Lucifero

La salute psicologica del giocatore d’azzardo

Lucifero

Lucifero, Franz von Stuck  (1889-1890)

 

Faites le jeu, messieurs! Rien ne va plus? È la voce del cerimonioso croupier, amico d’inferno, testimone impassibile di derive umane che oggi è sostituita dal rumore musicale delle macchine.

Con questo scritto ordino il lavoro di preparazione svolto per un intervento informativo sulla ludopatia, in una scuola superiore. Parlando ai minori quindicenni ho modificato il linguaggio e gli esempi insistendo sulla sana strutturazione del tempo e sulle buone pratiche quotidiane. Mi occupo di prevenzione e nel territorio ampio di questa rimango. La riflessione psicologica e culturale che propongo non è risolutiva, precede ma non corrisponde al lavoro clinico e psicoterapeutico.

Fëdor Dostoevskij è il maestro: egli ricerca la verità assumendo come guida l’errore. Lo Scrittore russo spende la sua vita a cercarne il senso, è un moderno ed evoluto ulisse, slegato, con i sensi pericolosamente attivati e rapito dinanzi al richiamo di immortali sirene, nella possibilità di perdere. Quindi, condannato ad essere mortale e libero. Ha già vinto e con lui vince ogni essere umano nella tensione alla conoscenza e nell’affondo della coscienza turbata.

Forse, oltrepassando una tal quantità di sensazioni, l’anima non si sazia, ma ne è solo eccitata ed esige altre sensazioni, via via sempre più forti, fino allo stordimento finale. (Dostoevskij:192)

L’Autore è costretto a firmare un contratto capestro con l’editore Stellovskij e, grazie all’aiuto di Anna Grigor’evna Snitkina, la stenografa a cui detta in ventotto giorni il testo de Il giocatore, riesce a consegnare il nuovo romanzo. Non riesce, invece, ad allontanare il demone della roulette, del biliardo e delle carte. La febbre, il delirio, l’attacco isterico: ogni situazione è marchiata dal gioco e l’arbitrio del caso e la sete di rischio diventano la misura di tutto. Il processo del gioco, nelle azioni ormai convulse, si impadronisce del pensiero, della pietà verso se stessi. Lo sguardo è ipnotizzato dalla roulette che gira, gira ed in ballo non è certo la sregolatezza russa o il modo tedesco di accumulare denaro con un lavoro onesto (Dostoevskij:p.75)

Apprezzo la traduzione del romanzo di Serena Prina, le parole per descrivere i numerosi personaggi, cretini in modo commovente, il “servitorame ossequioso” che usa il ricatto basato sul sesso, sul denaro, sulla calunnia. Il giocatore non è mai un giocatore e basta, non è mai un semplice scommettitore; egli è inserito in un contesto complice e nessuno più di Dostoevskij, inseguito dai debitori, ne ha analizzato i malesseri.

Per quanto fosse ridicolo che mi aspettassi tanto dalla roulette, mi sembra che sia ancora più ridicola l’opinione comune, da tutti riconosciuta, che sia stupido e assurdo attendersi qualche cosa dal gioco. E perché il gioco dovrebbe essere peggio di un qualsiasi altro modo di far denaro, per esempio del commercio?  È vero che vince uno su cento. Ma a me che me ne importa?  (Dostoevskij:58)

Penso che mi siano finiti tra le mani all’incirca quattrocento federici in nemmeno cinque minuti. A quel punto avrei dovuto andarmene, ma in me era germogliata una sorta di strana sensazione, una specie di sfida alla sorte, il desiderio di darle un buffetto, di mostrarle la lingua. Giocai la massima puntata consentita, quattromila fiorini, e persi. Quindi, tutto infervorato, tirai fuori tutto quello che mi era rimasto, puntai la stessa somma, e persi di nuovo, dopo di che m’allontanai dal tavolo come stordito. (Dostoevskij:72)

Il gioco d’azzardo, in fondo, è una possibilità di vedere il mondo e di provare a possederlo. Credere alla sorte, sfidare la fortuna, fregare la povertà: il giocatore vuole conquistare tutto velocemente e non comprende la curiosità e la fatica dell’opera della propria esistenza da completare attraverso un percorso più o meno difficoltoso. Vuole vincere. E perde. Ha già perso prima del risultato perché non gode. Chi si diverte, può essere che vinca e che si allontani. Il giocatore, invece, rilancia, vuole strafare e i suoi occhi sono sbarrati su un nulla che fa le capriole. La sregolatezza, all’inizio, è solo una cattiva abitudine. Spesso, in origine, non è detto che ci siano malesseri psicologici ma solo voglia di eccedere, solo esagerazioni brillanti di un bulimico di vita, di un ubriaco di sensazioni forti. Bisogna prestare attenzione e rimanere vigili perché il processo del gioco si impadronisce di chiunque. Riconosco il piacere morboso di rendersi oggetto, schiavo di un’azione ossessivo compulsiva che porta il nostro Autore ad impegnare il cappotto e i pochi gioielli della compagna. Non può che ripetere l’atto della giocata, condannandosi in una foto statica dell’eterno presente.

Io, certo, vivo in uno stato d’ansia costante, gioco le somme più piccole e aspetto qualcosa, faccio calcoli, me ne sto per giornate intere accanto al tavolo da gioco e osservo il gioco, persino in sogno vedo il gioco, ma con tutto ciò ho l’impressione di essermi in qualche modo irrigidito, come se mi fossi impantanato in chissà che fanghiglia. (Dostoevskij: p.221)

La Kamorka è il bugigattolo, il ripostiglio, la stanzetta in cui spesso i miserabili di Dostoevskij vivono anche mentalmente. Anche il giocatore contemporaneo ha la sua Kamorka,  obbligandosi a rifugiarsi nello spazio esiguo che finisce per imprigionare il corpo e la mente, nell’attesa dell’evento eccezionale, sentendosi destinato ad una quotidianità fantasmagorica, sopra le righe. Il giocatore rifiuta il confronto con la realtà, la tiene a bada, si convince che deve piegarla. Al centro del processo che sottende la giocata ci sono sempre molteplici problematiche relazionali serie e irrisolte. Senza il governo di sé, il caso si impadronisce irrimediabilmente di ogni individuo.

Dalla ludopadia si può guarire. La malattia non sempre segna la fatale, ineluttabile, predestinata fine del malcapitato. Tengo conto della ricerca dei colleghi psicologi psicoterapeuti che leggo nel Notiziario dell’Ordine: Molti individui, … si affidano al pensiero magico che vede nella vincita e nel rito della giocata la risoluzione di una serie di problematiche. L’analisi economico/sociologica del campione ha lasciato emergere che la maggior parte dell’utenza afferente al servizio appartiene alla cosiddetta “fascia debole”: giovani, adulti con difficoltà a reinserirsi nel contesto lavorativo, donne, famiglie poco abbienti. Per queste persone, quindi, il pensiero magico è il solo “faro” verso una rotta che però li conduce, come dei false friends, a deragliare dal contesto sociale finendo per rovinarsi nel tentativo di fuga da una realtà troppo dolorosa, … La terapia famigliare è importante e soprattutto il lavoro di gruppo – affermano i colleghi – attiva una “sfida” a cui il giocatore è molto legato, cioè essere “vincente” nel gruppo stesso. Il gruppo diviene quindi contenimento e sfida perché la ricaduta è vissuta come un’ulteriore “perdita”.

Considerando gli scenari raccontati, forse, la condanna delle sale da gioco può diventare una beffa, esprimendo unicamente una lotta di potere fra le parti che evitano la pre-occupazione, il preoccuparsi prima, del giocatore. La legge pare contro l’imprenditore, quest’ultimo, spesso, è contro lo psicologo, la chiesa è contro il peccato, tutti si esprimono contro tutti.

Chiedo nella discussione di uscire dalla logica binaria della giocata, del vincere o perdere, della contesa, del proibizionismo per evitare il meccanismo di difesa dello spostamento. In psicologia, lo spostamento è il processo automatico e inconscio attraverso il quale una minaccia interna, derivante da un impulso inaccettabile, viene spostata su un oggetto sostitutivo. Il legame tra i due oggetti è simbolico e inconscio. Attraverso lo spostamento questa minaccia, che non è stata evitata per mezzo della rimozione, viene ora avvertita e riconosciuta come un pericolo esterno, non più apparentemente connesso all’impulso interno inaccettabile. Le fobie dell’aids, del fumo, dell’alcol, dei medicinali, di una certa alimentazione, come la fobia del gioco, spostano l’indagine dall’umano alla rivendicazione di un illusorio potere sociale.

Di conseguenza, a favore del pensare assieme, desidero ampliare la prospettiva che prevede solo l’ambivalenza del torto e dell’opposta ragione. Scelgo di accogliere una teoria e una metodologia di educazione Alla persona, verso e a favore di questa che preveda il divenire e il processo di ampliamento di sé. Per la società, la persona con le fragilità e i vizi umani non può rappresentare un problema da risolvere. L’essere umano non è solo un peccatore da redimere, un poveretto da ammaestrare, uno sciamannato da beccare ed escludere. Credo in una nuova antropologia che accompagni la maturazione benedicendo il processo spesso complesso di evoluzione che passa sia attraverso comprensioni immediate, sia attraverso apprendimenti difficili. Amplio la visuale e l’attenzione dalla chiusura, dall’allontanamento e dalla conseguente ghettizzazione delle sale da gioco alla presa in carico della prevenzione, dell’accompagnamento dell’essere vivente a diventare umano e felice non nonostante la propria fragilità, ma attraverso di essa.

L’ipotesi alla base dei miei interventi di prevenzione è che l’attrazione per il gioco compulsivo sia un derivato dello stile di vita, ancora ben radicato, maschilista e padronale, dannoso e distruttivo per gli uomini e per le donne coinvolte, il quale sciaguratamente richiede di essere vincenti, forti, ricchi, accettati, famosi a tutti i costi. La credenza errata molto diffusa è che chi ha i soldi ha il potere e che la dignità personale è legata a quanto si è capaci di guadagnare! Altrimenti si è fuori gioco! Si diventa un arrivista sfidante oppure si rimane uno sfigato senza vacanze glamour.

