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Nina Berberova, Il giunco mormorante, Adelphi, 1990

 

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Questa riflessione origina da una storia d’amore, da un piccolo libro che racconta la relazione difficile, anche a causa della prima guerra mondiale, di un uomo e di una donna. Il racconto è centrato su un pensiero fondo e suggestivo: ogni persona interiormente scopre e difende la terra di nessuno, il luogo della indissolubile intimità con il proprio nucleo. Ed è grazie alla no man’s land che custodiamo la potenzialità dell’amore.

La scrittrice nasce a San Pietroburgo nel 1901 ed emigra negli Stati Uniti vivendo lo spaesamento dei transfughi dalla Russia rivoluzionaria. Soprattutto la relazione come confidenza con se stessi è il tema ricorrente nei suoi romanzi. Le storie di coppie diverse rimandano, in ogni modo, all’indagine psicologica di ogni personaggio e alla necessità di riconoscere e mantenere la libertà nell’amore.

“… se permettiamo a qualcuno di organizzare la nostra no man’s land, alla fin fine, secondo logica, arriveranno a rinchiuderti in una lussuosa camera di un lussuoso albergo, e bruceranno i tuoi libri, e allontaneranno da te tutti quelli che ami. Basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà tolto…” (p.77)

Trasformare se stessi in un giunco, questa è la benedizione: l’elasticità, la capacità di dondolarsi nella realtà che va presa in carico senza la pretesa di cambiarla.  Il giunco si propaga con i rizomi sotterranei, è molto resistente e difficilmente viene attaccato dai parassiti, come le coscienze di chi provvede in tempo ad indagare e a capire la sua terra di nessuno, no man’s land.

Nella vicenda narrata, a Parigi, a Stoccolma, a Venezia, per tutta la vita, assistiamo alla dignità degli addii. I due amanti dichiarano il desiderio di rimanere assieme e la necessità storica di andarsene. E infine, navigando verso il nucleo di sé, nei sotterranei dell’anima, si dissolve l’urgenza dell’incontro e la relazione esprime proprio nell’assenza la sua più sottile e complessa presenza.

Nella vita, tre volte finora ho sperimentato la straordinaria assenza di relazioni cave, radicate, arcane. Essa non é mancanza, ma è assoluta essenzialità: io so e tu sai. Non abbiamo nulla da dirci, dichiara l’abbandono peggiore ed è, invece, la migliore intimità possibile. Penso, attraverso il romanzo, ad un’etica del non incontro. Rilevo l’immobilità dell’assenza a causa di una eventualità di presenza totalizzante ed eccedente. Più sottile e profonda è, sempre, l’assenza dell’altro che rivela il mistero della vicinanza a se stessi. Berberova indaga con dolcezza e con determinazione il canto che lega indissolubilmente l’amore e la solitudine, il dolore e la giustizia, la realtà e il desiderio. Così, la relazione può continuare ad esistere, a prescindere dalle scelte obbligate della storia, nell’incontro doloroso e gioioso con le proprie viscere. Consapevolmente e autonomamente.

Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità. Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la «linea generale» dell’esistenza. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso, e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero. Mi fanno pena le persone che sono sole unicamente nella stanza da bagno, e in nessun altro tempo e luogo.” (pp.36-37)

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Stelio Mattioni, Tululù, Adelphi, 2002

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Che incontro inaspettato e dolce, questo romanzo sottovoce e questa Matilde, soprannominata dalla sua stessa madre, segnata da un nomignolo che si manifesta come un programma di vita inevitabile: “…Tululù vuol dire ingenua, anche stupidina…”

E penso ad ogni donna che, in situazioni diverse, mi appare come Tululù. Per esempio, quando si fida senza verificare la realtà. Quando scusa gli altri mentre la offendono perché loro, in fondo, sono in buona fede. Ogni volta che si riserva l’ultimo posto e, in ogni caso, mai il primo. Quando sceglie di essere remissiva ad oltranza, e si accontenta, e aspetta, stanca ma sempre pronta a servire. Quando pensa che le ambizioni sono troppo grandi, tutte. Quando è in soggezione e preferisce obbedire.

“… non sapeva dire le preghiere come si doveva, ma solo con sospiri e divagazioni, insomma a modo suo.” p.16

“… per chiedere alla Madonna che non cambiasse niente in peggio, non certo per chiederle qualcosa di meglio.” p.54

Tululù prega con purezza, ama e difende il suo amore a prescindere, non chiede, urla disperata e gli altri credono che sia isterica. Tululù salva inutilmente il mondo, oppure è vittima seccante e ridicola, o, ancora, è persecutrice lagnosa o dispettosa. Fare Tululù è scusarsi di esistere, di essere così come si è e non un’altra. Più che una donna singola, Tululù è una parte di tutte le donne, rappresenta un momento di vita che tutte attraversano, una tappa di evoluzione obbligata verso la consapevolezza di sé.

“Matilde non si era mai accorta di essere avvenente, né aveva mai pensato alla propria persona come a qualcosa che potesse colpire qualcuno, ma visto che la Signora, che era la sua padrona, non poteva sbagliarsi, a quelle parole era rimasta turbata. Solo per poco, s’intende. Perché interessarsi di se stessa proprio non poteva, quando a questo mondo c’erano secondo lei tante cose e persone per le quali adoperarsi che lo meritavano di più.” p.13

Ma Tululù è anche lo sguardo di meraviglia, l’ingenuità della interazione. È la pacifica soglia, il rimanere senza l’urgenza di abbandonare, è fidarsi perché la speranza è l’ultima a morire. È il tempo della suggestione, la sindrome di Stendhal. È l’accorgersi stupìta di quanta acqua c’è nel mare, come se lo si incontrasse per la prima volta, è lo sguardo sognante, il pensiero che si vedrà, che chissà, che forse…

Non si tratta di fingersi scema per non confliggere con l’altro, o di essere davvero scema per chissà quali difetti neurologici. Invece, penso che sia una conquista vivere con coscienza anche la parte meno brillante, più modesta e sottotono di sé. Tululù, in fondo, sono io, nell’ombra o nella parte cieca, così diversa dal personaggio dipinto da Stelio Mattioni e così uguale. Come Tululù, svelando la parte tenera cinestesica, misuro la libertà mia e dell’altro, guardo la differenza e me ne faccio carico, patisco la distanza e registro le ragioni. E, allora, accetto che non dipende da me e che non posso farci nulla. E che va bene così.

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Chiara Cannito, Corro, quorumedizioni, 2018

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La pubblicazione di questo libro rappresenta un’operazione culturale significativa. Per un adulto è difficile sentire, pensare e parlare anche come un bambino. Chiara Cannito accetta la sfida, accudendo assieme dentro di sé la voce bambina e quella adulta.

Leggo una storia terribile raccontata con il linguaggio dolce e determinato della giovinezza. L’esperienza umana di Uday è trasmessa con abilità e con potenti mezzi espressivi oltre la scelta di una narrazione semplice e terribile. Il giovane ha quasi vent’anni e ricorda l’infanzia felice nella sua Aleppo e la giovinezza di guerra. Guerra e rovina, sempre e dappertutto.

Uday corre, pensa, confida. Correre è diverso che camminare. Corro diviene una intesa con se stesso, un’alleanza per la vita. Corro e respiro, mi allontano, corro e penso, vado incontro, corro e sento la passione di vivere. Le sequenze narrative sono veloci e riconoscibili.

In questo periodo storico, al cittadino democratico europeo sembrano piacergli poco i giovani, le donne, i poveri nella guerra. Uday è ancora un extracomunitario, la sua Storia interessa a pochi e l’economia del suo Paese vale meno di niente.

Condivido il pensiero di Annamaria Bruno che dirige con curiosità e saggezza la rivista “Lettera Internazionale” fondata nel 1984 da Antonin Liehm e da Federico Coen. Scrive Bruno: “… la mia impressione è che si continui a confondere l’informazione con la formazione, delle classi dirigenti e della gente. L’opposizione tra le due sul piano spaziotemporale è assolutamente netta: l’informazione fa leva sull’orizzontalità veloce e dunque sull’abbattimento degli spazi vuoti, delle distanze, a scapito della riflessione e dell’elaborazione dei dati; la formazione fa leva invece sulla verticalità lenta, sulla costruzione nel tempo e nello spazio di una consapevolezza compiuta e dunque capace di (auto)critica. Tutto questo, come spesso accade, è più facile che lo comprendano gli artisti che non i politici o i politologi”.

