Haddad

Joumana Haddad, Ho ucciso Shahrazad, Oscar Mondadori, 2011

Haddad

Oltre i cliché e gli stereotipi consumati con superficialità, Joumana Haddad chiarisce che “le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe sono musulmane. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi… non tutte le donne arabe piegano la schiena”. (pp.23-24)

L’hijab islamico, il burqa sunnita e lo chador sciita sono le percezioni e le visualizzazioni più immediate e consolidate nella coscienza collettiva occidentale della donna araba, immaginata unicamente come sottomessa, impotente e mascherata. Dallo Yemen all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Barhein, tra i pavoni e gli struzzi, tra i vanti e le ipocrisie di società vecchie e mortifere, la libertà di espressione segue necessariamente la libertà di pensiero, altrimenti le parole si fermano solo in superficie. È il processo di ideazione e di creazione che rende sostanza la forma. Il corpo visibile ha la pelle porosa, le forme sono l’espressione più profonda di un io adulto e svelato che combacia con la sua più intima natura. Le parole non sono coperture più o meno elaborate, ma corrispondono direttamente a visioni di vita, a pensieri che si riflettono in azioni decise. Come afferma Zaha Hadid, citata dall’Autrice: “Non importa quanti progressi sono stati fatti, c’è ancora un mondo che per le donne è tabù. E in questo mondo risiede la sua libertà”.

Joumana ha 48 anni ed è figlia di una famiglia libanese conservatrice; cresce nella libreria paterna, leggendo la letteratura e i saggi che attutiscono i fischi dei missili per le strade di Beirut, trasformate in luoghi di guerra, negate al passaggio, alla cultura, negate agli scambi di relazioni. Joumana è convinta che “la vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente della donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo)”. (p.24)

Partendo dalle riflessioni di Haddad auspico un passo avanti nella consapevolezza di ogni donna che si trovi a confliggere con le proposte del potere e ad orientare lo spirito e il comportamento verso esiti non distruttivi. Chiedo di curare la personale predisposizione al conflitto aperto senza la guerra e di accudire con determinazione le scelte di vita che aprono potenzialità del pensiero e del comportamento. Oggi, come psicologa adulta, invito a ragionare e a coniugare l’attivismo con la testimonianza di una quotidianità vissuta con attenzione, con gioia e con serietà.

La rivendicazione, la sfida, la dichiarazione di guerra, la ribellione centrata sui bisogni personali manifestano una risposta di opposta forza che rimane, purtroppo, sul binario del potere. Oltre la sovversione, l’esaltazione e l’invettiva, credo nella relazione che, spesso, è parziale, che inciampa, che è fraintesa e che ha bisogno di tempo per raccontare, per spiegare ancora, per capire assieme. Quando affermo che la modalità aggressiva per rispondere all’indignazione rabbiosa è inadeguata, voglio dire che nelle interazioni, ogni persona, naturalmente, trasferisce la sostanza della propria visione di vita e che l’essere umano vigile vive decidendo equilibri possibili fra le occasioni per parlare, per aprire confronti duri senza odio e le situazioni in cui lasciare correre, perché il sangue risparmiato risulta, talvolta, più utile di quello versato.

“Un mondo migliore non è possibile senza liberare
Le menti, i corpi e soprattutto il linguaggio delle donne”
Nawal Saadawi, scrittrice, attivista e psichiatra egiziana, p.53

Al centro non sono sempre il malessere personale, la rabbia e l’offesa che mi abitano. Invito al passaggio dalla visione egocentrica, “sto male e ho diritto a stare bene”, alla scelta egocentrata, “come posso mantenere aperta una relazione che ci consenta di continuare a parlare e a raccontare le proprie ragioni?”. Il femminismo che vorrei incontrasse Joumana è proposto dal pensiero della differenza di Luisa Muraro per credere in rivoluzioni che partono da sé e che creano alleanze in cerca di soluzioni mai definitive. Il sultano esiste e rivendica la sua sessualità primordiale e ha necessità di apprendere nuovi comportamenti e intravedere cammini sconosciuti, oltre le formule binarie, questo o quello, bianco o nero, vita o morte, io o l’altro, adesso o mai.

Shahrazad racconta non per ambizione, non per vincere, non per poter sopravvivere, ma per offrire tempi e spazi a sé e all’altro al fine di pensare e diventare assieme. Shahrazad non è solo la donna che ottiene ciò che vuole con il compromesso, compiacendo l’uomo e raggirando a suo favore le situazioni in un eterno gioco psicologico a “Calzetta”, a sedurre. Non necessariamente trova un marito ricco, divenendo complice inconsapevole (?) di un sistema che mantiene la svalutazione, l’esclusione e la sottomissione. Shahrazad non si addomestica e non si arrende, semmai, parte dalla resa saggia dinanzi alla realtà e si protegge anche prendendo tempo. I muri rischiano sempre di essere rimpiazzati da altri muri e molte persone continuano a promuovere la capacità critica e il lavoro di educazione, la liberazione e i risvegli. Talvolta, la paura di essere tornati indietro dichiara solo la posizione per uno slancio più determinato e duraturo. Non si tratta di non lasciarsi intimidire, anzi, il contrario, attraverso il timore avvertito fino in fondo, ci consentiamo di non scegliere fra il ruolo di vittima o di ribelle per non rimanere nel gioco del dominio, ma osiamo rilanciare, nella differenza, le prospettive e gli scenari.
“I veli esistono in diversi tessuti e modelli. C’è il velo della negoziazione, dell’autoinganno, del compromesso, delle etichette esotiche, dei parziali messaggi politici, delle visioni ed estrapolazioni distorte, dell’apprensione e della paura, delle grette sentenze, e poi c’è il più pericoloso: il velo dei falsi simboli fabbricati dai media…” (p.124)

Oggi non si tratta di voler essere scomode e crudeli, graffianti e imprevedibili, per partito preso, ma è importante credere nelle necessità e possibilità relazionali di eros e di conflitto. Credere nel proporre e nell’ascoltare le storie. Ho una notizia per Joumana e per tutte le donne: Shahrazad è morta, non è stata uccisa. Viva è Sherahrazad. Ogni donna la custodisce. Non seduce, non rivendica, non persuade. Studia e desidera oltre la rabbia sfidante, la paura sottile, la tristezza dura. Adesso, ogni Shahrazad, regala le storie in cambio di niente.

Il passo avanti è la resistenza erotica e politica che parte dal desiderio del corpo, della mente, del cuore di ogni persona, dalle parole di moderne Sharazade, come Marthia Carrozzo

Sharazade

Le tue mani.
Le tue mani, ora.
Le tue mani,
ancora.

Il calco perfetto del tuo segno.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la braccata bellezza dei miei nervi a fiorire.

Promulgare il nitore dagli occhi
e dai pori, dai pori, più ancora,
tutti i numeri, a dire il piumaggio,
il tratteggio dei denti, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me.

Fatti bocca, per mordermi ancora.
Fatti aria, per farmi annaspare.
Fatti peso che schiaccia il mio peso,
senza forza, violenza, né male.

Fatti inverno per farmi tremare.
Fatti solco, voragine, apnea.
Fatti assenza che brucia lo sguardo,
tira i tendini fino a
colmare.

Fatti carne che è inversa alla carne.
Fatti lupo, nel nome, a smembrare.
Fatti siero spremuto dai polsi
per legarmi pur senza legare.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la sbrecciata bellezza dei miei nervi a sfiorire.

Che le mani non bastano, ora.
Che le mani non bastano, ancora ed ancora.
Che le mani, le mani non bastano ed
ora.

Che nel Libro del senno è già scritto,
conficcato ad uncino tra i seni.

Che a cercarti non servono gli occhi
Che a cercarti non servono gli occhi ed ancora
Che a cercarti non servono gli occhi, che
ora.

Che il cifrario si tasta alla schiena.
ogni lettera, in braille, sotto il derma.

Che il tuo tornio sa bene il mio dazio,
che mi danza, mi impasta, ma cieco.

Che le Tavole stanno alle reni,
proiettate a vettore di ali.

Ch’è il tuo fiato che incide e le forgia,
se mi scuci, svuotata, se stai.

Che la Legge, la tua, mi è già impressa al midollo,
se mi scavi, artesiana, mi fai.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la svelata bellezza dei miei nervi a gemmare.

Promulgare il nitore dai bulbi
e dai pori, dai pori, più ancora,
le tue impronte, a tradire il piumaggio,
le vibrisse di fiato, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me

Fatti mare, per mordermi ancora.
Fatti tempo, per farmi annaspare.
Fatti leve, di contro al mio peso,
senza attrito, prudenza, né male.

Fatti terra per farmi tremare.
Fatti crepa, poi sisma ed apnea.
Fatti bianco che brucia lo sguardo
e ricontami fino a
colmare.

Fatti carne che versa la carne.
Fatti lupo, nel verso, a sacrare.
Fatti siero rappreso nei polsi
per guidarmi pur senza guidare.

Fatti fame, per farti trovare.
Fatti spazio, per spingerti ancora.
Fatti piano che assorbe la luce,
senz’attese, distanza, né male.

Fatti nasse per farmi arenare
Fatti eco, scandaglio ed apnea
Fatti notte a covare lo sguardo
E raccontati
fino
a

 

pariani

Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore, Einaudi, 2015

pariani

Forse la follia che ogni essere umano si porta addosso come una possibilità, serve a conoscerci fino in fondo, a capire, a sapere davvero. Infatti, crescere è una malattia insanabile. Laura Pariani, con una scrittura abile e coraggiosa, ricorda Dino Campana, un genio pazzo, arrabbiato e triste, rinnegato ancora dai programmi scolastici e ritrovato nella solitudine delle letture intime.

Il Poeta viene rinchiuso dal 1926 al 1930 nel Regio Manicomio di Castel Pulci, un inferno di attenzioni speciali e pratiche inumane. Ripercorriamo il destino di pazzia e di poesia: una opportunità per ripensare ad una vita folle e alla follia vitale. Il dottor Carlo Pariani è lo psichiatra che ascolta il Poeta raccontare di viaggi, di amori, ascolta la storia in cui la realtà e l’immaginazione si tessono nella trama dolorosa del disturbo mentale. Il romanzo è il racconto a capitoli ed episodi di un viaggio in Sudamerica con la testa persa a fantasiare e a sentire il tremolìzio come voci di potenze invisibili. Che il vagabondaggio ricordato, a piedi o su mezzi di fortuna, sia accaduto o meno, per chi legge non ha alcuna importanza.

Il viaggio chiamato amore testimonia che la poesia ha una relazione diversa e privilegiata con la realtà. Laura Pariani modera la voce per facilitare un percorso doloroso con il corpo, con la mente, con il cuore.  E cos’altro è viaggiare se non tornare diversi, con l’occhio esercitato a vedere altre prospettive? La parola di poesia (non il poetico tout court) è sempre reale ed è sangue, lacrime, sudore, è acqua trasparente di fonte ed è torbida pozzanghera, pensiero vivo di morte.

Quello che ci rende schiavi può anche liberarci (p.173): la libertà è intesa come l’esercizio del pensare in autonomia, del godere di ogni volto, di ogni storia, come la possibilità di ogni essere umano di generare significati e valori, anche attraverso l’irreparabilità della morte. L’ombra è sempre espressione di una luce. Lo scarto e la spazzatura raccontano la disciplina alimentare. L’escluso e il nemico portano il nome delle paure. Le periferie e le trincee disegnano la tristezza dei limiti mentali e il bisogno di uno sguardo che si protegge con un orizzonte certo. Le follie tradiscono il desiderio di contare, in ogni caso, sulla relazione. Attraverso la lettura del romanzo, ci tocca ascoltare e ringraziare perfino il nostro diavolo custode.