La salute psicologica riguarda, invece, l’accettazione di una esistenza talvolta modesta o di periodi di vita con possibilità di spesa ridotta rispetto ai desideri. Nell’attività lavorativa svolta, la persona sana accoglie anche i risultati minimi rispetto a quelli attesi. Il benessere psicologico consente di farsi carico di ciò che si è e si va diventando nella propria storia, differenti e molteplici, mai rispetto ad altri, stretti in valutazioni che nello sforzo della definizione finiscono per ingabbiare. Di conseguenza, le attività da svolgere nella prevenzione, e intuisco anche nella cura, sono culturali e psicologiche assieme. Ci ammaliamo nella formazione intellettuale, oltre che nell’anima e nel corpo.

Il giocatore o la giocatrice possono divenire consapevoli dei propri stati emotivi e più forti rispetto al sintomo riuscendo a gestirlo, solo analizzando la visione di vita, il copione personale, la mentalità rispetto a se stessi, agli altri, alla vita. Vivere non significa solo guadagnarsi da vivere ed è, quindi, importante indagare il rapporto di ogni essere umano con il denaro e con il significato della parola successo.

Il processo che rende libera e autonoma una persona non prevede proibizioni, punizioni, esclusioni, valutazioni che facilitano il processo di cosificazione di sé e dell’umano. La maturazione è frutto di riflessione, di tempo trascorso presso di sé, magari con una guida nella comprensione dei sotterranei dell’anima.

Domani, domani tutto finirà: è la chiusa del romanzo e Dostoevskij ci credette.

Al centro rimane ogni persona con la sua ricerca tormentata di una difficile felicità. La prevenzione è il tempo fra la coazione a ripetere e la strutturazione psicologica definitiva del giocatore che non si diverte più, che ha perso la gioia. Considero sacro, quel tempo, dal latino sacer, il tempo dell’essere umano che viene al mondo per creare coscienza e che chiede il sacrificio della consultazione a più voci e dell’indagine profonda.

 

Riferimenti bibliografici

  • Ricco, Tambone, Taranto, GAP L’infelicità di “vincere facile”, Psicopuglia, Notiziario dell’Ordine degli Psicologi della Puglia, giugno 2018, vol.21
  • Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, Feltrinelli, 1941, 2017
  • Sigmund Freud, Shakespeare, Ibsen e Dostoevskij, Bollati Boringhieri, 1946, 1976
  • Aldo Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani, 1993

 

L'Offerta

La relazione di Consulenza e il fastidio della Profezia. Da Cassandra, archetipo della maga, a Ecate, dea psicopompa

 L'Offerta

L’Offerta (Il miracolo delle rose) – Wilhelm List (1880-1971)

 

1. Il copione scelto da sè

“Una cosa soltanto non riesco a capire” disse la Pizia. “Che il mio oracolo si sia avverato, anche se non come Edipo se l’immagina, è frutto di una incredibile coincidenza; ma se Edipo ha creduto all’oracolo fin da principio e se la prima persona che ha ucciso è stato l’auriga Polifonte e la prima donna che ha amato è stata la Sfinge, se questo è vero, come mai non gli è venuto il sospetto che suo padre fosse l’auriga e sua madre la Sfinge?”.

Perché Edipo preferiva essere il figlio di un re piuttosto che il figlio di un auriga. Il suo destino se lo è scelto da sé” fu la risposta di Tiresia. (Friedrich Dürrenmatt 1988: 63)

Mi incammino nella costruzione di sé come Persona, uomo e donna, riflettendo sulla responsabilità che ogni essere umano assume nelle proprie scelte di vita, sull’autorità della consulenza e sulla potenza della relazione di éros. Considero la libertà come il lavoro di consapevolezza.

Esercitare il discernimento e la capacità critica nella relazione di consulenza serve, ma non basta. La parola profetica si manifesta quando si incontrano la nudità, l’autenticità delle persone coinvolte e la realtà della situazione aziendale. Il/la consulente è strumento di analisi e di comprensione e mai indovina disegni divini e destini di popoli. Il rischio è che sentenzi e che pontifichi sulle teste degli altri, assoggettati, alienati dentro un pericoloso triangolo drammatico in cui riconosco la teatralità dei ruoli di Vittima, Persecutore, Salvatore e dei giochi psicologici, ma in cui non rilevo la profondità dell’intesa. La relazione profetica non ha funzione salvifica, non svela una sorte predetta, diviene la scelta consapevole e “ri-conosciuta” di una dimensione ontologica dell’essere umano.

La chiaroveggenza è legata a illusorie capacità del/la consulente che non può, in nessun caso, predire il futuro. L’arte della divinazione presuppone che le conoscenze dichiarate  provengano da una fonte soprannaturale, da una divinità. La professione di consulente aziendale può esprimersi come profezia unicamente prendendosi cura della spiccata perspicacia intellettiva ed emotiva degli esseri umani, nelle relazioni sane. La profezia non si basa su una generica previsione del futuro, ma richiede l’analisi profonda della situazione e ragionamenti sulle diverse prospettive, in un contesto di intrecci comunitario.

In azienda, il/la consulente non parla in nome di un dio, ma crede nella relazione paritaria e può realizzare una possibile deità riconfermando, così, la natura divina dell’umanità.

La profezia richiede il senso del limite, essa è eccedenza di pensiero e, di conseguenza, esige il perimetro segnato. “La Pizia lasciò aperto il portale principale, salì sul tripode e aspettò la morte…Sentendo la morte vicina, crebbe la sua curiosità.” (F.Dürrenmatt,p.25). Quando l’essere umano si riappacifica con il limite, diviene curioso, chiede di conoscere. È dal senso della propria caducità che prendono forma il sapere e il sapere profetico.

La nostalgia e l’assenza come Stimmung, come stati d’animo, la conoscenza come moto del cuore e della ragione rappresentano le radici della Consulenza espressa con la parola profetica. L’essere umano ha un corpo ma, anche, ogni persona è corpo; quindi, non solo si esprime e vive corporalmente ma, anche, permanentemente, sente, pensa e agisce con il corpo che diviene, se ascoltato, profetico. Cogliere, registrare, decodificare i linguaggi dei corpi negli spazi aziendali serve non solo ad evidenziare i sintomi e le disfunzioni nelle interazioni fra individui, al fine di proporre una diagnosi ma, anche, ad offrire diverse e più complesse letture della cultura organizzativa dolente.

Le persone possono diventare strumento di profezia, impegnandosi a creare consapevolmente relazioni libere dagli inganni e dalle dinamiche di potere. Solo nella esperienza della noità, i lavoratori e lavoratrici, in ogni ruolo, divengono capaci di intimità e risolvono le Ingiunzioni categoriche come “Non appartenere”, “Non ti fidare”, “Non sentire”. La voce profetica mantiene un timbro, un colore affettuoso e collaborativo, mantiene il tono di voce, l’intenzione di chi fa il tifo per sé, per le altre, per gli altri, per l’impresa comune.

Nella consulenza che può divenire profetica, il cammino è precario, opera nella zona indistinta fra dentro e fuori, fra luce e ombra, fra certezza e immaginazione, fra intuizione e realtà, fra permesso e protezione. Praecarius prevede una prex, una preghiera, di desiderio e di gratitudine, diversa dalla quaestio, con la quale si chiede per ottenere ciò che si vuole. Il cammino consulenziale, dunque, predispone a due generi di conoscenza, una didattica che deriva dal sapere, l’altra iniziatica che richiama la coscienza e l’utilizzo adeguato dell’intelligenza sociale, mettendo a servizio della comunità quello che si conosce. Il mistero, la noità, nella relazione profetica, non sono legati alla segretezza gelosa dell’esperto, ma all’azione gioiosa nell’esperienza, anche ammutolita.

Nel cambiamento aziendale, la professionalità non conta solo di insegnare, di interrogare, spiegare, punire ma, soprattutto, riconosce una disposizione alla ricezione, al patire dell’apprendimento, alla riflessione come tecnica di lavoro che conduce all’instradamento.

2. La vista profetica

“Pannychis” disse il veggente in tono paterno “solo la non conoscenza del futuro ci rende sopportabile il presente. Mi sono sempre stupito e continuo a stupirmi immensamente che gli uomini siano tanto smaniosi di conoscere il futuro. Sembra quasi che preferiscano l’infelicità alla felicità. D’accordo, noi due abbiamo approfittato e addirittura vissuto di questa propensione degli umani, io, lo riconosco, assai più agiatamente di te, anche se non è stato facilissimo recitare la parte del cieco per la vita di sette generazioni che gli dèi hanno voluto donarmi. Ma sono gli uomini a volere che i veggenti siano ciechi, e i clienti, si sa, non vanno mai delusi. (Friedrich Dürrenmatt 1988: 41)

Per illustrare il lavoro consulenziale le figure femminili della mitologia, Cassandra ed Ecate, richiamano le professionalità di uomini e di donne che prevedano, nelle attività organizzative, l’accoglienza convinta, l’ascolto competente, l’accompagnamento studiato, la centralità della Persona, la risoluzione dei narcisismi, la sostituzione del potere con la potenza del patire, la comprensione, il coinvolgimento e la compromissione. Il percorso da Cassandra a Ecate racconta il passaggio dal furor sanandi, cioè, dalla presunzione e dalla fretta dell’esperto che sa e che offre spiegazioni e risoluzioni al cliente ignorante, verso la/il professionista che accompagna, che evolve assieme al cliente, in una viandanza gioiosa di ricerca profonda.

Cassandra, figlia di Priamo e di Ecuba, riceve da Apollo il dono della profezia che perde dopo aver respinto l’amore del dio: nessuno più le crede.  Non persuade i concittadini quando prevede che Paride provocherà la rovina di Troia, né quando svela che il ratto di Elena si risolverà in un disastro, né quando con Laocoonte cerca di impedire il trasporto in città del cavallo di legno, lasciato dai Greci sulla spiaggia. Ella profetizza inutilmente il destino di Enea e, come preda di guerra, toccata in sorte ad Agamennone, predice la di lui imminente uccisione. L’infelice schiava Cassandra finisce, infine, trafitta da Clitennestra.