Il racconto “Corro” costruisce una eccellente base di formazione, per capire nella libertà, per discernere evitando le manipolazioni ideologiche. Abbiamo bisogno di profondità, di verità essenziale che riveli l’umano a ciascun essere.

Ricordo la dialogica interculturale di Edgar Morin che mi ha insegnato a fare attenzione alle parole utilizzate per raccontare il mondo perché il mondo rischia di diventare ciò che io stessa descrivo.

Sono convinta che il luogo della ricerca psicologica sull’umano, sugli uomini e sulle donne, è la Terra e non la nazione. Achille Mbembe, filosofo camerunense scrive su Le Monde il 24 gennaio 2017: il carattere proprio dell’umanità sta nell’essere chiamati a vivere esposti gli uni agli altri, e non chiusi in culture o identità. Penso che le parole cultura, identità, origine, confine possono diventare armi pericolose senza un contesto di visione antropologica ampia e lungimirante.

Ha ragione Edward Said, scrittore e docente palestinese, morto nel 2003: … ogni scontro di civiltà è in realtà uno scontro di ignoranze che dobbiamo cercare di ricomporre a tutti i costi, da bravi “soldati della cultura”.

Chiara Cannito compie la rivoluzione di un testo che opera una filiazione con un’altra cultura. Chiara sa e rende testimonianza dell’esistenza di patrimoni immateriali dell’umanità come le persone, le relazioni, i desideri, la condivisione dell’arte e delle storie.

Fame

Roxane Gay, Fame, Einaudi, 2018

Fame
Il libro autobiografico di Roxane Gay offre, a chi legge e comprende la sua storia di sofferenza, la possibilità di riflettere sulla relazione che ogni persona crea, coltiva e si ritrova ad avere con il proprio corpo. Roxane è una donna colta e coraggiosa che confida la sua esperienza con parole dure, feroci, scritte sulla propria carne prima che sulla carta. Senza protezione, dichiara la violenza subita nell’adolescenza, un evento terribile che segna per sempre la sua esistenza. Ed io, ogni volta che ascolto storie di aggressione e di ferite incancellabili, spero che i disturbi psicologici che ne derivano possano essere curati. L’obesità può essere considerata una patologia? Con certezza, sì. I disturbi dell’alimentazione sono diversi e di varia origine.
La vicenda umana di Roxane ribadisce che l’obesità rimane un sintomo ingombrante di un percorso mancato, anche psicologico. Non credo al corpo solo e ribelle da addomesticare, ma credo all’essere umano tutto intero con una storia da desiderare e da riconoscere nelle ombre e nelle mancanze. Ci sono molte cose di cui aver fame, il cibo è più a portata di mano. Non si tratta di dimagrire e basta, ma di farsi carico della possibilità sana di abitare il mondo perché ne siamo degni, con tutte le contraddizioni che ci abitano. Non guardo con ossessione al risultato della dieta e che, talvolta, può risultare nullo o minimo.
 
Accolgo l’orientamento dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che fa riferimento alla salute come ad uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive ed emozionali, di esercitare la propria funzione all’interno della società, di rispondere alle esigenze quotidiane, di stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, di partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, di adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.
 
Qualunque malessere psicologico necessariamente coinvolge e si esprime attraverso il corpo. Roxane Gay annota, ricorda con precisione i sentimenti, i comportamenti e le riflessioni durante la sua vita. Ha un corpo, ma lei stessa è quel corpo. Nessuno può affermare di avere una malattia senza accettare di essere, anche, diventato quella malattia. “… perdere peso, essere magri è moneta sociale corrente” afferma Roxane. Scelgo di avvicinarmi ad ogni persona in sovrappeso e obesa evitando le generalizzazioni. Un fatto è la stupidità della cultura dominante che impone la magrezza, altro problema è il peso in eccesso che ammala e che cancella la gioia di vivere.
 
La scrittrice, spesso, confonde la questione estetica e la necessità fondamentale di prendersi cura del proprio corpo, prima, e di intervenire con le cure, dopo. Se la misura è la perfezione – ogni delirio culturale ne costruisce e ne vende una – siamo tutti e tutte inadeguati/e. Se invece la misura è la dignità dell’esistenza, siamo tutti legittimamente umani.
 
Non ci liberiamo velocemente e meccanicamente dai chili in eccesso e dalle cicatrici. Ogni persona può affermare di essere quella che è riconoscendo anche la sua ombra. Attraversati dall’esperienza, ogni donna e ogni uomo riconosce di andar bene così com’è e decide, se vuole, di cambiare vecchi pensieri e abitudini obsolete. Il corpo non è la croce alla quale è inchiodato l’essere umano e non è il tiranno che ci sfida.
 
Apparteniamo ad una umanità diversa, colorata, fastidiosa e bisognosa di accudimento. È l’esistenza stessa che percepisce la gioia attraverso la corporeità, attraverso il sentimento, il pensiero e l’azione della carne. Il corpo è la comprensione della persona che cambia, che invecchia, che apprende.
Forse, naturalmente con l’età si arriva a volersi bene di più. Un percorso di coscienza e di conoscenza può agevolare, può anticipare e cristallizzare la rinascita.
 
È dura. Essere donna, nera, obesa e custodire il segreto di uno stupro a 12 anni: è la realtà. E facendosi carico di essa, ogni Roxane può scegliere di evolvere, di diventare, di capire, di dare una lettura possibile ai fatti. Ha un senso, la realtà, sempre, e bisogna che ognuno per sé trovi quel senso. Quando si acquisisce una buona relazione, una confidenza onesta con se stesse, tutte intere, il corpo sa ciò che gli fa bene e chiede e basta solo ascoltarlo, basta sintonizzarsi sul bisogno che si svela in modo chiaro. Senza sacrifici disumani, senza ingaggiare guerre fra la mente, l’anima e la carne.
 
Roxane afferma: “Ho deciso che non permetterò al corpo di dettare le condizioni della mia vita, perlomeno non tutte. Non mi nasconderò dal mondo.” Io sono convinta che il corpo non può rappresentare la parte malata di una persona. Il corpo, a 20 anni, come a 40 e a 60, certo, detta le sue condizioni. Non esiste un’altra Roxane, un’altra Me. Non credo si tratti di essere più o meno amati o innamorate per salvarsi dal sovrappeso.
 
Dubito che dal sovrappeso e dall’obesità ci si possa salvare assumendo la convinzione di un corpo avverso, nemico, barricato nella ciccia. Invito a non violentarsi, evitando di perpetuare lo stupro su se stesse. È bello convincersi in ogni età della vita che è fondamentale l’equilibrio fra il sonno, l’alimentazione, la sessualità, intesa non solo come rapporti sessuali più o meno amorosi ma, soprattutto, come la confidenza affinata con il corpo e la cura di esso. È il ruolo della guida psicologica: la rabbia, la tristezza e la paura non sono sfidate e rancorosamente negate, ma sono riconosciute e accolte, in modo da diventare una guida per la rinascita.
 
Grazie, Roxane, per la fatica di questa testimonianza scritta.
Lucifero

La salute psicologica del giocatore d’azzardo

Lucifero

Lucifero, Franz von Stuck  (1889-1890)

 

Faites le jeu, messieurs! Rien ne va plus? È la voce del cerimonioso croupier, amico d’inferno, testimone impassibile di derive umane che oggi è sostituita dal rumore musicale delle macchine.

Con questo scritto ordino il lavoro di preparazione svolto per un intervento informativo sulla ludopatia, in una scuola superiore. Parlando ai minori quindicenni ho modificato il linguaggio e gli esempi insistendo sulla sana strutturazione del tempo e sulle buone pratiche quotidiane. Mi occupo di prevenzione e nel territorio ampio di questa rimango. La riflessione psicologica e culturale che propongo non è risolutiva, precede ma non corrisponde al lavoro clinico e psicoterapeutico.

Fëdor Dostoevskij è il maestro: egli ricerca la verità assumendo come guida l’errore. Lo Scrittore russo spende la sua vita a cercarne il senso, è un moderno ed evoluto ulisse, slegato, con i sensi pericolosamente attivati e rapito dinanzi al richiamo di immortali sirene, nella possibilità di perdere. Quindi, condannato ad essere mortale e libero. Ha già vinto e con lui vince ogni essere umano nella tensione alla conoscenza e nell’affondo della coscienza turbata.