Anche se, in fin della fiera, non so che pensare di una società che chiude dietro alti muri chi non si adegua alla cosiddetta sanità. Alla maniera del gatto che sotterra i propri escrementi. (p.158)

Ricordo una frase di Nietzsche, letta tanto tempo fa. Bisogna congedarsi da Nausicaa: non innamorato, ma bene augurando. (p.81)

Questa canzone, io la chiamavo amore oppure poesia, i miei la definivano pazzia perché, come proclamava mia madre, “l’amore e la poesia non si mangiano!” (p.41)

Tra i libri che stanno sugli scaffali di una biblioteca, alcuni potrebbero precipitarti nel dubbio, ma altri possono cantarti nell’orecchio. Libri che forse pochi prenderanno tra le mani. Avvolti nel loro silenzio finché rimarranno chiusi, coi loro segreti a cui nessuno accede. Ché anche le parole muoiono… Pensi un po’: ho passato i miei anni più belli a scrivere poesie, a consolarmi con un verso, il fulgore improvviso di una parola, un frammento di vetro scuro che pulivo e ripulivo, a volte intravedendoci il volto feroce di qualche donna. Ho scritto forse per chi in un altro tempo, magari tra cent’anni, leggerà queste mie frasi e avrà pietà di me. Che follia, vero?… perché poi tutti credono di avere un messaggio da lasciare? Perché quest’ansia di durare, di brillare attraverso i secoli? Perché non l’intensità e la passione di un solo istante? (p.153)

Dino è profondamente consapevole che le parole a volte giocano brutti scherzi; ché, quando vengono enunciati, anche i brandelli, le briciole dei fatti acquistano importanza, un’imprevista crudezza che sa di realtà… (p.85)

Dicono che sono matto, ma loro? se dovessi giudicare la saggezza degli uomini dalla quantità del tempo che dedicano alle poche cose veramente importanti, sarei costretto a tirar la conclusione che medici e infermieri sono pazzi sul serio e che questo è un mondo alla rovescia. Mi sembra vera follia sprecare ore e ore in scartoffie, timbrature, relazioni sulle varianti della temperatura corporea di un ricoverato, verifiche sulla solidità delle sbarre dei nostri letti nichelati, e non dedicare neanche un minuto al fondamentale interrogativo: CI SONO ALTRI MONDI SOTTO I NOSTRI PIEDI? Non li tocca questo dubbio, che invece a me rode interamente la catena dei discorsi. Come pure le altre due domande: SE ESISTONO COSE CHE NON VEDO, E’ALTRETTANTO VERO CHE LE COSE CHE VEDO ESISTONO? EPPOI SIAMO SICURI CHE QUESTO GIORNO PIENO DI LUCE NON DEBBA ESSERE CHIAMATO OSCURITA’? … Non sono che somari che rampano in cattedra pieni del vento della propria negra scienza catalogale. (p.40)

 

solnit

Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose, Ponte alle Grazie, 2017

solnit

Rebecca Solnit è diventata mia compagna di viaggio. Come in un’altra precedente riflessione: http://www.ndcomunitadiricerca.it/la-possibile-prospettiva-del-cambiamento-attraverso-la-cura-della-memoria/, anche in questa pubblicazione apprezzo e mi conforta il suo pensiero.

“La credibilità è uno strumento di sopravvivenza fondamentale.” (p.13)

Considero essenziale questa affermazione. Perché non c’è più speranza di relazione se non credo a me e/o non credo all’altro/a e non vedo la realtà dei fatti. Screditare me stessa, l’altra persona, la situazione nella quale siamo coinvolte, è un atto conclusivo. Infatti, non risaliamo dall’inferno del niente serve a niente, dall’impotenza in cui precipitiamo. Credo ad ogni persona,  da parte mia chiunque è credibile mentre dice un pensiero o un sentimento – spesso tutti e due contaminati – che rimandano alla sua storia, alla sua esperienza. Anche se le cose affermate non mi fanno piacere e non trovano riscontro nella mia vita, perché, appunto, diversa.

Fino a ieri, anch’io mi sono sentita dire “che le cose non erano andate affatto come dicevo io, che era la mia opinione soggettiva, che le cose me le immaginavo, che ero nervosa e in mala fede: insomma, mi comportavo da femmina.” (p.15). Aggiungo: mi comportavo da femmina, quindi, alterata nella capacità di pensare, quindi, pazza.

Oltre il riferimento a uomini e/o donne, io riconosco in ogni situazione un modello maschile che manipola e sottomette, che “amorevolmente” ammonisce e sconforta, che bacchetta e svaluta. L’assoggettamento alla cultura patriarcale del dominio e del controllo ha una origine certa nell’ignoranza e nella nefasta complicità di esseri umani inconsapevoli e bisognosi di affermarsi come i migliori.

Apprendiamo a Proteggerci e, contemporaneamente, a darci il Permesso di riconoscere, di smontare le tecniche predatorie sin dalle prime avvisaglie. L’aggressività anche sorridente non è mai casuale, anzi, peggiora. Più che ai processi dopo i misfatti, io credo alla educazione e alla prevenzione. Mi impegno a trasformare i rapporti gerarchici in relazioni egualitarie, diversamente felici.

L’imprenditore che incontro nel mio lavoro è un povero cieco quando ricatta le persone sulla difficoltà di trovare lavoro altrove. Quando avvelena il clima con vessazioni sottili operando scotomizzazioni con sarcasmo e calunnie. Quando tratta i/le dipendenti esclusivamente come un costo e crea gli alibi, strumentalizzando i fatti, per trattare tutte le persone come nemiche, usurpatrici, ladre, come perdigiorno. È un cieco ostinato ogni volta che ribadisce di essere l’unico a lavorare, a tenere all’azienda, a produrre.

“Appariva così ferocemente sprezzante e così aggressivo nella sua sicurezza, che discutere con lui sembrava un pauroso esercizio di inutilità e un ulteriore stimolo all’insolenza.” (p.16)

In psicologia, scotomizzare è l’operazione inconsapevole mediante la quale la persona esclude, occulta, mente, pur di confermare la sua inamovibile convinzione copionale.

Piuttosto che dichiarare che non è vero, che non ci credo, che non sono d’accordo, l’interazione che ristabilisce la relazione è: voglio capire meglio; ti chiedo di chiarirmi il tuo pensiero; parliamone ancora. Cosa mi sfugge della prospettiva che l’altro/a insiste a segnalare? Non credo in conclusioni affrettate, ma nel conflitto mantenuto aperto.

Solnit ricorda nomi, date, episodi: conoscere la realtà è indispensabile.

In giornate come questa leggo, penso, scrivo. Solo e da sola.

“Ogni donna sa a cosa mi riferisco: a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che impedisce di essere udite quando osano parlare… Per noi è un addestramento all’insicurezza e all’autolimitazione, mentre gli uomini tengono in esercizio la propria immotivata tracotanza.” (p.12)

“Certe volte credo che queste messinscene di sapere autorevole siano fallimenti del linguaggio: la lingua delle asserzioni spavalde è più semplice, meno faticosa rispetto alla lingua delle sfumature, dell’ambiguità, dell’ipotesi – e in quest’ultimo linguaggio Virginia Woolf non aveva pari.” (p.87)

Il coraggio del ruolo, la premessa di autorità

Ci sono molte specie di coraggio… una è senza dubbio quella di affrontare i moschetti. Ma un’altra è quella di sacrificare i vantaggi di una condizione invidiabile per andare a vivere in mezzo a compagne e sotto l’autorità di superiori di nascita e di educazione spesso inferiori alla nostra. (Bernanos, p.32)

 A Giulio,

per il coraggio come pratica di limite e di libertà

(perché ce n’è troppo, perché manca,

perché “uno non se lo può dare”)

 

Questa riflessione costituisce la premessa al lavoro sull’Autorità (https://www.liziadagostino.it/autorita-della-presenza-in-relazione/), inteso come un percorso formativo per chi ricopre ruoli di responsabilità all’interno delle organizzazioni.

Il ruolo è rŏtŭlus, come quel giro di azioni che una persona pensa e mette in atto in un processo sociale. Come una ruota, assumendo un ruolo, esercitiamo la circolarità, la flessibilità, il movimento e accogliamo il rischio di non saper frenare, di faticare nella salita, di schiacciare mentre procediamo.

Nelle ultime settimane dello scorso anno, ho sperimentato nelle aziende, da parte di molti responsabili, la fragilità, l’insicurezza, la tragica accidia del ruolo che condanna a non parlare, a non agire, a non esporsi, a non decidere, ricoverandosi in un angolo buio di passività e di lentezza.

Mi impegno per uscire dal tugurio delle menti dei comportamenti ripetitivi ed inconsapevoli perché abuso e disuso del proprio ruolo sono i due estremi che misurano la patologia culturale e, in molti casi, personale nell’esercizio di autorità.

Incapaci e impotenti, i manager responsabili non sanno e non possono. Di conseguenza, si esprimono con modi rabbiosi, svalutanti, prolissi. Le autorità funzionano solo nel loro contesto, costruito testardamente come una scatola a specchio che rimanda, in continuazione, la propria immagine di capo. Li immagino come una foto di animali nel loro habitat e non mi riesce di pensarli altrove, in situazioni diverse.

La recita del ruolo non è solo sgradevole, è immorale.

Bisogna curarsi.

È la paura che sottende l’immobilità e favorisce il comando, il controllo, la punizione. Riconoscere la paura, nominarla, venirne a contatto, può rappresentare una possibilità di protezione e di analisi della realtà, non neutralizzando gli interventi, ma affondando con coscienza nel vissuto e nel tessuto aziendale, assumendo il rischio della compromissione.

Negare la paura legata al ruolo non la annulla, anzi, la trasforma in malessere fisico. La possibilità è ricondurre questa al governo cognitivo, evitando di confermare modelli sequenziali e ripetitivi. Infatti, pur in situazioni diverse, le persone inconsapevolmente, ricreano gli stessi automatismi di svalutazione e di esclusione di sé, della situazione, del prossimo.

Di paura si nutre il potere in tutte le sue forme di svalutazione e di sottomissione. Nella Gestione delle Risorse Umane apprendere la comunicazione del sentimento di paura è più importante che trasferire meccanicamente un pensiero contaminato.

Il ruolo dichiara anche il limite. Infatti, in azienda, il territorio di ogni agire competente è definito proprio dal ruolo offerto e assunto. La definizione di un ruolo segnala il campo di studio e di ricerca assegnato.

“Durante la nostra esistenza sperimentiamo innumerevoli confini che ci definiscono, segnalando discontinuità, barriere da infrangere, divieti da osservare, soglie reali o simboliche. I limiti ci circondano e ci condizionano da ogni lato e sotto ogni aspetto, a iniziare dagli immodificabili dati della nostra nascita (tempo, luogo, famiglia, lingua, Stato), dall’involucro stesso della nostra pelle, dagli orizzonti sensibili, intellettuali e affettivi del nostro animo con il termine ultimo della morte. La condizione della specie umana è però contraddistinta dall’essere circoscritta dai limiti che sono mobili e cangianti, in quanto – a differenza degli altri animali – ha una storia articolata in culture che si modificano nel corso del tempo. Con un paradosso si è detto che l’uomo è l’essere confinario che non ha confini, proprio perché nel trovarli, per lo più, li supera.” (R.Bodei, p.7-8)

L’onestà della consulenza psicologica che propongo si manifesta non con l’astensione, ma con il continuo vigilare nella contaminazione, abitando la relazione.

Coraticum, coraggio, in origine, significa “avere cuore”, solo in seguito quel cuore diviene temerario e ardimentoso. Se è vero che nessuno può governare senza colpe (Saint-Just), ogni persona può assumere il coraggio di sé, il coraggio di essere nient’altro che quello che è, lontano da diplomazie, poteri e mercimoni.  Il coraggio rimanda alla dignità della persona e segnala che la quantità di denaro (spesa, guadagnata, investita) non assolve e non guarisce.

 Il coraggio “uno non se lo può dare” ricorda quel poveretto di don Abbondio. L’educazione Alla persona costituisce la base dell’assunzione di un ruolo, indicandone un territorio di responsabilità. Il cammino di consapevolezza del copione personale, dei giochi psicologici agiti nell’interazione, è necessario a favore di ogni ruolo, anche quello che, in apparenza, assume minori obblighi. Il primo segnale di consapevolezza è riconoscere che è così. È semplice, può essere banale, ma è vero.

Ne “I Dialoghi delle Carmelitane”, gli episodi narrati da Georges Bernanos nel 1948 sono ispirati da un racconto settecentesco di Gertrude von Le Fort e diventano un film.

Durante i difficili anni della Rivoluzione francese, la giovane nobildonna Bianca, su consiglio del padre, il marchese de la Force, decide di entrare nel convento di clausura delle Carmelitane di Compiègne. La necessità di trovare un rifugio sicuro è più evidente di una vaga vocazione religiosa. Bianca ha paura di affrontare i sacrifici e la sofferenza e teme di non essere capace di mantenersi fedele alla scelta.