Per Cassandra le situazioni sono motivo di una continua scoperta e rivelazione, assumendosi la responsabilità degli accadimenti che prevede. La donna è maga e l’uomo diviene Cassandra, possedendo una sorta di stupore umile nel rendersi conto di essere solo una piccola parte dell’umanità, uno strumento di svelamento. Cassandra vede la vita come un processo e propone, come antidoto ai malesseri, l’autocoscienza assieme alla capacità di espressione e affermazione di sé.

La consulenza difende non il potere su qualcuno, ma la potenza, l’energia di produrre il pensiero e il cambiamento. La consulenza che deriva da Cassandra appare folle perché si allontana dalla tecnica del problem solving, perché rompe ogni logica convenzionale, lineare, di azione e reazione scontata e di gravità. La/il consulente svela che nella vita aziendale bisogna esserci. Semplicemente, esserci, perché si assuma un nuovo modo di vedere, diverso dalle mentalità obsolete e bigotte. Spesso, Cassandra non viene creduta.

Essere profetica significa non solo vedere e pre-vedere, ma accompagnare l’altro/a perché si renda conto e perda la cecità interiore.  È importante che io capisca ma, ancor più, che l’altra persona arrivi alla comprensione, con i suoi tempi e con meno dolore possibile. Spesso, come consulente, il dolore della crescita, non posso risparmiarlo.

3. La parola profetica

Richard Wilhelm si era trovato in un remoto villaggio cinese colpito da una tremenda siccità. Gli abitanti avevano fatto di tutto per mettervi fine, ricorrendo a preghiere e a incantesimi di ogni sorta, ma sempre invano, sicché gli anziani del villaggio avevano detto a Wilhelm che l’unica soluzione possibile era di far venire un mago della pioggia da lontano. La cosa interessò enormemente Wilhelm, il quale era riuscito ad essere presente all’arrivo del mago della pioggia. Questi, un vecchietto grinzoso, era giunto a bordo di un carro coperto. Scesone, aveva fiutato l’aria con espressione disgustata e quindi chiesto che gli fosse assegnata una capanna alla periferia del villaggio, ponendo come condizione che nessuno lo disturbasse e che il cibo gli fosse lasciato fuori dell’uscio. Per tre giorni non se n’era saputo più nulla. Poi, il villaggio era stato svegliato da un vero e proprio diluvio; era persino nevicato, cosa del tutto insolita in quella stagione.(…)

Wilhelm, rimastone grandemente impressionato, era andato dal mago della pioggia uscito dalla sua volontaria reclusione, al quale aveva chiesto meravigliato: «Sicché, tu puoi far davvero piovere?».  Il vecchio s’era messo a ridere rispondendo che «naturalmente» non poteva far piovere affatto. «Ma finché tu non sei venuto» gli aveva fatto osservare Wilhelm «c’era una terribile siccità. Poi passano tre giorni, ed ecco che si mette a piovere». E il vecchio: «Ma no, le cose sono andate in tutt’altro modo. Vedi, io provengo da una regione dove tutto procede per il meglio, piove quando è necessario e fa bel tempo quando occorre, e anche la gente è a posto e in pace con se stessa. Non così invece con la gente di qui, la quale è fuori dal Tao e fuori di sé. Quando ho messo piede nel villaggio sono stato subito contagiato, per cui ho dovuto starmene da solo finché non sono tornato nel Tao, e allora com’è ovvio s’è messo a piovere.» (Barbara Hannah)

Nelle aziende non ci sono maghi che agitano il bastone della pioggia e dell’abbondanza nel deserto. La mente in ricerca, il cuore ben disposto, il corpo liberato, la comunità in armonia possono magicamente favorire che la realtà accada, riconoscerla e accoglierla nei suoi fenomeni.

La magia è basata su ciò che Carl Gustav Jung chiama sincronicità, fra macro e microcosmo. Sincronicità si riferisce alle coincidenze significative, ovvero ai collegamenti privi di causa. La consulenza legata a Cassandra consente di conoscere la sincronicità.

In un cammino in progressione, le Martiri imparano a far posto al dolore, le Guerriere alla paura, le Viandanti apprendono la solitudine e le Maghe, come Cassandra, arrivano a far posto alla comprensione e al completamento di sé.

Continuando, il percorso di consulenza riconosce Ecate, levatrice ed esploratrice della psiche, multiforme dea psicopompa. Quest’ultima parola deriva dal greco ψυχοπομπóς, da psyche, anima e da pompós, colui/colei che accompagna.

Ecate “che ha candida mente” (Esiodo), custodisce e presiede i crocevia, in particolare, i trivi, incroci di tre vie. Il crocicchio è il luogo in cui si raccolgono le energie, è occasione di scelta ed è espressione di libertà, di intenti e di destini diversi. Ecate, dea psicopompa, con la sua torcia, accompagna verso la luce dell’interiorità. Essa ascolta e protegge chi è sulla via, aiutando a scegliere il percorso adeguato, meno rischioso.

In alcune rappresentazioni, Ecate appare con tre teste che guardano, ognuna, in una diversa direzione: forse la destinazione umana di vita, morte e rinascita o, forse, l’espressione della Terra, del Mare, del Cielo. Essa contiene in sé l’infanzia, la maturità e la vecchiaia e, attraverso le tenebre e le viscere scomode dell’analisi, è guida verso la conoscenza e la consapevolezza. Sono suggestivi gli appellativi che ad Ecate vengono attribuiti negli scritti esoterici greci, di derivazione egiziana, con riferimento a Ermete Trismegisto.

E ciò mi induce a pensare alle espressioni che la consulenza può assumere nelle attività di analisi, di diagnosi e di cambiamento della cultura organizzativa.

Chtonia, appartenente al mondo sotterraneo
Antaia, colei che  incontra
Apotropaia, protettrice
Enodia, dea che appare sulla via
Kourotrophos, nutrice di fanciulli
Propylaia, colei che sta davanti alla porta
Propolos, colei che serve
Phosphoros, portatrice di luce
Soteira, sapiente
Triodia/Trioditis, che frequenta i crocicchi
Klêidouchos, che porta le chiavi
Trimorphe, triplice

 

Il dono della profezia che da sempre accompagna le sciamane è legato alla capacità terapeutica. La persona che vede, pre-vede e cura. Prima ancora dell’alterità, vede la ipseità. Con questo affermo che non posso vedere l’altra persona se non vedo me stessa. Se manca la coscienza del mio copione, rischio di incontrare l’altro essere umano in una relazione simbiotica, di potere.

4. L’azione profetica nella cura

Ho riflettuto sugli esseri umani e li ho interrogati prima di sottoporre ad essi il mio enigma e farli sbranare dalle mie leonesse” rispose la Sfinge. “Mi interessava sapere come mai gli uomini si lascino opprimere: per amore del quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce addirittura a inventarsi le teorie più assurde per sentirsi in perfetta sintonia con i loro oppressori, come del resto gli oppressori escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere gli individui su cui esercitano il loro dominio. (Friedrich Dürrenmatt 1988: 53-54)

L’accompagnamento richiede la cura di sé e del cliente. Arrivo ad utilizzare la parola “cura” oltre i pregiudizi, gli inganni e le menzogne ideologiche.  Finora, la cura ha abitato le donne e il femminile ed ha significato subalternità, dedizione, costrizione, servizio, abnegazione amorosa, “se no, non mi ami!”. Capisco e condivido il pensiero di Luisa Muraro, filosofa della differenza, che manifesta con determinazione la paura preventiva, ricordata da Letizia Paolozzi (2013: 21) nel suo libro.

Noi donne sappiamo bene cos’è la cura. Senza conflittualità radicale verso l’ordine esistente, la cura diventa un fare di una minoranza di uomini buoni che vogliono salvarsi l’anima, e noi li ammiriamo, e di una stragrande maggioranza di donne che, in gran parte non liberamente, lo fanno.  Io comunque no! Allora ripeto “la cura no”, lo dico nel senso che se è fuori da ogni prospettiva, da ogni intreccio con conflitto ed eros, io dico “la cura no”; in una cosa statica come quella che io sento ogni tanto venir fuori qui, dissertazioni su qui e là, in questa cosa statica io dico “la cura no”. Poi diciamo: noi la cura la intendiamo così, la intendiamo colà, l’eros lo intendiamo così. Io voglio vedere praticamente questi discorsi dove vanno.

La cura non è quotabile ed è parte della dimensione umana. Il lavoro è che ciascuna persona, per sé, riscopra questa dimensione. Aggiungo, rispetto alla filosofa, che la cura non è solo oblatività femminile, ma può diventare senso della relazione che non si dà senza l’attenzione e l’impegno. E ripenso a Penelope, dalle mille tele: ha risolto la pars destruens di sé che la portava a sfilare la sua opera, mentre ora tesse, giorno dopo giorno, coperte dai mille colori, dicendo sì e no o forse, vediamo.

Nella Comunità di Ricerca si può immaginare un ordine simbolico diverso da quello del dominio, della competizione, dello sfruttamento, attraverso la riformulazione dell’idea di cura. Constato che esistono: il personale a pagamento, i servizi organizzati, il welfare statale. A questo c’è “un resto”, un valore aggiunto, un di più, dato dalla predisposizione sana di ogni persona ad accorgersi dell’altro/a e a farsene carico. La cura, oltre il profitto, oltre il rischio di manipolazione e di sfruttamento, richiama un linguaggio arcaico, non oggettivo né scientifico: – ci sono, – eccomi, – io credo, – va tutto bene.

Penso alla cura come a una diversa forma del vivere, come a un vivere consapevole e gentile, oltre il welfare statale, oltre le offerte del mercato, oltre la ricchezza e lo sfruttamento.  L’idea nuova di cura richiede prospettive di istruzione, di conoscenze, di bellezza, di godimento.