Forse, oltrepassando una tal quantità di sensazioni, l’anima non si sazia, ma ne è solo eccitata ed esige altre sensazioni, via via sempre più forti, fino allo stordimento finale. (Dostoevskij:192)

L’Autore è costretto a firmare un contratto capestro con l’editore Stellovskij e, grazie all’aiuto di Anna Grigor’evna Snitkina, la stenografa a cui detta in ventotto giorni il testo de Il giocatore, riesce a consegnare il nuovo romanzo. Non riesce, invece, ad allontanare il demone della roulette, del biliardo e delle carte. La febbre, il delirio, l’attacco isterico: ogni situazione è marchiata dal gioco e l’arbitrio del caso e la sete di rischio diventano la misura di tutto. Il processo del gioco, nelle azioni ormai convulse, si impadronisce del pensiero, della pietà verso se stessi. Lo sguardo è ipnotizzato dalla roulette che gira, gira ed in ballo non è certo la sregolatezza russa o il modo tedesco di accumulare denaro con un lavoro onesto (Dostoevskij:p.75)

Apprezzo la traduzione del romanzo di Serena Prina, le parole per descrivere i numerosi personaggi, cretini in modo commovente, il “servitorame ossequioso” che usa il ricatto basato sul sesso, sul denaro, sulla calunnia. Il giocatore non è mai un giocatore e basta, non è mai un semplice scommettitore; egli è inserito in un contesto complice e nessuno più di Dostoevskij, inseguito dai debitori, ne ha analizzato i malesseri.

Per quanto fosse ridicolo che mi aspettassi tanto dalla roulette, mi sembra che sia ancora più ridicola l’opinione comune, da tutti riconosciuta, che sia stupido e assurdo attendersi qualche cosa dal gioco. E perché il gioco dovrebbe essere peggio di un qualsiasi altro modo di far denaro, per esempio del commercio?  È vero che vince uno su cento. Ma a me che me ne importa?  (Dostoevskij:58)

Penso che mi siano finiti tra le mani all’incirca quattrocento federici in nemmeno cinque minuti. A quel punto avrei dovuto andarmene, ma in me era germogliata una sorta di strana sensazione, una specie di sfida alla sorte, il desiderio di darle un buffetto, di mostrarle la lingua. Giocai la massima puntata consentita, quattromila fiorini, e persi. Quindi, tutto infervorato, tirai fuori tutto quello che mi era rimasto, puntai la stessa somma, e persi di nuovo, dopo di che m’allontanai dal tavolo come stordito. (Dostoevskij:72)

Il gioco d’azzardo, in fondo, è una possibilità di vedere il mondo e di provare a possederlo. Credere alla sorte, sfidare la fortuna, fregare la povertà: il giocatore vuole conquistare tutto velocemente e non comprende la curiosità e la fatica dell’opera della propria esistenza da completare attraverso un percorso più o meno difficoltoso. Vuole vincere. E perde. Ha già perso prima del risultato perché non gode. Chi si diverte, può essere che vinca e che si allontani. Il giocatore, invece, rilancia, vuole strafare e i suoi occhi sono sbarrati su un nulla che fa le capriole. La sregolatezza, all’inizio, è solo una cattiva abitudine. Spesso, in origine, non è detto che ci siano malesseri psicologici ma solo voglia di eccedere, solo esagerazioni brillanti di un bulimico di vita, di un ubriaco di sensazioni forti. Bisogna prestare attenzione e rimanere vigili perché il processo del gioco si impadronisce di chiunque. Riconosco il piacere morboso di rendersi oggetto, schiavo di un’azione ossessivo compulsiva che porta il nostro Autore ad impegnare il cappotto e i pochi gioielli della compagna. Non può che ripetere l’atto della giocata, condannandosi in una foto statica dell’eterno presente.

Io, certo, vivo in uno stato d’ansia costante, gioco le somme più piccole e aspetto qualcosa, faccio calcoli, me ne sto per giornate intere accanto al tavolo da gioco e osservo il gioco, persino in sogno vedo il gioco, ma con tutto ciò ho l’impressione di essermi in qualche modo irrigidito, come se mi fossi impantanato in chissà che fanghiglia. (Dostoevskij: p.221)

La Kamorka è il bugigattolo, il ripostiglio, la stanzetta in cui spesso i miserabili di Dostoevskij vivono anche mentalmente. Anche il giocatore contemporaneo ha la sua Kamorka,  obbligandosi a rifugiarsi nello spazio esiguo che finisce per imprigionare il corpo e la mente, nell’attesa dell’evento eccezionale, sentendosi destinato ad una quotidianità fantasmagorica, sopra le righe. Il giocatore rifiuta il confronto con la realtà, la tiene a bada, si convince che deve piegarla. Al centro del processo che sottende la giocata ci sono sempre molteplici problematiche relazionali serie e irrisolte. Senza il governo di sé, il caso si impadronisce irrimediabilmente di ogni individuo.

Dalla ludopadia si può guarire. La malattia non sempre segna la fatale, ineluttabile, predestinata fine del malcapitato. Tengo conto della ricerca dei colleghi psicologi psicoterapeuti che leggo nel Notiziario dell’Ordine: Molti individui, … si affidano al pensiero magico che vede nella vincita e nel rito della giocata la risoluzione di una serie di problematiche. L’analisi economico/sociologica del campione ha lasciato emergere che la maggior parte dell’utenza afferente al servizio appartiene alla cosiddetta “fascia debole”: giovani, adulti con difficoltà a reinserirsi nel contesto lavorativo, donne, famiglie poco abbienti. Per queste persone, quindi, il pensiero magico è il solo “faro” verso una rotta che però li conduce, come dei false friends, a deragliare dal contesto sociale finendo per rovinarsi nel tentativo di fuga da una realtà troppo dolorosa, … La terapia famigliare è importante e soprattutto il lavoro di gruppo – affermano i colleghi – attiva una “sfida” a cui il giocatore è molto legato, cioè essere “vincente” nel gruppo stesso. Il gruppo diviene quindi contenimento e sfida perché la ricaduta è vissuta come un’ulteriore “perdita”.

Considerando gli scenari raccontati, forse, la condanna delle sale da gioco può diventare una beffa, esprimendo unicamente una lotta di potere fra le parti che evitano la pre-occupazione, il preoccuparsi prima, del giocatore. La legge pare contro l’imprenditore, quest’ultimo, spesso, è contro lo psicologo, la chiesa è contro il peccato, tutti si esprimono contro tutti.

Chiedo nella discussione di uscire dalla logica binaria della giocata, del vincere o perdere, della contesa, del proibizionismo per evitare il meccanismo di difesa dello spostamento. In psicologia, lo spostamento è il processo automatico e inconscio attraverso il quale una minaccia interna, derivante da un impulso inaccettabile, viene spostata su un oggetto sostitutivo. Il legame tra i due oggetti è simbolico e inconscio. Attraverso lo spostamento questa minaccia, che non è stata evitata per mezzo della rimozione, viene ora avvertita e riconosciuta come un pericolo esterno, non più apparentemente connesso all’impulso interno inaccettabile. Le fobie dell’aids, del fumo, dell’alcol, dei medicinali, di una certa alimentazione, come la fobia del gioco, spostano l’indagine dall’umano alla rivendicazione di un illusorio potere sociale.

Di conseguenza, a favore del pensare assieme, desidero ampliare la prospettiva che prevede solo l’ambivalenza del torto e dell’opposta ragione. Scelgo di accogliere una teoria e una metodologia di educazione Alla persona, verso e a favore di questa che preveda il divenire e il processo di ampliamento di sé. Per la società, la persona con le fragilità e i vizi umani non può rappresentare un problema da risolvere. L’essere umano non è solo un peccatore da redimere, un poveretto da ammaestrare, uno sciamannato da beccare ed escludere. Credo in una nuova antropologia che accompagni la maturazione benedicendo il processo spesso complesso di evoluzione che passa sia attraverso comprensioni immediate, sia attraverso apprendimenti difficili. Amplio la visuale e l’attenzione dalla chiusura, dall’allontanamento e dalla conseguente ghettizzazione delle sale da gioco alla presa in carico della prevenzione, dell’accompagnamento dell’essere vivente a diventare umano e felice non nonostante la propria fragilità, ma attraverso di essa.

L’ipotesi alla base dei miei interventi di prevenzione è che l’attrazione per il gioco compulsivo sia un derivato dello stile di vita, ancora ben radicato, maschilista e padronale, dannoso e distruttivo per gli uomini e per le donne coinvolte, il quale sciaguratamente richiede di essere vincenti, forti, ricchi, accettati, famosi a tutti i costi. La credenza errata molto diffusa è che chi ha i soldi ha il potere e che la dignità personale è legata a quanto si è capaci di guadagnare! Altrimenti si è fuori gioco! Si diventa un arrivista sfidante oppure si rimane uno sfigato senza vacanze glamour.