Ben presto le autorità rivoluzionarie ed il popolo accusano le monache di essere reazionarie, nemiche della patria, che accaparrano ricchezze e danno ospitalità ai fuggiaschi. Costrette ad abbandonare il convento, le monache fanno voto di essere disposte a sacrificare la loro vita affinché la religione cattolica possa sopravvivere in Francia.

Disperse in piccoli gruppi, le monache vengono arrestate, giudicate colpevoli e condannate a morte. Bianca de la Force con coraggio sale sul patibolo al posto di Madre Maria dell’Incarnazione, l’unica monaca a salvarsi, che da sola continuerà a praticare l’insegnamento del Carmelo.

Le tematiche affrontate nel romanzo e nel film sono: l’adolescenza e la maturità, il buio e la luce, il coraggio e la paura, il dubbio e la scelta, la disciplina e la leggerezza, la libertà e l’obbligo, il peccato e la salvezza. Esse non rappresentano gli opposti che riducono e mortificano l’essere umano. Sono queste, invece, fasi coesistenti, momenti diversi di complessità umana e possibili passaggi di una evoluzione continua verso la comprensione, la conoscenza, la coscienza della personale esistenza.

Studio e segnalo la filosofia e la pratica della differenza di genere, quella di Carla Lonzi e di Luisa Muraro, come un modo di stare al mondo che può diventare un modo di abitare le aziende, una cura per guarire i malesseri del troppo e del troppo poco, della separazione, della esclusione, della indisciplina dell’Io.

Il coraggio del ruolo vuol dire darsi il permesso di generare, di consegnarsi alla luce, di consentire la venuta al mondo e può essere più o meno doloroso perché è un processo sano che chiamo assunzione di responsabilità, sentimento di formazione. Il coraggio è la stabilità emotiva che incontra il pensiero di una scelta.

L’invito inderogabile è a formarsi, a educarsi, prima di assumere un ruolo di responsabilità. Non smettiamo di apprendere il governo delle umane risorse, nella direzione amministrativa, generale e commerciale, in un gruppo di persone che scelgano di fondare e/o di ricostituire una organizzazione accompagnando il divenire di comunità e di stormo (https://www.liziadagostino.it/dalla-squadra-allo-stormo/). La formazione non è un’inutile gabella o una vessazione obbligatoria. Essa rappresenta una occasione, un luogo e un tempo per pensarsi e per pensare.

ogni cultura dimostra la sua forza e la sua modernità solo confrontandosi con tutta la realtà storica e sociale che ci sta dinanzi, solo se riesce a liberare tutti, a capirli, a farceli simili a noi. (Bianciardi, p.40)

 …le idee sono tali in quanto tu puoi comunicarle agli altri, che se le tieni per te non servono a nulla, anzi, non sono nemmeno idee. (Bianciardi, p.45)

 

Riferimenti bibliografici

  • Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, 1957/2013
  • Georges Bernanos, Dialoghi delle carmelitane, Morcelliana, 1952/2008
  • Remo Bodei, Limite, il Mulino, 2016

 

 

 

 

 

 

buio a mezzogiorno

Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno, Oscar Mondadori, 2015

Darkness at Noon, Buio a mezzogiorno è pubblicato nel 1940, nell’epoca delle grandi purghe staliniane.
Ma più che sugli eventi, l’autore ungherese scrive sui moti della coscienza di un uomo convinto della sua militanza in un partito che gli chiede di rinunciare alla propria individualità in nome di un fine superiore. Il romanzo indaga con toni forti il rapporto fra politica e morale.
Nel marzo del 1983 Koestler e la sua giovane moglie Cynthia Jefferies Patterson si uccidono: dieci anni prima si sono affiliati all’associazione Exit, favorevole all’eutanasia.

Il cambiamento, la rivoluzione, l’analisi profonda, portano con sé sempre la violenza?

buio a mezzogiorno

All’Autore si interessano Maurice Merleau-Ponty, Simone de Beauvoir, Italo Calvino.
Io mi avvicino a Koestler per studiare le possibili evoluzioni delle idee di potere e di rivoluzione. La personificazione dell’uno e dell’altra portano gli esseri umani a sottomettersi e ad immolarsi per cause assunte come indiscutibili e immodificabili. Il corredo di comportamenti maschili, come Rubasciov insegna, prevede la durezza, la resistenza ad oltranza, il cinismo, l’irreparabilità della scelta, la perfezione dell’azione, lo sforzo della vittoria, la certezza della risoluzione del dubbio.

L’ideologia è tale ed uccide perché instaura il processo di cosificazione di ogni persona. Ciò che manca alla stortura dell’ideologo non è l’intelligenza, ma l’amore. Nello stalinismo, nel totalitarismo, nel terrorismo di ogni colore, manca l’intelligenza sociale, manca il senso consapevole e condiviso della relazione e dell’esistenza. Quando vince il potere, quando vince l’idea a prescindere dal contesto reale, le persone perdono.

L’autoaccusa di Rubasciov che si dichiara colpevole di tutti i delitti che gli sono contestati si ferma all’ammissione di colpa verso il popolo e questo non basta a salvarlo e a salvare noi. Il dubbio, il malessere, il crimine non si possono valutare solo sul terreno delle idee fisse e del ragionamento binario del torto e della ragione. Il dramma è la complessità. La fatica consiste nell’ evitare le semplificazioni e le risposte maschie: da una parte la comunità operosa creativa onesta e accogliente e, dall’altra, alcuni gruppi criminali, la maggioranza buona, la minoranza cattiva. La guerra senza sconti continua a produrre folli, suicidi ed omicidi.

L’idea nuova è perdersi nell’energia relazionale che argomenta e problematizza, che integra la complessità, le luci e le ombre e che, infine, compie la rivoluzione simbolica promuovendo lo studio, la ricerca, l’intuizione, la capacità di essere prossimo, di sentirsi intimi/e. L’Analisi della Cultura e l’Educazione.

“Il fatto è: non credo più nella mia infallibilità. Ecco perché sono perduto.”p.86

“Sapeva per esperienza che la prospettiva della morte alterava sempre il meccanismo del pensiero e causava le più sorprendenti reazioni, come i movimenti di una bussola portata nei pressi di un polo magnetico.” p.43

“Bisogna trovare la causa della deficienza del Partito. Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono sbagliati. Questo è un secolo malato. Abbiamo diagnosticato la malattia e le sue cause con esattezza microscopica, ma ogni qualvolta abbiamo applicato il bisturi nuovi mali si sono sviluppati. La nostra volontà era pura e ferma, avremmo dovuto essere amati dal popolo. Ma il popolo ci odia. Perché siamo tanto odiati?” p.50

cutrufelli

Maria Rosa Cutrufelli, Il giudice delle donne, Frassinelli, 2016

cutrufelli

 

Dieci donne a chiedere, a resistere, a credere nel diritto di contare e di esistere socialmente, convinte che “…non ti guadagni soltanto il pane, con l’istruzione.  Ti guadagni la possibilità di vivere a occhi aperti”  (p.92). E, allora, ecco le maestrine, – diminutivo che sottende pregiudizi e svalutazioni – missionarie dell’alfabeto, girovaghe in tutta Italia, a rappresentare la disciplina, il nerbo della scuola.

Maria Rosa Cutrufelli, da molti anni e con diverse pubblicazioni, si interessa, studia e riporta, come in questo suo ultimo romanzo, alcune vicende fondamentali sulla strada della coscienza e della liberazione delle donne. Stavolta, ci accompagna a Montemarciano, nei primi del Novecento, nel periodo politico in cui accadeva lo scandalo dei popolari, in cui i cattolici stringevano l’accordo, considerato contro natura, con i repubblicani e i socialisti.

Un gruppo di maestre accoglie l’appello lanciato da Montessori e, di conseguenza, in paese diviene insopportabile la febbre del voto, la febbre delle donne giudicate malate di suffragismo. L’articolo 54 della legge elettorale lo recitava chiaramente: “…il voto è interdetto alle donne, agli analfabeti, nonché ai pazzi, ai detenuti in espiazione di pena e agli imprenditori che hanno subito una procedura di fallimento…”

Come ricorda il romanzo, Lodovico Mortara, nuovo presidente della corte d’appello di Ancona non ostacola e, anzi, offre alle donne la possibilità di scegliere e la libertà di raccontarla, la scelta, di argomentarla. Così diviene il giudice delle donne, unico essere umano a rappresentare la possibilità di una cultura del cambiamento e dell’apertura che ancora oggi stenta a manifestarsi.

È interessante, attraverso il lavoro della scrittrice, seguire lo sviluppo delle vicende di Alessandra, di Teresa, di Luigia, sentire la fatica, le idee, l’autorità, senza odio, per amore di sé e delle altre, in situazioni diverse in cui fa comodo a uomini spaventati che la donna rimanga timida e goffa, giacché “oggi pretende il voto, domani chissà” (p.72).

In una società confusa e in continua trasformazione, è certo, solamente, che le donne devono tacere, lavorare in casa, supportare, semmai, il marito, i figli, gli anziani, a garanzia della stabilità familiare. L’indipendenza lavorativa, economica e, prima ancora, psicologica, delle donne è vissuta come una minaccia per l’ordine sociale. La cultura prevede con certezza che il loro mestiere è sposarsi per accudire marito e figli. “Udivo di nuovo la voce furiosa di mio padre che sbraitava: <No e ancora no. Studiare va bene, è questione di civiltà, ma il tuo lavoro è il matrimonio! O vuoi fare la guerra agli uomini? Finirai sola come tua zia Clotilde>.” (p.9)

Ancora, negli anni ’80, io ascoltai questi discorsi, certo più sottintesi e meno imperativi, a coronare la mia laurea, come fosse un finale, come il limite massimo, come la moneta di scambio per poter fare da moglie ad un professionista! Il lavoro delle donne ha sempre umiliato gli uomini perché ritenuti incapaci di provvedere al loro mantenimento economico ma, in realtà, preoccupati di mancare il controllo. Ancora oggi sento voci di persone imbrigliate/i nel vecchio modello: fra loro c’è sempre una Vittima e un Persecutore, chi sceglie e chi si sottomette, chi vince e chi perde, chi è infelice e chi comanda, chi festeggia sguaiatamente e chi studia e riflette.

Tale professor Benanni, amministratore pubblico, urla convinto “con la pappagorgia tremante d’emozione: Le donne sono schiave della natura, non possiedono quel superiore spirito maschile che da sempre è, e deve essere, il cardine dello Stato.” (p.71) E anche don Peppo dal pulpito, definitivamente maledice: le donne oneste non si sporcano con la politica. Perciò le donne raccontate nel romanzo devono essere caute, proteggersi e farsi da parte.

Cutrufelli nel poscritto ricorda come “gli scrittori…sono come gazze ladre che rubano tutto ciò che luccica…E la realtà, i fatti, le cose realmente accadute, sono molto luccicanti” (p.250). Ed io ricordo a lei come le scrittrici sono gazze ladre, di più!

“A volte penso che Luigia sia un po’ come quei pesci che mettono nei pozzi o nelle vasche per spurgare l’acqua. Ecco: lei ripulisce l’acqua perché tutte, in futuro, possano nuotarci dentro.” (p.70)

Abbiamo bisogno di libri come questo e di donne che possano continuare a ripulire, con tenacia, con sapienza, rimanendo severe, gioiose e pazienti.

pink floyd

Gente di Via del Corno

 

Pratolini

Film “Cronache di poveri amanti”, 1954, Carlo Lizzani

 

Scorrono foto di blitz e di operazioni poliziesche: guardo il Male, che è sempre banale, mentre ammala persone nascoste dietro la necessità di obbedire. Esse rimangono, dopo il dovere eseguito, bestie braccate dai sensi di colpa che si manifestano in modi più deleteri perché non ammessi alla coscienza e, di conseguenza, non rielaborabili nelle angosce di morte che inducono. Guardo esseri umani schierati da una parte e dall’altra, al tempo stesso, vittime e carnefici, tutti in preda agli istinti di fuga e, maggiormente, di attacco, legittimati dai deliri di persecuzione, dalla identificazione del nemico, dalla difesa ad oltranza, dalla ossessione di vincere, adesso, ad ogni costo.

Sono indignata e, ancor più, mi interessa il pensiero sottostante che intravedo, il processo decisionale che predispone le azioni violente, perché rimandano ad una umanità intera con un pensiero e una visione da curare. Non ora e non qui io discuto la necessità politica dello sgombero e le politiche d’immigrazione e le buone maniere usate, forse, prima, per allontanare la pelle nera.

