraverso la struttura di mentalità, di modelli e di linguaggi. Per ogni creatura umana, i tempi degli apprendimenti sono diversi. Mi oriento all’attesa interiore: se nella situazione taccio, forse, in qualche tempo futuro, in qualche luogo diverso, ci rincontreremo e potremo riparlarne.

Solo dinanzi al volto dubbioso, tormentato, interrogante, a prescindere dall’età storica, io mi intrattengo, nel ragionamento, tutta intera, con i sentimenti, gradevoli e sgradevoli, e con le riflessioni sempre contrastanti, godendo delle opposizioni ed evitando la frettolosa scelta binaria. Nella relazione di noità, riservo alla fase di interdipendenza, alla intimità, la possibilità di argomentare e di problematizzare. Invece, decido di tacere, di andare o lasciare andare via, per la mia pace interiore e per rispettare i tempi di comprensione e di trasformazione dell’altro/a.

Sì, a questo punto della vita, ritengo di non potere e di non volere essere una psicologa, un’interlocutrice o una collega per chiunque. Rifletto su come proseguire, dopo il primo e il secondo numero dei taccuini scuola di educazione Alla persona, nutrendo la scrittura del terzo volume, La storia guidata di sé.

Continuerò a condividere il percorso.

 

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Joyce Lussu, scrittura e politica

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

Per molti anni, ho guidato percorsi formativi negli istituti bancari e nel 2012, fra Porto San Giorgio e Fermo, incontrai Alessandra (non ricordo il cognome), una dirigente disallineata, vestita di terra e d’aria, di fuoco e di acqua. In un periodo per me di mortale silenzio, mi ospitò nella sua casa, nella campagna marchigiana fra l’Adriatico e i monti Sibillini. Mi consegnò un libro, come un segno di comprensione, come una promessa di intesa. Con il vecchio libro mi donò una conoscenza: Joyce Lussu. Con Alessandra non ci siamo più riviste. Ho letto, invece, tutto di Joyce Lussu. È forte la loro presenza nella mia vita.

Riprendo il vecchio testo, Il libro Perogno, pubblicato nel 1982 e ormai introvabile, avendo terminato di leggere la storia raccontata, nel 2022, da Silvia Ballestra, La Sibilla, per la casa editrice Laterza. Il libro Perogno seculu secloru trasferisce con voce dialettale sarda un memento per omnia saecula saeculorum.

Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Lussu in seconde nozze, antifascista, poeta e traduttrice, lei, la sibilla del Novecento, ha pensato e parlato, ha scritto e ha testimoniato come trasformare le relazioni, esercitando l’energia femminile nello studio e nel movimento.

Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale, in pieno regime fascista, con le continue e violente manifestazioni delle bande di squadristi. La famiglia Salvadori, una tribù, la chiama Joyce, vive da principio a Firenze, città socialista e democratica, ma presto emigra in Svizzera, militando nei gruppi di Giustizia e Libertà. In un contesto di guerra e di sopravvivenza precaria, Joyce consegna la sua storia di resistenza “proletarizzata dalla lotta”, come lei stessa dichiara, evitando ogni matricentrismo. Si definisce “una donna per…” e costruisce un rapporto di coppia libero, un amore misurato con la distanza e l’autonomia, “se fossi rimasta in casa ad aspettarlo, lo avrei annoiato”.

Joyce Lussu, attivista politica e poeta, dedica la sua intensa vita alla lotta, unendo un instancabile lavoro d’azione alla ricerca teorica. I suoi testi rientrano nella memorialistica partigiana antiretorica e antiaccademica. Coltiva lo sguardo di genere come istitutrice a Bengasi, da clandestina in Francia, da insegnante e da guerrigliera, viaggiando e traducendo intellettuali e personaggi storici come Ho Chi Minh, Castro, Mandela, Hikmet, Neto. Intuisce come la poesia possa essere una via privilegiata per intervenire politicamente a servizio dei popoli sofferenti.

Come moglie del ministro Emilio Lussu, Joyce prende le distanze dal mondo romano dei ministeri e dei salotti, un mondo che integra gli individui in strutture già date, distribuendo cariche e poteri per accrescere i diritti dei singoli. La riduzione della parola delle donne è sempre stata, anche nella cultura della sinistra (partiti, deputati, organizzazioni, intellettuali), la questione femminile, il problema di una categoria sociale colpita da determinate ingiustizie.