La salute psicologica riguarda, invece, l’accettazione di una esistenza talvolta modesta o di periodi di vita con possibilità di spesa ridotta rispetto ai desideri. Nell’attività lavorativa svolta, la persona sana accoglie anche i risultati minimi rispetto a quelli attesi. Il benessere psicologico consente di farsi carico di ciò che si è e si va diventando nella propria storia, differenti e molteplici, mai rispetto ad altri, stretti in valutazioni che nello sforzo della definizione finiscono per ingabbiare. Di conseguenza, le attività da svolgere nella prevenzione, e intuisco anche nella cura, sono culturali e psicologiche assieme. Ci ammaliamo nella formazione intellettuale, oltre che nell’anima e nel corpo.

Il giocatore o la giocatrice possono divenire consapevoli dei propri stati emotivi e più forti rispetto al sintomo riuscendo a gestirlo, solo analizzando la visione di vita, il copione personale, la mentalità rispetto a se stessi, agli altri, alla vita. Vivere non significa solo guadagnarsi da vivere ed è, quindi, importante indagare il rapporto di ogni essere umano con il denaro e con il significato della parola successo.

Il processo che rende libera e autonoma una persona non prevede proibizioni, punizioni, esclusioni, valutazioni che facilitano il processo di cosificazione di sé e dell’umano. La maturazione è frutto di riflessione, di tempo trascorso presso di sé, magari con una guida nella comprensione dei sotterranei dell’anima.

Domani, domani tutto finirà: è la chiusa del romanzo e Dostoevskij ci credette.

Al centro rimane ogni persona con la sua ricerca tormentata di una difficile felicità. La prevenzione è il tempo fra la coazione a ripetere e la strutturazione psicologica definitiva del giocatore che non si diverte più, che ha perso la gioia. Considero sacro, quel tempo, dal latino sacer, il tempo dell’essere umano che viene al mondo per creare coscienza e che chiede il sacrificio della consultazione a più voci e dell’indagine profonda.

 

Riferimenti bibliografici

  • Ricco, Tambone, Taranto, GAP L’infelicità di “vincere facile”, Psicopuglia, Notiziario dell’Ordine degli Psicologi della Puglia, giugno 2018, vol.21
  • Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, Feltrinelli, 1941, 2017
  • Sigmund Freud, Shakespeare, Ibsen e Dostoevskij, Bollati Boringhieri, 1946, 1976
  • Aldo Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani, 1993

 

L'Offerta

La relazione di Consulenza e il fastidio della Profezia. Da Cassandra, archetipo della maga, a Ecate, dea psicopompa

 L'Offerta

L’Offerta (Il miracolo delle rose) – Wilhelm List (1880-1971)

 

1. Il copione scelto da sè

“Una cosa soltanto non riesco a capire” disse la Pizia. “Che il mio oracolo si sia avverato, anche se non come Edipo se l’immagina, è frutto di una incredibile coincidenza; ma se Edipo ha creduto all’oracolo fin da principio e se la prima persona che ha ucciso è stato l’auriga Polifonte e la prima donna che ha amato è stata la Sfinge, se questo è vero, come mai non gli è venuto il sospetto che suo padre fosse l’auriga e sua madre la Sfinge?”.

Perché Edipo preferiva essere il figlio di un re piuttosto che il figlio di un auriga. Il suo destino se lo è scelto da sé” fu la risposta di Tiresia. (Friedrich Dürrenmatt 1988: 63)

Mi incammino nella costruzione di sé come Persona, uomo e donna, riflettendo sulla responsabilità che ogni essere umano assume nelle proprie scelte di vita, sull’autorità della consulenza e sulla potenza della relazione di éros. Considero la libertà come il lavoro di consapevolezza.

Esercitare il discernimento e la capacità critica nella relazione di consulenza serve, ma non basta. La parola profetica si manifesta quando si incontrano la nudità, l’autenticità delle persone coinvolte e la realtà della situazione aziendale. Il/la consulente è strumento di analisi e di comprensione e mai indovina disegni divini e destini di popoli. Il rischio è che sentenzi e che pontifichi sulle teste degli altri, assoggettati, alienati dentro un pericoloso triangolo drammatico in cui riconosco la teatralità dei ruoli di Vittima, Persecutore, Salvatore e dei giochi psicologici, ma in cui non rilevo la profondità dell’intesa. La relazione profetica non ha funzione salvifica, non svela una sorte predetta, diviene la scelta consapevole e “ri-conosciuta” di una dimensione ontologica dell’essere umano.

La chiaroveggenza è legata a illusorie capacità del/la consulente che non può, in nessun caso, predire il futuro. L’arte della divinazione presuppone che le conoscenze dichiarate  provengano da una fonte soprannaturale, da una divinità. La professione di consulente aziendale può esprimersi come profezia unicamente prendendosi cura della spiccata perspicacia intellettiva ed emotiva degli esseri umani, nelle relazioni sane. La profezia non si basa su una generica previsione del futuro, ma richiede l’analisi profonda della situazione e ragionamenti sulle diverse prospettive, in un contesto di intrecci comunitario.

In azienda, il/la consulente non parla in nome di un dio, ma crede nella relazione paritaria e può realizzare una possibile deità riconfermando, così, la natura divina dell’umanità.

La profezia richiede il senso del limite, essa è eccedenza di pensiero e, di conseguenza, esige il perimetro segnato. “La Pizia lasciò aperto il portale principale, salì sul tripode e aspettò la morte…Sentendo la morte vicina, crebbe la sua curiosità.” (F.Dürrenmatt,p.25). Quando l’essere umano si riappacifica con il limite, diviene curioso, chiede di conoscere. È dal senso della propria caducità che prendono forma il sapere e il sapere profetico.

La nostalgia e l’assenza come Stimmung, come stati d’animo, la conoscenza come moto del cuore e della ragione rappresentano le radici della Consulenza espressa con la parola profetica. L’essere umano ha un corpo ma, anche, ogni persona è corpo; quindi, non solo si esprime e vive corporalmente ma, anche, permanentemente, sente, pensa e agisce con il corpo che diviene, se ascoltato, profetico. Cogliere, registrare, decodificare i linguaggi dei corpi negli spazi aziendali serve non solo ad evidenziare i sintomi e le disfunzioni nelle interazioni fra individui, al fine di proporre una diagnosi ma, anche, ad offrire diverse e più complesse letture della cultura organizzativa dolente.

Le persone possono diventare strumento di profezia, impegnandosi a creare consapevolmente relazioni libere dagli inganni e dalle dinamiche di potere. Solo nella esperienza della noità, i lavoratori e lavoratrici, in ogni ruolo, divengono capaci di intimità e risolvono le Ingiunzioni categoriche come “Non appartenere”, “Non ti fidare”, “Non sentire”. La voce profetica mantiene un timbro, un colore affettuoso e collaborativo, mantiene il tono di voce, l’intenzione di chi fa il tifo per sé, per le altre, per gli altri, per l’impresa comune.

Nella consulenza che può divenire profetica, il cammino è precario, opera nella zona indistinta fra dentro e fuori, fra luce e ombra, fra certezza e immaginazione, fra intuizione e realtà, fra permesso e protezione. Praecarius prevede una prex, una preghiera, di desiderio e di gratitudine, diversa dalla quaestio, con la quale si chiede per ottenere ciò che si vuole. Il cammino consulenziale, dunque, predispone a due generi di conoscenza, una didattica che deriva dal sapere, l’altra iniziatica che richiama la coscienza e l’utilizzo adeguato dell’intelligenza sociale, mettendo a servizio della comunità quello che si conosce. Il mistero, la noità, nella relazione profetica, non sono legati alla segretezza gelosa dell’esperto, ma all’azione gioiosa nell’esperienza, anche ammutolita.

Nel cambiamento aziendale, la professionalità non conta solo di insegnare, di interrogare, spiegare, punire ma, soprattutto, riconosce una disposizione alla ricezione, al patire dell’apprendimento, alla riflessione come tecnica di lavoro che conduce all’instradamento.

