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Kurt Vonnegut, Perle ai porci, Feltrinelli, 1965, 2018

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Non date le cose sante ai cani

e non gettate le vostre perle davanti ai porci,

perché non le calpestino con le loro zampe

e poi si voltino per sbranarvi

Mt. 7,6

 

Ritrovo casualmente il testo di Kurt Vonnegut e, con audacia, arrischio di richiamare alla memoria i versi durissimi del Vangelo di Matteo. Anche per offrirmi una lettura ulteriore rispetto alle scelte di alcuni intellettuali impegnati nel Salone Internazionale del Libro di Torino. Credo che decidere la propria assenza o presenza non rappresenti un fatto solo polemico, di superficie, ma una questione sostanziale che richiama la visione profonda della cultura e della umanità di ciascuna persona coinvolta direttamente o, come me, indirettamente. Oggi, anche partecipare ad una rassegna di case editrici e di scritture, non può essere considerato un semplice passatempo, una vetrina per farsi pubblicità, ma acquisisce valore di scelta antropologica, sociale, politica.

E, per continuare a riflettere, richiamo l’ordine genitoriale “Compiaci” che non è una innocua captatio benevolentiae nelle famiglie borghesi degli anni ‘60 e ‘70. Infatti, nella lettura analitico transazionale, che proprio in quegli anni viene formulata da Eric Berne, il Compiaci acquisisce una valenza d’inganno, di condizione ricattatoria da parte di inconsapevoli figure genitoriali potenti, su cuccioli e cucciole che, nei primi anni di vita, strutturano il proprio copione, la primaria autodefinizione psicologica.

I cinque ordini – Compiaci, Sii perfetto, Sii forte, Sforzati, Spicciati – si esprimono attraverso transazioni che tendono a ripetersi ciclicamente, sempre sotto le influenze di diverse figure che contano e non solo di genitori storici. Compiaci! per far parte, per evitare scontri. Compiaci! per riconoscere il ruolo superiore, per non incorrere in rivendicazioni, perché chi paga, comanda. Nell’infanzia mi si consigliava di fare buon viso a cattivo gioco per sminuire il misfatto del patriarca, per proteggere, addirittura, il buon nome della famiglia, per mostrare una ipocrita signorilità pretesa tutta al femminile! Non una fase di controdipendenza psicologica adolescenziale, ma una vessazione continuativa anche negli anni della maturità. Oltre a favorire dermatiti e gastriti, ho sperimentato che la scelta di compiacere diviene attività socialmente pericolosa, non aiutando la pace autentica e legittimando visioni antropologiche escludenti e persecutorie. Guardo frequentemente l’atteggiamento di un potere ammalato, come ricorda Vonnegut, di “samaritrofia”, cioè “l’indifferenza isterica ai problemi dei meno fortunati”.

In tempi bui e confusi, è indispensabile essere consapevole e raccontare la mia storia, nominare i libri riletti e quelli acquistati, ribadire i nomi, sempre pochi, delle persone che riconosco e che frequento e quelli di coloro che ho scelto di allontanare, spesso con l’espediente di essere cacciata. Ribadire chi sono i porci, è pratica di realtà. Decidere di non offrire loro le perle è esercizio umile di protezione e di permesso verso se stessi. Sono convinta che l’essere compiacente non misura soltanto l’iperadattamento all’altro, ma diviene complicità immorale e illegale, ridicolmente a propria insaputa. Certi consensi non sono opportuni, ancor prima del richiamo alle leggi, prima che un giudice stabilisca il reato e la conseguente pena.

Nelle situazioni di grande sfrontatezza e imposizione del potere a cui assisto, lasciar correre, abbozzare un sorriso e ricoverarsi in una fatua ideologia di libertà, non solo non serve a garantire neanche la prebenda, ma irride, denigra la mia dignità psicologica e sociale. Una forma di resistenza sempre possibile è, almeno, decidere che no, non ci sto, è disobbedire, spostandomi al lato, avendo ben chiari i patti psicologici e comunitari in cui credo. Evito certi confronti, fuggo da alcuni dibattiti e non presenzio necessariamente tutti i territori perché prevedo di finire in attività che non c’entrano nulla con l’esercizio della democrazia, ma che possono facilitare il richiamo irrinunciabile ai giochi psicologici. Insomma, siccome non sono onnipotente e perfetta e forte, prevengo la deriva e il richiamo del male evitando i luoghi e gli incontri che con furbi e silenziosi automatismi portano al rialzo dell’offesa, del discredito, della guerra.

Non rinuncio a dire e a scrivere il mio pensiero e mi è costato uscire dalla dinamica inutile dell’opposizione e apprendere a non rivendicare, a non usare le scelte fatte come strumento per sfidare, per giocare al tiro alla fune, per dimostrare che io vinco e l’altro, ecco, ha perso. Mi convince Vonnegut perché racconta in modo efficace il triangolo drammatico in cui giocano il Salvatore, la Vittima e il Persecutore, perdendo tutti, irrimediabilmente:

“In ogni grossa transazione c’è un momento magico: esso si presenta quando un uomo ha ceduto un tesoro, e quando l’uomo che deve riceverlo non l’ha ancora ricevuto. Un avvocato sveglio s’impadronirà di quel momento, mettendo le mani sul tesoro per un magico microsecondo, prendendone una parte, passando il resto ad altri. Se l’uomo che deve ricevere il tesoro non è abituato alla ricchezza, e ha un complesso d’inferiorità e vaghi sensi di colpa, come la maggior parte della gente, spesso l’avvocato può intascare anche metà del gruzzolo e ricevere, nonostante ciò, i piagnucolosi ringraziamenti del destinatario”. p.11

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Riflessioni attraverso l’amore

 
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Lidia Ravera, L’amore che dura, Bompiani, 2019
 
Serve la sapiente scrittura di Lidia Ravera che non molla mai chi legge, serve ad alzar la voce, come racconta Emma, la protagonista femminile del romanzo ultimo della Scrittrice con la quale, annualmente, ho appuntamento dall’adolescenza.
 
Esistono amori che finiscono solo per quegli esseri umani che non si interrogano, che non approfittano delle situazioni anche dolorose per avviare un’indagine psicologica. Per se stessi, gli amori durano, anche se non ci si frequenta più. Durano perché quello che io sono diventata ha origine, anche, in quell’amore che combacia.
“La gente ha un cattivo rapporto con la tristezza, la vuole schiacciare sotto il tallone dei buoni propositi come un insetto nocivo, la vuole estirpare come un’erba infestante. Ma io no. Io ci tengo a questa tristezza riparatrice, la custodisco dentro di me, in una teca di vetro resistente alle interferenze esterne. E non permetto a nessuno di manometterla. Non intendo procedere per cancellazioni, io. Preferisco di gran lunga soffrire.”p.235
L’amore dura perché c’è la necessità, prima o poi, nella vita, di riflettere sulle situazioni, diverse, che ci hanno consentito di divenire ciò che siamo. Ci vuole energia. Permettere a se stessi di incontrarsi con le luci della gioia e con le ombre della responsabilità, magari non assunta pienamente quando serviva. Bisogna perdonarsi per non aver capito in tempo, per la fretta, per l’onnipotenza.
 
Ad un certo punto di vita c’è uno strappo: è quello il momento giusto per recuperare la propria origine e procedere con generosità verso i giorni nuovi. Proteggersi è operazione da grandi. E allora c’è davvero la possibilità di “rivivere… riassaporare” con uno sguardo consapevole. Emma e Carlo si innamorano a 16 anni, nel 1968, al tempo dei primi femminismi. Si sposano a 26, si separano a 36, si rivedono, lasciandosi andare a 46. A 56 anni, dinanzi al rischio di non vedersi mai più, vivono la libertà di accogliersi per quello che sono.
“Ma io no, non ero contenta. Non sono contenta. Perché quando la storia che racconti rispecchia la nostra vita di rivoluzionari sedicenni mi sento usata e quando se ne discosta per concedere allo spettatore un po’ di sana “action” mi sento defraudata della complessità dei miei ricordi.”p.49
 
Il tempo non trascorre invano e illumina l’identità dell’amore che è stato, rivelandolo in tutte le sue possibilità. Talvolta, gli amori giovani finiscono perché ciascuno dei due ha bisogno di uscire dalla simbiosi, di apprendere l’indipendenza, di sperimentare l’ebrezza di cadere liberamente senza trovare, sempre, il sostegno. Chi trattiene l’amore, non lo rivela mai pienamente. A tutte le Emma e ad ogni Carlo, l’abbandono serve ad incontrare se stessi e a vedere l’altro per quello che è, nella meraviglia di una fragilità senza magie e senza proiezioni personali.
 