Questa Arte della Cura non è sempre monetizzabile e appartiene al cammino del divenire persona. Essere in contatto con la fragilità, con la debolezza, con la finitezza umana è la vera forza del prendersi cura. Non più azione servile di donna, ma comportamento responsabile, libero e gioioso. Non un maternage ripulito, ma l’uscita dal triangolo drammatico, la risoluzione del rapporto parassitario.

Riconosco che ci sono modi di pensare e comportamenti che aprono la strada a interazioni ricattatorie. La divinazione di un /a profeta crea sempre agitazione e, più l’armatura è coriacea, più aumenta la cattiva predisposizione a capire, perché si affaccia un sospetto di offesa, di risentimento per la consulente che porta male ed è presuntuosa, appunto, perché pre-sume.

Il sapere delle donne e degli uomini assieme in cammino, assume carattere di conoscenza intuitiva.

5. La consulenza profetica nelle organizzazioni

La cura è naturale vocazione dell’essere umano ed è servizio nel cammino di indipendenza e di autonomia di sé e dell’altra persona. La Scuola di Educazione alla Persona segue questo programma.

L’attività sana di cura non manifesta una vocazione suicidaria o da capro espiatorio ed io non accompagno ginnasti affaticati che si allenano per raggiungere un traguardo. In un cammino di consulenza, la relazione profetica non ha il ritmo sincopato televisivo, ma prevede lo scorrere (ῥυϑμός, ῥέω, rutmos, reo) nel tempo e nel movimento della consapevolezza acquisita.

La consulenza e la profezia coniugano il senso di realtà e la ricerca disciplinata; esse sono uno sguardo e una voce al servizio della comprensione e della crescita. Vedere il prossimo, vedere la situazione, richiede autonomia e governo di sé. Visionaria è la prospettiva che si fa diversa, comprensiva, comunitaria. Avere le traveggole, inventare e vendere vincite e successi o disgrazie e destini tragici rappresenta, invece, l’inganno vero e l’illusione. Per questo, la consulenza profetica presuppone un contratto psicologico ed economico chiaro, onesto e condiviso dalle parti.

In azienda, coltivare la sensibilità di pre-vedere il cambiamento, significa anticipare la cura e attivare la protezione. Con una guida competente, si può identificare il fine ultimo per cui un’azienda esiste e pensare ad una progettualità lunga, sapendo che, durante il percorso, potranno modificarsi numerosi obiettivi. Il télos risponde alla domanda: che senso ha? perché l’azienda esiste? L’obiettivo si pone come l’azione da perseguire: che cosa facciamo?

Nella consulenza aziendale sono desiderabili le visioni e le deduzioni logiche, il favorire il pensiero a lungo termine, l’essere rassicuranti con i/le lavoratori/trici, l’esercizio del dialogo, la pratica dell’argomentare e del problematizzare, le comunicazioni che aprono.


Conclusioni

  • L’intesa onesta fra le parti, la visione del lavoro come strumento di liberazione e di felicità e le scelte a favore di una comunità, fatte in modo naturale, possono creare humus prolifico a favore della relazione profetica.
  • La professione di consulente aziendale può esprimersi come profezia prendendosi cura della spiccata perspicacia intellettiva ed emotiva degli esseri umani nelle relazioni sane.
  • Il cammino studiato accompagna dall’analisi di sé e del proprio copione, alla ricaduta sul gruppo e sull’azienda. Dalla scelta di creare una Comunità di Ricerca, attraverso una noità che consente di prevedere tramite intuizione, cuore e intelligenza. Ci incamminiamo partendo dalla situazione reale e assumendo la cura, come destino ontologico degli esseri viventi. Di qui, solo, si ampliano le espressioni degli ii personali, gruppali, organizzativi.

Ci sono luoghi che facilitano immagini e parole profetiche: è il caso della Stazione Marittima di Salerno, progettata da Zaha Hadid. È qui che il 19 ottobre 2017, per qualche ora, abbiamo esercitato l’arte della riflessione, con le persone presenti e con quelle desiderate e pre-viste che ci raggiungeranno in tempi e in luoghi diversi.

Il reading di Nabil Salameh, in collaborazione con Marthia Carrozzo, è servito a trattenere il fuoco dentro: è parola ed è voce umana e va a scoprire sorgenti d’acqua nelle profondità di ogni persona. Auscultare: come discorso di intimità e di mistero, predispone a divenire strumenti di Profezia.

Sono grata a Enza Chirico per il tempo benedetto dei nostri incontri, per i libri e per i pensieri condivisi.

 

Riferimenti bibliografici

  • Friedrich Dürrenmatt, La morte della Pizia, Adelphi, 1988
  • Erika Maderna, Medichesse, La vocazione femminile alla cura, Aboca, 2014
  • Luigina Mortari, Aver cura d sé, Bruno Mondadori, 2009
  • Luigina Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina Ed., 2015
  • Letizia Paolozzi, Prenditi cura, et al/ Ed., 2013
  • Barbara Hannah, Vita e opere di C.G.Jung, Rusconi Ed., 1980
  • Carl Gustav Jung, La Sincronicità, Bollati Boringhieri, 1980
  • Esiodo, Teogonia
  • Carol S. Pearson, Risvegliare l’eroe dentro di noi, Astrolabio, 1992

 

 

il vecchio e il mare

Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, Mondadori, 1952, 2017

il vecchio e il mare

Nella sua ultima pubblicazione “Diventare se stessi”, Irvin Yalom, psichiatra americano che stimo, racconta del ritrovamento di alcune lettere inedite di Ernest Hemingway all’amico Buch Lanham. Gli scritti riletti dallo psicoterapeuta offrono una lettura puntuale della psiche dello Scrittore, premio Nobel, suicidatosi nel 1961. Yalom dichiara: “… uomo estremamente problematico, con pulsioni accanite, che in preda a una psicosi depressiva paranoide si è ucciso all’età di 62 anni” (p.192). Scelgo di rileggere Il vecchio e il mare, non certo alla ricerca del disturbo psicologico, ma con un sentimento di lettrice compassionevole, condividendo lo sguardo e l’ascolto di Fernanda Pivano che all’Autore si dedicò, incontrandolo fra Venezia, Cuba e Cortina e che, appassionatamente, tradusse in italiano le sue opere.

Il romanzo racconta del vecchio cubano Santiago, sfortunato da mesi nella pesca e del suo giovane apprendista Manolin, consigliato malamente dai genitori di accompagnarsi a più esperti pescatori. Santiago, da solo, decide di avventurarsi per sfidare la malasorte e per rivendicare la sua professionalità. Finalmente, un gigantesco marlin abbocca all’amo e, per tre giorni, l’abile pescatore, con forza sovraumana, richiama il pesce verso lo scafo e riesce ad ucciderlo. Purtroppo, sulla via del ritorno, la carne del marlin attira gli squali, lasciando dietro di sé un’abbondante scia di sangue. Santiago è presente fino in fondo nella sua guerra, ma arriva in porto con pochi brandelli. Sfinito e rancoroso, il vecchio lascia la grande carcassa attaccata allo scafo e si addormenta, mentre molti, accorsi sulla spiaggia, ne ammirano l’impresa.

“Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L’hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand’era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?” (p.77)

È stanco il vecchio, è stanco dentro e sanguinante nelle mani che imbrigliano la preda, attraverso le funi solide e le azioni fiere. Il marinaio torna vincitore avendo perso e dichiara che: “… l’uomo non è fatto per la sconfitta… l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”. La pesca è scarsa, ma in quella barca vuota, è in gioco la dignità.  “Pesce resterò con te fino alla morte” decide Santiago che non può accettare l’atto incompiuto. Il grande marlin che abbocca è la condanna che lo immobilizza nel moto all’infinito dell’attesa: deve farcela, non deve mollare, deve dominare l’enorme corpo del pesce conquistato, solo così potrà ancora essere vivo.

“Come vorrei che ci fosse il ragazzo”, è la parola ripetuta come un mantra, una preghiera, una sfida, come il rimpianto per il puer che vive dentro, disperso. È Manolin che si prende cura del vecchio amico, consentendogli di rinnovare la speranza, di sentirsi esistere.

Non azzardo diagnosi sull’Autore, ma riconosco l’odore e il sapore salato della tristezza, il colore scuro dell’impotenza, la consegna alla realtà che non è rassegnazione, ma è fiducia ultima nella vita, comprendendo anche la morte.

Hemingway ribadisce che, in fondo, l’uomo non vince mai ed è la fatica che importa e che rimane motivo di orgoglio. Da psicologa rifletto sulla vecchiaia come una condizione dello spirito, determinata non solo dagli anni, ma dal carico di fatica e di amarezza e mi soffermo sull’ordine patriarcale “Metticela tutta” con il quale io stessa, ancora, faccio i conti. Capisco che, talvolta, può valere la scelta di smetterla di sforzarsi, di insistere, di riprovarci. Seguendo il pregiudizio antico ed obsoleto, non è da uomo, è davvero da donna l’apprendimento di lasciare andare, ad un certo punto. La proposta per ogni persona in evoluzione è di scambiare l’ordine “Io devo sforzarmi” con la possibilità “Io posso sforzarmi, se desidero. Oppure, no”. Recupero, così, la parte sana della maledizione copionale. Provarci ancora e ancora e crederci, non per vincere, ma perché non c’è un’altra vita, per fedeltà alla vocazione di essere umano e di pescatore. Non è la lotta, è il naturale lavoro di chi, vecchio, desidera concludere. È l’inutilità della bellezza.

E, allora, la pesca diviene un pretesto, un mezzo per continuare a conversare fra sé e l’eterno. Il mare ne è la misura, a registrare il momento massimo della coscienza. Non è il vecchio, è la vecchiaia come esperienza di vita che cerca la risoluzione, il guadagno, la chiusura giusta. È che quella lisca di pesce enorme ha un prezzo altissimo. Ed è solo una carcassa. È l’ombra di ciò che sarebbe dovuto essere. È il riflesso scarno di un’azione faticosa e vitale. Rimane il segno. Lo scheletro forse non basterà a raccontare lo sforzo, il coraggio, la fede, la ragione del viaggio. Accolgo e attraverso la vecchiaia come esperienza, non da vecchia, infine, in autonomia e senza ricatti dell’ordine genitoriale, continuando a sognare i leoni.

