metro_automi-operai

La possibile prospettiva del cambiamento attraverso la cura della memoria

metro_automi-operai

Fritz Lang, Metropolis, 1927

Nella seconda decade del Novecento, Virginia Woolf appunta nel suo diario: “Il futuro è oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere il futuro, credo”.

Ogni persona che pensa è in grado di nominare e costruire un cambiamento, attuando così un’azione di consapevolezza e di speranza. La possibilità di sentire e di dare corpo ad una innovazione, prevede la libertà e la responsabilità dell’essere umano. La comprensione e l’accudimento dell’impercettibile, sensibile e impalpabile mutamento che il tempo esercita sulla nostra vita personale e sulla intera comunità, è espressione di autonomia. Di conseguenza, valuto come sintomi di malessere psicologico l’opposizione, la resistenza, la sfida all’evoluzione.

Premessa a questa riflessione è il ricordo di due modelli strutturati – fra i numerosi modelli offerti – per leggere il cambiamento negli individui, nei gruppi, nelle organizzazioni e nelle società.

Kurt Lewin, psicologo tedesco, avvia negli anni ‘50 le prime ricerche di psicologia sociale e descrive la transizione, da un punto di vista personale, come un processo a tre stadi. Il primo stadio è lo scongelamento (unfreezing) che comporta il superamento dell’inerzia e lo smantellamento della mentalità e delle abitudini esistenti. Il secondo stadio (change) è quello in cui si attua il cambiamento, contraddistinto dalla confusione e dalla provvisorietà legate alla transizione. L’ultimo stadio, il ricongelamento (refreezing), comporta il consolidamento alle nuove abitudini e alla loro cristallizzazione.

Considerando le organizzazioni, il Change Management include le metodologie e gli strumenti per gestire l’impatto umano nel processo di cambiamento ed è utilizzato per accompagnare e supportare la transizione, aiutando così l’organizzazione a realizzare e governare la propria trasformazione.Richard Beckhard e David Gleicher sviluppano l’Equazione del Cambiamento: D x V x F > R

D = Dissatisfaction, esprime la insoddisfazione per la situazione attuale

V = Vision, indica la progettualità, la capacità di definire la situazione futura

F = First steps, quantifica i primi passi concreti fatti verso la direzione che è stata definita e annunciata

R = Resistance, misura la resistenza incontrata dal cambiamento

La formula significa che il cambiamento è realizzabile solo se le forze che lo producono sono superiori alla resistenza che vi si oppone. Ne risulta che riesce a cambiare soltanto chi è consapevole delle energie necessarie per promuovere il cambiamento ed è disposto a difenderlo e sostenerlo senza farsi travolgere dalle difficoltà inevitabili.

Da psicologa e formatrice, gli studi e l’esperienza relativi alle dinamiche dell’evoluzione umana, mi avvicinano al pensiero di Maria Teresa Romanini e di Lia Cigarini, in tempi diversi, mie maestre. Condivido e rifletto sulla proposta di cambiare il nostro immaginario sul cambiamento.

L’essere umano è in continua trasformazione. Anche l’inerte e solitario signor Meursault, l’étranger di Camus, rappresenta un passaggio ed è in movimento attraverso il silenzio, il racconto, il ricordo. L’estraneità è il sentimento di sapersi unicamente oggetto in una definita parabola esistenziale che cade su di lui e accade senza di lui.

<Non è colpa mia>: quindi, vivere non è una responsabilità. Ma Meursault arriva fino in fondo “… pronto a rivivere tutto. Quasi che quella grande rabbia mi avesse purgato dal male, svuotato della speranza, di fronte a quella notte carica di segni e di stelle mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo.”

Meursault così, se non per costruire un mondo migliore, almeno, ribadisce il proprio diritto alla felicità, nominando per la prima volta come tenera, l’indifferenza del mondo. L’essere umano, nell’abbandono, è disposto, pur di non essere ignorato, ad accogliere carezze psicologiche negative.

In un processo di modificazione, l’azione è preceduta dalla presa in carico di un sentimento di disagio e di disperazione. Nella Gestione aziendale delle Risorse Umane la guida psicologica accompagna e facilita la possibilità di venire in contatto, identificare, fare affiorare e decidere se e come esprimere quel sentimento sgradevole, di inadeguatezza, avviando una possibilità di trasformazione.

Quindi, la persona sceglie di continuare, attraverso l’attività di pensiero e il cambiamento culturale, intervenendo sulle convinzioni e sulle decisioni copionali, derivate da intuitive e coattive illusioni infantili. Interrogare le storie personali consente di sentire, pensare, agire, godere e rilassarsi durante il percorso del rinnovamento. Senza coinvolgere le visioni e le prospettive, le azioni risulteranno soltanto adattamenti e non cambiamenti.