Molte volte, in situazioni calde, decidendo di cedere dinanzi a piccole azioni oscene, esprimo la volontà decisa di evitare la costruzione del primo anello di una catena, per non salire nella linea della violenza. Sono sempre guardinga, anche dinanzi ad accenni di azioni, in qualche modo, aggressive perché so della fragilità umana e della facile possibilità della deriva violenta. Sono determinata, dopo, schivato il pericolo, a ritornarci per pensare assieme, per litigare ancora sulle strategie, per ascoltare, per trovare soluzioni in territori mentali, all’inizio, imprevisti e imprevedibili.

Penso che no, un gesto piccolo piccolo di riconoscimento dell’alterità, come la carezza “buona” di un poliziotto, non basta. È fragile come un rèfolo di vento in un’estate infuocata. Colgo, però, il signum, la tensione flebile, intermittente, ma di direzione costante, forse anche inconsapevole, a governare con libertà, le divise e le difese psicologiche. In quanto psicologa devo scorgere e registrare anche il minimo segnale – attenta a non finire nel ruolo del Salvatore che si immola, senza che qualcuno lo abbia chiesto e, infine, senza riuscire a salvare, davvero, nessuno. Il lavoro di coscienza e di conoscenza di sé inizia proprio cogliendo l’attimo di mancamento dinanzi alle strutture rigide del vecchio copione. Mi basta un accenno, mi basta registrare il divertĕre, il prendere un’altra direzione rispetto al solco tracciato, per agganciare qualunque essere umano in una proposta di trasformazione.

Per chi, come me, pattuisce un accompagnamento verso gli inferi della propria coscienza, significa ritornare e smettere di perpetrare un delitto verso la propria persona, prima ancora che contro qualcuno/a. Certo, la formazione dona il meglio di sé nell’opera di prevenzione, ma quando si arriva alla difesa della propria pelle, i torti e le ragioni sono da ogni parte equamente divisi.

È prima della deriva, ab origine, che intervengo sulla cura di una cultura malata,  arroccata nella figliolanza e primogenitura con déi, ricordati nella mitologia greca, che vantano strumenti di potere come il ratto e lo stupro, adoperati come prassi.

La pulsione di morte è naturale nell’essere umano e i finali tragici di copione rimangono l’omicidio, il suicidio e la follia: urge organizzare un percorso formativo per interrogarci sulla morte. Non è vendibile, ma è necessario. Parto dalla educazione all’indagine dei sotterranei, perché ogni persona doni a se stessa una possibilità di rinascita. È un percorso che necessita della presenza della consulenza psicologica e filosofica, assieme.

Ridefinisco l’invito espresso con le migliori intenzioni, per la manifestazione del 28 agosto, da Ada Colau, sindaca di Barcellona che, in ogni caso, seguo e condivido. No tinc por, Non abbiamo paura. Mi piacerebbe che fosse: ho paura, ma scelgo di continuare a pensare e a capire. Dinanzi al male, dinanzi alla morte, l’invito non può mai essere a non aver paura e a reagire, quindi, come una divinità umiliata e non come una persona ferita e dolorante, com’è! Se non riconosco la paura, rischio di finire sotto gli ordini genitoriali Sii Forte e Sii Perfetto e sotto le ingiunzioni Non Sentire, Non essere Te Stesso, Non essere Sano che stanno a ricordare i copioni degli uomini e anche delle donne forti che non devono chiedere e cedere mai. C’è tanta paura da accogliere, per apprendere a proteggermi, per continuare a pensare e a costruire i cambiamenti. Take care of yourself. Intendo cuidar de mi mismo, a y sobretodo afronto mis miedos.

“Cronache di poveri amanti” è un romanzo che ho riletto ultimamente e che considero adeguato in un percorso formativo che preveda il divenire persona. L’umanità adolescente è bene che si avvicini con cura alla lettura di questa storia, pensata dal fiorentino Vasco Pratolini mentre, a Napoli, si occupa della sceneggiatura di Paisà, il film neorealista di Rossellini.

L’Autore scrive, dal ’40 al ‘46, nel periodo storico del fascismo, ma il romanzo consente riflessioni a posteriori sui fascismi, cioè sulle idee fisse di una società onnipotente e inumana che punisce e produce dolore e morte. Padri come tiranni, mogli come serve offese e vendicative, amanti vittime di violenza, figli e figlie tristi e nemici/che, madri sovrane, padroni che possiedono le vite degli altri senza governare la propria… e la Signora, cattiva quanto infelice, che “segue il proprio destino da superuomo”.

Studiamo il racconto semplice dell’evoluzione complessa di una comunità di Via del Corno, a Firenze, la crescita dei suoi uomini e delle sue donne nei sentimenti, nei pensieri, nelle azioni decise.

Conduciamo vite piccole da cornacchiai, fragili e prepotenti, riconosciamo i nostri Angeli Custodi, moriamo nelle nostre “notti dell’Apocalisse”: un’occasione ancora, a capire la Storia di cui siamo comunque partecipi, a soffrire le storie personali, a scegliere come vogliamo diventare.

“Cambiar pelle non si può: occorre una volontà riservata a pochi. Solo i santi vi riescono, e qualche volta i poeti. Coloro, cioè, che credono veramente in qualcosa di eterno. Il suicidio è più facile, è alla portata di ogni intelletto medio. Ma per suicidarsi occorre non volersi bene, o volersene troppo. Bisogna credere, altrettanto veramente, che la vita non possa offrire altre gioie. Pure che queste gioie sarebbero inaccessibili o misere qualora restassimo in vita. Rari sono i Santi, più rari i Poeti. Il numero degli intellettuali medi che un giorno si accorgono di essere giunti al loro fallimento morale è, invece, sterminato. E i suicidi, al confronto, uno zero. Si apre allora ai nostri occhi, una terza strada, che è l’unica sulla quale sappiamo di poterci avventurare poiché è quella che ci ha condotti dove siamo. Si tratta soltanto di correggere il nostro passo che finora è stato faticoso, ed ha finito con l’avvilirci perché camminavamo ai margini, tra i sassi e gli sterpi che la nostra coscienza accumulava – e tutte le pietre miliari erano nostre, tante ferite al cuore! Ora, invece, decidiamo di battere la via maestra, quella sulla quale camminano milioni come noi, e di tenere lo sguardo fisso all’orizzonte. Era pur quella la mèta che ci prefiggevamo: e camminando spediti <sulla buona strada> che la raggiungeremo. Vi sono, naturalmente, anche su questa strada ostacoli e barriere, ma ci apriremo il varco assieme agli altri, e getteremo le macerie da una parte: le macerie che quando procedevamo da soli, ai margini della strada, ci ostruivano il cammino, con i loro dubbi e rimosi! Così facendo, un uomo tradisce, sì, se stesso, ma una volta per sempre. Dopo di che avrà finito di fingersi. Attaccandosi a questa certezza, con la disperazione del naufrago, toccherà subito la riva della persuasione, si sarà autenticamente trasformato. Non si ricorderà più quello che egli era. E non perché non vorrà ricordarsi, ma perché davvero non si ricorderà. Avrà, a suo modo, cambiato pelle, e creduto di conservare intatto l’Ideale. Che gli sembra lo stesso eterno, ma che invece è caduco, come il suo corpo, poiché è diventato un ideale accessibile al suo corpo. Ora egli è certo di arrivare alla mèta. Di arrivare si tratta. Arrivare cioè al giorno in cui si incontrerà con la morte, che oggi ha rifiutata siccome la vita gli offriva delle gioie che meritavano di essere godute: sono gioie semplici, umane come onesto e semplice è stato il suo spirito. Alla vita noi chiediamo il successo del nostro lavoro, la felicità familiare, l’affermarsi dell’Idea in cui abbiamo sempre creduto e per la quale abbiamo sempre lottato e siamo arrivati al limite della disperazione. Ma non domandateci le cause di codesta disperazione, si tratta di una cosa che non c’è mai appartenuta. Del nostro passato noi ricordiamo soltanto ci che ci concilia col nostro presente, e che serve al nostro avvenire. E siamo sinceri, adesso, disperatamente sinceri. Non chiamate tutto ciò vigliaccheria: dimenticare è l’aiuto che ci offre la vita, perché la viviamo.” (V.Pratolini, pp.365/66)

 Riferimenti bibliografici

  • Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, Bur, 2011
  • Ada Colau, la città in comune, Alegre, 2016
  • Di Vittorio, A.Manna, E.Mastropierro, A.Russo, a cura di, L’uniforme e l’anima, Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, ed.Action30, 2009

 

Editing: Enza Chirico

Le-libere-donne-di-Magliano-Oscar-Mondadori

Libertà di follia

Le-libere-donne-di-Magliano-Oscar-Mondadori

Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, Oscar Mondadori, 1963

Mario Tobino è stato medico nei manicomi, poeta e scrittore, ed io recupero questo suo prezioso romanzo, pubblicato nel 1953, grazie alle ricerche di Ina, una giovane collega e archeologa di libri.

La pazzia è davvero una malattia? È una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo?
La scelta diaristica dell’autore offre al romanzo un valore di testimonianza, una valenza politica. Con una scrittura lirica e popolare, Tobino racconta, con sguardo e parola di carità, la quotidianità delle matte nude e sole, senza che avvertano la solitudine e la nudità. Donne che, a causa della follia, hanno usato l’amore, la mancanza, la solitudine, il corpo, per farsi male, per evitare la felicità dolorosa dei conflitti nella relazione e nel mondo.

È una musica di grida e di lamenti, per confrontarsi con la realtà, per continuare ad amare il lavoro di psichiatra. La follia è una malattia della quale “non si sa l’origine né il meccanismo” e, per poterla dire, bisogna frequentarla e coinvolgersi nelle esperienze che di essa recuperano le ombre da cui origina.

Tobino esprime gratitudine verso la follia e verso quelle matte che, ad una ad una, riconoscendolo, lo riportano al senso della sua professione e che, ancor prima, lo confermano nell’accettazione di un’umanità diversa. Per le persone sane è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli, quindi, di vederli, di capire, di ricordare. Dopo, molto più tardi, arriverà il ’68, noi conosceremo Franco Basaglia e lo psichiatra americano che lo ispirò, Thomas Szasz, conosceremo Bruno Orsini e la legge 180 che ha reso l’Italia l’unico paese al mondo, ancora oggi, che ha scelto l’abolizione del manicomio psichiatrico.

Il manicomio di Magliano è un piccolo mondo antico, tenero, povero e romantico, dove la chiusura è protezione, giacché fuori, nel dopoguerra, c’è ancora la fame, l’ignoranza, la paura, l’ingenuità dinanzi all’oscuro potere. Il racconto della quotidianità sofferente è triste e compassionevole. Il paternalismo che riconosco, l’atteggiamento bonario e benefico, lo sguardo di benevola concessione di Mario Tobino rappresentano un primo passaggio obbligato nella lunga strada che ancora compie la moderna psichiatria.

La malattia mentale esiste. Come la comunità riconosce le persone malate di mente e come se ne prende cura? Ancora oggi, queste scelte, continuano a fare la differenza, in una organizzazione civile. La follia è, in fondo, quello che una società decide di farsene di essa, nelle sue diverse espressioni: opzione di libertà oppure incapacità di produrre, spazio e tempo di creatività o diversità oscura e nemica, bellezza difficile o inutile sopravvivenza.

“La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare.” p.14

“Non si vuol considerare che i sentimenti sono il più grande ed emozionante mistero, quelli che ci uniscono per un golfo sotterraneo con qualcosa di divino, con un Dio che non abbiamo mai visto ma sappiamo esistere e ci fa paura. Gli umili di mente con Costui di continuo conversano senza saperlo, e poi come bestie satolle se ne stanno pacifiche a digerire. I poveri di mente seguon le più povere leggi, le elementari e, se le cose si svolgono secondo la regola, stanno tranquilli e ignoti tutta la vita. Quando anche in queste povere leggi li ostacolano, dopo avere a lungo sopportato, manifestano ingenui deliri, a causa dei quali vengon ricoverati al manicomio… I poveri di mente nascono in ogni paese e qui, al manicomio di Lucca, provengono da sperduti cascinali, provengono dai lavori della campagna, dei quali ancora portano sulla pelle l’acuto odore, e negli occhi mantengono la stupefazione perché sia avvenuto così: perché abbiano impedito le loro leggi elementari. Il patrimonio di costoro è esclusivamente composto di sentimenti, che in loro non sono mescolati al peccato ma rappresentati da: amore per loro stessi, amore verso gli altri. I deboli di mente, i fragili di spirito, parlano e vivono come tutti gli altri, soltanto sono incapaci a immaginare e attuare consapevolmente il peccato.”
p.178-79

Scuola di Ipazia

Consulenza e Formazione in azienda: riparto in prima, in salita

Scuola di Ipazia

1.L’esperienza attuale  

“… le parole, sai, sono come gli odori, quando non ami più l’odore di qualcuno è semplicemente perché non lo ami più. Così, quando non ami più le parole, è perché ti stai staccando dalle cose che queste rappresentano”.