2. La vista profetica

“Pannychis” disse il veggente in tono paterno “solo la non conoscenza del futuro ci rende sopportabile il presente. Mi sono sempre stupito e continuo a stupirmi immensamente che gli uomini siano tanto smaniosi di conoscere il futuro. Sembra quasi che preferiscano l’infelicità alla felicità. D’accordo, noi due abbiamo approfittato e addirittura vissuto di questa propensione degli umani, io, lo riconosco, assai più agiatamente di te, anche se non è stato facilissimo recitare la parte del cieco per la vita di sette generazioni che gli dèi hanno voluto donarmi. Ma sono gli uomini a volere che i veggenti siano ciechi, e i clienti, si sa, non vanno mai delusi. (Friedrich Dürrenmatt 1988: 41)

Per illustrare il lavoro consulenziale le figure femminili della mitologia, Cassandra ed Ecate, richiamano le professionalità di uomini e di donne che prevedano, nelle attività organizzative, l’accoglienza convinta, l’ascolto competente, l’accompagnamento studiato, la centralità della Persona, la risoluzione dei narcisismi, la sostituzione del potere con la potenza del patire, la comprensione, il coinvolgimento e la compromissione. Il percorso da Cassandra a Ecate racconta il passaggio dal furor sanandi, cioè, dalla presunzione e dalla fretta dell’esperto che sa e che offre spiegazioni e risoluzioni al cliente ignorante, verso la/il professionista che accompagna, che evolve assieme al cliente, in una viandanza gioiosa di ricerca profonda.

Cassandra, figlia di Priamo e di Ecuba, riceve da Apollo il dono della profezia che perde dopo aver respinto l’amore del dio: nessuno più le crede.  Non persuade i concittadini quando prevede che Paride provocherà la rovina di Troia, né quando svela che il ratto di Elena si risolverà in un disastro, né quando con Laocoonte cerca di impedire il trasporto in città del cavallo di legno, lasciato dai Greci sulla spiaggia. Ella profetizza inutilmente il destino di Enea e, come preda di guerra, toccata in sorte ad Agamennone, predice la di lui imminente uccisione. L’infelice schiava Cassandra finisce, infine, trafitta da Clitennestra.

Per Cassandra le situazioni sono motivo di una continua scoperta e rivelazione, assumendosi la responsabilità degli accadimenti che prevede. La donna è maga e l’uomo diviene Cassandra, possedendo una sorta di stupore umile nel rendersi conto di essere solo una piccola parte dell’umanità, uno strumento di svelamento. Cassandra vede la vita come un processo e propone, come antidoto ai malesseri, l’autocoscienza assieme alla capacità di espressione e affermazione di sé.

La consulenza difende non il potere su qualcuno, ma la potenza, l’energia di produrre il pensiero e il cambiamento. La consulenza che deriva da Cassandra appare folle perché si allontana dalla tecnica del problem solving, perché rompe ogni logica convenzionale, lineare, di azione e reazione scontata e di gravità. La/il consulente svela che nella vita aziendale bisogna esserci. Semplicemente, esserci, perché si assuma un nuovo modo di vedere, diverso dalle mentalità obsolete e bigotte. Spesso, Cassandra non viene creduta.

Essere profetica significa non solo vedere e pre-vedere, ma accompagnare l’altro/a perché si renda conto e perda la cecità interiore.  È importante che io capisca ma, ancor più, che l’altra persona arrivi alla comprensione, con i suoi tempi e con meno dolore possibile. Spesso, come consulente, il dolore della crescita, non posso risparmiarlo.

3. La parola profetica

Richard Wilhelm si era trovato in un remoto villaggio cinese colpito da una tremenda siccità. Gli abitanti avevano fatto di tutto per mettervi fine, ricorrendo a preghiere e a incantesimi di ogni sorta, ma sempre invano, sicché gli anziani del villaggio avevano detto a Wilhelm che l’unica soluzione possibile era di far venire un mago della pioggia da lontano. La cosa interessò enormemente Wilhelm, il quale era riuscito ad essere presente all’arrivo del mago della pioggia. Questi, un vecchietto grinzoso, era giunto a bordo di un carro coperto. Scesone, aveva fiutato l’aria con espressione disgustata e quindi chiesto che gli fosse assegnata una capanna alla periferia del villaggio, ponendo come condizione che nessuno lo disturbasse e che il cibo gli fosse lasciato fuori dell’uscio. Per tre giorni non se n’era saputo più nulla. Poi, il villaggio era stato svegliato da un vero e proprio diluvio; era persino nevicato, cosa del tutto insolita in quella stagione.(…)

Wilhelm, rimastone grandemente impressionato, era andato dal mago della pioggia uscito dalla sua volontaria reclusione, al quale aveva chiesto meravigliato: «Sicché, tu puoi far davvero piovere?».  Il vecchio s’era messo a ridere rispondendo che «naturalmente» non poteva far piovere affatto. «Ma finché tu non sei venuto» gli aveva fatto osservare Wilhelm «c’era una terribile siccità. Poi passano tre giorni, ed ecco che si mette a piovere». E il vecchio: «Ma no, le cose sono andate in tutt’altro modo. Vedi, io provengo da una regione dove tutto procede per il meglio, piove quando è necessario e fa bel tempo quando occorre, e anche la gente è a posto e in pace con se stessa. Non così invece con la gente di qui, la quale è fuori dal Tao e fuori di sé. Quando ho messo piede nel villaggio sono stato subito contagiato, per cui ho dovuto starmene da solo finché non sono tornato nel Tao, e allora com’è ovvio s’è messo a piovere.» (Barbara Hannah)

Nelle aziende non ci sono maghi che agitano il bastone della pioggia e dell’abbondanza nel deserto. La mente in ricerca, il cuore ben disposto, il corpo liberato, la comunità in armonia possono magicamente favorire che la realtà accada, riconoscerla e accoglierla nei suoi fenomeni.

La magia è basata su ciò che Carl Gustav Jung chiama sincronicità, fra macro e microcosmo. Sincronicità si riferisce alle coincidenze significative, ovvero ai collegamenti privi di causa. La consulenza legata a Cassandra consente di conoscere la sincronicità.

In un cammino in progressione, le Martiri imparano a far posto al dolore, le Guerriere alla paura, le Viandanti apprendono la solitudine e le Maghe, come Cassandra, arrivano a far posto alla comprensione e al completamento di sé.

Continuando, il percorso di consulenza riconosce Ecate, levatrice ed esploratrice della psiche, multiforme dea psicopompa. Quest’ultima parola deriva dal greco ψυχοπομπóς, da psyche, anima e da pompós, colui/colei che accompagna.

Ecate “che ha candida mente” (Esiodo), custodisce e presiede i crocevia, in particolare, i trivi, incroci di tre vie. Il crocicchio è il luogo in cui si raccolgono le energie, è occasione di scelta ed è espressione di libertà, di intenti e di destini diversi. Ecate, dea psicopompa, con la sua torcia, accompagna verso la luce dell’interiorità. Essa ascolta e protegge chi è sulla via, aiutando a scegliere il percorso adeguato, meno rischioso.

In alcune rappresentazioni, Ecate appare con tre teste che guardano, ognuna, in una diversa direzione: forse la destinazione umana di vita, morte e rinascita o, forse, l’espressione della Terra, del Mare, del Cielo. Essa contiene in sé l’infanzia, la maturità e la vecchiaia e, attraverso le tenebre e le viscere scomode dell’analisi, è guida verso la conoscenza e la consapevolezza. Sono suggestivi gli appellativi che ad Ecate vengono attribuiti negli scritti esoterici greci, di derivazione egiziana, con riferimento a Ermete Trismegisto.

E ciò mi induce a pensare alle espressioni che la consulenza può assumere nelle attività di analisi, di diagnosi e di cambiamento della cultura organizzativa.

Chtonia, appartenente al mondo sotterraneo
Antaia, colei che  incontra
Apotropaia, protettrice
Enodia, dea che appare sulla via
Kourotrophos, nutrice di fanciulli
Propylaia, colei che sta davanti alla porta
Propolos, colei che serve
Phosphoros, portatrice di luce
Soteira, sapiente
Triodia/Trioditis, che frequenta i crocicchi
Klêidouchos, che porta le chiavi
Trimorphe, triplice

 

Il dono della profezia che da sempre accompagna le sciamane è legato alla capacità terapeutica. La persona che vede, pre-vede e cura. Prima ancora dell’alterità, vede la ipseità. Con questo affermo che non posso vedere l’altra persona se non vedo me stessa. Se manca la coscienza del mio copione, rischio di incontrare l’altro essere umano in una relazione simbiotica, di potere.