Joyce Lussu si ferma ad ascoltare, non ha fretta di sistemare forzatamente la complessità. Con la sua presenza non strumentalizza gli incontri per accrescere i rapporti di forza, ma agisce democraticamente, sganciandosi dai dispositivi del potere, radicandosi nella realtà umana e vivendola in prima persona. Si accompagna a donne e a uomini in carne e ossa, non dipendenti da rappresentanti né da apparati, dotati, invece, singolarmente, di parola e di coscienza critica. Incontra persone patite, lavoratori e lavoratrici che, allora e tutt’oggi, servono come giustificazione ideologica per una pratica di dominio improntata sulla falsa e ipocrita coscienza lavorativa.

Il suo pionieristico studio sulle sibille incrocia alcuni aspetti del pensiero della differenza, nella ricerca di una linea di trasmissione del sapere matrilineare, ispirata per Joyce alle antiche comunanze picene e alla figura mitica della vergara, della strega che conosce le erbe, erede delle medichesse antiche, delle erboriste e delle mammane, a partire dalla grande Metrodora. Nell’arcaica Sardegna della Barbagia, uno dei nomi della femminilità oscura, come per Michela Murgia l’accabadora, fra violenza e sapienza è, per Lussu, la sibilla barbaricina, figure necessarie a situazioni di sussistenza in comunità periferiche e abbandonate.

Per Joyce Lussu, il percorso di liberazione delle donne e degli uomini non è mai per sé stessi/e, coinvolge la comunità; il suo attivismo è nella testimonianza del servizio come variabile strutturale nella visione sociale, come un sistema di pratica politica, non come una concessione peregrina, un atto di bontà e gentilezza solitario. Anche quando sale sul palco predisposto, dà la parola al prossimo intervenuto, si trasforma in un megafono di carne. Una vita così avventurosa, è faticosa e non si può imporre a nessuno. Le battute d’arresto, le resistenze, la frustrazione non sono perdite o rese definitive, ma ribadiscono con determinazione un orientamento verso la giustizia sociale.

Joyce termina spesso i suoi interventi (e anche un suo libro) con la formula “larga la foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia”: è l’invito al passaparola, al diritto di tutti/e, a confrontarci, a discutere, a ricercare. L’autorità si costruisce con le relazioni, con l’esperienza e lo studio, non con il dominio e con l’oppressione del denaro. Le sibille scompaiono e si manifestano, in ogni tempo, lasciando segni, cammini, incontri e progetti; non sono solo appassionate di politica, ma agiscono nella vita pubblica per facilitare la qualità di rapporti fra gli esseri umani. Essi smettono di essere numeri, strumenti, variabili, categorie, e acquistano quella che i linguisti chiamano la competenza simbolica: l’autorità di dire con il racconto personale l’esperienza di vita e di lavoro. Così, Joyce Lussu intende la libertà, per sé e per gli altri.

Le sibille, donne intere, indipendenti e autonome, evitano i legami disfunzionali perché questi tendono a normalizzare la patologia, a clinicizzare il disaccordo e il disallineamento, a trasformare le proteste in colpe e in pene. Condividono un modo di essere e proporre la politica, il diritto, il lavoro, partendo dalla propria storia, senza delega, alla ricerca di linguaggi, di mediazione e di pratiche sapienti e creative, spostandosi su territori diversi dal denaro, dal dominio, dalla competizione e dalle dinamiche della prestazione, sempre, a disposizione del mercato. I dispositivi di omologazione riducono la capacità e la possibilità di essere chi siamo, e questo pericolo, le sibille, lo avvertono.

Oggi diciamo patriarcato, primitivo e selvaggio, riferendoci a stratificazioni culturali di epoche storiche che rimandano ad accumuli di elementi sociali, economici, giuridici, religiosi. Ci riferiamo a strutture sociali orientate sistematicamente a imporre condizioni di minorità e di passività. Una vittima è tale non solo per copione personale, ma perché sottoposta al contesto dominante che tende a deresponsabilizzare ogni persona, clinicizzandola e assumendone, un po’ per volta, il comando e il controllo sul corpo e sul pensiero. Le sibille lo sanno, e vigilano.