Michela Franco Celani, La casa dei giorni dispersi, Salani, 2009, Pag.98

 

Trentacinque… cosa misurano trentacinque anni di professione? Sono un attimo di respiro, un credo gioioso, un’amarezza infinita. Vivo ancora, da psicologa aziendale, nella militanza e, quasi, in clandestinità. Ho una vita professionale da precaria, ma non sono una precaria dell’esistenza e questa convinzione, finora, ha garantito la durata e il valore delle mie attività lavorative. Mi chiedo, oggi, se il precariato coinvolga solo lo stato lavorativo o rappresenti, invece, una condizione ontologica. Mi chiedo quanto sia possibile che il mio essere stesso si modifichi, sia per la mancanza di comprensione nelle aziende che a causa di chi chiede, di chi partecipa, di chi nega. Le quattro aree di indagine e di applicazione, consulenza, formazione, selezione e valutazione, sono interdipendenti e riguardano un’unica professione. La progettualità adulta chiede la pre-visione a breve, a medio e a lungo termine giacché, dove manca la proiezione di sé e l’organizzazione nel futuro, anche prossimo, non può darsi alcuna attività vitale consapevole. Scrivere e render conto è per me strumento di assistenza durante la trasformazione.

Negli ultimi anni, incontro un’umanità diversa, ammassata in locali spesso fatiscenti e inadeguati. Incontro individui forzosamente arrampicati su sgabelli di fortuna oppure comodamente seduti in alberghi estranei, a riempire stanzoni anonimi e pretenziosi, animati da innovazioni tecnologiche, sempre le ultime e quindi, già in odor di morte. I luoghi inadeguati della formazione rivelano il decadimento di una professione che necessita di rivedere tutto radicalmente. Sento chiamare con il nome di Formazione le modalità di sopravvivenza di quattro cialtroni che hanno immaginato la frontiera dell’ultimo business, dichiarando la resa davanti al significato profondo di un qualunque intervento che abbia luogo in una organizzazione definita.

Non sono perdente, ma spesso ho perso e in questa sconfitta avverto una dignità e un orgoglio che non sentirei in una vittoria – rispetto a cosa, poi?

Formattore, brain coach, allenatore emotivo, esperto della felicità, personal trainer, problem solver, motivatore, deprogrammatore. (Quest’ultimo, negli USA è il consulente a cui vengono affidati i soggetti sfuggiti alle sette e che per una settimana vive e interagisce continuamente con il plagiato). Ciascuno di essi è un soggetto, quasi sempre maschio o maschia, diplomato, più o meno quarantenne, licenziato dall’azienda in cui era occupato, con l’idea fissa che la consulenza e, ancor più, la formazione prevedano un generico talento affabulatorio, in realtà concionesco, a raccontare qualcosa in pubblico. Dispensatore di nozioni feticcio, preda di pigrizia intellettuale e divulgatore da social, egli azzarda formule con slide patinate raccolte e immortalate come seme pregiato. La sua faccia è su facebook settimanalmente e quotidianamente condivisa con suonata assolo, con l’aria di chi la sa lunga, lanciando suggerimenti banali che chiama pillole, termine chiaramente trafugato al campo medico. Talvolta è il laureato più o meno confuso ad essere autorizzato all’utilizzo di metodi e di tecniche al confine con l’abuso della professione di psicologo. Molte società nascono avendo come fine il denaro e forniscono al mercato personaggi simpatici, grintosi, affascinanti, seducenti, coltivatori di hobby ed entusiasti delle novità. Telegenici.

Mi rammaricano le gesta di colui, considerato valoroso, un self made man che s’inventa un lavoro, del riciclato con il copione non perdente e non vincente, in rabbia di rancore o di sfida. Assisto all’apparizione approssimativa e sventata del senzamestiere che, rumoroso e colorato, si butta indifferentemente nell’arena targata GRU come docente, formatore, selettore, come esperto. Il più discreto nell’uso di titoli e onorificenze si presenta come tecnico, dimenticando che la téchne, dal greco τέχνη, è l’insieme delle norme applicate e seguite in attività intellettuali o manuali e che, necessariamente, prevede il pensare e il progettare, l’essere coscienti e conoscenti. La teoria, quindi, è la pratica e l’una non è data senza l’altra.

Nelle aziende, gli interventi alla docilità prevedono il domatore, il giocoliere che, sempre e inconsapevolmente, nelle persone, facilita l’adattamento in una nicchia senza libertà e tramite un automatismo a favore del potere di turno. Gli applausi, i sorrisi compiacenti producono, in aula, forme di assuefazione e seduzione e, di conseguenza, costruiscono stupidità collettiva. L’omologazione, la riduzione a modello, la schedatura sono espressioni di potere e di controllo su blocchi di candidati e mai divengono strumenti per capire l’adeguatezza della persona e la sua crescita eventuale all’interno dell’azienda considerata. Il comico, il giullare di corte finisce per intrattenere un pubblico che non vuole fare nessuno sforzo di pensare e che non vuole angosciarsi con i dubbi, le scelte e le domande. Ricordo l’infantile stato di sogno dell’uomo-massa di junghiana memoria.

Rilevo l’emergenza e prendo contezza che così non è, che così non si propongono la Consulenza e la Formazione semmai le si denigrano e le si annullano. Le costruzioni ideologiche sono rese possibili grazie ad un attuale impoverimento progressivo degli studi intorno ai processi consulenziali e formativi. Ogni intervento fallisce, se si adatta al mercato del lavoro, se lo compiace, se si giustifica e si mortifica davanti all’ideologia del dominio e del controllo, all’economia che paralizza, al principio di prestazione, alla tecnica che riduce tutto a strumento di gratificazione di soggetti senza coscienza. Concordo con Luigi Zoja: Il male non deriva da una cattiva intenzione, ma da una mancanza di consapevolezza.

Accolto l’altrui sospetto dell’aria snob e accademica di me, perché dedita allo studio e alla ricerca continuativa, affermo che l’impegno nell’area della GRU non può essere considerato un espediente per tirare a campare. Mi dispiaccio e sorrido quando qualche pisseur de copie, girandomi intorno, strumentalizza neologismi, ricerche, progetti. Offro pagine scritte con generosità a chi me le chiede, ma ne riconosco presto le inopportune caricature, sotto immagini ineccepibili di ottime grafiche pubblicitarie. Penso che, dopo aver riutilizzato il termine, la frase, le pagine del programma, rimanga un copiaeincolla che costruisce e agevola solo operazioni di vendita del pacchetto formativo. Viene a mancare il processo, la fatica della ricerca, il pensiero che sostiene e legittima l’uso di una parola e di un programma. Ascolto poche idee copiate, incollate e rimescolate e così divido il mondo in professionisti/e che studiano e orci da salotto.

Insistendo, alcuni operatori di marketing mi chiedono di evidenziare la caratteristica distintiva per convincere i/le clienti ad acquistare servizi da me e non da un altro. La mia risposta è che non lo so, visto che propongo progettualità acquistabili, ma non vendibili e riproducibili. Rispetto alla consapevolezza di sé, le attività di consulenza e di formazione non possono essere vendute. Il focus è sulla responsabilità, sul desiderio, sulla richiesta di ciascun/a cliente di essere accompagnata/o per capire e per migliorarsi. La consulenza e la formazione propongono sistemi di significato e non pacchetti da vendere.

Il programma formativo si avvia e procede perché in azienda e in aula ci sono persone interessate alla coscienza e alla conoscenza di sé. Il resto è magia ed è manipolazione. È abuso di potere. Vale la certezza che Luigi Zoja sottolinea:

Il cuore dell’analisi (della consulenza/formazione: n.d.r.) è etico: si propone di combattere la menzogna, prima di tutto quella che raccontiamo a noi stessi. L’etica dell’analisi non è dunque un espediente per dare rispettabilità alla professione. È una presenza originaria. (L.Zoja, op.cit.p.7)

Il cinquanta per cento di responsabilità fra le persone coinvolte, è l’atto fondativo di ogni contratto consulenziale. Il cinquanta per cento assume valore di sacro e di sano. Ogni volta che offro o ricevo, senza averlo stabilito, di più o di meno, mi ricredo: non serve. In qualunque relazione, il cinquanta per cento di responsabilità, garantisce la pulizia da ogni gioco psicologico. La relazione paritariamente con-divisa è pulita perché è liberata ed ab-soluta. Il cinquanta per cento significa che c’è l’intenzione, l’impegno, il patto a favore dell’autonomia di sé e della testimonianza credibile. Il contratto psicologico.

Garantisco il lavoro di lettura, di comprensione, di ripensamento, di valutazione dell’esperienza, coinvolta nella relazione onesta con la committenza. Con queste premesse, chi sceglie di affidarmi la cura di sé, dei/lle dipendenti e dell’azienda è già in cammino sulla strada del cambiamento. Il discorso intorno alla consulenza e, a seguire, intorno alla formazione, valutazione e selezione, è etico ed è personale, prima che economico e produttivo. Appartiene, cioè, alla storia di ciascun essere umano considerato. Per proporsi come consulente è necessario essere una persona onesta, radicale e competente.

L’idea di complessità, dopo decenni di utilizzo, è scaduta in una forma sincopata e superficiale che prevede di tenersi tutto, come nel peggiore relativismo. La scelta che dichiara: in medium stat virtus, scade nel compromesso italiota, nella mediazione inadeguata, forzata che fa l’occhiolino ad una visione compiaciuta e silente del divenire organizzativo, nonostante i sintomi dichiarati. Si media, proponendo contenuti e modalità che piacciono un po’ a tutti, perché manca il coraggio di rimanere nel conflitto. La formazione che non è legata ai processi produttivi è ritenuta astratta.

<Commerciale e tangibile> <più sales>, corredate da richieste <tipo?> <in pratica?> <concretamente?>: spesso, sono proposte che rimandano ad agglomerati di tempo a chiacchierare, senza visioni e contenuti e a prezzo altissimo o bassissimo. Infatti, il disturbo, il male, è sempre nell’esagerazione, in un verso o nell’altro. Io invito a spostare lo sguardo dal denaro alle relazioni, dal profitto al bene comune, dal mercato alla vita. Alla Persona.

Ancora, molti scambiano la metodologia sperimentale con l’animazione da villaggio turistico. Barca a vela e zattere, caccia al tesoro e camminate sui carboni, arrampicate sull’albero della cuccagna, mise en scène e attrezzature da giovani marmotte.  Un’ammüìna in cui si cucina allegramente, si coltiva la terra, si fanno costruzioni, si ride. Raccontano che queste dinamiche di gruppo facilitano il senso di appartenenza, la leadership, la capacità di negoziare e di vendere, la creatività. Sono lontana dalla concezione che la formazione debba cercare consensi solerti e applausi che anestetizzano i/le partecipanti. Tutto il teatrino che rimanda ad una metodologia esperienziale ha necessità, prima di essere praticato, di chiarire il fine e lo scenario di riferimento e, in ultimo ma non ultimo, il senso.

Perché dobbiamo frequentare corsi di leadership, di vendita, di lavoro di gruppo, di autostima? Per essere funzionali ad una struttura aziendale ordinata dagli uomini e dalle donne del vecchio patriarcato? E perché mai le donne, in azienda, dovrebbero voler diventare come gli uomini, pur di essere viste? La creatività, l’autorità, la capacità di vendere sono modalità possibili dell’essere quello che si è, in libertà, attraverso la coscienza di sé. Senza ragioni trasparenti e condivise durante gli incontri di consulenza, rifiuto la pratica formativa che chiede di diventare leader o creativa o empatica, di saper lavorare in gruppo, perché fa comodo a qualcuno o per asservimento ad una dottrina facilitata.

A questo punto, la tolleranza rispetto ai consulenti/formatori da banco non può sfiorare la complicità.