Nel romanzo, il finale è senz’altro bellissimo e non ne chiederei un altro sottotono. Ma, in fondo, il finale da favola c’è sempre perché se mi vedo, vedo l’altro luminoso. L’amore dura perché gli uomini, come Carlo nel romanzo, talvolta, tornano. Quelli che se ne erano andati davvero, tornano. Carlo decide di capire, oltre l’orgoglio e “l’inconsapevolezza assoluta degli uomini belli, che non hanno bisogno di essere belli. E perciò diventano ogni anno più belli.”p.115
 
L’autonomia di sé si impara, attraverso le relazioni che innamorano ma che, anche, annoiano, mortificano, tradiscono perché la liberazione, di sé per prima, necessariamente conosce, misura e abbandona le catene che frenano e che impediscono l’evoluzione. E la libertà autentica, acquisita attraverso il dolore e la fatica della conoscenza, è un bene anche per l’altro.
 
“Come si pesano i pensieri? Quali sono i pensieri pesanti?” “Quando ti senti addosso la responsabilità della felicità degli altri, del loro benessere, quando ti sembra di non aver fatto abbastanza o di aver sbagliato… dacci un taglio. Non rimuginare su quello che è stato, che avrebbe potuto essere o che sarà.”p.354
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Paradossali risoluzioni

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Jonathan Swift, Una modesta proposta, Marsilio, 2015

Edoardo Albinati, Cronistoria di un pensiero infame, Baldini Castoldi, 2018

 Mi rendo sempre più conto che l’essere umano sulla strada dell’evoluzione rallenta, s’incanta, torna indietro, capisce, ma poi ricade, ricorda benissimo, ma mente a se stesso, in un gioco delle parti asservito al ruolo che ricopre, mai solo per caso. Non ci sono altre vie verso la liberazione e l’autonomia se non quella di accorgersi di ricadere nel vecchio copione e di ritrovarsi in compagnia degli altri teatranti nel ricatto antico del gioco psicologico. Mi annoio e mi preoccupo, ma riconosco che è così che l’essere diventa umano.

Ed è una umanità adolescente quella che non si assume la responsabilità della eventuale ricaduta di ogni azione promossa. Se taglio il ramo sul quale sono seduta, rovinosamente cadrò. Non posso affermare che non potevo saperlo e che non pensavo a una conseguenza così grave.  Il pensiero adulto si esprime anche nella previsione e nella sapienza della profezia. Inauguro così un periodo di ricerca dedicata più intensamente alle dinamiche del potere, alla fenomenologia della tirannia, ai giochi di persecuzione e di invisibile e tenace sottomissione.

Sento profonda gratitudine verso le relazioni in cui ci si scambiano libri. E scopro il prete anglicano Jonathan Swift che, a 62 anni, è profondamente sconcertato per le condizioni miserabili degli irlandesi causate dal colonialismo inglese. Decide, pubblicando questo libello nel 1729, di trasformare l’indignazione in satira graffiante e in umorismo nero. Il titolo, per palati fini, recita interamente: «Una modesta proposta per evitare che i figli degli irlandesi indigenti siano di peso ai genitori al Paese, facendone un beneficio per tutti». Leggo lo scandalo dell’invito a combattere la sovrappopolazione e la disoccupazione dando in pasto ai ricchi inglesi i figli, dai sei ai nove mesi, ben cotti e più grassi, dei prolifici irlandesi. L’esagerazione chiarisce all’inverso la seria protesta.  E la sfida perversa manifesta al contrario la politica scellerata di abuso e di cancellazione.

La satira devastante e vergognosa mi fa pensare che l’infamia è scontata quando la categoria dell’umano incrocia solo quella della utilità. Se una persona non produce, non spende, non è utile e non è uguale come dovrebbe, allora, meglio evitarla o eliminarla. Luciana Pirè traduce e introduce: «Soltanto l’eccesso di una proposta disumana può tradurre l’eccesso di disumanità della logica del profitto». L’azione blasfema, i termini corrosivi e politicamente scorretti offrono le ragioni del proponimento feroce quanto irreale, componendo, insieme, massima mimesi ed estrema provocazione. Trascrivo alcuni brani del testo nell’impossibilità di fare una sintesi che ne custodisca la ferocia. La mostruosità va in scena con le sue derive proponendo la donna fattrice, il business del prossimo, l’istinto al comando, il corpo commerciale, la supremazia del mercato, l’ineguaglianza del profitto. Nel racconto di Jonathan Swift, l’allevamento, la macellazione, la preparazione e la vendita della carne umana non richiamano solo l’antropofagia e il cannibalismo, ma diventano l’aberrante finale – magari ingenuamente non previsto né desiderato – di scelte politiche sotto gli occhi di tutti.

Ora esorterei quei politici che disdegnano la mia ipotesi, e che forse avranno il coraggio di osare una replica, a chiedere ai genitori di questi poveri diavoli se, col senno di poi, non sarebbe stata per loro una grazia essere stati venduti come carne commestibile a un anno d’età, nel modo che ho illustrato, risparmiandosi così quell’interminabile catena di sventure che hanno dovuto patire: l’oppressione dei padroni, l’impossibilità di pagare l’affitto senza soldi né un mestiere, la privazione delle più elementari necessità, senza un ricovero né vestiti per difendersi dalle intemperie, e con la prospettiva ineluttabile di tramandare per l’eternità alla prole le stesse tribolazioni, se non addirittura più gravi. (p.65)

Sottopongo umilmente alla pubblica considerazione la seguente proposta: che, dei centoventimila bambini già calcolati, ventimila siano riservati alla riproduzione, con una percentuale di maschi pari a un quarto (che è più di quanto si conceda ai montoni, ai buoi e ai maiali). La ragione, secondo me, è che ben di rado questi bambini sono frutto di matrimonio – un’opzione che i nostri selvaggi non tengono in gran conto; e, quindi, un maschio sarà sufficiente a servire quattro femmine. I restanti centomila bambini, all’età di un anno, potranno essere venduti ai signori benestanti del Regno, consigliando sempre alle madri di lasciarli poppare in abbondanza nell’ultimo mese in modo che arrivino grassi e carnosi su una buona tavola. Un bambino basterà per due portate in un pranzo tra amici; se invece la famiglia è senza compagnia ricaverà porzioni ragionevoli dal quarto anteriore o posteriore; e, lessato e condito con un po’ di pepe o sale, sarà molto appetitoso il quarto giorno, specialmente d’inverno. (p.51)

Seguendo i miei cattivi pensieri, interviene a soccorrermi il trattatello di Edoardo Albinati che considero una premessa fondamentale per interrogarmi sulle nuove forme di potere mentale e psicologico. Al di là delle convinzioni persecutorie che vedono il fascismo dappertutto tranne che in se stessi e dei negatori psicologici ad oltranza, in ogni essere umano alberga la paura e, di conseguenza, una decisa e inevitabile tensione alla distruzione.

L’essere umano spaventato può diventare violento. Può accadere, certo, che ci scappi il morto, e sarà una delle possibili conseguenze della demagogia che sottomette. Albinati sceglie di avvalersi di una forza fondata sulla fragilità umana, di una vitalità che cammina dolorante. L’autore affonda e si fa attraversare da considerazioni estreme e traduce la frustrazione con parole paradossali e, solo così, si consente di andare oltre l’impotenza patita e oltre il pensiero infame.

Leggendo, avverto ancor più sulla pelle molti malesseri culturali. Innanzitutto, il culto della tradizione senza avanzamento del sapere. L’impegno è scegliere la modernità ampia custodendo il passato perché è la mia storia, anche se non c’ero, io nasco là, in quel contesto. Oggi la cultura è sospetta e ci si difende con l’uso frequente di espressioni popolari, offensive, rozze. Albinati afferma che le cazzate da bar diventano per magia ambiziosi programmi politici. (p.78)

La paura della diversità, quotidianamente, riguarda ogni persona all’interno e all’esterno di sé. Il disturbo, l’ingombro, la strettoia che avverto rappresentano il passaggio obbligato verso la realtà che chiede analisi profonde. L’invito è a smascherare l’appello alle classi medie frustrate e a dubitare della facilità di risoluzione: i cattivi maestri pretendono di dimostrare che si può diventare ricchi, famosi e bellissimi. Anche leggendo Swift e Albinati, mi aiuto a risolvere l’ossessione del complotto e la xenofobia e l’attribuzione all’esterno di colpe e di proponimenti spaventati e cattivi.