4. L’azione profetica nella cura

Ho riflettuto sugli esseri umani e li ho interrogati prima di sottoporre ad essi il mio enigma e farli sbranare dalle mie leonesse” rispose la Sfinge. “Mi interessava sapere come mai gli uomini si lascino opprimere: per amore del quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce addirittura a inventarsi le teorie più assurde per sentirsi in perfetta sintonia con i loro oppressori, come del resto gli oppressori escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere gli individui su cui esercitano il loro dominio. (Friedrich Dürrenmatt 1988: 53-54)

L’accompagnamento richiede la cura di sé e del cliente. Arrivo ad utilizzare la parola “cura” oltre i pregiudizi, gli inganni e le menzogne ideologiche.  Finora, la cura ha abitato le donne e il femminile ed ha significato subalternità, dedizione, costrizione, servizio, abnegazione amorosa, “se no, non mi ami!”. Capisco e condivido il pensiero di Luisa Muraro, filosofa della differenza, che manifesta con determinazione la paura preventiva, ricordata da Letizia Paolozzi (2013: 21) nel suo libro.

Noi donne sappiamo bene cos’è la cura. Senza conflittualità radicale verso l’ordine esistente, la cura diventa un fare di una minoranza di uomini buoni che vogliono salvarsi l’anima, e noi li ammiriamo, e di una stragrande maggioranza di donne che, in gran parte non liberamente, lo fanno.  Io comunque no! Allora ripeto “la cura no”, lo dico nel senso che se è fuori da ogni prospettiva, da ogni intreccio con conflitto ed eros, io dico “la cura no”; in una cosa statica come quella che io sento ogni tanto venir fuori qui, dissertazioni su qui e là, in questa cosa statica io dico “la cura no”. Poi diciamo: noi la cura la intendiamo così, la intendiamo colà, l’eros lo intendiamo così. Io voglio vedere praticamente questi discorsi dove vanno.

La cura non è quotabile ed è parte della dimensione umana. Il lavoro è che ciascuna persona, per sé, riscopra questa dimensione. Aggiungo, rispetto alla filosofa, che la cura non è solo oblatività femminile, ma può diventare senso della relazione che non si dà senza l’attenzione e l’impegno. E ripenso a Penelope, dalle mille tele: ha risolto la pars destruens di sé che la portava a sfilare la sua opera, mentre ora tesse, giorno dopo giorno, coperte dai mille colori, dicendo sì e no o forse, vediamo.

Nella Comunità di Ricerca si può immaginare un ordine simbolico diverso da quello del dominio, della competizione, dello sfruttamento, attraverso la riformulazione dell’idea di cura. Constato che esistono: il personale a pagamento, i servizi organizzati, il welfare statale. A questo c’è “un resto”, un valore aggiunto, un di più, dato dalla predisposizione sana di ogni persona ad accorgersi dell’altro/a e a farsene carico. La cura, oltre il profitto, oltre il rischio di manipolazione e di sfruttamento, richiama un linguaggio arcaico, non oggettivo né scientifico: – ci sono, – eccomi, – io credo, – va tutto bene.

Penso alla cura come a una diversa forma del vivere, come a un vivere consapevole e gentile, oltre il welfare statale, oltre le offerte del mercato, oltre la ricchezza e lo sfruttamento.  L’idea nuova di cura richiede prospettive di istruzione, di conoscenze, di bellezza, di godimento.

Questa Arte della Cura non è sempre monetizzabile e appartiene al cammino del divenire persona. Essere in contatto con la fragilità, con la debolezza, con la finitezza umana è la vera forza del prendersi cura. Non più azione servile di donna, ma comportamento responsabile, libero e gioioso. Non un maternage ripulito, ma l’uscita dal triangolo drammatico, la risoluzione del rapporto parassitario.

Riconosco che ci sono modi di pensare e comportamenti che aprono la strada a interazioni ricattatorie. La divinazione di un /a profeta crea sempre agitazione e, più l’armatura è coriacea, più aumenta la cattiva predisposizione a capire, perché si affaccia un sospetto di offesa, di risentimento per la consulente che porta male ed è presuntuosa, appunto, perché pre-sume.

Il sapere delle donne e degli uomini assieme in cammino, assume carattere di conoscenza intuitiva.

5. La consulenza profetica nelle organizzazioni

La cura è naturale vocazione dell’essere umano ed è servizio nel cammino di indipendenza e di autonomia di sé e dell’altra persona. La Scuola di Educazione alla Persona segue questo programma.

L’attività sana di cura non manifesta una vocazione suicidaria o da capro espiatorio ed io non accompagno ginnasti affaticati che si allenano per raggiungere un traguardo. In un cammino di consulenza, la relazione profetica non ha il ritmo sincopato televisivo, ma prevede lo scorrere (ῥυϑμός, ῥέω, rutmos, reo) nel tempo e nel movimento della consapevolezza acquisita.

La consulenza e la profezia coniugano il senso di realtà e la ricerca disciplinata; esse sono uno sguardo e una voce al servizio della comprensione e della crescita. Vedere il prossimo, vedere la situazione, richiede autonomia e governo di sé. Visionaria è la prospettiva che si fa diversa, comprensiva, comunitaria. Avere le traveggole, inventare e vendere vincite e successi o disgrazie e destini tragici rappresenta, invece, l’inganno vero e l’illusione. Per questo, la consulenza profetica presuppone un contratto psicologico ed economico chiaro, onesto e condiviso dalle parti.

In azienda, coltivare la sensibilità di pre-vedere il cambiamento, significa anticipare la cura e attivare la protezione. Con una guida competente, si può identificare il fine ultimo per cui un’azienda esiste e pensare ad una progettualità lunga, sapendo che, durante il percorso, potranno modificarsi numerosi obiettivi. Il télos risponde alla domanda: che senso ha? perché l’azienda esiste? L’obiettivo si pone come l’azione da perseguire: che cosa facciamo?

Nella consulenza aziendale sono desiderabili le visioni e le deduzioni logiche, il favorire il pensiero a lungo termine, l’essere rassicuranti con i/le lavoratori/trici, l’esercizio del dialogo, la pratica dell’argomentare e del problematizzare, le comunicazioni che aprono.


Conclusioni

  • L’intesa onesta fra le parti, la visione del lavoro come strumento di liberazione e di felicità e le scelte a favore di una comunità, fatte in modo naturale, possono creare humus prolifico a favore della relazione profetica.
  • La professione di consulente aziendale può esprimersi come profezia prendendosi cura della spiccata perspicacia intellettiva ed emotiva degli esseri umani nelle relazioni sane.
  • Il cammino studiato accompagna dall’analisi di sé e del proprio copione, alla ricaduta sul gruppo e sull’azienda. Dalla scelta di creare una Comunità di Ricerca, attraverso una noità che consente di prevedere tramite intuizione, cuore e intelligenza. Ci incamminiamo partendo dalla situazione reale e assumendo la cura, come destino ontologico degli esseri viventi. Di qui, solo, si ampliano le espressioni degli ii personali, gruppali, organizzativi.

Ci sono luoghi che facilitano immagini e parole profetiche: è il caso della Stazione Marittima di Salerno, progettata da Zaha Hadid. È qui che il 19 ottobre 2017, per qualche ora, abbiamo esercitato l’arte della riflessione, con le persone presenti e con quelle desiderate e pre-viste che ci raggiungeranno in tempi e in luoghi diversi.

Il reading di Nabil Salameh, in collaborazione con Marthia Carrozzo, è servito a trattenere il fuoco dentro: è parola ed è voce umana e va a scoprire sorgenti d’acqua nelle profondità di ogni persona. Auscultare: come discorso di intimità e di mistero, predispone a divenire strumenti di Profezia.

Sono grata a Enza Chirico per il tempo benedetto dei nostri incontri, per i libri e per i pensieri condivisi.

 

Riferimenti bibliografici

  • Friedrich Dürrenmatt, La morte della Pizia, Adelphi, 1988
  • Erika Maderna, Medichesse, La vocazione femminile alla cura, Aboca, 2014
  • Luigina Mortari, Aver cura d sé, Bruno Mondadori, 2009
  • Luigina Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina Ed., 2015
  • Letizia Paolozzi, Prenditi cura, et al/ Ed., 2013
  • Barbara Hannah, Vita e opere di C.G.Jung, Rusconi Ed., 1980
  • Carl Gustav Jung, La Sincronicità, Bollati Boringhieri, 1980
  • Esiodo, Teogonia
  • Carol S. Pearson, Risvegliare l’eroe dentro di noi, Astrolabio, 1992

 

 

il vecchio e il mare

Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, Mondadori, 1952, 2017

il vecchio e il mare

Nella sua ultima pubblicazione “Diventare se stessi”, Irvin Yalom, psichiatra americano che stimo, racconta del ritrovamento di alcune lettere inedite di Ernest Hemingway all’amico Buch Lanham. Gli scritti riletti dallo psicoterapeuta offrono una lettura puntuale della psiche dello Scrittore, premio Nobel, suicidatosi nel 1961. Yalom dichiara: “… uomo estremamente problematico, con pulsioni accanite, che in preda a una psicosi depressiva paranoide si è ucciso all’età di 62 anni” (p.192). Scelgo di rileggere Il vecchio e il mare, non certo alla ricerca del disturbo psicologico, ma con un sentimento di lettrice compassionevole, condividendo lo sguardo e l’ascolto di Fernanda Pivano che all’Autore si dedicò, incontrandolo fra Venezia, Cuba e Cortina e che, appassionatamente, tradusse in italiano le sue opere.