 

2. Nuovo inizio, Rivoluzione

 Audacia non significa spericolatezza, temerarietà, ma parresìa, cioè libertà, franchezza di parola, capacità propositiva di dire le cose. C’è un’espressione molto bella negli atti degli Apostoli, là dove si dice così: “Pietro andò, si alzò in piedi, insieme con gli undici e parlò ad alta voce”. Questa è la parresìa: alzarsi in piedi, avere il coraggio di parlare, insieme con gli altri, non come battitori liberi, non come frombolieri d’assalto che vanno avanti, ognuno per conto proprio. Il coraggio consiste soprattutto nel coinvolgere gli altri a parlare, come gruppo, come città.

Don Tonino Bello

 

L’insofferenza per la frantumazione del ruolo e l’indignazione per la strumentalizzazione e la propaganda ideologica in atto sono momento di partenza per una riflessione intorno alla professione, nel pensarmi e nel propormi alle aziende. La psicologia, applicata alle organizzazioni, come ogni disciplina, concede peregrinazioni, ma non imitazioni.

Le pagine scritte assumono valore di parresìa: scelgo di dire tutto, con lealtà, senza ornamenti, oltre il politicamente corretto. Io dico quello che la consulenza, la formazione, la selezione e la valutazione sono e, anche, quello che non devono essere. Io dico, con libertà di critica, specie nei confronti del potere, avviando un pensare comune, anche se mi espongo alla ritorsione. Mi sento socialmente corresponsabile e sono preoccupata di divenire connivente con le cattive attività nella gestione delle risorse umane. O con ciò che ritengo tale e forse per altri/e non lo è: ma questa è una ragione in più per parlarne con chiarezza e per sollevare questioni di verità.

Ricordo Maria, responsabile di formazione, che strumentalizza e si coalizza con gli “alunni” contro “la professoressa troppo severa che ce l’ha con me”. Oppure Francesco, altro responsabile, che richiama continuamente persone per emergenze, perché vinca la convinzione che il lavoro è più importante della formazione, pur avendo scelto di proporla nella sua azienda. E poi Antonio: “non credo agli psicologi!” e, ancora, Alfredo: “Facciamo la formazione sui dipendenti, ma io non c’entro” e Salvatore: “Non posso aspettare i tempi lunghi della formazione”. La formazione diviene volgare quando è preceduta da un pensiero volgare, escludente, cieco, disumanizzante. Il contrario è un pensiero che talvolta tace e, quando si manifesta, appare povero, essenziale, nudo, a servizio.

In quanto solitaria, preciso che le persone mi piacciono e nel contesto prostituzionale allargato, scelgo di rompere con la tradizione e i luoghi comuni, con le parole abusate, riproponendo un ritorno alla cella, al romitorio, come origine, come realtà nella consulenza aziendale.

Il tentativo di molti/e colleghi/e più giovani è di compiacere, rimanendo nelle aziende sempre dalla parte giusta, furba, della storia. La differenza è nell’assumere su di sé il rischio del cambiamento, la responsabilità di non fare finta, lasciando immutati gli organismi parassitari.

 Ancora una volta è importante essere etici senza sentirci dalla parte <giusta>, ma situandoci nella zona grigia della complessità… questo atteggiamento etico dovrebbe sforzarsi di essere non irrealisticamente puro, ma <sufficientemente buono>( L.Zoja, op.cit. p.18)

Nell’aula formativa o nel primo appuntamento con il/la cliente, non si tratta di creare un’atmosfera, ma di creare una relazione trasformativa. Il destino più triste che mi possa capitare è di non far male a nessuno, quindi, di essere inutile e invisibile.

Il ricordo goethiano Stirb und werde, muori e diventa, è l’esercizio di senso della ricerca che propongo. “Non voglio farti soffrire” è la frase peggiore che recita il nonamore. Nessuna persona si augura di sentire male, di morire dentro per crescere e per cambiare ma, certo, gli ostacoli e le ferite si rivelano come spinte per il rinnovamento, attraverso una lettura adeguata. Nella crescita c’è sempre un commiato, un partire da posizioni vecchie, comode, scontate verso la trasformazione.

È resistenza l’insistenza inconsapevole nel già vissuto, la convinzione di essere nell’unica possibilità, senza altre vie d’uscita. È protezione di sé il permanere consapevole in territori noti, dichiarando e patteggiando con noi stesse/i e con la guida professionista, i tempi e i modi di cambiamento, riflettendo sulle conseguenze, mentre ci facciamo coraggio, rivolgendoci a noi stessi/e con gentilezza e pazienza. La protezione di sé è curare le ferite perché, pur restando aperte, diventino feritoie osmotiche.

L’amore in senso politico non esprime una vaga emozione, ma si manifesta come un’azione, predisponendo un sistema, basato non solo sul profitto, ma sulla cura, sull’assistenza, sulla compassione verso la comunità. Il lavoro di cura non nasce solamente all’interno dei movimenti femministi ma, certo, la maggior parte delle volte, è declinato al femminile.

Riconosco consulenti da una parte o dall’altra e tutte/i interi. L’emarginazione, la solitudine, l’incomprensione sono la misura della radicalità del ruolo da me rivestito di cui oggi avverto la necessità. La proposta è lontana dalle tendenze dominanti easy, smiling e carefree, facili e sorridenti. Le incomprensioni che dichiaro con i/le clienti e i/le colleghi/e che riconosco tali richiamano alla mancanza di chiarezza su etica e morale, su visioni antropologiche e non riguardano semplicemente la scelta legittima di metodi e strumenti diversi. Sempre più spesso mi imbatto in un utilizzo illegale della legalità nei territori della formazione.

Rilevo una malattia della cultura aziendale che chiamo scotoma della formazione intesa come cammino di analisi e di cura. Scotomizzare è una forma di svalutazione che rimanda ad un allontanamento, ad una originaria difesa, alla paura davanti all’ipotesi di un possibile svelamento di sé. La mia presenza professionale è delegittimata attraverso le assenze, i pregiudizi, le attese magiche proprio da parte dei responsabili che favoriscono la diffusione di atteggiamenti di sospetto e di evanescenza della realtà.

La cultura aziendale può ammalarsi di nevrosi: quando questa è inconsapevolmente autoreferenziata, centrata su di sé e serve solo a chi la comanda e a chi la gestisce; quando è inadeguata in una situazione definita da persone reali; quando dice parole, spesso in inglese, senza fornire lo spiraglio per entrare in relazione, quando riproduce una foto statica di un momento altro dalla realtà, travisata dal senso comune. Vedo le vecchie parole della formazione e sento il loro malessere: empatia, ascolto, motivazione, bisogno, problem solving, brainstorming, out door, sono termini che hanno già dato e che hanno diluito il significato iniziale. Percolando ai livelli più bassi si disperde e si vanifica ogni significato. Io sostituisco queste arma laboris con lo studio di parole per ripensare e condividere nuovi assi culturali: per esempio, realtà e contesto, persona, respiro e corpo, educazione, linguaggio, antropologia, orientamenti e prospettive, etica, estetica, indignazione, rivoluzione culturale, rivoluzione simbolica.

Quando ho iniziato ad occuparmi di formazione, nelle aziende italiane e nei master, giravano maggiormente elementi maschili e tecnocrati. La mia proposta era accurata e seria, ma mancava di autorità maschile, era diversa per contenuti, destruens per metodologie, per strumenti utilizzati in aula. Era me! Con l’esperienza maturata, penso che, prima ancora dei contenuti, delle metodologie e degli strumenti, la diversità del mio lavoro in aula era, fin dagli inizi, rispetto ad altri, nelle visioni di vita e di lavoro e, di conseguenza, nel cammino da compiere. Degli esperti che richiamo alla memoria, riconoscevo l’esperienza, la ricerca, la disciplina, nella presenza professionale e nella pratica quotidiana, ma continuavo nella mia opera di rivoluzione di donna, di psicologa, di consulente. Quasi sempre erano maschi o erano donne maschili e proponevano interventi contro il potere attraverso il potere della formazione, infatti, tutti/e, non vedevano l’ora di poter giocare <a psicologia>. Ero sempre in conflitto e a rischio di sostituzione, da parte del committente, dei miei moduli didattici.

Nelle organizzazioni, i risvegli delle menti e la consapevolezza che rende ogni persona culturalmente attrezzata sono un rischio di esclusione. Si tratta di intenderci su domande iniziali: per quale società, per quale uomo e per quale donna nasce e vive l’organizzazione aziendale? Prima di ogni contratto, bisogna che committente e agenzia formativa, si intendano su una idea comune rispetto a quale persona/cittadino/dipendente contano e quale senso abbiano gli eventuali interventi dell’agenzia con le umane risorse.

L’essere neutro, applicato alla formazione, offre solo la possibilità di diventare in qualche modo celebrità qualsiasi. La diversità di genere, invece, consente di capire, scegliere e dosare le parole, alla fine, le uniche adeguate, intorno alla formazione; parole che fanno cadere il sipario dell’eterno spettacolo, della finta allegria, in nome di successi e di forze finte, oltre i mondi aziendali soli, vuoti, squallidi e retti da forti poteri patriarcali e manipolativi.

Credo nel divenire della persona tutta intera, non nonostante, ma attraverso le variabili genetiche ed ereditarie, ambientali e sociali, casuali e di scelta personale.

Il moto interiore è indispensabile momento iniziatico per avvicinarsi alla consulenza. Cerco di scorgere nell’altro/a che si avvicina e a cui io vado incontro, una gioiosa attenzione, un orientamento anche generico alla ricerca, una inquietudine di base. La vera prima mossa è lo scatto interiore, il sentimento del cambiamento, la messa a fuoco dei desideri, delle mancanze.

Incontro donne e uomini che spesso non ricoprono ruoli apicali, ma che si manifestano pensosi/e, interessati/e seriamente a capire, incontro persone studiose, che credono ad una severa disciplina della mente. Le parole scambiate in uno spazio formativo hanno un valore perché corrispondono alla tensione interiore di ciascuno/a. Se non vengo riconosciuta come e nel ruolo, rischio di perseguitare, di dover continuamente giustificare la mia presenza, di scusarmi per i miei interventi, di chiedere il permesso di confrontare.

 3. La schivata: a sottrarre, a proteggere

Nel mondo di oggi, la disparità dei rapporti di forza invece di diminuire sembra crescere e ci espone alla violenza che nasce dentro e che cade addosso. Dobbiamo riequilibrare le forze, prendere in mano nostra tutte le nostre forze personali per creare un equilibrio, per non trovarci esposte passivamente allo strapotere dei media e dei soldi…

… Togliersi dalla fascinazione terribile della strapotenza. Bisogna spostarsi di lato. Il debole può spostare la posta in gioco in un altrove che non è più nella mira della forza dell’altro potente. Io la chiamo la schivata. Togliersi dalla mira del di più, del di meno, dell’invidia e del rancore…è la potenza di essere tutto ciò che è. Non imbrogli, non miraggi, non inganni. Questa forza, la vita e le cose, ce la comunicano quando riusciamo a vedere, a sentire e a significare con parole vere… L’azione tempestiva è l’azione giusta nel momento. Lo strapotere sente che noi ci siamo. Che lo senta. Costringiamolo a contenersi altrimenti non fa che crescere… Politica è sostituire i rapporti di forza e lo schiacciamento con rapporti tra esseri umani che siano liberi e felici.

Luisa Muraro, gennaio 2017, intervista di P.Columba  

 

Il traguardo è prima. Voglio dire che, per ciascuna persona, avanzare significa, anche, andare indietro, in profondità, a capire le origini e le ragioni. Parlo dell’attitudine all’analisi personale come prevenzione sana, diversa dalla psicoterapia che cura il disturbo emerso. È necessario un accompagnamento che consegni filosofie, metodi, strumenti e che supervisioni, all’inizio, il lavoro di presa in carico di sé, di autocoscienza.

Ho pensato alla Scuola di Educazione alla Persona come un luogo e un tempo dedicati, in presenza di una guida, alla comprensione del proprio copione, dei propri giochi psicologici, del system racket che sottende ad ogni esperienza esistenziale infelice. È una possibilità per predisporre, per orientare, per schivare le traiettorie previste dal potere che ingaggia la guerra, che misura, che va a vincere perché qualcuno perde e muore. Questo potere fagocita e mente, paga e ricatta, sottomette in modo grossolano e sottile: sancisce un obiettivo comunemente inteso come una méta prestabilita da raggiungere, una finale che prevede sempre un vincitore, un secondo, un terzo e i perdenti.