C’è un pensiero che lo stesso autore giudica come infame: «Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius».(p.12) Il risveglio delle coscienze ha bisogno del “fattaccio”, e mi chiedo cos’altro deve accadere per riconosce la letargia di cui mi ammalo. Soprattutto, considero il femminicidio come la formula sempre più diffusa per sfogare l’ira mai considerata come il vero problema e men che mai risolta come ferita personale, come malattia culturale basica che ha bisogno del ratto e dello stupro. Voglio estirpare anche in me l’idea fissa che la vita è una guerra in cui i più forti e i più furbi sopravvivono e gli altri giù dalla rupe Tarpea. Ancora Albinati scrive che un metodo infallibile per ridurre a zero il flusso dei migranti – io aggiungo: degli zingari, dei meridionali, delle donne tutte pazze, dei malati, dei bambini scemi – sarebbero appunto le schioppettate. Affondi una decina di barconi e ne lasci affogare i passeggeri, e vedrai che di barconi all’orizzonte non ne spunta più uno… (p.98)

Il tiranno ha necessità di essere applaudito, temuto, anche incompreso, così ribadisce la supremazia della sua mente inconoscibile dai cervelli minimi degli altri. Ho buoni motivi per non sottovalutare le periodali crisi abbandoniche dei tiranni. Scelgo di accompagnare i sudditi verso la consapevolezza della liberazione evitando il corpo a corpo iniziale con il patriarca anche se, prima o poi, lo scontro arriva e, dunque, propongo che il conflitto non sia frontale e non danneggi i sottoposti. La clandestinità caratterizza in parte la mia attività professionale e mi sono abituata a vivere cordialmente negletta. Sono convinta che ogni persona possa non avere il ruolo politico, sociale ed economico per produrre direttamente il cambiamento. Rimane essenziale la testimonianza della propria vita che manifesti l’orientamento chiaro e la parte dalla quale stare.

 

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L’apprendimento del limite come garanzia dell’umano

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Premessa

Sappiamo di «essere» il nostro corpo, ma pensiamo di «averlo», come se la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo come in una casa, lumaca nel guscio. Dirci: il corpo è la prima cosa che ho e il corpo sono io, non fa esattamente lo stesso. Essere e avere non sono lo stesso. (Rossanda:10)

L’invito ad una conferenza per il decennale della Fondazione Villa Giovanni XXIII onlus coincide per me con un periodo in cui il dolore fisico è presenza quotidiana e costante. E penso che sia arrivato il momento per uno studio e un lavoro di consapevolezza intorno al limite, alla vita, alla malattia. Partire da sé ed essere in intimità con il corpo che si trasforma è il nuovo apprendimento, oggi che a 60 anni appaio decisamente più giovane dei miei genitori, ricordandoli alla stessa età.

Fare i conti con il limite e con la fragilità del corpo è una garanzia per propormi, anche, in una relazione sana e non ricattatoria di cura verso il prossimo. Ogni attività di autocoscienza è personalissima e implica la ricerca delle parole adeguate, le parole di realtà e di esperienza che ogni persona sceglie per raccontare se stessa, gli altri e la vita.

Le comunicazioni – di psicologi, di familiari, in generale, di addetti ai lavori – pur espresse con le migliori intenzioni di richiesta o di accoglienza e di accudimento, manifestano, spesso, un modo di stare al mondo da vincenti a tutti i costi, da dominanti in ogni circostanza avversa. Nel linguaggio contemporaneo indichiamo una vita che valga la pena di essere vissuta come “efficace ed efficiente”, “eccellente”, “di qualità”, “produttiva”. E la malattia, allora, diviene la nemica che si oppone alla progettualità. Il limite, insopportabile, rappresenta un muro da abbattere, nonostante tutto. Ci affatichiamo sforzandoci di sembrare più forti, sorridenti, invincibili, mettendocela tutta, fino all’ultimo respiro. Oppure ci abbandoniamo, perdenti e frustrati, a forze esterne che immaginiamo più oscure e invincibili, come il destino o la natura. O, infine, ci sentiamo investiti del ruolo di salvazione. Degli altri. Ed è, invece, una nevrosi, espressa in ogni esaltazione e sproporzione.

Il solo fantasma della malattia di Alzheimer e la certezza di una cura farmacologica non risolutiva, richiede un lavoro rizomatico su di sé, una radicale rivisitazione della concezione del mondo, del lavoro, del successo, dell’intera esistenza e della posizione che in essa occupiamo. Spesso, è la nostra cultura, perché ammalata, a presentarci il conto che non torna mai.

La dittatura dell’apparire sani

C’è, confessiamocelo (e la malattia è il gran confessionale), una franchezza infantile nella malattia; si dicono cose, si sputano verità che il guardingo decoro della salute tiene nascoste… nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo rinnovato – per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messinscena si interrompe… non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori… irresponsabili e disinteressati e capaci, forse per la prima volta dopo anni, di guardare intorno, di guardare su – di guardare, per esempio, il cielo. (Woolf:14,15)

Lo psicologo Paul Watzlawich afferma, nel suo primo assioma, che non è possibile non comunicare. Ogni persona è relazione e nella relazione essa si definisce e si evolve. Di conseguenza, la malattia di Alzheimer, oltre che il malato, incontra i familiari e la piccola comunità di appartenenza, e diviene “affare” di un più ampio territorio, e “tocca”, in modo diverso, il corpo intero dell’esistenza sociale.

Ritrovo molte compagnie di viaggio in questa ricerca che rimando, a fondo pagina, ai riferimenti bibliografici. Virginia Woolf, più di ogni altro scrittore, profondamente, indaga gli effetti psicologici della malattia sul senso di sé. Virginia ritrova proprio nella malattia il tempo di essenziale verità, nell’incoscienza, nella comprensione istintiva e mistica, nella sensibilità che va oltre il significato di superficie. Al prezzo di una perdita, di una ferita grave, liberiamo una parte sconosciuta e impensabile di noi. Tutto il dolore è concime e lavora a servizio di una essenza profonda della vita. Il malato diviene un disertore dinanzi alla natura che fa quello che vuole e che, alla fine, trionferà su tutto.

Diventiamo inabili, assistiti e assistenti e non riusciamo a dominare, a spiegare, a esprimerci. La nostra ragione, il giudizio, la memoria si arrendono. Possiamo mai perdonarci di essere inadeguati, di non compiacere, di non riconoscere più noi stessi o i nostri cari? Con un lavoro di educazione e di formazione, sveliamo ciò che siamo, fino in fondo, ripetitivi e contradditori. Virginia è certa che ci vuole una solida filosofia per parlare del corpo e una nuova lingua letteraria per la malattia. La scrittrice resiste alla descrizione del malato che gode privilegi, oserei dire, morali, che diviene oggetto esclusivo di sé e di chi accudisce, che acquisisce una sorta di dovere all’egoismo, nella sua solitudine regale.

Ogni persona considera la malattia propria o degli altri con la visione e con il metodo con cui ha appreso a valutare la vita, gli altri, il mondo. Con gli stessi occhi, con la stessa predisposizione d’animo, ogni essere umano può anche ammalarsi. Non è il dolore che uccide la vita, ma la mancanza di consapevolezza del dolore, la mancanza di senso. Offrire letture possibili a noi stessi significa farci attraversare dalla rabbia, dalla tristezza e dalla paura. Per qualcuno il dolore è tutto insieme.

Vogliamo evitare, da una parte, il ruolo di vittima sacrificale che assume colpe inesistenti e, dall’altra, il ruolo di persecutore oppure il ruolo di eroe sfidante che mostra la forza e l’ossessione della vittoria sulla malattia e sulla fragilità. La certezza e la volontà di essere più tenaci del limite, più forti della malattia, e la tentazione di lasciarci andare, di essere vinti, manifesta la stessa metafora di guerra ingaggiata con il proprio corpo. Possiamo apprendere a farci carico, attraverso un lavoro di comunità, dell’incapacità di riconoscerci umani e di vivere il sentimento meraviglioso e tragico di creaturalità.

Penso che certi modi di leggere la malattia e di avvicinarci al malato siano il risultato di una obsoleta cultura maschilista ed arrogante la quale rimanda ad un individuo che si sente offeso e sfidato dalla natura, dalla vita, da Dio, se ci crede. Il pensiero della differenza, corrente filosofica del XX secolo, accompagna ogni essere umano verso l’accoglienza della ferita, dell’insufficienza umana, infine, della nudità. La sapienza, il sapor del nostro corpo è il risultato del difetto, della lacuna. Vivere diviene, allora, disertare e ritrovare un’altra possibile identità sconosciuta o repressa. Il desiderio è ritornare o accettare che l’essere umano ritorni ad una fase primigenia, in una condizione di dipendenza, di confini incerti di spazio e di tempo, in una zona esistenziale introversa-uditiva, riservata e riflessiva, come assente.