Il romanzo racconta del vecchio cubano Santiago, sfortunato da mesi nella pesca e del suo giovane apprendista Manolin, consigliato malamente dai genitori di accompagnarsi a più esperti pescatori. Santiago, da solo, decide di avventurarsi per sfidare la malasorte e per rivendicare la sua professionalità. Finalmente, un gigantesco marlin abbocca all’amo e, per tre giorni, l’abile pescatore, con forza sovraumana, richiama il pesce verso lo scafo e riesce ad ucciderlo. Purtroppo, sulla via del ritorno, la carne del marlin attira gli squali, lasciando dietro di sé un’abbondante scia di sangue. Santiago è presente fino in fondo nella sua guerra, ma arriva in porto con pochi brandelli. Sfinito e rancoroso, il vecchio lascia la grande carcassa attaccata allo scafo e si addormenta, mentre molti, accorsi sulla spiaggia, ne ammirano l’impresa.

“Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L’hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand’era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?” (p.77)

È stanco il vecchio, è stanco dentro e sanguinante nelle mani che imbrigliano la preda, attraverso le funi solide e le azioni fiere. Il marinaio torna vincitore avendo perso e dichiara che: “… l’uomo non è fatto per la sconfitta… l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”. La pesca è scarsa, ma in quella barca vuota, è in gioco la dignità.  “Pesce resterò con te fino alla morte” decide Santiago che non può accettare l’atto incompiuto. Il grande marlin che abbocca è la condanna che lo immobilizza nel moto all’infinito dell’attesa: deve farcela, non deve mollare, deve dominare l’enorme corpo del pesce conquistato, solo così potrà ancora essere vivo.

“Come vorrei che ci fosse il ragazzo”, è la parola ripetuta come un mantra, una preghiera, una sfida, come il rimpianto per il puer che vive dentro, disperso. È Manolin che si prende cura del vecchio amico, consentendogli di rinnovare la speranza, di sentirsi esistere.

Non azzardo diagnosi sull’Autore, ma riconosco l’odore e il sapore salato della tristezza, il colore scuro dell’impotenza, la consegna alla realtà che non è rassegnazione, ma è fiducia ultima nella vita, comprendendo anche la morte.

Hemingway ribadisce che, in fondo, l’uomo non vince mai ed è la fatica che importa e che rimane motivo di orgoglio. Da psicologa rifletto sulla vecchiaia come una condizione dello spirito, determinata non solo dagli anni, ma dal carico di fatica e di amarezza e mi soffermo sull’ordine patriarcale “Metticela tutta” con il quale io stessa, ancora, faccio i conti. Capisco che, talvolta, può valere la scelta di smetterla di sforzarsi, di insistere, di riprovarci. Seguendo il pregiudizio antico ed obsoleto, non è da uomo, è davvero da donna l’apprendimento di lasciare andare, ad un certo punto. La proposta per ogni persona in evoluzione è di scambiare l’ordine “Io devo sforzarmi” con la possibilità “Io posso sforzarmi, se desidero. Oppure, no”. Recupero, così, la parte sana della maledizione copionale. Provarci ancora e ancora e crederci, non per vincere, ma perché non c’è un’altra vita, per fedeltà alla vocazione di essere umano e di pescatore. Non è la lotta, è il naturale lavoro di chi, vecchio, desidera concludere. È l’inutilità della bellezza.

E, allora, la pesca diviene un pretesto, un mezzo per continuare a conversare fra sé e l’eterno. Il mare ne è la misura, a registrare il momento massimo della coscienza. Non è il vecchio, è la vecchiaia come esperienza di vita che cerca la risoluzione, il guadagno, la chiusura giusta. È che quella lisca di pesce enorme ha un prezzo altissimo. Ed è solo una carcassa. È l’ombra di ciò che sarebbe dovuto essere. È il riflesso scarno di un’azione faticosa e vitale. Rimane il segno. Lo scheletro forse non basterà a raccontare lo sforzo, il coraggio, la fede, la ragione del viaggio. Accolgo e attraverso la vecchiaia come esperienza, non da vecchia, infine, in autonomia e senza ricatti dell’ordine genitoriale, continuando a sognare i leoni.

Armeni

Ritanna Armeni, Una donna può tutto, Ponte alle Grazie, 2018

Armeni

La Storia senza le revisioni ufficiali racconta le scelte dolorose delle donne, la paura, l’umiliazione, la tristezza, la vergogna della morte. La giornalista e scrittrice Ritanna Armeni incontra Irina Rakobolskaja, vice comandante del 558° reggimento che, durante la seconda guerra mondiale, con le sue compagne, ferma l’avanzata dei nazisti verso Mosca. La vegliarda ricorda e confida la storia di quel “gruppo di giovani che volevano a tutti i costi una parità che pareva impossibile, un’emancipazione che superava ogni limite e che alla fine ce l’avevano fatta” (p.35).

Irina ricorda la bruna cantante lirica Raskova che incontra e convince Stalin a costituire i reggimenti di sole aviatrici selezionate e addestrate per il bombardamento notturno. Seguendo i fatti, non considero “il piccolo padre” della nazione sovietica un conoscitore e, men che mai, un promotore dell’emancipazione delle donne. Marina e Joseph, l’una inconsapevolmente, l’altro per opportunismo, inaugurano i tre reggimenti delle streghe della notte.

Molte donne accorrono al grido: “Care sorelle, è arrivata l’ora di una dura ricompensa: entrare nei ranghi di guerrieri per la libertà”. Nel 1942, il reggimento delle stupidine, come viene apostrofato, decide non solo di difendere il Paese, ma anche di vendicare le compagne uccise e di bombardare il nemico tedesco.

Le donne devono spicciarsi, devono essere forti e perfette, devono mettercela tutta. Devono combattere contro uomini e come uomini, non confinate al ruolo di infermiere e di telefoniste. In molte occasioni sapientemente descritte, il dimostrare di essere più degli uomini diviene un gioco al massacro, un tiro alla fune. Leggo le vicende che in modo accurato e sensibile Armeni raccoglie come un passaggio obbligato nella via di liberazione del pensiero femminista.

Ne šagu nazad! Non un passo indietro. Il comando è resistere oltre la confusione, oltre il disorientamento, oltre le sconfitte, con azioni decise per rompere e per rivendicare. Figlie della Rivoluzione, partono per la guerra, vogliono salvare la Patria, attraverso l’ostilità, lo scetticismo, la diffidenza e lo scherno dei colleghi aviatori dell’Accademia Žukovskij. A convincersi assieme che Ženščina možetvsë, una donna può tutto.

Possibile siano donne? Così brave, abili, precise, spietate? Così incuranti del pericolo? Arrivano la notte all’improvviso, seminano il terrore e poi toccano di nuovo il cielo. Misteriose, sfuggenti, inafferrabili. Sembrano streghe. Nachthexen, streghe della notte. (p.12)

Mi spiace, ma riconosco che questo è stato il cammino dolorosamente obbligato delle donne che hanno consentito l’evoluzione. A loro è toccato di diventare complici della guerra per essere accettate come uguali – perché poi il dovere di essere uguali? – ed è toccato di darsi e dare morte per un pericoloso senso del patriottismo. La Storia che desidero approfondire è anche lo sguardo dei vinti, delle persone morte di paura, dei bambini, delle streghe.