Recuperare la memoria della propria vicenda umana ha senso in un percorso complesso e faticoso di ampliamento del Sé. Il novantenne Guido Ceronetti, nel 2016, consegna alle stampe, un “opuscolino” in cui, con dolcezza e determinazione, offre consigli per curare la capacità mnemonica, prevenendo i fisiologici mancamenti.

“Memoria è lettura e scrittura insieme, cinema, teatro, recitazione, canto, musica, banalità e non importa se ne valga o no la pena, è riconvocazione perpetua del vissuto… La E-Memoria non ti fa imparare o recuperare durevolmente qualcosa perché ti dà a succhiare mammelle sataniche. I bambini educati con tale tipo di conoscenza, li scoprirete adolescenti in terribili penurie di memoria e in gravissima perdita parallela di uso della scrittura.”

L’attitudine e la disciplina a far crescere il seme della domanda, a riconoscere il germe di un’idea, risolve la relazione, nell’agire aziendale che riconosciamo dal primo abbaio del padrone il quale rimane incatenato al nome, alla proprietà, all’identità di razza.

Il cambiamento, se accettiamo di seguire le linee guida della Scuola di Educazione alla Persona, diviene occasione di libertà per se stessi/e, prima e, poi, affrancamento dal comando-controllo che ricade a spese della vita personale e professionale di sé, degli altri e delle altre.

Sono convinta che le relazioni, anche quelle di lavoro, se dentro la logica del dominio, finiscono sempre per essere paralizzanti. I metodi coercitivi e repressivi, i ricatti psicologici aumentano la paura, la rabbia e la tristezza. L’essere umano fissato sull’oggetto della delusione e della frustrazione non è in grado di vedere i territori altri della creatività, le prospettive diverse per guardare la realtà.

Oltre gli automatismi, l’innovazione viene supportata e significata dalla rivoluzione simbolica. Sulla strada del cambiamento sano e protetto non rilevo processi semplici di causa/effetto o risultati immediati o capovolgimenti miracolistici e tangibili come ostentazione da imbonitore coram populo.

Essi ribadiscono, invece, il rischio di rimanere sotto scacco dei primitivi ordini genitoriali: <Sii forte>, <Sii perfetto>, <Metticela tutta>, <Compiaci>, <Spicciati>.  Ogni persona ha i tempi e gli spazi di semina e di crescita, acquisendo e prendendo parola, seguendo la propria natura e il contesto nel quale è inserita.

“Voglio proporre una nuova visione del modo in cui avvengono le trasformazioni… voglio ricominciare con una immaginazione adeguata alle possibilità e alle singolarità e ai pericoli che sono su questa terra in questo momento…  Al cuore del processo c’è la restituzione alle persone della loro capacità creativa e la riattivazione del loro potenziale di intervento nel mondo… I cambiamenti che contano non si svolgono semplicemente in scena sotto forma di azione, ma nelle menti di coloro che vengono descritti come pubblico. La rivoluzione che conta è quella che avviene nell’immaginazione, il che equivale ad affermare che la rivoluzione non si presenta necessariamente come rivoluzione”: è il pensiero di Rebecca Solint che accompagna la mia ricerca in Borgherese Consŭlĕre.

Il futuro, dunque, speriamo che sia oscuro, perché ogni persona custodisca e ne coltivi la curiosità, il desiderio, il talento nella progettazione e nell’esecuzione dell’opera artistica a venire e per la quale è stata nominata e si è riconosciuta.

 Riferimenti bibliografici

  • Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet, 2006
  • Luisa Cavaliere, Lia Cigarini, C’è una bella differenza, et al./ Ed.2013
  • Rebecca Solnit, Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango, 2005
  • Albert Camus, Lo straniero, Bompiani, 1947/2016
  • Guido Ceronetti, Per non dimenticare la memoria, Adelphi, 2016

Editing: Enza Chirico

Venere degli stracci

Le aporie del Salvatore psicologico

Venere degli stracci

Venere degli stracci, Michelangelo Pistoletto,1967

 

 

Mi invitano, mesi fa, a presentare il libro di un giornalista europeo sul bello dell’Italia. Di seguito riporto la riflessione che immediatamente mi torna in mente:

“Il giornalismo da solo non ha il potere di cambiare la civiltà dello spettacolo che ha contribuito a forgiare. Questa è una realtà radicata nel nostro tempo, il certificato di nascita delle nuove generazioni, un modo di essere, di vivere e forse di morire del mondo che è toccato in sorte a noi, fortunati cittadini di paesi in cui la democrazia, la libertà, le idee, i valori, i libri, l’arte e la letteratura dell’Occidente hanno riservato il privilegio di trasformare l’intrattenimento passeggero nell’aspirazione suprema della vita umana e nel diritto di contemplare con cinismo e disprezzo tutto ciò che ci annoia, ci preoccupa e ci ricorda che la vita non è solo svago, ma anche dramma, dolore, mistero e frustrazione.” (Vargas Llosa,p.44, La civiltà dello spettacolo, Einaudi, 2013)

Le transazioni intercorse, in molte situazioni, oltre la presentazione del libro, sono il pretesto per riflettere sul potere che, nelle relazioni fra persone, si annida e si nutre dei giochi di Salvatori inconsapevoli.