Per Hans Castorp ne La montagna incantata la malattia è la via “brutta e geniale” verso la comprensione della vita, qualche volta per il malato, anche in mancanza di coscienza, sempre per la comunità di appartenenza. La malattia può rappresentare l’area ignota nello schema di Johari: ignota perché tutto ciò che si svela è sconosciuto sia a noi stessi che agli altri. In alcune situazioni, durante la malattia, lo sguardo dei prossimi, sguardo che ricorda e che riflette, diviene indispensabile. E la memoria, anche quella che di noi ci rimandano gli altri, è identità psicologica. È indispensabile continuare ad essere detti, ad essere visti e pensati dagli altri. L’apprendimento è rivolgerci alla persona malata non per quello che lei ricorda o riconosce, ma per quello che noi sappiamo. L’altro, malato, non può recuperare chi è e chi siamo, ma noi conosciamo chi è lui nella relazione che ci unisce. Durante il corso della malattia è molto difficile accettare l’evoluzione talvolta violenta della relazione. Infatti, “… si può imparare a vivere senza l’altro, ma non è vero che si elabori, nel senso che si superi, la perdita, il lutto… più vado avanti meno so di elaborarla.” (Rossanda:13)

L’impegno nel divenire consapevoli

Del corpo si ha paura: vedila nell’Eros che si confessa, nel crimine che non si libera dall’ossessione, e nella medicina che lo ha addomesticato e lo controlla. (L’espressione «sotto controllo medico» passa per rassicurante, ma pensateci un momento, controllati sempre, internamente, ogni momento, con apparecchi, c’è da rabbrividire). La paura del corpo, madornale, è di quelle antiche antiche… (Ceronetti: 224)

Nella sua immobilità, la persona malata cambia fisicamente, psicologicamente, spiritualmente, estranea a se stessa come si conosceva, quindi, completamente intima alla vita.

È interessante come, per esempio, nella teoria dell’entanglement quantistico, gli scienziati dimostrano che se due particelle interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo, esse sviluppano una connessione che rimane a prescindere dalla distanza che le separa. Ugualmente, possiamo immaginare che nelle relazioni umane, quando due o più persone si avvicinano, condividono un livello di connessione che va al di là delle parole scambiate, attraverso la fisicità, grazie all’essere assieme. Pensiamo, ad esempio, a ciò che accade a volte quando si riesce a completare le frasi a vicenda o quando abbiamo il presentimento che qualcosa è successo a un nostro caro e proprio in quel momento riceviamo una chiamata da quella persona. La connessione fra gli esseri umani esiste ed è possibile riscoprirla nella sensibilità che consapevolmente affiniamo.   Non siamo affatto sicuri di farcela, ma è in questo spazio e tempo che esprimiamo la nostra natura comunitaria, la nostra indispensabile riflessione di coesistenza ai margini dell’universo.

Il contesto relazionale è fondamentale, con la consapevolezza di essere ciascuno prossimo dell’altro. Nelle forme diverse di demenza più o meno grave, il malato apparentemente non offre risultati agli stimoli offerti; infatti, non ascoltiamo parole congruenti, non riscontriamo sorrisi o cenni del viso o strette di mano. Siamo certi che la persona malata registra l’altrui presenza partendo dalla sua condizione. A suo modo, in qualche modo, si accorge, sa dello sguardo, della voce, del contatto. In qualche modo che per noi risulta frustrante ignorare. Il lavoro psicologico è anche sull’ansia di prestazione, sulle ragioni del sentirci riconosciuti e importanti nell’aiuto che offriamo. La malattia si chiama ὕβϱις, hýbris, ed è la colpa di potenza che rifiuta il limite originario.

Nasciamo con l’obbligo e la necessità di divenire e di confrontarci con la perdita del controllo. Agli esseri umani, la realtà appare sempre inaccettabile. L’offesa di cui ci sentiamo oggetti, è diventare vecchi, malati, mancanti nel vigore fisico, mancanti nella capacità di procreare, mancanti di quell’efficienza che ci rendeva cittadini e clienti riconosciuti dalla cultura dominante.

In questa direzione possiamo considerare ciò che accade nella relazione con i malati di Alzheimer: l’unica relazione possibile richiama la confidenza che ciascuno stabilisce con i cinque sensi. Possiamo creare una magìa sana e bella, una possibilità gioiosa di rimanere nella presenza. Mi confidava un’amica più avanti di me: mi mancano certi tempi lenti e non feroci della malattia quando sono concentrata a percepire il mio fiato interno come creatura da accudire e proteggere. Affinché il nostro sia un vivere di grazia e ringraziando, scelgo ancora le parole di Guido Ceronetti, artista scanzonato e controverso.

… è infinitamente più agevole e comodo iscriversi ad una facoltà e uscirne brillantemente laureati, pronti a controllare scientificamente l’inorganico e il mondo vivente, che diventare maghi, sviluppando le facoltà lasciate marcire nel mistero del corpo, maghi in grado di guarire e anche di aiutare a morire chi lo voglia in modo dolce e incruento, attraverso la conoscenza tradizionale delle sensibilità intatte e neglette, delle qualità e delle sostanze, soffiando Yang nei territori oscuri Yin della dolorante materia… Ma di magia buona c’è oggi molto più bisogno che di medicina buona. (Ceronetti: 225)

 

Riferimenti bibliografici

  • Arnaldo Benini, La mente fragile, Raffaello Cortina, 2018
  • Remo Bodei, Limite, il Mulino, 2016
  • Fernando Camon, Un altare per la madre, Garzanti, 1978, 2016
  • Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo, Materiali per studio di medicina, Adelphi, 1979, 2010
  • Fraire e R.Rossanda, La perdita, Bollati Boringhieri, 2008
  • Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, 1983, 2002
  • James Hillman, La forza del carattere, Adelphi, 2000
  • Serge Latouche, Limite, Bollati Boringhieri, 2012
  • Thomas Mann, La montagna incantata, Corbaccio, 1924, 2011
  • Lidia Ravera, Il terzo tempo, Bompiani, 2017
  • Lev Tolstoi, La morte di Ivan Ill’ič, Feltrinelli, 1886, 2014
  • Virginia Woolf, Sulla malattia, Bollati Boringhieri, 2006
  • Irvin Yalom, Il senso della vita, Neri Pozza, 2016
  • Abraham B. Yehoshua, Il tunnel, Einaudi, 2018
  • Marguerite Yourcenar, Una morte dolcissima, Einaudi, 2001

 

 

 

moravia

Per il nuovo anno: “una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e un abbecedario per uno”

Grazie ad una relazione preziosa di scambi e letture, ricordo e mi riavvicino ai Racconti romani, di Alberto Moravia, pubblicati nel 1954. Il “Picche nicche” è una storia comica e amara che evidenzia tragicamente l’involuzione dei protagonisti da persone a personaggi.

Tolomei, il pizzicagnolo, De Santis, il pollarolo, De Angelis, titolare di un vapoforno e Crociani di una fiaschetteria, decidono un incontro di fine anno per festeggiare e invitano anche lo sfortunato cartolibraio Egisto che, al contrario di tutti gli altri, nel mese di dicembre, vende ancora meno. Il picche nicche è una serata tradizionale fra commercianti in cui ogni ospite si impegna a portare dalla propria bottega gli antipasti, i tacchini, i tortellini, il vino e lo spumante. A Egisto e sua moglie, tocca di presentarsi con il panettone, bello e grosso, almeno di due chili…

“E io rassomiglio alla mia bottega, vestito di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro, invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi, con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far leggere o scrivere.”

Alla fine della cena, ecco Egisto che apre la grande scatola e offre a ciascun ospite, invece del panettone, una penna, un quaderno, una boccetta d’inchiostro e un abbecedario. Invita a brindare affinché nel nuovo anno ognuno doni il suo tempo alla lettura di più e di meno al commercio. A costo di farsi dei nemici, Egisto trasforma il picche nicche in un messaggio che richiama all’incontro autentico, partendo dalla conoscenza, dal saper leggere e scrivere, dalla cognizione di quel che si dice.

L’impegno è apprendere a stare assieme oltre le pose, oltre lo sguardo alterato e stupidamente compiaciuto sulla realtà, oltre il linguaggio falsamente colloquiale e popolare, i luoghi comuni e le risate idiote, oltre i versi, le esclamazioni inarticolate che richiamano la lallazione da umano basico, “tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva e si rassomigliava”.

La moda del picche nicche aggrega sconosciuti su elementi esteriori. Invece, la cultura anche culinaria della comunità si costituisce quando c’è alla base un contratto di autenticità e di verità reciproche ed interiori, non solo rituali e passatempi esterni accordanti.