Talvolta, le conquiste legali e culturali, sono impercettibili. Ancora esistono la violenza, la disuguaglianza, le intersezioni fra la razza e il genere, ma registriamo sempre più la consapevolezza rispetto ai diritti, all’istruzione, al lavoro. Essere una sibilla vuol dire essere orientata alla conoscenza, oltre le abitudini mentali, i pregiudizi e i luoghi comuni, vuol dire andare libera nel mondo per trasformarlo e non per omologarsi. Lentamente, sta funzionando, abbiamo idee più chiare, abbiamo più fiducia nel diritto ad avere diritti, anche se mai dati per acquisiti definitivamente.

La storia è storia di esseri umani e di minoranze, non solo di uomini ricchi, bianchi e potenti, e Joyce chiede, attraverso i suoi scritti, che le donne si organizzino autonomamente, per produrre storie locali. Nelle comunità sibilline, la conservazione collettiva delle storie, la democrazia comunitaria, il rapporto corretto con l’ambiente naturale, la custodia della sapienza antica, la distribuzione equa del lavoro, la responsabilità etico-sociale condivisa, sostituiscono il governo guerriero e la cultura di morte.

Joyce Lussu, scrittura e politica – La Stanza di Virginia

Chiara, Lizia

Siamo meravigliose pozzanghere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La novella scritta da Chiara Cannito e illustrata da Elisa Cesari, La pozzanghera illusa d’essere cielo, narra di una pozza d’acqua piovana, rinominata come cielo da una bambina, fotografata da un reporter, dipinta e decantata in versi dagli artisti. Insomma, una incosciente pozzanghera, riconosciuta come un riflesso di cielo, finisce per credere alla propria unicità e bellezza. E a desiderarsi immortale. E come dea immortale, pretende di essere intoccabile, lontana dal vecchio viandante, dall’uccellino sporco e assetato, dalla pioggia grigia.

Ma la bellezza autentica è disordinata, è alterata dalle interazioni con lo spazio, con il tempo, con il prossimo. La pozzanghera, attraverso lo sguardo e il riconoscimento altrui, può difendere la castità, scegliendo come ricomporsi dopo ogni scambio, ma non può pretendere di rimanere vergine e di non essere attraversata.

Agli esseri umani piace illudersi. Il rimanere in-ludo, nel gioco della vanità e nelle sviste del desiderio e dei sensi, è un passaggio obbligato di crescita. Ad ogni età, rinforziamo un’illusione e la difendiamo con onnipotenza e spocchia. E, ogni volta, ci tocca prendere nota di ciò che accade, misurare il limite, ripensare a ciò che avremmo voluto e non è, e riscegliere per quello che la realtà consente.

Ogni intervento psicologico si occupa della percezione di sé, della possibilità e necessità di registrare la realtà per quella che è e non per quella che desidereremmo. L’illusione è importante per coltivare il sentimento dell’attesa e il pensiero rispetto a una nuova progettualità e l’azione del primo passo verso il cambiamento.

Naturalmente, il sole asciuga ogni bellezza neutra. Invece, è in quelle rughe, in quella assenza brutta e rabbiosa che ritroviamo il senso dell’esserci sporcati, contaminati in ogni incontro. In fondo, nella fine, nella dissolvenza è custodita la bellezza dell’esistenza, oltre ogni illusione.

Nel cammino psicologico di conoscenza del carattere umano, considero un buon inizio la presa in carico delle proprie illusioni con la lettura della graphic novel di Chiara Cannito. E il lavoro di riflessione sull’illusione e sulla vanità umana, potrebbe continuare, negli anni, con la Storia della bruttezza e la Storia della bellezza del grande Eco. E sono altre storie e altre consapevolezze.

 

Ph.Fonte Silvia Meo

Wonder: il paradosso della meraviglia e dello sconcerto

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

… Non finirei, ero un bambino vecchio allora, invecchiato dalla vita e dai libri, ma sempre bambino. Quanto può esserlo chi sulle cose spalanca, appena si sveglia, due pupille grandi che si sorprendono…

Gesualdo Bufalino, Argo il cieco

 

Meraviglia e meraviglioso sono parole mancanti nel mio vocabolario ed è il momento di porvi rimedio, riconoscendone la presenza nella quotidianità. E penso a quelle indomabili rivoluzionarie che occupano il mio tempo in mood estivo, Rachel Carson e Patricia Highsmith, due meravigliose scrittrici tormentate e considerate nevrotiche dagli oppositori. Studiose schive e meditative, attraverso la scrittura, condividono l’amore delirante per gli esseri umani e per la vita sana sulla terra.