La Scuola rientra nelle scienze sociali, nelle scienze umane, Geisteswissenschaften (Dilthey) e, attraverso la comprensione di sé e degli altri/e, vuole superare il maschilismo e l’esercizio della forza, l’acriticità e l’ideologia retriva che da essi derivano.

L’Educazione alla Persona è un’azione efficace che precede l’eventuale processo formativo, rappresentandone l’elemento costitutivo e anticipandone le evoluzioni. Essa guida tra negazioni, nascondimenti, menzogne e difese, giacché divenire coscienti delle personali modalità di abitare il mondo ha un fine etico per ogni persona. La formazione, in seguito, attiverà i processi e amplierà la ricerca comune.

La Scuola propone un percorso antico, rivoluzionario e realistico restituendo letture diverse rispetto alla realtà, creando tempi e spazi di relazioni, perseguendo una conoscenza trasversale. Educare alla persona è scuola d’arte, artigianale, di accompagnamento, un servizio alla crescita che attraverso l’uno/a, ricade su un’intera comunità. L’educare non offre soluzioni immediate, perché indica prospettive non rispetto ad un problema, ma ad una situazione contestualizzata, valutata come opportunità di apprendimento.

Non si tratta di credere o di non credere, genericamente, nella Educazione alla Persona, di considerarla come un tempo sospeso o perso rispetto all’attività lavorativa, non si tratta neanche di aver avuto in passato esperienza più o meno significative con faccendieri occasionali. Richiamo l’attenzione sul senso e sulla funzione dell’Educazione alla Persona, prima di ragionare sulla figura professionale che ne deriva. La Scuola di Educazione alla Persona si fa strumento indispensabile nella costituzione, nella diffusione e nella continua trasformazione della cultura all’interno di un’organizzazione. La Scuola non è indipendente ed è in debito di riconoscenza con le maestre e i maestri, con le persone incontrate, con i libri studiati, con le letture che non si arrendono ad una immediata comprensione.

Ogni incontro di Educazione alla Persona richiede la presenza, senza interruzioni, dei/lle partecipanti, perché riconosce l’apprendimento nella interazione, nella relazione che va accadendo in presenza. Non è possibile, quindi, recuperare con appunti, schede, materiali didattici diversi che, pur se importanti, escludono il vissuto personale nella situazione. La dinamica di gruppo è il viaggio che, attraverso la comprensione e il coinvolgimento, avvia il cambiamento e dà senso all’incontro formativo. Quello che ciascuna persona sente, pensa e decide di agire nel gruppo rappresenta motivo di analisi e di lettura.

Il cammino più o meno lungo proposto dalla Scuola di Educazione alla Persona si interessa di relazioni nella diversità di genere ed è una permanente proposta di apprendimento per conoscere e per governare se stessi/e in compagnia degli altri e delle altre, inseriti/e in un contesto sociale e lavorativo. La diversità di genere coniugata con l’educazione alla persona è un modo per abitare il mondo e il mondo del lavoro. È un lavoro sulla struttura e sulla funzione. Di cosa parliamo quando parliamo di donne e di uomini? Per quale vita sociale, lavorativa ci prepariamo? Per dialogare con chi? E su cosa?

In ogni situazione aziendale, la scommessa della Scuola di Educazione alla Persona è dare un senso collettivo a quello che avviene. Viviamo la vita attraverso una forma di rappresentazione della vita stessa, attraverso un filtro, una chiave di lettura che riporta alla storia personale di ciascuno/a. La nostra mente ha una base immaginativa, mitopoietica. È indispensabile ripartire da una fenomenologia dell’esperienza, che significa la possibilità di tornare alle cose stesse. Infatti, il senso di ciò che ci accade è direttamente collegato al fenomeno: se non smontiamo il sistema di credenze è difficile che venga fuori una visione originaria delle cose.

Continuo a preferire rispetto ad una formazione di base, che chiamo Educazione alla Persona, uno/a psicologo/a regolarmente iscritto/a all’albo, con un percorso di crescita e di analisi personale di almeno cinque anni, certificato presso una scuola riconosciuta. Illuminante può essere l’attività formativa condivisa con un/a filosofo/a che pratichi l’insegnamento al pensiero.

Non ci sono iniezioni veloci e pillole, fine settimana intensivi e corsi brevi che licenziano maestri di comunicazione e dintorni. La serietà è lenta. Solo l’esperienza non basta, la tentazione è rappresentata dalla generalizzazione e dalla personalizzazione di ogni assunto. Se non hai una chiave di lettura per leggere i fatti accaduti, se non ti dai le ragioni di quella esperienza, non puoi svolgere la funzione pedagogica.

L’Educazione alla Persona è il lavoro intrapreso accompagnati/e da maestri/e adeguate/i e testimoni credibili e seguiti/e per tutto il resto della vita in una Comunità di Ricerca di riferimento.

Lavoro perché avvenga il passaggio dall’azienda nevrotica all’azienda poetica. In azienda la felicità si persegue con l’interdipendenza, con il mutuo scambio fra la cultura del molteplice e la cultura dell’organizzazione. Spesso, invece, l’integrazione in un’azienda concepisce solo l’assimilazione. Si sopravvive e ci si amalgama, divenendo un esecutore, un uguale. L’identità aziendale (noi siamo così, abbiamo sempre fatto così) pretende il mimetismo, la scomparsa delle diversità, in nome di una comune integrazione al sistema che provvede ad ammaestrare. La complessità, la varietà sono sempre guardate come minacce al potere e allora, chi detiene un dominio, non essendo interessato alle persone, fa presto a ridurre l’individuo a funzione, espellibile dal sistema stesso, dropout.

Angela Davis partecipando al Women of the world Festival 2017 a Londra, parla di femminismo intersezionale, da intersecare. In ogni azienda si manifestano impulsi di sopraffazione e l’assimilazionismo tende sempre a regnare sovrano. È importante capire di poter integrare le persone diverse dove vige la supremazia dell’uguale e dell’omologazione.

La Scuola di Educazione alla Persona non è neutra, non può rivolgersi genericamente “all’uomo del ventunesimo secolo”, non può ridursi al maschile che millanta varietà, ma si rivolge alle donne e agli uomini che, qui ed ora, vivono in relazione di diversità in un territorio. Una formazione nuova più che una nuova formazione. Anzi, una educazione di senso. Una preparazione che non pensi solo ad innovare, ma anche a progredire.

Bisogna combaciare con se stesse/i, riconoscere la propria ombra perché è il volto speculare della luce. Combaciare è la coincidenza fra il pensiero, il sentimento e il comportamento sociale agito. La consapevolezza crea dolore all’andata e al ritorno: perché si soffre e perché si leggono le difese messe in atto per sopravvivere.

La formazione nella diversità di genere assiste la donna, l’uomo e la relazione che ne consegue perché quello che deve accadere accada, attraverso la lettura possibile dei fatti verso un livello di coscienza che, cammin facendo, diviene più profondo e intride gli strati più intimi.

Da anni mi chiedo se posso obbligare qualcuno ad essere libero. Oggi rispondo che no, non posso costringere nessuno ad interrogarsi e a studiare ma che, nel mio ruolo, lì dove sono chiamata a svolgere il mio dovere, sento di dover continuare ad esercitare il confronto, la richiesta a pensare assieme, a capire assieme. Attendo con pazienza il tempo di comprensione dell’altro/a, il momento in cui decide che vuole comprendere e chiede una guida. Nello stesso tempo, colgo ogni occasione che mi si presenta per ricordare quanto è importante iniziare o riprendere il lavoro di coscienza di sé. Non è motivare, è ancor prima, aiutare a riconoscere, per qualcuno/a, per la prima volta, la possibilità di sentire, di pensare, di scegliere di agire e agire, talvolta, anche il silenzio e l’attesa.

È così che si riscopre l’energia perché si è umani/e e perché si può rinascere a se stessi/e nella mente, nel corpo, nello spirito. La Gestione delle Risorse Umane ha un inizio nella possibilità di ciascun Individuo di riconoscersi come Persona in un cammino di autonomia.

Come sottolinea Aldo Carotenuto, significa riuscire a elaborare, in un processo che terminerà alla nostra morte, la nostra presenza nel mondo come presenza unica, originale e irripetibile. Significa trovare quelle modalità attraverso cui esprimere pienamente la nostra unicità. Se <individuarsi> significa fondamentalmente differenziarsi, mai come in questi nostri tempi il compito dell’individuazione suona come una necessità, un imperativo morale.

Credo che, oltre una terapia psicologica, possa davvero esserci una educazione psicologico-letteraria-filosofica che accompagni l’essere umano durante il processo di individuazione di sè. Non solo un insegnamento, ma anche un dono, una gratuità, l’elargizione di una ricchezza che ciascuno ha creato durante la propria esistenza.

Il termine consulente, dal 1673 circa, si riferisce ad un professionista che offre informazioni e consigli. Il verbo Consŭlĕre rimanda alla riflessione, al prendersi cura di qualcuno. In un testo bizantino del IX secolo si parla del terapeutès ton logon, terapeuta dei discorsi. Questi studi mi portano in recessi trascurati dalla storia ufficiale delle aziende. Le nuove strade, i nuovi luoghi sono, oltre alle aziende, ai confini, nelle scuole, nei partiti, nelle parrocchie, nei teatri sperimentali di periferia, nei luoghi di cura, nelle associazioni e nelle piazze dove vive la gente. Un mondo a parte che resiste ai margini della ribalta della sopravvivenza consuetudinaria.

Io credo, attraverso la Scuola di Educazione alla Persona, a Gayatri Spivak:

Lo definisco “sabotaggio affermativo” perché sabotare soltanto, significa distruggere, fare in modo che qualcosa non funzioni più. Nel sabotaggio affermativo, invece, tu osservi, impari come funziona la macchina e poi fai in modo che lavori contro l’obiettivo che aveva prima. Significa conoscere il meccanismo, partire da una posizione di forza, non di debolezza. Qualunque strumento di potere, in un certo contesto, dovrebbe essere trattato in questo modo, perché è l’unica arma che abbiamo. È il nuovo attivismo, se volete; una determinazione che tende alla giustizia sociale. In altre parole, usare il capitale a fini sociali piuttosto che per il proprio beneficio o per la propria famiglia. Ovviamente è una cosa molto difficile, è un cambiamento del modo di pensare.

 

Riferimenti biblografici

  • Luigi Zoja, Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Bollati Boringhieri, 2011
  • Luciana Castellina, Ribelliamoci, Aliberti ed., 2011
  • Aldo Carotenuto, Oltre la terapia psicologica, Bompiani, 2004
  • Gayatri Spivak, L’Espresso, N.29, luglio 2017

 

 Editing: Enza Chirico

 

 

Penko Gelev

La stupidità, le stupidità, il gioco a Stupido

Penko Gelev

                                                                                                                                                               Penko Gelev, 2012

 

 

Si vede al cielo tanta assurdità

levarsi insieme alla stupidità.

Basta.

P.Cézanne, Lettere

 A Michael,

perché ci siamo fidati.

Spero che nel suo ritiro

abbia appreso il discernimento

e la protezione di sé

 

Vivace è l’interesse e numerose sono, negli ultimi anni, le pubblicazioni intorno alla stupidità umana. Riporto i testi guida che ho considerato nei quali la stupidità assume dignità di categoria.