Egisto rimane a “fare il difficile, ragionare, fare il sottile e segnalare le cose che non vanno bene”. Ci appare un povero cristo, non solo economicamente, perché è l’unico a svolgere il ruolo del grillo parlante e a proporre la sua pedagogia brutale, ma non credo fallimentare. E se gli ospiti si offendono, invece di capire e svalutano ed etichettano, invece di cogliere il senso e di utilizzare la spinta, vuol dire che per molti non è ancora il tempo del passaggio lento dall’infanzia all’età adulta.

E siamo qui, nel picche nicche che ci siamo meritati, ad aspettare, immaginando la risposta degli ospiti, con un segnale di inizio diverso, dopo lo stupore davanti al libro, donato come una promessa, intruso spietato che usurpa la scena al panettone. L’augurio mio è la cura di un’alimentazione che preveda con leggerezza l’uno e l’altro cibo: l’abbecedario e il panettone.

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Alberto Moravia, Racconti romani, Il picche nicche

Natale, Capodanno, Befana, quando verso il quindici di dicembre comincio a sentire parlare di feste, tremo, come a sentir parlare di debiti da pagare e per i quali non ci sono soldi. Natale, Capodanno, Befana, chissà perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me, sono un macello. E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare il Santo Natale, il primo dell’anno, l’Epifania, qui si vuol dire che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che, alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo. Forse ai tempi che Berta filava, Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere: ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo sfruttamento. Ma dagli, dagli e dagli, anche i più sciocchi si sono accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così, adesso la fanno. Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da mangiare; non per i poveretti che la comprano. E tante volte ho pensato che per il pasticciere, per il pollarolo, per il macellaio, quelle sono feste davvero, anzi feste doppie: feste perché feste e poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio, con la borsa piena e la tavola traboccante.

Del resto, per farvi capaci che ho detto la verità, guardate la strada dove ho la mia bottega di cartolaio. In fila, uno dopo l’altro, ci sono Tolomei il pizzicagnolo, De Santis il pollarolo, De Angelis che ha il vapoforno, e Crociani che ha la fiaschetteria. Fateci caso, che vedete? Montagne di formaggi e di prosciutti, stragi di polli e gallinacci, sacchi pieni di tortellini, piramidi di fiaschi e di bottiglie, luce e splendore, gente che va e gente che viene, dalla mattina alla sera, senza interruzione, come in un porto di mare, nelle prime quattro botteghe. Nella mia cartolibreria, invece, silenzio, ombra, calma, la polvere sul banco, e, sì e no, qualche ragazzino che viene a comprarsi il quaderno, qualche donna che entra a prendersi la boccetta d’inchiostro per fare i conti della spesa. E io rassomiglio alla mia bottega, vestito di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro, invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi, con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far leggere o scrivere.

Basta, qualche giorno prima di Capodanno, mia moglie, una mattina, mi fa: «Senti, Egisto, che bell’idea… Crociani ha detto che a Capodanno ci riuniamo tutti e cinque noialtri commercianti di questa parte della strada, e facciamo un picche nicche per la fine dell’anno.»

«E che cos’è il picche nicche?» domandai.

«Beh, sarebbe il cenone tradizionale.»

«Tradizionale?»

«Sì, tradizionale, ma in questo modo: ciascuno porta qualche cosa e così ciascuno offre a tutti e tutti offrono a ciascuno.»

«Questo è il picche nicche?»

«Sì, questo è il picche nicche… De Angelis ci metterà i tortellini, Crociani il vino e lo spumante, Tolomei gli antipasti, De Santis i tacchini… »

«E noi?»

«Noialtri dovremmo portare il panettone.»

Non dissi nulla. E lei insistette: «Non è una bella idea questo picche nicche?… Allora gli dico che ci stiamo?»

Stavo seduto al banco, scartando un pacco di cartoline d’auguri natalizi. Dissi, finalmente: «Per me, mi pare che questo picche nicche non sia tanto giusto… De Angelis i tortellini ce li ha a bottega, e così Crociani il vino, Tolomei gli antipasti e De Santis i tacchini… ma io che ci ho? Un corno… il panettone debbo comprarlo.»

«Che c’entra?… anche loro, la roba la pagano, mica gli cresce in bottega… che c’entra… lo vedi che sei sempre il solito… vuoi sempre fare il difficile, ragionare, fare il sottile… e poi ti lamenti che le cose non ti vanno bene.»

Insomma discutemmo un bel po’ e finalmente io tagliai corto, dicendo: «Va bene, digli che ci sto al loro picche nicche… porteremo il panettone.» Lei si raccomandò, allora, che lo portassi bello grosso, per non fare cattiva figura: due chili, almeno. E io promisi il panettone bello e grosso.

L’ultimo dell’anno lo passai, al solito, a vendere cartoline di auguri e figurine di carta per i presepi. Intanto, i miei vicini vendevano gallinacci e polli, tortellini e tagliatelle, cassette di liquori e di vini pregiati, formaggi e prosciutti. Era una bella giornata e io, dal fondo del mio negozietto nero, vedevo, di fuori, passare nel sole le donne cariche di roba. Era proprio una bella giornata, da Capodanno romano, con un cielo turchino, duro, che pareva il cristallo fino fino e tutte le cose che sembravano dipinte su questo cristallo, con i loro colori.

A mia moglie, la sera, chiudendo bottega, dissi: «È inutile che mangiamo… tanto la mangiata la facciamo a mezzanotte con il picche nicche… non fosse altro che il panettone che porto io, c’è da mangiare per cento.» Ed effettivamente, lo scatolone del panettone era proprio enorme. Però dissi a mia moglie che non se ne occupasse: l’avrei portato io. Alle dieci e mezzo, entrammo nel portone di Crociani che aveva la casa proprio sopra il negozio.

Chi c’era? C’era Tolomei, un pezzo di giovanotto coi baffi, che, quando pesa sulla bilancia l’affettato, dice alle serve: «Lascio?» ; c’era De Angelis del vapoforno, un ometto piccolo, con la faccia da minchione: ma lui invece è un furbo che da ragazzino andava in giro con la sporta e adesso invece vende tagliatelle a tutto il quartiere; c’era De Santis, il pollarolo, che è rimasto contadino come al tempo che veniva a Roma col panierino delle uova di giornata: con la faccia senza peli, grigia e massiccia come una pagnotta e la parola greve della gente del Viterbese. C’erano le mogli loro, tutte infronzolate, ma i figli non c’erano, perché, come disse Crociani offrendo il vermut, questa era una serata tra commercianti, per salutare l’anno che veniva, anno commerciale anzitutto, durante il quale tutti dovevano fare quattrini a palate. Dico la verità, vedendoli seduti a tavola, mi piacevano anche meno di quando li vedevo sulle soglie delle botteghe: durante il commercio, nascondevano la soddisfazione e, magari, anche, si lagnavano; ma adesso che si trattava di far festa e i clienti non c’erano, la soddisfazione gli schizzava fuori dai pori.

Ci mettemmo a tavola che erano le undici e attaccammo subito gli antipasti di Tolomei. Qui cominciarono gli scherzi: chi chiedeva a Tolomei se la mortadella era di vero suino, chi gli ricordava la frase: «Lascio?» che lui diceva tanto spesso. Ma erano tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva e si rassomigliava: se avessi scherzato io, che quegli antipasti me li permettevo di rado, penso che gli avrei lasciato l’unghiata; e perciò preferii mangiare e tacere. Ai tortellini si fece un po’ di silenzio, anche perché il brodo scottava e tutti soffiavano nei cucchiai. Ma qualcuno osservò che questi erano tortellini veramente pieni e non mezzo vuoti come quelli che erano in vendita normalmente, e tutti ci fecero una risata. Stetti zitto anche questa volta e mi presi due scodelle colme di minestra per riscaldarmi la pancia. Vennero, finalmente, due tacchini arrosto grandi come due struzzi; e, anche per la grandezza, tutti si misero in allegria e cominciarono a punzecchiare il pollarolo chiedendogli dove li avesse prenotati quei due fenomeni della natura, se dal noto De Santis che forniva tutta Roma. Ma lui, che era contadino e non capiva lo scherzo rispose che, quei due tacchini, lui li aveva scelti tra cento e li aveva ingrassati con le sue mani, tenendoli in casa.

Anche questa volta non dissi nulla ma scelsi con cura una coscia grande come un monumento, e poi tre fette di ripieno, e poi un altro pezzo quadrato che non so dove l’avessero staccato, ma era buono anche quello. Mangiavo tanto di gusto che qualcuno osservò «Guarda Egisto come divora… eh, non ti succede tutti i giorni di mangiare un tacchino simile, Egisto.» Risposi a bocca piena: «Proprio così»; e dentro di me pensai che, per una volta almeno, avevo detto la verità.