Armeni

Ritanna Armeni, Una donna può tutto, Ponte alle Grazie, 2018

Armeni

La Storia senza le revisioni ufficiali racconta le scelte dolorose delle donne, la paura, l’umiliazione, la tristezza, la vergogna della morte. La giornalista e scrittrice Ritanna Armeni incontra Irina Rakobolskaja, vice comandante del 558° reggimento che, durante la seconda guerra mondiale, con le sue compagne, ferma l’avanzata dei nazisti verso Mosca. La vegliarda ricorda e confida la storia di quel “gruppo di giovani che volevano a tutti i costi una parità che pareva impossibile, un’emancipazione che superava ogni limite e che alla fine ce l’avevano fatta” (p.35).

Irina ricorda la bruna cantante lirica Raskova che incontra e convince Stalin a costituire i reggimenti di sole aviatrici selezionate e addestrate per il bombardamento notturno. Seguendo i fatti, non considero “il piccolo padre” della nazione sovietica un conoscitore e, men che mai, un promotore dell’emancipazione delle donne. Marina e Joseph, l’una inconsapevolmente, l’altro per opportunismo, inaugurano i tre reggimenti delle streghe della notte.

Molte donne accorrono al grido: “Care sorelle, è arrivata l’ora di una dura ricompensa: entrare nei ranghi di guerrieri per la libertà”. Nel 1942, il reggimento delle stupidine, come viene apostrofato, decide non solo di difendere il Paese, ma anche di vendicare le compagne uccise e di bombardare il nemico tedesco.

Le donne devono spicciarsi, devono essere forti e perfette, devono mettercela tutta. Devono combattere contro uomini e come uomini, non confinate al ruolo di infermiere e di telefoniste. In molte occasioni sapientemente descritte, il dimostrare di essere più degli uomini diviene un gioco al massacro, un tiro alla fune. Leggo le vicende che in modo accurato e sensibile Armeni raccoglie come un passaggio obbligato nella via di liberazione del pensiero femminista.

Ne šagu nazad! Non un passo indietro. Il comando è resistere oltre la confusione, oltre il disorientamento, oltre le sconfitte, con azioni decise per rompere e per rivendicare. Figlie della Rivoluzione, partono per la guerra, vogliono salvare la Patria, attraverso l’ostilità, lo scetticismo, la diffidenza e lo scherno dei colleghi aviatori dell’Accademia Žukovskij. A convincersi assieme che Ženščina možetvsë, una donna può tutto.

Possibile siano donne? Così brave, abili, precise, spietate? Così incuranti del pericolo? Arrivano la notte all’improvviso, seminano il terrore e poi toccano di nuovo il cielo. Misteriose, sfuggenti, inafferrabili. Sembrano streghe. Nachthexen, streghe della notte. (p.12)

Mi spiace, ma riconosco che questo è stato il cammino dolorosamente obbligato delle donne che hanno consentito l’evoluzione. A loro è toccato di diventare complici della guerra per essere accettate come uguali – perché poi il dovere di essere uguali? – ed è toccato di darsi e dare morte per un pericoloso senso del patriottismo. La Storia che desidero approfondire è anche lo sguardo dei vinti, delle persone morte di paura, dei bambini, delle streghe.

Non era loro l’eguaglianza a scuola o sul lavoro promessa dalla patria socialista, non erano stati sufficienti i manifesti che sui muri delle città e dei paesi annunciavano che le donne potevano salire sui trattori, andare nei cantieri e sugli aerei. Avevano preteso anche la parità tragica e feroce delle bombe e della morte. p.18

Mi chiedo se il cammino di autonomia di ogni donna deve naturalmente attraversare lo stadio della competizione con il maschio, per giungere, solo in seguito, alla scoperta di un territorio differente di sentimento, di pensiero e di comportamento rispetto alle regole di dominio, di prevaricazione e di uccisione. Oggi, siamo sicure che applicarci per somigliare agli uomini sia un guadagno? Siamo sicure di non perdere la nostra forza, l’energia vitale, contendendo il potere agli uomini? Come mai ancora ci importa di dimostrare che le donne possono tutto?

castellina

Luciana Castellina, Amori comunisti, nottetempo, 2018

castellina

È gradevole e convincente la Storia raccontata da Luciana Castellina, pensatrice e giornalista, iscritta al PCI nel 1947 e radiata dallo stesso partito nel 1969. Leggo di eventi che prevedono la presenza di vinti e non solo di vincitori, di uomini e anche di donne, di gente potente e miserabile, di umanità tormentata e perdente, da qualunque parte io guardi. Intuisco una Storia scritta dalle menti, dai corpi, dai cuori di ogni persona coinvolta, giacché “il comunismo è colmo di errori e di orrori, ma anche di dolorosissimi amori” (p.153).

È interessante il modello del racconto che intriga e appassiona: di ogni fatto storico, Castellina indica una lettura politica e psicologica, offre una prospettiva sociale e pubblica, privata e introspettiva. Vedo le voci dei protagonisti, guardo la pelle, ne percepisco con l’olfatto il pensiero. L’attenzione alle scelte artistiche, ai desideri d’amore e alle visioni politiche aiutano a compiere il viaggio al contrario rispetto ai testi scolastici: dai nomi di personaggi storici lontani e noiosi, alla quotidianità di persone vive che patiscono, scelgono e confermano una idea di mondo e di relazione che un tempo chiamavamo comunismo. La denuncia politica e la sensualità amorosa, la poesia del proletariato e la resistenza in carcere o in montagna, il lavoro e la fatica, le abitudini di studio e di piccole comunità, i sentimenti: di tutto questo è fatta la Storia che diviene, grazie a Luciana Castellina, non solo conoscenza di fatti e di idee, ma sentimento di gratitudine e possibilità di pensare il futuro. Diviene speranza e riconoscenza. Rimane fra le mani un libro di interviste e di ricordi, commovente e giusto.

Turchia, Creta e Stati Uniti sono paesi reali, amati, difesi, vissuti da tre coppie determinate e spaventate, coraggiose e fragili. L’amore, la salute, la certezza nel credo politico, il carcere, la lotta per resistere rappresentano il filo conduttore degli amanti raccontati.

Capisco la clandestinità e la passione politica, l’isolamento, la passione e la leggenda nella vicenda, più lungamente narrata nel libro, di Münevver Andaç e Nâzim Hikmet. A sessantuno anni, nel 1963, Nazim, espressione del comunismo romantico, come lo definì la figlia di Stalin, Svetlana Allilujeva, scrive: “… la morte mi ha mandato la sua solitudine ancora prima del suo arrivo” (p.141). Münevver ci lascia nel 1998 avendo dedicato tutta la vita alla traduzione delle opere del suo Nazim.

Mi importa di Nikos Kokovlìs e Arghirò Polichronaki che nel 1948 si incontrano e si scelgono sulle montagne cretesi durante la guerra civile greca. Castellina li incontra nel 2007 in un villaggio vicino a La Canea e conosce in modo accurato la storia dei guerriglieri cretesi, abituati, ancor prima, alla guerra contro i turchi. È curiosa l’avventura leccese di Nikos e Arghirò sbarcati nel 1962 e nascosti nella scogliera di Porto Badisco, vicino a Otranto.

E, infine, rinnovo l’amore di distanza e di durata fra Sylvia Berman e Robert Thompson. Studioso di Marx, Engels e Lenin, Bob viene accusato nel 1949 dal pubblico ministero che, a dimostrarne l’infamia, legge brani del Manifesto del Partito Comunista e lo incolpa di rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. Quando, nel 1957, Sylvia se ne innamora, Bob è già stato condannato, poi latitante e ancora processato e imprigionato. Tutte e tutti militanti dell’esistenza per i quali, come fu per Robert Thompson, nel 1965, è difficile anche la degna sepoltura.

Ritorno ad alcuni versi del 1951 di Nâzim Hikmet:

 Quando mio figlio

avrà la mia età

non sarò più di questo mondo.

ma il mondo sarà

una meravigliosa culla a dondolo

tutti i bambini

bianchi

neri

gialli,

sul rotondo cuscino di seta blu.

postorino

Rossella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, 2018

postorino

Ulla, Beate, Leni, Elfriede, Heike, Augustine, Theodora, Sabine, Gertrude e Rosa, la narratrice: cosa accade al corpo e all’anima di dieci donne preposte ad assaggiare il cibo potenzialmente avvelenato di Adolf Hitler?

“Quando si mangia si combatte con la morte, diceva mia madre, ma solo a Krausendorf mi era sembrato vero” (p.108). Le protagoniste nello stomaco hanno il buco di fame e paura. Buon appetito, è il ghigno feroce che le accompagna.

“Abitavamo un’epoca amputata, che ribaltava ogni certezza, e disgregava famiglie, storpiava ogni istinto di sopravvivenza” (p.192). Obbligate a mangiare forzatamente la torta, le uova al cumino, il purè di patate, mentre gli altri muoiono di fame, le donne vengono addomesticate nel fetore della paura. Non uomini o soldati, le dieci assaggiatrici sono donne, in prima linea, a mostrare il privilegio impietoso di poter mangiare in abbondanza in un periodo di magra per tutti. Sono berlinesi, ma nessuna si sente una buona tedesca come viene loro insegnato. “Odiare, diceva la mia professoressa di Storia al liceo, una ragazza tedesca deve saper odiare” (p.85). Contrastare, sovvertire, deridere l’esistenza, è questa la regola del Führer: la vita è poco, quella di una donna è meno. Mentre agli uomini è richiesto di morire da eroi in battaglia, le donne possono incontrare una morte simile a quella dei topi, con la docilità delle vacche, come “a spiare le budella di Hitler”. La follia mostruosa proietta all’esterno la minaccia del veleno che corrode e uccide e così il dolore diviene un tratto della personalità e rende inquietanti i messaggi sottintesi. Il risultato produce follia e Rosa lo ammette. “Accadeva da mesi. Uno scollamento fra me e le mie azioni: non riuscivo a percepire la mia presenza” (p.116).