1.“Cos’è la stupidità? Non è la cattiveria, non è una forma, e tanto meno un atto, di cattiveria o di male… contro il male ci si può organizzare, lo si può contrastare, magari impedirlo con la forza. Mentre contro la stupidità siamo senza potere. Il male sta alla stupidità come la kierkegaardiana e heideggeriana paura stanno all’angoscia. Il male e la paura si possono puntualizzare, individuare, e quindi superare; ma la stupidità e l’angoscia dilagano indefinitivamente e senza ragione motivante per tutta l’esistenza fino al punto da coestendersi e connotarla essenzialmente…. La Dummheit non è legata alla mancanza di doti intellettuali… la stupidità non è cosa congenita, ma acquisita e, pertanto, responsabile… La sua essenza va riportata all’influsso dell’ambiente e all’esercizio della libertà… presso i solitari non è facile trovare stupidità, mentre la cosa diventa facile presso gruppi e presso comunità… La stupidità più che un problema psicologico, è un problema sociologico. Non innata né congenita, ma acquisita e responsabilmente acquisita sotto l’urto dell’ambiente… Gli effetti della stupidità non riguardano, almeno immediatamente l’intelligenza. Quello che si perde è l’intima capacità di resistere, tanto che si finisce per rinunciare, coscientemente o incoscientemente, ad un atteggiamento personale, per rifugiarsi nell’anonimato del si fa o si dice per lo più. Quando si discute con un Dumm, ci si accorge subito che non si ha a che fare con lui, ma con luoghi comuni e atteggiamenti diffusi nell’ambiente. Per questo suo cedere ad un fascino subito, il Dumm è veramente un alienato, uno che manca di consistenza personale. Se la stupidità, nella sua essenza e nei suoi effetti, è un fenomeno di abdicazione personale, risulta del tutto evidente che nei suoi riguardi non è possibile un’azione di convincimento; sarebbe come voler attaccare una veste all’attaccapanni riflesso nello specchio… Soltanto una liberazione forzata, operata da gruppi di resistenza, potrà preludere ad una ricostruzione dell’uomo, basata su una serie di valori e di convincimenti”. I.Mancini,pp.259-261

 2. È sorprendente considerare che l’àmbito in cui la stupidità trova maggiori coniugazioni è quello aziendale… Il denaro costituisce oggi un elemento talmente importante che le imprese scelgono di strutturarsi nella maniera più comprensibile, chiara, logica, così da potere monitorare ogni passaggio e ridurre i rischi di un fallimento, sia nel senso ordinario del termine, ossia il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissi, sia in quello tecnico giuridico, che porterebbe allo scioglimento, per legge, di un’attività che abbia cagionato danno invece che frutti economici… Non vi è dubbio che la stupidità sia una componente della produttività, al punto che risulterebbe persino assurdo fondare un’azienda non stupida. Soffrirebbe di un forte freno decisionale che le deriverebbe dalla componente di dubbio propria della non stupidità e dai tempi richiesti a qualunque lavorazione complessa. Un’azienda non stupida dovrebbe riflettere, ponderare, meditare. Tutte operazioni che si rivelerebbero poco produttive. In altre parole, la stupidità non solo pare compatibile con il profitto, ma addirittura, sembra implementarlo e garantirlo.

Anche laddove si voglia fare uno sforzo della ragione per attivare l’efficacia aziendale, con sottili differenze addirittura tra efficacia ed efficienza, risulta che il profitto davvero c’è stato, ciò dipende dall’avere posto in atto scelte assolutamente estranee a ogni regola razionale e aver partecipato invece ai criteri della stupidità. Così lo stupido appare l’imprenditore più adeguato perché capace di dare dei forti impulsi al reddito. La logica del profitto funziona come fondamento per un procedere ordinario dell’azienda, per una sorta di risultato al minimo, di controllo dei rischi, ma è la stupidità a diventare il grande protagonista che permette di passare dall’ordinario all’eccezionale inducendo dei salti notevoli tanto da portare le aziende alla fortuna.

V.Andreoli, pp.117-125

 La stupidità è considerata da molti autori una componente distintiva e, a tratti, predominante dell’essere umano, così come l’intelligenza, in latino intelligěre, è definita dalla capacità di stabilire le connessioni e si manifesta attraverso la proiezione della sua ombra.  Così, nell’opposizione oscura e sotterranea, la stupidità rivendica una sua struttura, altra e autonoma, rispetto alla intimità e alla capacità di relazione. L’analisi stupidologica è la storia dell’essere umano che si distrae dalla coscienza della sua vita, nata per morire. Le componenti stupiditarie dell’esistenza umana ricordano, nel cammino che porta a divenire persona, la necessità di rimanere umili, legati all’humus, alla terra, alla realtà. La stupidità è cosa seria e preziosa, è la sostanza di cui siamo fatti perché, se riconosciuta, facilita la confutazione e l’ironia, quindi, la relazione.

“…proprio il tentativo di fuggire all’imbecillità che grava come un peccato originale sulla condizione umana è l’origine, sia pure fallibile e rischiosa, della intelligenza, della civiltà, di tutto ciò che di buono può aver fatto l’essere umano tanto nello spirito soggettivo (coscienza, autocoscienza e ragione […]) quanto nello spirito oggettivo (famiglia, società civile e stato), e persino nello spirito assoluto (arte, religione e filosofia)” (Ferraris, p.77).

…  Poi ci sono le stupidità rappresentate, a mio avviso, dall’ostinazione a costruire modelli e procedure politiche e sociali, fabbricazioni e strutture aziendali in cui pratiche ottuse e insensate diventano abitudini pedantemente consolidate di sottomissione e protocolli a cui attenersi senza dubitare e discutere.

Per esempio, ricordando l’ultima settimana lavorativa, mi capita di riflettere sul sistema del controllo e della punizione, lì dove questo sostituisce ed evita l’avvio della comprensione e dell’apprendimento. Lo stesso mira a colpire la costituzione di gruppi, per la difesa di scelte identitarie di categoria, passando la giornata (specie su facebook) a stanare il nemico, a riempirlo di insulti e ad espellerlo, a generare gli haters.

Si aggiunge l’iperofferta di fake news e di comunicazioni da discount sui social media verso e attraverso le masse, al posto dello studio e del pensiero condiviso fra persone.

Senza dimenticare il prodotto di un certo modo di intendere il marketing che si impone come fine e non come strumento, in cui il messaggio da trasferire, cioè il processo di ideazione, è minima cosa rispetto, appunto, ai like che produce.

Ricordo, a chi legge, l’effetto Dunning-Kruger, considerata una distorsione cognitiva a causa della quale una persona incompetente, lo è a tal punto da non accorgersi di esserlo e da progredire, ignara, nella pretesa di riconoscimenti.

Le stupidità sono le forme di gerarchia, instrumenti regni, che mortificano e non riconoscono agli esseri umani le libertà disordinate e scomode di pensiero e di azione, producendo unicamente reazione e agitazione. Vi sono situazioni in cui riconosco un padrone e mi preoccupo dell’incapacità e dell’impossibilità di scegliere dei sudditi, mi preoccupo della paralizzante violenza morale che ne deriva. Le stupidità sono sempre coniugazioni dell’onnipotenza o dell’impotenza, figlie dell’illimitato e del confine coatto.

“È il fare che risolve il dubbio, non il meditare. Ancora una volta, la storia è un fare, non è mai un pensare… la stupidità è una fede, perché è ignara del dubbio. Un pragmatismo radicale. La stupidità organizza le guerre, accumula patrimoni… procede con il dominio del potere e quindi con l’ingiustizia… Non è possibile che i non stupidi si affermino e prendano il potere, perché il potere in sé è stupido, impone anche al non stupido di <stupidizzarsi>” (Andreoli, pp.116-117)

In Analisi Transazionale mi è molto caro il capitolo dei giochi, rappresentando, insieme, una prospettiva, un metodo e uno strumento nella pratica di Gestione delle Risorse Umane. La consulenza aziendale riconosce il suo campo di azione proprio nell’analisi, diagnosi e cura dei giochi psicologici nelle interazioni aziendali.

I giochi psicologici sono una modalità negativa, inconsapevole e ripetitiva, di strutturare il tempo, evitando la relazione sana e, per questo, conflittuale e sostituendola, appunto, con l’intrattenimento in interazioni verbali e gestuali che svalutano se stessi, l’altro, la situazione. Dal gioco psicologico tutti gli attori escono perdenti e infelici, anche chi vince, chi ha dimostrato da che parte stanno il torto e la ragione, anche chi, applicando tecniche da imbonitore, pensa di aver effettuato una vendita vincente.

La comprensione del gioco a Stupido prevede sempre un cammino autobiografico.

In italiano utilizzo il genere grammaticale maschile perché ritengo che il gioco psicologico a Stupido sia sempre il rituale di funzione patriarcale che ricatta, anche nel caso in cui l’interazione di gioco riguardi una donna. Nel gioco psicologico a Stupido, la tesi, cioè la mitica credenza sottostante, perpetua la certezza che finché sono stupido… nessuno si aspetterà di più, oppure, non dovrò risponderne, non potrò assumermi, in quanto stupido, alcuna responsabilità.

Il gioco aziendale può essere inconsapevolmente utilizzato da un/una responsabile sotto l’ordine <Spicciati> che pensa di evitare rallentamenti e discussioni giudicate inutili. Le persone vengono tenute a bada, talvolta, anche, fagocitate dagli organizzatori di feste e team building che relegano tutti in una zona primordiale, istintiva di interazioni. Il/la dipendente che pensa può diventare un antagonista e, di conseguenza, fare richieste eccessive che, talvolta, non sono solo monetizzabili.

Essere chiamato e riconosciuto stupido conferma l’ingiunzione <Non Pensare> e prevede una Vittima che innesca il gioco e un Persecutore che si fa agganciare e ci casca, confermando la tesi. E un modo indiretto per soddisfare un bisogno. Il giocatore a Stupido può riconoscere il bisogno di essere se stesso, umano con la capacità di pensare e di esprimere il proprio pensiero il quale potrà essere modificato.

Il giocatore non ha capito o sentito o saputo, non è stato invitato, non ha ricordato, ha sottovalutato, ha dimenticato luogo o tempi, insomma ha sbagliato: e, così, nell’atto di fallire esprime tutta la sua incertezza di onnipotente. Certo, perché, questa persona non mette in conto di poter dimenticare, di poter non capire e non essere sempre gradita a tutti, non accetta la possibilità di un limite. L’attesa magica del giocatore è dover risultare, agli occhi del mondo, sempre bello, telegenico, preparato, giusto, intelligente, forte, figo, in una parola!

In certe occasioni, se non accettiamo di sentirci sbagliati, inadeguati, appunto, se non accettiamo la parte un po’ cretina di noi, allora, siamo candidati a diventare giocatori incalliti a Stupido. La stupidità appartiene all’essere umano fragile che trova il senso della sua esistenza nel riconoscersi in relazione. Può accadere a tutti di sbagliare battuta, vestito, appuntamento, strada, senza doverne approfittare, per dimostrare, ancora una volta, a noi stessi in primis, che siamo mancanti e, di conseguenza, condannabili e che, infine, nel ruolo di Vittima siamo nell’unico posto possibile a noi concesso dall’inizio dei tempi. Una catena malefica di convinzioni, ricerca di fatti e dimostrazioni.

Non credo, come afferma il filosofo Ferraris, nella utilità di distinguere l’imbecillità di élite dall’imbecillità di massa. Ogni essere, in quanto umano, a causa della sua umanità, è predisposto al gioco a Stupido nei momenti di impasse, in cui si sente incapace, manchevole, stanco, in qualche modo. Ogni giocatore esprime percentuali diverse e, dunque, gravità diversa nel gioco. Negli ultimi anni, in alcune aziende da me seguite, riscontro il terzo grado di gravità fra gli interpreti del gioco a Stupido, quelli che per uscire di scena sono costretti a finire all’ospedale, al tribunale se non al cimitero.

Per ogni persona la domanda iniziale rimane: “In quali circostanze mi rendo disponibile a iniziare o a farmi agganciare nel gioco a Stupido?”

Non si tratta di stare sempre tesi e in guardia, ma di fare attenzione agli agguati, assumendo la responsabilità della proprio umana fallibilità.

Gli interventi immediati prevedono di non ridere delle stupidaggini e di cambiare argomento. Fare la scelta di non stare al gioco, spingersi a spostare il focus dalla svalutazione dell’altro e di sé, recuperando i dati di realtà. La formazione prevede, oltre l’intervento immediato

  • di ignorare il gioco, anche la possibilità
  • di spiegarlo,
  • di offrire un’alternativa e/o
  • di giocarlo nel caso in cui il/la consulente ritenga non adeguato lo smascheramento del giocatore in pubblico nell’immediato.

Penso che l’opposto del gioco a Stupido sia l’educazione alla libertà e la cura della con-sapevolezza, di un sapere condiviso, fluendo coralmente verso una meditatio mortis.

Insomma, l’opposto è la possibilità di mantenere la scelta della stupidità, nelle sue varianti, per riconoscerla, evidenziarla e anche poterne fare a meno, ridendoci su, assieme, liberati e liberi.

Riferimenti bibliografici

  • Eric Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani, 1987
  • Sara Filanti e Silvia Attanasio Romanini, a cura di, Il modello dell’Analisi Transazionale, Franco Angeli, 2016
  • Fernando Mantovani, Stupidi si nasce o si diventa?, Ed.ETS, 2015
  • Italo Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, 1995
  • Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, 2010
  • Robert Musil, Discorso sulla stupidità, Diogene Ed., 2015
  • Maurizio Ferraris, L’imbecillità è una cosa seria, il Mulino, 2016

 

 

Editing: Enza Chirico