Intanto i fiaschi di Crociani circolavano, e tutte quelle facce intorno la tavola lustravano, rosse e brillanti, come una batteria di rame da cucina. Salvo, però, quelle frasi sulla roba da mangiare, nessuno parlava veramente perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. Il solo che ci avesse qualche cosa da dire ero io, appunto perché, al contrario di loro, gli affari mi andavano male, e questo mi faceva riflettere, e la riflessione, se non riempie la pancia, almeno riempie il cervello. Finiti i tacchini, venne un’insalata che nessuno toccò, poi il formaggio e la frutta, e quindi Crociani disse che era mezzanotte e andò in giro per la tavola mostrando la bottiglia di spumante, che, come fece notare, era autentico francese, di quello che lui vendeva tremila lire e più la bottiglia. Sul punto, però, di stappare lo spumante, tutti gridarono: «Egisto, tocca a te, facci vedere il tuo panettone.»

Io mi alzai, andai in fondo alla stanza, presi la scatola del panettone, tornai a sedere e lo scartai con solennità. Dissi, tanto per cominciare: «Questo è un panettone proprio speciale… ora vedrete.» Aprii la scatola, misi la mano dentro e cominciai la distribuzione: una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e un abbecedario per uno, ad ognuno degli uomini; per le donne, come dissi, mi scusavo, non ci avevo pensato. Davanti a questa distribuzione, tutti tacevano sbalorditi; non capivano, anche perché erano intontiti dal vino e dal mangiare.

Finalmente, De Angelis disse: «Ma, Egisto, abbi pazienza, che è sto (questo) scherzo? Mica siamo bambini che andiamo a scuola.» De Santis, che pareva abbrutito, domandò: «E il panettone dov’è?» Io risposi, alzato in piedi: «Questo è un picche nicche, non è vero? Ciascuno ha portato la roba che ci aveva a bottega, non è vero?… e io vi ho portato quello che ci avevo: inchiostro, penna, quaderno, abbecedario.»

«Ma che» disse ad un tratto Tolomei, «sei scemo o ci fai?»

«No» risposi, «non sono scemo ma cartolaio… tu hai portato gli antipasti che io sono costretto a comprarti tutto l’anno… io ho portato quello che ci avevo e che tu mai ti sogni di comprare.» De Angelis disse, conciliante: «Basta, mettiti a sedere, non facciamoci cattivo sangue.» E questa fu la proposta che venne accolta. Saltarono fuori alcuni dolci, le bottiglie furono stappate, e tutti bevvero.

Ma, come notai, al brindisi nessuno volle bere alla mia salute. Allora mi alzai e dissi, il bicchiere in mano: «Visto che non volete bere alla mia salute, il brindisi lo faccio io… Che possiate dunque, durante questo anno, leggere un po’ più, anche se, per caso, doveste vendere un po’ meno.» Ci fu un coro di proteste e poi Crociani, che aveva bevuto più degli altri, si inferocì e gridò: «Ma piantala, iettatore… ci porti sfortuna… vendi i libri a chi ti pare ma non venirci a seccare a noi… anzi, guarda, è meglio che te ne vai (vada)… tanto, ormai, il cenone l’hai mangiato.»

«Allora» risposi «tu non vuoi bere alla salute del commercio dei libri?»

«Ma piantala, buffone, scemo, ignorante, pagliaccio.» Ora tutti mi ingiuriavano; io rispondevo per le rime, calmo, sebbene mia moglie mi tirasse per la manica; il più cattivo di tutti era proprio il padrone di casa che insisteva affinché ce ne andassimo.

Insomma, non so come, mi ritrovai in strada, con un gran freddo, e con mia moglie che piangeva e ripeteva: « Lo vedi che hai fatto… ora ci siamo fatti dei nemici e l’anno che verrà sarà peggio di quello che è finito. »

Così, discutendo, tra i botti delle lampadine fulminate e i cocci che volavano dalle finestre, ce ne tornammo a casa.

 

Martello, fionda e fiammiferi in regalo

Questo Natale, il settimo del nuovo conto di vita, va chiudendo le porte. Io ringrazio e proseguo. Vengo guidata verso il nucleo essenziale, somigliante sempre più a ciò che sono diventata. L’unica parola che rimane è ricerca, parola che rimanda ad una azione faticosa, povera, solitaria, anche se luminosa. Considero un privilegio essere al servizio dell’idea di una Gestione Umana delle Risorse sempre più chiara, scomoda e radicale. Sono convinta e leale, ma non ho di che essere allegra. Infatti molti e molte non ce la fanno a studiare, a servire, a trovare le ragioni, a durare in una scelta professionale che diviene necessariamente personale, quando scegliamo e ribadiamo da che parte stare. Rimango basita, sono triste e ricerco lo sguardo ironico e benevolente che io non ho, nelle novelle marcovaldesche, scritte da Calvino negli anni ’60.

Nell’ultima novella, I figli di babbo Natale, Marcovaldo, operaio invisibile e sottomesso, si traveste da Babbo Natale e, in nome della sua ditta, consegna regali porta a porta con Michelino, il suo bambino. Nel giro di consegne, Michelino incontra il figlio di un grande industriale, un bambino povero in fondo perché annoiato e solo. Gli regala un martello, una fionda e dei fiammiferi con cui quello devasta la casa e la marea dei regali ricevuti. Marcovaldo trema all’idea della punizione attesa dai suoi capi, ma il successo dell’imprevedibile kit natalizio è tale che l’azienda lancia sul mercato il Regalo Distruttivo.

Riconosco le aziende che usano strategie di marketing, talvolta scontate e davvero imbarazzanti, per operazioni sommarie di restyling, mancando di una idea fondante di umanità. E rivedo gli esseri umani ridotti sempre più a consumatori e produttori, servi di un potere che li ricatta e che cambia, continuamente, le carte in tavola, usando “la corruzione, la coercizione e la cooptazione”. (Maria Ressa, L’Espresso, 23 dic.2018, p.30). Le non aziende, le non persone e le non idee originano da un potere grossolano, infantile e violento, inconsapevolmente narcisista e sempre più pericoloso.

Questa è l’esperienza della modernità: al trecentododicesimo pacco, ecco il Regalo Distruttivo, un martello, una fionda e dei fiammiferi, per distruggere, per purificare e per disinfettare. Paradossalmente il potere fagocita anche chi pensa di proporre una rivoluzione, riuscendo a trasformare la critica e l’indignazione in serve imprudenti e sciocche. Il potenziale eversivo del Regalo Distruttivo diviene un buon viatico per un’idea di marketing che autorizzi, addirittura, a rompere e a incendiare, a infiammarsi e a dissentire, tanto niente serve più a niente quando si è disinnescato il pensiero critico e il desiderio di libertà. La causa di relazioni infelici è l’ignoranza, mai la cattiveria. Ma, certo, l’ignoranza può generare comportamenti ignobili attraverso rituali oppressivi e stringenti in cui tutti i Marcovaldo deprezzati, producono sorrisi forzati e sguardi straniati.

I regali dissacranti sono il martello, la fionda e i fiammiferi e l’essere umano che li utilizza per distruggere tutta quell’abbondanza malata, seriamente non ne può più ed è come se urlasse il dissenso e l’infelicità. Ma che nessuno si permetta di operare riduzioni, semplificazioni e sottrazioni e di trasformare la disobbedienza strutturata in un furbesco business.