La vittima sacrificale non è mai stufa di vivere. “Ma ci sono io: non puoi aver paura. Assaggio il tuo cibo come la mamma si versa sul polso il latte del biberon; come la mamma si ficca in bocca il cucchiaio della pappa, è troppo caldo, ci soffia sopra, lo sente sul palato prima di imboccarti. Ci sono io, lupacchiotto. È la mia dedizione a farti sentire immortale”( p.179). A causa di un maternage immorale, la vittima pensa continuamente di finirla, ma si riconsegna al compito di salvare. In situazione di sudditanza, di vessazione continua, di violenza morale, le donne si abituano ad un torpore di dimenticanza e sopravvivono assumendo sulla propria coscienza una colpa senza senso. Così, muoiono un po’ per volta, convincendosi orgogliosamente della bontà del proprio ruolo di non esistenza, purché il monarca sia salvo.

L’astuzia del potere si manifesta con la prevaricazione, con l’oscenità della violenza morale: va in scena, quotidianamente, la banalità del male. Il peccato mortale del tiranno è nell’azione demoniaca di annullare la dignità dell’altra che finisce per sentirsi persona immeritevole e giustamente immolata per la salvezza illusoria del suo persecutore. “Non merito nulla, a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono” (p.82).

Sapere di poter disporre dell’altro è la vertigine, il godimento del dittatore “a nome di tutto il genere maschile”. E le donne riescono tardi e male a fare comunità, ad unirsi complici, pur riconoscendo un irreparabile desiderio di ritrovarsi umane, sane, amanti, vive, degne. E la colpa di sopravvivere ogni giorno si fa ventre originario del pericoloso legame fra Rosa e il tenente delle SS Ziegler. Nel profondo del suo cuore, Rosa sa che “non esiste alcuna ragione per abbracciare un nazista, neanche averlo partorito” (p.244). Non chiediamoci più perché una donna non ce la fa a denunciare subito, ad uscirne viva, ad urlare, ma tace, si avvicina al pericolo, quasi, lo cerca. Il male che il potere agisce contro l’essere umano è tale che lo stesso individuo che ne fa uso è vittima. Margot Wölk, l’assaggiatrice di Hitler, muore prima che Rossella Postorino possa intervistarla. Ringrazio l’autrice per aver scelto, scrivendo il romanzo, di non consegnare all’oblio la storia.

“Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo. Se considerasse la guerra un istinto naturale. È una specie tarata, quella umana: i suoi istinti, non bisogna assecondarli” (p.250)

Haddad

Joumana Haddad, Ho ucciso Shahrazad, Oscar Mondadori, 2011

Haddad

Oltre i cliché e gli stereotipi consumati con superficialità, Joumana Haddad chiarisce che “le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe sono musulmane. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi… non tutte le donne arabe piegano la schiena”. (pp.23-24)

L’hijab islamico, il burqa sunnita e lo chador sciita sono le percezioni e le visualizzazioni più immediate e consolidate nella coscienza collettiva occidentale della donna araba, immaginata unicamente come sottomessa, impotente e mascherata. Dallo Yemen all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Barhein, tra i pavoni e gli struzzi, tra i vanti e le ipocrisie di società vecchie e mortifere, la libertà di espressione segue necessariamente la libertà di pensiero, altrimenti le parole si fermano solo in superficie. È il processo di ideazione e di creazione che rende sostanza la forma. Il corpo visibile ha la pelle porosa, le forme sono l’espressione più profonda di un io adulto e svelato che combacia con la sua più intima natura. Le parole non sono coperture più o meno elaborate, ma corrispondono direttamente a visioni di vita, a pensieri che si riflettono in azioni decise. Come afferma Zaha Hadid, citata dall’Autrice: “Non importa quanti progressi sono stati fatti, c’è ancora un mondo che per le donne è tabù. E in questo mondo risiede la sua libertà”.

Joumana ha 48 anni ed è figlia di una famiglia libanese conservatrice; cresce nella libreria paterna, leggendo la letteratura e i saggi che attutiscono i fischi dei missili per le strade di Beirut, trasformate in luoghi di guerra, negate al passaggio, alla cultura, negate agli scambi di relazioni. Joumana è convinta che “la vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente della donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo)”. (p.24)

Partendo dalle riflessioni di Haddad auspico un passo avanti nella consapevolezza di ogni donna che si trovi a confliggere con le proposte del potere e ad orientare lo spirito e il comportamento verso esiti non distruttivi. Chiedo di curare la personale predisposizione al conflitto aperto senza la guerra e di accudire con determinazione le scelte di vita che aprono potenzialità del pensiero e del comportamento. Oggi, come psicologa adulta, invito a ragionare e a coniugare l’attivismo con la testimonianza di una quotidianità vissuta con attenzione, con gioia e con serietà.

La rivendicazione, la sfida, la dichiarazione di guerra, la ribellione centrata sui bisogni personali manifestano una risposta di opposta forza che rimane, purtroppo, sul binario del potere. Oltre la sovversione, l’esaltazione e l’invettiva, credo nella relazione che, spesso, è parziale, che inciampa, che è fraintesa e che ha bisogno di tempo per raccontare, per spiegare ancora, per capire assieme. Quando affermo che la modalità aggressiva per rispondere all’indignazione rabbiosa è inadeguata, voglio dire che nelle interazioni, ogni persona, naturalmente, trasferisce la sostanza della propria visione di vita e che l’essere umano vigile vive decidendo equilibri possibili fra le occasioni per parlare, per aprire confronti duri senza odio e le situazioni in cui lasciare correre, perché il sangue risparmiato risulta, talvolta, più utile di quello versato.

“Un mondo migliore non è possibile senza liberare
Le menti, i corpi e soprattutto il linguaggio delle donne”
Nawal Saadawi, scrittrice, attivista e psichiatra egiziana, p.53

Al centro non sono sempre il malessere personale, la rabbia e l’offesa che mi abitano. Invito al passaggio dalla visione egocentrica, “sto male e ho diritto a stare bene”, alla scelta egocentrata, “come posso mantenere aperta una relazione che ci consenta di continuare a parlare e a raccontare le proprie ragioni?”. Il femminismo che vorrei incontrasse Joumana è proposto dal pensiero della differenza di Luisa Muraro per credere in rivoluzioni che partono da sé e che creano alleanze in cerca di soluzioni mai definitive. Il sultano esiste e rivendica la sua sessualità primordiale e ha necessità di apprendere nuovi comportamenti e intravedere cammini sconosciuti, oltre le formule binarie, questo o quello, bianco o nero, vita o morte, io o l’altro, adesso o mai.

Shahrazad racconta non per ambizione, non per vincere, non per poter sopravvivere, ma per offrire tempi e spazi a sé e all’altro al fine di pensare e diventare assieme. Shahrazad non è solo la donna che ottiene ciò che vuole con il compromesso, compiacendo l’uomo e raggirando a suo favore le situazioni in un eterno gioco psicologico a “Calzetta”, a sedurre. Non necessariamente trova un marito ricco, divenendo complice inconsapevole (?) di un sistema che mantiene la svalutazione, l’esclusione e la sottomissione. Shahrazad non si addomestica e non si arrende, semmai, parte dalla resa saggia dinanzi alla realtà e si protegge anche prendendo tempo. I muri rischiano sempre di essere rimpiazzati da altri muri e molte persone continuano a promuovere la capacità critica e il lavoro di educazione, la liberazione e i risvegli. Talvolta, la paura di essere tornati indietro dichiara solo la posizione per uno slancio più determinato e duraturo. Non si tratta di non lasciarsi intimidire, anzi, il contrario, attraverso il timore avvertito fino in fondo, ci consentiamo di non scegliere fra il ruolo di vittima o di ribelle per non rimanere nel gioco del dominio, ma osiamo rilanciare, nella differenza, le prospettive e gli scenari.
“I veli esistono in diversi tessuti e modelli. C’è il velo della negoziazione, dell’autoinganno, del compromesso, delle etichette esotiche, dei parziali messaggi politici, delle visioni ed estrapolazioni distorte, dell’apprensione e della paura, delle grette sentenze, e poi c’è il più pericoloso: il velo dei falsi simboli fabbricati dai media…” (p.124)

Oggi non si tratta di voler essere scomode e crudeli, graffianti e imprevedibili, per partito preso, ma è importante credere nelle necessità e possibilità relazionali di eros e di conflitto. Credere nel proporre e nell’ascoltare le storie. Ho una notizia per Joumana e per tutte le donne: Shahrazad è morta, non è stata uccisa. Viva è Sherahrazad. Ogni donna la custodisce. Non seduce, non rivendica, non persuade. Studia e desidera oltre la rabbia sfidante, la paura sottile, la tristezza dura. Adesso, ogni Shahrazad, regala le storie in cambio di niente.

Il passo avanti è la resistenza erotica e politica che parte dal desiderio del corpo, della mente, del cuore di ogni persona, dalle parole di moderne Sharazade, come Marthia Carrozzo

Sharazade

Le tue mani.
Le tue mani, ora.
Le tue mani,
ancora.

Il calco perfetto del tuo segno.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la braccata bellezza dei miei nervi a fiorire.

Promulgare il nitore dagli occhi
e dai pori, dai pori, più ancora,
tutti i numeri, a dire il piumaggio,
il tratteggio dei denti, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me.

Fatti bocca, per mordermi ancora.
Fatti aria, per farmi annaspare.
Fatti peso che schiaccia il mio peso,
senza forza, violenza, né male.

Fatti inverno per farmi tremare.
Fatti solco, voragine, apnea.
Fatti assenza che brucia lo sguardo,
tira i tendini fino a
colmare.

Fatti carne che è inversa alla carne.
Fatti lupo, nel nome, a smembrare.
Fatti siero spremuto dai polsi
per legarmi pur senza legare.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la sbrecciata bellezza dei miei nervi a sfiorire.

Che le mani non bastano, ora.
Che le mani non bastano, ancora ed ancora.
Che le mani, le mani non bastano ed
ora.

Che nel Libro del senno è già scritto,
conficcato ad uncino tra i seni.