Non era loro l’eguaglianza a scuola o sul lavoro promessa dalla patria socialista, non erano stati sufficienti i manifesti che sui muri delle città e dei paesi annunciavano che le donne potevano salire sui trattori, andare nei cantieri e sugli aerei. Avevano preteso anche la parità tragica e feroce delle bombe e della morte. p.18

Mi chiedo se il cammino di autonomia di ogni donna deve naturalmente attraversare lo stadio della competizione con il maschio, per giungere, solo in seguito, alla scoperta di un territorio differente di sentimento, di pensiero e di comportamento rispetto alle regole di dominio, di prevaricazione e di uccisione. Oggi, siamo sicure che applicarci per somigliare agli uomini sia un guadagno? Siamo sicure di non perdere la nostra forza, l’energia vitale, contendendo il potere agli uomini? Come mai ancora ci importa di dimostrare che le donne possono tutto?

castellina

Luciana Castellina, Amori comunisti, nottetempo, 2018

castellina

È gradevole e convincente la Storia raccontata da Luciana Castellina, pensatrice e giornalista, iscritta al PCI nel 1947 e radiata dallo stesso partito nel 1969. Leggo di eventi che prevedono la presenza di vinti e non solo di vincitori, di uomini e anche di donne, di gente potente e miserabile, di umanità tormentata e perdente, da qualunque parte io guardi. Intuisco una Storia scritta dalle menti, dai corpi, dai cuori di ogni persona coinvolta, giacché “il comunismo è colmo di errori e di orrori, ma anche di dolorosissimi amori” (p.153).

È interessante il modello del racconto che intriga e appassiona: di ogni fatto storico, Castellina indica una lettura politica e psicologica, offre una prospettiva sociale e pubblica, privata e introspettiva. Vedo le voci dei protagonisti, guardo la pelle, ne percepisco con l’olfatto il pensiero. L’attenzione alle scelte artistiche, ai desideri d’amore e alle visioni politiche aiutano a compiere il viaggio al contrario rispetto ai testi scolastici: dai nomi di personaggi storici lontani e noiosi, alla quotidianità di persone vive che patiscono, scelgono e confermano una idea di mondo e di relazione che un tempo chiamavamo comunismo. La denuncia politica e la sensualità amorosa, la poesia del proletariato e la resistenza in carcere o in montagna, il lavoro e la fatica, le abitudini di studio e di piccole comunità, i sentimenti: di tutto questo è fatta la Storia che diviene, grazie a Luciana Castellina, non solo conoscenza di fatti e di idee, ma sentimento di gratitudine e possibilità di pensare il futuro. Diviene speranza e riconoscenza. Rimane fra le mani un libro di interviste e di ricordi, commovente e giusto.

Turchia, Creta e Stati Uniti sono paesi reali, amati, difesi, vissuti da tre coppie determinate e spaventate, coraggiose e fragili. L’amore, la salute, la certezza nel credo politico, il carcere, la lotta per resistere rappresentano il filo conduttore degli amanti raccontati.

Capisco la clandestinità e la passione politica, l’isolamento, la passione e la leggenda nella vicenda, più lungamente narrata nel libro, di Münevver Andaç e Nâzim Hikmet. A sessantuno anni, nel 1963, Nazim, espressione del comunismo romantico, come lo definì la figlia di Stalin, Svetlana Allilujeva, scrive: “… la morte mi ha mandato la sua solitudine ancora prima del suo arrivo” (p.141). Münevver ci lascia nel 1998 avendo dedicato tutta la vita alla traduzione delle opere del suo Nazim.

Mi importa di Nikos Kokovlìs e Arghirò Polichronaki che nel 1948 si incontrano e si scelgono sulle montagne cretesi durante la guerra civile greca. Castellina li incontra nel 2007 in un villaggio vicino a La Canea e conosce in modo accurato la storia dei guerriglieri cretesi, abituati, ancor prima, alla guerra contro i turchi. È curiosa l’avventura leccese di Nikos e Arghirò sbarcati nel 1962 e nascosti nella scogliera di Porto Badisco, vicino a Otranto.

E, infine, rinnovo l’amore di distanza e di durata fra Sylvia Berman e Robert Thompson. Studioso di Marx, Engels e Lenin, Bob viene accusato nel 1949 dal pubblico ministero che, a dimostrarne l’infamia, legge brani del Manifesto del Partito Comunista e lo incolpa di rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. Quando, nel 1957, Sylvia se ne innamora, Bob è già stato condannato, poi latitante e ancora processato e imprigionato. Tutte e tutti militanti dell’esistenza per i quali, come fu per Robert Thompson, nel 1965, è difficile anche la degna sepoltura.

Ritorno ad alcuni versi del 1951 di Nâzim Hikmet:

 Quando mio figlio

avrà la mia età

non sarò più di questo mondo.

ma il mondo sarà

una meravigliosa culla a dondolo

tutti i bambini

bianchi

neri

gialli,

sul rotondo cuscino di seta blu.

postorino

Rossella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, 2018

postorino

Ulla, Beate, Leni, Elfriede, Heike, Augustine, Theodora, Sabine, Gertrude e Rosa, la narratrice: cosa accade al corpo e all’anima di dieci donne preposte ad assaggiare il cibo potenzialmente avvelenato di Adolf Hitler?

“Quando si mangia si combatte con la morte, diceva mia madre, ma solo a Krausendorf mi era sembrato vero” (p.108). Le protagoniste nello stomaco hanno il buco di fame e paura. Buon appetito, è il ghigno feroce che le accompagna.

“Abitavamo un’epoca amputata, che ribaltava ogni certezza, e disgregava famiglie, storpiava ogni istinto di sopravvivenza” (p.192). Obbligate a mangiare forzatamente la torta, le uova al cumino, il purè di patate, mentre gli altri muoiono di fame, le donne vengono addomesticate nel fetore della paura. Non uomini o soldati, le dieci assaggiatrici sono donne, in prima linea, a mostrare il privilegio impietoso di poter mangiare in abbondanza in un periodo di magra per tutti. Sono berlinesi, ma nessuna si sente una buona tedesca come viene loro insegnato. “Odiare, diceva la mia professoressa di Storia al liceo, una ragazza tedesca deve saper odiare” (p.85). Contrastare, sovvertire, deridere l’esistenza, è questa la regola del Führer: la vita è poco, quella di una donna è meno. Mentre agli uomini è richiesto di morire da eroi in battaglia, le donne possono incontrare una morte simile a quella dei topi, con la docilità delle vacche, come “a spiare le budella di Hitler”. La follia mostruosa proietta all’esterno la minaccia del veleno che corrode e uccide e così il dolore diviene un tratto della personalità e rende inquietanti i messaggi sottintesi. Il risultato produce follia e Rosa lo ammette. “Accadeva da mesi. Uno scollamento fra me e le mie azioni: non riuscivo a percepire la mia presenza” (p.116).

La vittima sacrificale non è mai stufa di vivere. “Ma ci sono io: non puoi aver paura. Assaggio il tuo cibo come la mamma si versa sul polso il latte del biberon; come la mamma si ficca in bocca il cucchiaio della pappa, è troppo caldo, ci soffia sopra, lo sente sul palato prima di imboccarti. Ci sono io, lupacchiotto. È la mia dedizione a farti sentire immortale”( p.179). A causa di un maternage immorale, la vittima pensa continuamente di finirla, ma si riconsegna al compito di salvare. In situazione di sudditanza, di vessazione continua, di violenza morale, le donne si abituano ad un torpore di dimenticanza e sopravvivono assumendo sulla propria coscienza una colpa senza senso. Così, muoiono un po’ per volta, convincendosi orgogliosamente della bontà del proprio ruolo di non esistenza, purché il monarca sia salvo.

L’astuzia del potere si manifesta con la prevaricazione, con l’oscenità della violenza morale: va in scena, quotidianamente, la banalità del male. Il peccato mortale del tiranno è nell’azione demoniaca di annullare la dignità dell’altra che finisce per sentirsi persona immeritevole e giustamente immolata per la salvezza illusoria del suo persecutore. “Non merito nulla, a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono” (p.82).

Sapere di poter disporre dell’altro è la vertigine, il godimento del dittatore “a nome di tutto il genere maschile”. E le donne riescono tardi e male a fare comunità, ad unirsi complici, pur riconoscendo un irreparabile desiderio di ritrovarsi umane, sane, amanti, vive, degne. E la colpa di sopravvivere ogni giorno si fa ventre originario del pericoloso legame fra Rosa e il tenente delle SS Ziegler. Nel profondo del suo cuore, Rosa sa che “non esiste alcuna ragione per abbracciare un nazista, neanche averlo partorito” (p.244). Non chiediamoci più perché una donna non ce la fa a denunciare subito, ad uscirne viva, ad urlare, ma tace, si avvicina al pericolo, quasi, lo cerca. Il male che il potere agisce contro l’essere umano è tale che lo stesso individuo che ne fa uso è vittima. Margot Wölk, l’assaggiatrice di Hitler, muore prima che Rossella Postorino possa intervistarla. Ringrazio l’autrice per aver scelto, scrivendo il romanzo, di non consegnare all’oblio la storia.

“Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo. Se considerasse la guerra un istinto naturale. È una specie tarata, quella umana: i suoi istinti, non bisogna assecondarli” (p.250)