https://www.youtube.com/watch?v=FZF6554fdeo

I FIGLI DI BABBO NATALEItalo Calvino

 Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.  Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un’acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell’Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l’idea: l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra “tredicesima mensilità” e “ore straordinarie”. Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio. Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un po’ come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno. Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio. La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria. La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. “Dapprincipio, – pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! ”
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. – Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. -Mah… Non vedete come sono vestito?
– E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no?
– E m’avete riconosciuto subito?
– Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
– E il cognato della portinaia!
– E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
– E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
– Tutti vestiti da Babbo Natale? – chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
– Certo, tal quale come te, uffa, – risposero i bambini, – da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, – e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S’erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. – Si può sapere cosa state complottando? – chiese Marcovaldo.
– Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
– Regali per chi?
– Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
– Ma chi ve l’ha detto?
– C’è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: “Siete voi i bambini poveri!”, ma durante quella settimana s’era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: – Bambini poveri non ne esistono più!
S’alzò Michelino e chiese: – È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentí stringere il cuore. – Ora devo guadagnare degli straordinari, – disse in fretta, – e poi ve li porto.
– Li guadagni come? – chiese Filippetto.
– Portando dei regali, – fece Marcovaldo.
– A noi?
– No, ad altri.
– Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: – Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
– No.
– Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d’esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. – Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, – disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
– Andiamo, forse troverò un bambino povero, – disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle Feste. E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all’altro segnato sull’elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
– La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. – Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
– La Sbav augura…
– Be’, portate qua, – e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d’occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
– Gianfranco, su, Gianfranco, – disse la governante, – hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
– Trecentododici, – sospirò il bambino – senz’alzare gli occhi dal libro. – Metta lí.
– È il trecentododicesimo regalo che arriva, – disse la governante. – Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
– Papà, quel bambino è un bambino povero? – chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s’affrettò a protestare: – Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator…
S’interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
” Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l’ha scambiato per me e gli è andato dietro… ” Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po’ in pensiero e non vedeva l’ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
– Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato?
– A casa, a prendere i regali… Si, i regali per quel bambino povero…
– Eh! Chi?
– Quello che se ne stava così triste.. – quello della villa con l’albero di Natale…
– A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
– Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
– Figuriamoci! – disse Marcovaldo. – Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
– Sí, sí dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano…
– E cos’erano?
– Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…
– E lui?
– Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
– Come?
– Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…
– Cos’era?
– Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza… Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…
– Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?
– Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto più felice. Diceva: ” I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! ” Ha cominciato ad accenderli, e…
-E…?
– …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. – Sono rovinato!
L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivestì da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale.
– Alt! – gli dissero, – scaricare tutto; subito!
“Ci siamo!” si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
– Presto! Bisogna sostituire i pacchi! – dissero i Capiufficio. – L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
– Così tutt’a un tratto… – commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima…
– È stata una scoperta improvvisa del presidente, – spiegò un altro. – Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi…
– Quel che più conta, – aggiunse il terzo, – è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino… Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell’entusiasmo…
– Ma questo bambino, – chiese Marcovaldo con un filo di voce, – ha distrutto veramente molta roba?
– Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata…

 Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi. C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là. Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento. Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po’ più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

 

 

 

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Nina Berberova, Il giunco mormorante, Adelphi, 1990

 

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Questa riflessione origina da una storia d’amore, da un piccolo libro che racconta la relazione difficile, anche a causa della prima guerra mondiale, di un uomo e di una donna. Il racconto è centrato su un pensiero fondo e suggestivo: ogni persona interiormente scopre e difende la terra di nessuno, il luogo della indissolubile intimità con il proprio nucleo. Ed è grazie alla no man’s land che custodiamo la potenzialità dell’amore.

La scrittrice nasce a San Pietroburgo nel 1901 ed emigra negli Stati Uniti vivendo lo spaesamento dei transfughi dalla Russia rivoluzionaria. Soprattutto la relazione come confidenza con se stessi è il tema ricorrente nei suoi romanzi. Le storie di coppie diverse rimandano, in ogni modo, all’indagine psicologica di ogni personaggio e alla necessità di riconoscere e mantenere la libertà nell’amore.

“… se permettiamo a qualcuno di organizzare la nostra no man’s land, alla fin fine, secondo logica, arriveranno a rinchiuderti in una lussuosa camera di un lussuoso albergo, e bruceranno i tuoi libri, e allontaneranno da te tutti quelli che ami. Basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà tolto…” (p.77)

Trasformare se stessi in un giunco, questa è la benedizione: l’elasticità, la capacità di dondolarsi nella realtà che va presa in carico senza la pretesa di cambiarla.  Il giunco si propaga con i rizomi sotterranei, è molto resistente e difficilmente viene attaccato dai parassiti, come le coscienze di chi provvede in tempo ad indagare e a capire la sua terra di nessuno, no man’s land.

Nella vicenda narrata, a Parigi, a Stoccolma, a Venezia, per tutta la vita, assistiamo alla dignità degli addii. I due amanti dichiarano il desiderio di rimanere assieme e la necessità storica di andarsene. E infine, navigando verso il nucleo di sé, nei sotterranei dell’anima, si dissolve l’urgenza dell’incontro e la relazione esprime proprio nell’assenza la sua più sottile e complessa presenza.

Nella vita, tre volte finora ho sperimentato la straordinaria assenza di relazioni cave, radicate, arcane. Essa non é mancanza, ma è assoluta essenzialità: io so e tu sai. Non abbiamo nulla da dirci, dichiara l’abbandono peggiore ed è, invece, la migliore intimità possibile. Penso, attraverso il romanzo, ad un’etica del non incontro. Rilevo l’immobilità dell’assenza a causa di una eventualità di presenza totalizzante ed eccedente. Più sottile e profonda è, sempre, l’assenza dell’altro che rivela il mistero della vicinanza a se stessi. Berberova indaga con dolcezza e con determinazione il canto che lega indissolubilmente l’amore e la solitudine, il dolore e la giustizia, la realtà e il desiderio. Così, la relazione può continuare ad esistere, a prescindere dalle scelte obbligate della storia, nell’incontro doloroso e gioioso con le proprie viscere. Consapevolmente e autonomamente.

Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità. Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la «linea generale» dell’esistenza. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso, e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero. Mi fanno pena le persone che sono sole unicamente nella stanza da bagno, e in nessun altro tempo e luogo.” (pp.36-37)

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Stelio Mattioni, Tululù, Adelphi, 2002

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Che incontro inaspettato e dolce, questo romanzo sottovoce e questa Matilde, soprannominata dalla sua stessa madre, segnata da un nomignolo che si manifesta come un programma di vita inevitabile: “…Tululù vuol dire ingenua, anche stupidina…”

E penso ad ogni donna che, in situazioni diverse, mi appare come Tululù. Per esempio, quando si fida senza verificare la realtà. Quando scusa gli altri mentre la offendono perché loro, in fondo, sono in buona fede. Ogni volta che si riserva l’ultimo posto e, in ogni caso, mai il primo. Quando sceglie di essere remissiva ad oltranza, e si accontenta, e aspetta, stanca ma sempre pronta a servire. Quando pensa che le ambizioni sono troppo grandi, tutte. Quando è in soggezione e preferisce obbedire.

“… non sapeva dire le preghiere come si doveva, ma solo con sospiri e divagazioni, insomma a modo suo.” p.16

“… per chiedere alla Madonna che non cambiasse niente in peggio, non certo per chiederle qualcosa di meglio.” p.54

Tululù prega con purezza, ama e difende il suo amore a prescindere, non chiede, urla disperata e gli altri credono che sia isterica. Tululù salva inutilmente il mondo, oppure è vittima seccante e ridicola, o, ancora, è persecutrice lagnosa o dispettosa. Fare Tululù è scusarsi di esistere, di essere così come si è e non un’altra. Più che una donna singola, Tululù è una parte di tutte le donne, rappresenta un momento di vita che tutte attraversano, una tappa di evoluzione obbligata verso la consapevolezza di sé.

“Matilde non si era mai accorta di essere avvenente, né aveva mai pensato alla propria persona come a qualcosa che potesse colpire qualcuno, ma visto che la Signora, che era la sua padrona, non poteva sbagliarsi, a quelle parole era rimasta turbata. Solo per poco, s’intende. Perché interessarsi di se stessa proprio non poteva, quando a questo mondo c’erano secondo lei tante cose e persone per le quali adoperarsi che lo meritavano di più.” p.13

Ma Tululù è anche lo sguardo di meraviglia, l’ingenuità della interazione. È la pacifica soglia, il rimanere senza l’urgenza di abbandonare, è fidarsi perché la speranza è l’ultima a morire. È il tempo della suggestione, la sindrome di Stendhal. È l’accorgersi stupìta di quanta acqua c’è nel mare, come se lo si incontrasse per la prima volta, è lo sguardo sognante, il pensiero che si vedrà, che chissà, che forse…

Non si tratta di fingersi scema per non confliggere con l’altro, o di essere davvero scema per chissà quali difetti neurologici. Invece, penso che sia una conquista vivere con coscienza anche la parte meno brillante, più modesta e sottotono di sé. Tululù, in fondo, sono io, nell’ombra o nella parte cieca, così diversa dal personaggio dipinto da Stelio Mattioni e così uguale. Come Tululù, svelando la parte tenera cinestesica, misuro la libertà mia e dell’altro, guardo la differenza e me ne faccio carico, patisco la distanza e registro le ragioni. E, allora, accetto che non dipende da me e che non posso farci nulla. E che va bene così.

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Chiara Cannito, Corro, quorumedizioni, 2018

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La pubblicazione di questo libro rappresenta un’operazione culturale significativa. Per un adulto è difficile sentire, pensare e parlare anche come un bambino. Chiara Cannito accetta la sfida, accudendo assieme dentro di sé la voce bambina e quella adulta.