Che a cercarti non servono gli occhi
Che a cercarti non servono gli occhi ed ancora
Che a cercarti non servono gli occhi, che
ora.

Che il cifrario si tasta alla schiena.
ogni lettera, in braille, sotto il derma.

Che il tuo tornio sa bene il mio dazio,
che mi danza, mi impasta, ma cieco.

Che le Tavole stanno alle reni,
proiettate a vettore di ali.

Ch’è il tuo fiato che incide e le forgia,
se mi scuci, svuotata, se stai.

Che la Legge, la tua, mi è già impressa al midollo,
se mi scavi, artesiana, mi fai.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la svelata bellezza dei miei nervi a gemmare.

Promulgare il nitore dai bulbi
e dai pori, dai pori, più ancora,
le tue impronte, a tradire il piumaggio,
le vibrisse di fiato, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me

Fatti mare, per mordermi ancora.
Fatti tempo, per farmi annaspare.
Fatti leve, di contro al mio peso,
senza attrito, prudenza, né male.

Fatti terra per farmi tremare.
Fatti crepa, poi sisma ed apnea.
Fatti bianco che brucia lo sguardo
e ricontami fino a
colmare.

Fatti carne che versa la carne.
Fatti lupo, nel verso, a sacrare.
Fatti siero rappreso nei polsi
per guidarmi pur senza guidare.

Fatti fame, per farti trovare.
Fatti spazio, per spingerti ancora.
Fatti piano che assorbe la luce,
senz’attese, distanza, né male.

Fatti nasse per farmi arenare
Fatti eco, scandaglio ed apnea
Fatti notte a covare lo sguardo
E raccontati
fino
a

 

pariani

Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore, Einaudi, 2015

pariani

Forse la follia che ogni essere umano si porta addosso come una possibilità, serve a conoscerci fino in fondo, a capire, a sapere davvero. Infatti, crescere è una malattia insanabile. Laura Pariani, con una scrittura abile e coraggiosa, ricorda Dino Campana, un genio pazzo, arrabbiato e triste, rinnegato ancora dai programmi scolastici e ritrovato nella solitudine delle letture intime.

Il Poeta viene rinchiuso dal 1926 al 1930 nel Regio Manicomio di Castel Pulci, un inferno di attenzioni speciali e pratiche inumane. Ripercorriamo il destino di pazzia e di poesia: una opportunità per ripensare ad una vita folle e alla follia vitale. Il dottor Carlo Pariani è lo psichiatra che ascolta il Poeta raccontare di viaggi, di amori, ascolta la storia in cui la realtà e l’immaginazione si tessono nella trama dolorosa del disturbo mentale. Il romanzo è il racconto a capitoli ed episodi di un viaggio in Sudamerica con la testa persa a fantasiare e a sentire il tremolìzio come voci di potenze invisibili. Che il vagabondaggio ricordato, a piedi o su mezzi di fortuna, sia accaduto o meno, per chi legge non ha alcuna importanza.

Il viaggio chiamato amore testimonia che la poesia ha una relazione diversa e privilegiata con la realtà. Laura Pariani modera la voce per facilitare un percorso doloroso con il corpo, con la mente, con il cuore.  E cos’altro è viaggiare se non tornare diversi, con l’occhio esercitato a vedere altre prospettive? La parola di poesia (non il poetico tout court) è sempre reale ed è sangue, lacrime, sudore, è acqua trasparente di fonte ed è torbida pozzanghera, pensiero vivo di morte.

Quello che ci rende schiavi può anche liberarci (p.173): la libertà è intesa come l’esercizio del pensare in autonomia, del godere di ogni volto, di ogni storia, come la possibilità di ogni essere umano di generare significati e valori, anche attraverso l’irreparabilità della morte. L’ombra è sempre espressione di una luce. Lo scarto e la spazzatura raccontano la disciplina alimentare. L’escluso e il nemico portano il nome delle paure. Le periferie e le trincee disegnano la tristezza dei limiti mentali e il bisogno di uno sguardo che si protegge con un orizzonte certo. Le follie tradiscono il desiderio di contare, in ogni caso, sulla relazione. Attraverso la lettura del romanzo, ci tocca ascoltare e ringraziare perfino il nostro diavolo custode.

Anche se, in fin della fiera, non so che pensare di una società che chiude dietro alti muri chi non si adegua alla cosiddetta sanità. Alla maniera del gatto che sotterra i propri escrementi. (p.158)

Ricordo una frase di Nietzsche, letta tanto tempo fa. Bisogna congedarsi da Nausicaa: non innamorato, ma bene augurando. (p.81)

Questa canzone, io la chiamavo amore oppure poesia, i miei la definivano pazzia perché, come proclamava mia madre, “l’amore e la poesia non si mangiano!” (p.41)

Tra i libri che stanno sugli scaffali di una biblioteca, alcuni potrebbero precipitarti nel dubbio, ma altri possono cantarti nell’orecchio. Libri che forse pochi prenderanno tra le mani. Avvolti nel loro silenzio finché rimarranno chiusi, coi loro segreti a cui nessuno accede. Ché anche le parole muoiono… Pensi un po’: ho passato i miei anni più belli a scrivere poesie, a consolarmi con un verso, il fulgore improvviso di una parola, un frammento di vetro scuro che pulivo e ripulivo, a volte intravedendoci il volto feroce di qualche donna. Ho scritto forse per chi in un altro tempo, magari tra cent’anni, leggerà queste mie frasi e avrà pietà di me. Che follia, vero?… perché poi tutti credono di avere un messaggio da lasciare? Perché quest’ansia di durare, di brillare attraverso i secoli? Perché non l’intensità e la passione di un solo istante? (p.153)

Dino è profondamente consapevole che le parole a volte giocano brutti scherzi; ché, quando vengono enunciati, anche i brandelli, le briciole dei fatti acquistano importanza, un’imprevista crudezza che sa di realtà… (p.85)

Dicono che sono matto, ma loro? se dovessi giudicare la saggezza degli uomini dalla quantità del tempo che dedicano alle poche cose veramente importanti, sarei costretto a tirar la conclusione che medici e infermieri sono pazzi sul serio e che questo è un mondo alla rovescia. Mi sembra vera follia sprecare ore e ore in scartoffie, timbrature, relazioni sulle varianti della temperatura corporea di un ricoverato, verifiche sulla solidità delle sbarre dei nostri letti nichelati, e non dedicare neanche un minuto al fondamentale interrogativo: CI SONO ALTRI MONDI SOTTO I NOSTRI PIEDI? Non li tocca questo dubbio, che invece a me rode interamente la catena dei discorsi. Come pure le altre due domande: SE ESISTONO COSE CHE NON VEDO, E’ALTRETTANTO VERO CHE LE COSE CHE VEDO ESISTONO? EPPOI SIAMO SICURI CHE QUESTO GIORNO PIENO DI LUCE NON DEBBA ESSERE CHIAMATO OSCURITA’? … Non sono che somari che rampano in cattedra pieni del vento della propria negra scienza catalogale. (p.40)

 

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Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose, Ponte alle Grazie, 2017

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Rebecca Solnit è diventata mia compagna di viaggio. Come in un’altra precedente riflessione: http://www.ndcomunitadiricerca.it/la-possibile-prospettiva-del-cambiamento-attraverso-la-cura-della-memoria/, anche in questa pubblicazione apprezzo e mi conforta il suo pensiero.

“La credibilità è uno strumento di sopravvivenza fondamentale.” (p.13)

Considero essenziale questa affermazione. Perché non c’è più speranza di relazione se non credo a me e/o non credo all’altro/a e non vedo la realtà dei fatti. Screditare me stessa, l’altra persona, la situazione nella quale siamo coinvolte, è un atto conclusivo. Infatti, non risaliamo dall’inferno del niente serve a niente, dall’impotenza in cui precipitiamo. Credo ad ogni persona,  da parte mia chiunque è credibile mentre dice un pensiero o un sentimento – spesso tutti e due contaminati – che rimandano alla sua storia, alla sua esperienza. Anche se le cose affermate non mi fanno piacere e non trovano riscontro nella mia vita, perché, appunto, diversa.

Fino a ieri, anch’io mi sono sentita dire “che le cose non erano andate affatto come dicevo io, che era la mia opinione soggettiva, che le cose me le immaginavo, che ero nervosa e in mala fede: insomma, mi comportavo da femmina.” (p.15). Aggiungo: mi comportavo da femmina, quindi, alterata nella capacità di pensare, quindi, pazza.

Oltre il riferimento a uomini e/o donne, io riconosco in ogni situazione un modello maschile che manipola e sottomette, che “amorevolmente” ammonisce e sconforta, che bacchetta e svaluta. L’assoggettamento alla cultura patriarcale del dominio e del controllo ha una origine certa nell’ignoranza e nella nefasta complicità di esseri umani inconsapevoli e bisognosi di affermarsi come i migliori.

Apprendiamo a Proteggerci e, contemporaneamente, a darci il Permesso di riconoscere, di smontare le tecniche predatorie sin dalle prime avvisaglie. L’aggressività anche sorridente non è mai casuale, anzi, peggiora. Più che ai processi dopo i misfatti, io credo alla educazione e alla prevenzione. Mi impegno a trasformare i rapporti gerarchici in relazioni egualitarie, diversamente felici.

L’imprenditore che incontro nel mio lavoro è un povero cieco quando ricatta le persone sulla difficoltà di trovare lavoro altrove. Quando avvelena il clima con vessazioni sottili operando scotomizzazioni con sarcasmo e calunnie. Quando tratta i/le dipendenti esclusivamente come un costo e crea gli alibi, strumentalizzando i fatti, per trattare tutte le persone come nemiche, usurpatrici, ladre, come perdigiorno. È un cieco ostinato ogni volta che ribadisce di essere l’unico a lavorare, a tenere all’azienda, a produrre.

“Appariva così ferocemente sprezzante e così aggressivo nella sua sicurezza, che discutere con lui sembrava un pauroso esercizio di inutilità e un ulteriore stimolo all’insolenza.” (p.16)

In psicologia, scotomizzare è l’operazione inconsapevole mediante la quale la persona esclude, occulta, mente, pur di confermare la sua inamovibile convinzione copionale.