Highsmith, morta nel 1995, è una crime novelist e i suoi libri hanno ispirato registi famosi come Alfred Hitchcock, Liliana Cavani, René Clément. In particolare, rifletto su una raccolta di racconti, Urla d’amore, in cui Miss Highsmith crea un mondo di personaggi pericolosi per sé stessi e per il prossimo, affondati nelle ombre di una psiche turbata dalla realtà inumana che tende a stigmatizzare come matto chi è lontano dai commerci e dai denari, attardandosi, invece, sulle piccole cose, ritrovando il sentimento di creaturalità verso la natura, selvaggia e innocente. Un mondo senza conclusioni morali, come afferma, nella prefazione, Graham Greene, claustrofobico e irrazionale nel quale ogni volta entriamo con una sensazione di pericolo personale.

Avvertendo quel pericolo personale, ci consegniamo definitivamente e con onestà alla comprensione della coscienza.

Nei racconti incontriamo persone ingenue, autentiche, non addomesticate, crudeli e intransigenti, germogli meravigliosi di una umanità che non ha il bisogno di inseguire la vittoria a tutti i costi, ostentata in ogni occasione. Persone che pensano a non-pensare, perché nel non-pensare c’era qualcosa di importante e di eccitante.

La meraviglia confina con l’orrido e si nutre del piacere crudele della scoperta solitaria.

Carson, biologa morta nel 1964, preoccupata per l’abuso dell’insetticida DDT, studia le connessioni ambientali: nonostante un biocida sia finalizzato all’eliminazione di un organismo, i suoi effetti si risentono attraverso la catena alimentare. I prodotti utilizzati per rendere innocuo un insetto finiscono per avvelenare esseri umani e animali. Il saggio, ristampato con la prefazione interessante di Paolo Giordano, è Primavera silenziosa. La manomissione dell’atomo nella costruzione della bomba atomica e la produzione di insetticidi esprimono il massimo ingegno e la massima distruttività della potenza umana.

Scrive la scienziata, a favore di una educazione ambientalista: … parallelamente all’eventualità della totale estinzione del genere umano in una guerra atomica, l’altro fondamentale problema della nostra epoca consiste, dunque, nella contaminazione dell’ambiente in cui viviamo a opera di sostanze con un incredibile potenziale di devastazione.

La concatenazione è il modello attraverso il quale Carson registra il problema di partenza degli agricoltori, la piaga degli insetti, ma ne sposta l’origine nella pratica sbagliata delle monocolture intensive. Il merito di Rachel Carson è considerare l’ecosistema: suolo, acqua, aria, vegetazione, micro e macrofauna, tutto è collegato e ci coinvolge. Il rigore scientifico e lo sguardo poetico diventano strumenti di sopravvivenza sulla terra. La pratica psicologica e formativa le è grata.

L’importanza del contesto, dell’ambiente, la consapevolezza ecologica e psicologica avvicinano le due autrici nell’equilibrio, sempre da ridefinire, fra le soluzioni chimiche e quelle biologiche e psicologiche. Le strade dell’autodistruzione e del benessere rimangono parallele, dinanzi alla scelta di libertà degli esseri umani. Siamo impegnati a evitare di sottomettere la terra e gli esseri umani al dominio e all’arroganza di pochi.

Contraddicendo l’opinione comune e l’esperienza quotidiana di accomodamento sull’elemento noto, ritrovo le scritture dello stupore, dello stordimento seguendo le autrici sulla cattiva strada, paradossali e divertenti, nel senso di divertĕre, permettendo di rivolgere altrove l’attenzione, scoprendo prospettive sconosciute.

È meraviglioso leggere, ritrovando connessioni inattese e avendo il privilegio di darne conto, a chi vuole, attraverso questa rivista; la lettura non compie miracoli di cura, ma consente di vivere senza attendere alcun miracolo, tenendo meravigliosamente assieme i dubbi, le contraddizioni, le irresoluzioni.

Rachel Carson, Primavera silenziosa, le stelle Feltrinelli, 1962/2023

Patricia Highsmith, Urla d’amore, La nave di Teseo, 1993/2020