Leggo una storia terribile raccontata con il linguaggio dolce e determinato della giovinezza. L’esperienza umana di Uday è trasmessa con abilità e con potenti mezzi espressivi oltre la scelta di una narrazione semplice e terribile. Il giovane ha quasi vent’anni e ricorda l’infanzia felice nella sua Aleppo e la giovinezza di guerra. Guerra e rovina, sempre e dappertutto.

Uday corre, pensa, confida. Correre è diverso che camminare. Corro diviene una intesa con se stesso, un’alleanza per la vita. Corro e respiro, mi allontano, corro e penso, vado incontro, corro e sento la passione di vivere. Le sequenze narrative sono veloci e riconoscibili.

In questo periodo storico, al cittadino democratico europeo sembrano piacergli poco i giovani, le donne, i poveri nella guerra. Uday è ancora un extracomunitario, la sua Storia interessa a pochi e l’economia del suo Paese vale meno di niente.

Condivido il pensiero di Annamaria Bruno che dirige con curiosità e saggezza la rivista “Lettera Internazionale” fondata nel 1984 da Antonin Liehm e da Federico Coen. Scrive Bruno: “… la mia impressione è che si continui a confondere l’informazione con la formazione, delle classi dirigenti e della gente. L’opposizione tra le due sul piano spaziotemporale è assolutamente netta: l’informazione fa leva sull’orizzontalità veloce e dunque sull’abbattimento degli spazi vuoti, delle distanze, a scapito della riflessione e dell’elaborazione dei dati; la formazione fa leva invece sulla verticalità lenta, sulla costruzione nel tempo e nello spazio di una consapevolezza compiuta e dunque capace di (auto)critica. Tutto questo, come spesso accade, è più facile che lo comprendano gli artisti che non i politici o i politologi”.

Il racconto “Corro” costruisce una eccellente base di formazione, per capire nella libertà, per discernere evitando le manipolazioni ideologiche. Abbiamo bisogno di profondità, di verità essenziale che riveli l’umano a ciascun essere.

Ricordo la dialogica interculturale di Edgar Morin che mi ha insegnato a fare attenzione alle parole utilizzate per raccontare il mondo perché il mondo rischia di diventare ciò che io stessa descrivo.

Sono convinta che il luogo della ricerca psicologica sull’umano, sugli uomini e sulle donne, è la Terra e non la nazione. Achille Mbembe, filosofo camerunense scrive su Le Monde il 24 gennaio 2017: il carattere proprio dell’umanità sta nell’essere chiamati a vivere esposti gli uni agli altri, e non chiusi in culture o identità. Penso che le parole cultura, identità, origine, confine possono diventare armi pericolose senza un contesto di visione antropologica ampia e lungimirante.

Ha ragione Edward Said, scrittore e docente palestinese, morto nel 2003: … ogni scontro di civiltà è in realtà uno scontro di ignoranze che dobbiamo cercare di ricomporre a tutti i costi, da bravi “soldati della cultura”.

Chiara Cannito compie la rivoluzione di un testo che opera una filiazione con un’altra cultura. Chiara sa e rende testimonianza dell’esistenza di patrimoni immateriali dell’umanità come le persone, le relazioni, i desideri, la condivisione dell’arte e delle storie.

Fame

Roxane Gay, Fame, Einaudi, 2018

Fame
Il libro autobiografico di Roxane Gay offre, a chi legge e comprende la sua storia di sofferenza, la possibilità di riflettere sulla relazione che ogni persona crea, coltiva e si ritrova ad avere con il proprio corpo. Roxane è una donna colta e coraggiosa che confida la sua esperienza con parole dure, feroci, scritte sulla propria carne prima che sulla carta. Senza protezione, dichiara la violenza subita nell’adolescenza, un evento terribile che segna per sempre la sua esistenza. Ed io, ogni volta che ascolto storie di aggressione e di ferite incancellabili, spero che i disturbi psicologici che ne derivano possano essere curati. L’obesità può essere considerata una patologia? Con certezza, sì. I disturbi dell’alimentazione sono diversi e di varia origine.
La vicenda umana di Roxane ribadisce che l’obesità rimane un sintomo ingombrante di un percorso mancato, anche psicologico. Non credo al corpo solo e ribelle da addomesticare, ma credo all’essere umano tutto intero con una storia da desiderare e da riconoscere nelle ombre e nelle mancanze. Ci sono molte cose di cui aver fame, il cibo è più a portata di mano. Non si tratta di dimagrire e basta, ma di farsi carico della possibilità sana di abitare il mondo perché ne siamo degni, con tutte le contraddizioni che ci abitano. Non guardo con ossessione al risultato della dieta e che, talvolta, può risultare nullo o minimo.
 
Accolgo l’orientamento dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che fa riferimento alla salute come ad uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive ed emozionali, di esercitare la propria funzione all’interno della società, di rispondere alle esigenze quotidiane, di stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, di partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, di adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.
 
Qualunque malessere psicologico necessariamente coinvolge e si esprime attraverso il corpo. Roxane Gay annota, ricorda con precisione i sentimenti, i comportamenti e le riflessioni durante la sua vita. Ha un corpo, ma lei stessa è quel corpo. Nessuno può affermare di avere una malattia senza accettare di essere, anche, diventato quella malattia. “… perdere peso, essere magri è moneta sociale corrente” afferma Roxane. Scelgo di avvicinarmi ad ogni persona in sovrappeso e obesa evitando le generalizzazioni. Un fatto è la stupidità della cultura dominante che impone la magrezza, altro problema è il peso in eccesso che ammala e che cancella la gioia di vivere.
 
La scrittrice, spesso, confonde la questione estetica e la necessità fondamentale di prendersi cura del proprio corpo, prima, e di intervenire con le cure, dopo. Se la misura è la perfezione – ogni delirio culturale ne costruisce e ne vende una – siamo tutti e tutte inadeguati/e. Se invece la misura è la dignità dell’esistenza, siamo tutti legittimamente umani.
 
Non ci liberiamo velocemente e meccanicamente dai chili in eccesso e dalle cicatrici. Ogni persona può affermare di essere quella che è riconoscendo anche la sua ombra. Attraversati dall’esperienza, ogni donna e ogni uomo riconosce di andar bene così com’è e decide, se vuole, di cambiare vecchi pensieri e abitudini obsolete. Il corpo non è la croce alla quale è inchiodato l’essere umano e non è il tiranno che ci sfida.
 
Apparteniamo ad una umanità diversa, colorata, fastidiosa e bisognosa di accudimento. È l’esistenza stessa che percepisce la gioia attraverso la corporeità, attraverso il sentimento, il pensiero e l’azione della carne. Il corpo è la comprensione della persona che cambia, che invecchia, che apprende.
Forse, naturalmente con l’età si arriva a volersi bene di più. Un percorso di coscienza e di conoscenza può agevolare, può anticipare e cristallizzare la rinascita.
 
È dura. Essere donna, nera, obesa e custodire il segreto di uno stupro a 12 anni: è la realtà. E facendosi carico di essa, ogni Roxane può scegliere di evolvere, di diventare, di capire, di dare una lettura possibile ai fatti. Ha un senso, la realtà, sempre, e bisogna che ognuno per sé trovi quel senso. Quando si acquisisce una buona relazione, una confidenza onesta con se stesse, tutte intere, il corpo sa ciò che gli fa bene e chiede e basta solo ascoltarlo, basta sintonizzarsi sul bisogno che si svela in modo chiaro. Senza sacrifici disumani, senza ingaggiare guerre fra la mente, l’anima e la carne.
 
Roxane afferma: “Ho deciso che non permetterò al corpo di dettare le condizioni della mia vita, perlomeno non tutte. Non mi nasconderò dal mondo.” Io sono convinta che il corpo non può rappresentare la parte malata di una persona. Il corpo, a 20 anni, come a 40 e a 60, certo, detta le sue condizioni. Non esiste un’altra Roxane, un’altra Me. Non credo si tratti di essere più o meno amati o innamorate per salvarsi dal sovrappeso.
 
Dubito che dal sovrappeso e dall’obesità ci si possa salvare assumendo la convinzione di un corpo avverso, nemico, barricato nella ciccia. Invito a non violentarsi, evitando di perpetuare lo stupro su se stesse. È bello convincersi in ogni età della vita che è fondamentale l’equilibrio fra il sonno, l’alimentazione, la sessualità, intesa non solo come rapporti sessuali più o meno amorosi ma, soprattutto, come la confidenza affinata con il corpo e la cura di esso. È il ruolo della guida psicologica: la rabbia, la tristezza e la paura non sono sfidate e rancorosamente negate, ma sono riconosciute e accolte, in modo da diventare una guida per la rinascita.
 
Grazie, Roxane, per la fatica di questa testimonianza scritta.