Piuttosto che dichiarare che non è vero, che non ci credo, che non sono d’accordo, l’interazione che ristabilisce la relazione è: voglio capire meglio; ti chiedo di chiarirmi il tuo pensiero; parliamone ancora. Cosa mi sfugge della prospettiva che l’altro/a insiste a segnalare? Non credo in conclusioni affrettate, ma nel conflitto mantenuto aperto.

Solnit ricorda nomi, date, episodi: conoscere la realtà è indispensabile.

In giornate come questa leggo, penso, scrivo. Solo e da sola.

“Ogni donna sa a cosa mi riferisco: a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che impedisce di essere udite quando osano parlare… Per noi è un addestramento all’insicurezza e all’autolimitazione, mentre gli uomini tengono in esercizio la propria immotivata tracotanza.” (p.12)

“Certe volte credo che queste messinscene di sapere autorevole siano fallimenti del linguaggio: la lingua delle asserzioni spavalde è più semplice, meno faticosa rispetto alla lingua delle sfumature, dell’ambiguità, dell’ipotesi – e in quest’ultimo linguaggio Virginia Woolf non aveva pari.” (p.87)

Il coraggio del ruolo, la premessa di autorità

Ci sono molte specie di coraggio… una è senza dubbio quella di affrontare i moschetti. Ma un’altra è quella di sacrificare i vantaggi di una condizione invidiabile per andare a vivere in mezzo a compagne e sotto l’autorità di superiori di nascita e di educazione spesso inferiori alla nostra. (Bernanos, p.32)

 A Giulio,

per il coraggio come pratica di limite e di libertà

(perché ce n’è troppo, perché manca,

perché “uno non se lo può dare”)

 

Questa riflessione costituisce la premessa al lavoro sull’Autorità (https://www.liziadagostino.it/autorita-della-presenza-in-relazione/), inteso come un percorso formativo per chi ricopre ruoli di responsabilità all’interno delle organizzazioni.

Il ruolo è rŏtŭlus, come quel giro di azioni che una persona pensa e mette in atto in un processo sociale. Come una ruota, assumendo un ruolo, esercitiamo la circolarità, la flessibilità, il movimento e accogliamo il rischio di non saper frenare, di faticare nella salita, di schiacciare mentre procediamo.

Nelle ultime settimane dello scorso anno, ho sperimentato nelle aziende, da parte di molti responsabili, la fragilità, l’insicurezza, la tragica accidia del ruolo che condanna a non parlare, a non agire, a non esporsi, a non decidere, ricoverandosi in un angolo buio di passività e di lentezza.

Mi impegno per uscire dal tugurio delle menti dei comportamenti ripetitivi ed inconsapevoli perché abuso e disuso del proprio ruolo sono i due estremi che misurano la patologia culturale e, in molti casi, personale nell’esercizio di autorità.

Incapaci e impotenti, i manager responsabili non sanno e non possono. Di conseguenza, si esprimono con modi rabbiosi, svalutanti, prolissi. Le autorità funzionano solo nel loro contesto, costruito testardamente come una scatola a specchio che rimanda, in continuazione, la propria immagine di capo. Li immagino come una foto di animali nel loro habitat e non mi riesce di pensarli altrove, in situazioni diverse.

La recita del ruolo non è solo sgradevole, è immorale.

Bisogna curarsi.

È la paura che sottende l’immobilità e favorisce il comando, il controllo, la punizione. Riconoscere la paura, nominarla, venirne a contatto, può rappresentare una possibilità di protezione e di analisi della realtà, non neutralizzando gli interventi, ma affondando con coscienza nel vissuto e nel tessuto aziendale, assumendo il rischio della compromissione.

Negare la paura legata al ruolo non la annulla, anzi, la trasforma in malessere fisico. La possibilità è ricondurre questa al governo cognitivo, evitando di confermare modelli sequenziali e ripetitivi. Infatti, pur in situazioni diverse, le persone inconsapevolmente, ricreano gli stessi automatismi di svalutazione e di esclusione di sé, della situazione, del prossimo.

Di paura si nutre il potere in tutte le sue forme di svalutazione e di sottomissione. Nella Gestione delle Risorse Umane apprendere la comunicazione del sentimento di paura è più importante che trasferire meccanicamente un pensiero contaminato.

Il ruolo dichiara anche il limite. Infatti, in azienda, il territorio di ogni agire competente è definito proprio dal ruolo offerto e assunto. La definizione di un ruolo segnala il campo di studio e di ricerca assegnato.

“Durante la nostra esistenza sperimentiamo innumerevoli confini che ci definiscono, segnalando discontinuità, barriere da infrangere, divieti da osservare, soglie reali o simboliche. I limiti ci circondano e ci condizionano da ogni lato e sotto ogni aspetto, a iniziare dagli immodificabili dati della nostra nascita (tempo, luogo, famiglia, lingua, Stato), dall’involucro stesso della nostra pelle, dagli orizzonti sensibili, intellettuali e affettivi del nostro animo con il termine ultimo della morte. La condizione della specie umana è però contraddistinta dall’essere circoscritta dai limiti che sono mobili e cangianti, in quanto – a differenza degli altri animali – ha una storia articolata in culture che si modificano nel corso del tempo. Con un paradosso si è detto che l’uomo è l’essere confinario che non ha confini, proprio perché nel trovarli, per lo più, li supera.” (R.Bodei, p.7-8)

L’onestà della consulenza psicologica che propongo si manifesta non con l’astensione, ma con il continuo vigilare nella contaminazione, abitando la relazione.

Coraticum, coraggio, in origine, significa “avere cuore”, solo in seguito quel cuore diviene temerario e ardimentoso. Se è vero che nessuno può governare senza colpe (Saint-Just), ogni persona può assumere il coraggio di sé, il coraggio di essere nient’altro che quello che è, lontano da diplomazie, poteri e mercimoni.  Il coraggio rimanda alla dignità della persona e segnala che la quantità di denaro (spesa, guadagnata, investita) non assolve e non guarisce.

 Il coraggio “uno non se lo può dare” ricorda quel poveretto di don Abbondio. L’educazione Alla persona costituisce la base dell’assunzione di un ruolo, indicandone un territorio di responsabilità. Il cammino di consapevolezza del copione personale, dei giochi psicologici agiti nell’interazione, è necessario a favore di ogni ruolo, anche quello che, in apparenza, assume minori obblighi. Il primo segnale di consapevolezza è riconoscere che è così. È semplice, può essere banale, ma è vero.

Ne “I Dialoghi delle Carmelitane”, gli episodi narrati da Georges Bernanos nel 1948 sono ispirati da un racconto settecentesco di Gertrude von Le Fort e diventano un film.

Durante i difficili anni della Rivoluzione francese, la giovane nobildonna Bianca, su consiglio del padre, il marchese de la Force, decide di entrare nel convento di clausura delle Carmelitane di Compiègne. La necessità di trovare un rifugio sicuro è più evidente di una vaga vocazione religiosa. Bianca ha paura di affrontare i sacrifici e la sofferenza e teme di non essere capace di mantenersi fedele alla scelta.

Ben presto le autorità rivoluzionarie ed il popolo accusano le monache di essere reazionarie, nemiche della patria, che accaparrano ricchezze e danno ospitalità ai fuggiaschi. Costrette ad abbandonare il convento, le monache fanno voto di essere disposte a sacrificare la loro vita affinché la religione cattolica possa sopravvivere in Francia.

Disperse in piccoli gruppi, le monache vengono arrestate, giudicate colpevoli e condannate a morte. Bianca de la Force con coraggio sale sul patibolo al posto di Madre Maria dell’Incarnazione, l’unica monaca a salvarsi, che da sola continuerà a praticare l’insegnamento del Carmelo.

Le tematiche affrontate nel romanzo e nel film sono: l’adolescenza e la maturità, il buio e la luce, il coraggio e la paura, il dubbio e la scelta, la disciplina e la leggerezza, la libertà e l’obbligo, il peccato e la salvezza. Esse non rappresentano gli opposti che riducono e mortificano l’essere umano. Sono queste, invece, fasi coesistenti, momenti diversi di complessità umana e possibili passaggi di una evoluzione continua verso la comprensione, la conoscenza, la coscienza della personale esistenza.

Studio e segnalo la filosofia e la pratica della differenza di genere, quella di Carla Lonzi e di Luisa Muraro, come un modo di stare al mondo che può diventare un modo di abitare le aziende, una cura per guarire i malesseri del troppo e del troppo poco, della separazione, della esclusione, della indisciplina dell’Io.

Il coraggio del ruolo vuol dire darsi il permesso di generare, di consegnarsi alla luce, di consentire la venuta al mondo e può essere più o meno doloroso perché è un processo sano che chiamo assunzione di responsabilità, sentimento di formazione. Il coraggio è la stabilità emotiva che incontra il pensiero di una scelta.

L’invito inderogabile è a formarsi, a educarsi, prima di assumere un ruolo di responsabilità. Non smettiamo di apprendere il governo delle umane risorse, nella direzione amministrativa, generale e commerciale, in un gruppo di persone che scelgano di fondare e/o di ricostituire una organizzazione accompagnando il divenire di comunità e di stormo (https://www.liziadagostino.it/dalla-squadra-allo-stormo/). La formazione non è un’inutile gabella o una vessazione obbligatoria. Essa rappresenta una occasione, un luogo e un tempo per pensarsi e per pensare.

ogni cultura dimostra la sua forza e la sua modernità solo confrontandosi con tutta la realtà storica e sociale che ci sta dinanzi, solo se riesce a liberare tutti, a capirli, a farceli simili a noi. (Bianciardi, p.40)

 …le idee sono tali in quanto tu puoi comunicarle agli altri, che se le tieni per te non servono a nulla, anzi, non sono nemmeno idee. (Bianciardi, p.45)

 

Riferimenti bibliografici

  • Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, 1957/2013
  • Georges Bernanos, Dialoghi delle carmelitane, Morcelliana, 1952/2008
  • Remo Bodei, Limite, il Mulino, 2016