Di contro: pensare, argomentare, problematizzare, condividere, confliggere sono i verbi del lavoro che propongo nel cammino di Educazione alla Persona.

Il triangolo psicodrammatico di Karpman prevede tre ruoli: il Persecutore, la Vittima e il Salvatore. Quest’ultimo ritengo sia una figura psicologica più inquietante delle altre due, perché non è riconoscibile chiaramente e immediatamente. Spesso, il pericoloso Salvatore viene scambiato per un ottimista, per un volontario a servizio della patria e dell’umanità, per un pacifico.

L’ottimismo origina dall’analisi di realtà, altrimenti, è una fantasia delirante e i giochi del Salvatore rivelano distorsioni cognitive e disturbi psicologici legati all’iperadattamento, alla generalizzazione, alla manipolazione.

A proposito del libro, dopo averne apprezzato i contenuti positivi, gioiosi, ben scritti, rifletto sull’opportunità dell’operazione culturale, sulla pubblicazione che inneggia al bello d’Italia, in un periodo storico in cui la gente è spaventata, triste e arrabbiata, sotto lo schiaffo di una crisi economica che sembra eterna. Capisco il candore e l’ingenuità di chi dichiara, in cuor suo, di voler operare a favore del bene e non ammette altro, ma io scelgo di non ridurmi, per sottomissione, semmai di avviare un cambiamento con la convinzione di e in una possibile relazione.

Chi gioca nel ruolo del Salvatore, in fondo, ha paura delle ombre, non vuole vedere le mancanze. Si vergogna del vuoto e dell’assenza, mente a se stesso, talvolta, va troppo avanti o in alto, perché non può permettersi il lusso dell’archeologo del profondo.

L’elogio superlativo, l’elogio e basta, solidifica il sospetto del compiacimento, della svalutazione/ipervalutazione, della captatio benevolentiae. L’elogio risulta un’offesa, non un riconoscimento, se reiterato senza lo sfondo di un contesto ampio, che pre-veda luci ed ombre a conferire vigore plastico.

Penso che assumere in sé la totalità, l’insieme, la figura intera, conduca all’autonomia come leva di vantaggio.

In qualunque situazione e in compagnia di chiunque, salvare un pezzo rispetto al tutto, mantenere la divisione fra la luce dicibile e il buio da sottacere, solleticare il dualismo fra il bene e il peccato, fra il bello e il brutto, conferma il tornaconto del Salvatore, ma non aiuta a definire la chiarezza comunicativa, né l’eventuale originaria benevola intenzione, lasciando sul campo le vittime di una aporia circolare.

Le persone, gli scenari sociali, le visioni antropologiche sono tutte intere e interamente interagiscono fra loro. Così come la cultura, non è <a parte> dalla politica, la quale, a sua volta, non è <a parte> dalla vita personale. In azienda, i <problemi personali> non sono separati dalle prestazioni professionali e lavorative: non è possibile, ma non è neanche etico, proporre separazioni all’interno di una stessa persona. Il potere è divisorio e solitario, la relazione sana confonde e svela, includendo scenari ampi seppure conflittuali.

Per esempio, valuto la puntualità dei treni e la terra bonificata e la costruzione della mia scuola elementare, collocandole nel sistema politico in cui furono realizzate, rimanendo nei fatti della storia tutta intera e non certo, con sguardo parziale.  Modifico la valutazione di opere, pur buone e giuste, proprio perché le inserisco nello scenario globale di quel periodo storico e non a prescindere da esso.

Ripenso all’incontro con Cristina Maria che mi racconta come la città di Napoli, <a parte la camorra>, <a parte la spazzatura>, <a parte i politici ladri>, possiede opere d’arte di eccelso valore, come la statua del Cristo velato nel Museo Cappella Sansevero. Condivido con la mia amica guida come  il marmo del Cristo velato esista in quel contesto e ne assuma la spiritualità, portando su di sé i vissuti della gente, svolgendo la sua funzione inserito in quel luogo, non a prescindere da esso. Sì, il marmo assume la bellezza e la riconsegna ai nostri sensi, perché divenga carne stessa di quel territorio.

Sono psicologa e non posso legittimare la decontestualizzazione perché non favorisco i giochi psicologici messi in atto dal Salvatore di turno, il quale “salva” a costo di non tener conto della realtà, a sua insaputa o, consapevolmente, dichiarando di volerne vedere solo un pezzo, di quella realtà.

L’opera artistica, la bellezza, la cultura, non hanno bisogno di essere ripulite dal territorio, dalla gente, dalla sofferenza del tempo, neanche dalla bruttezza. La bellezza ci penetra e decide, proprio perché bella, di sporcarsi con noi, in mezzo a noi. Essa è sempre contaminata da combinazioni di elementi noti e sconosciuti, giudicati positivamente o meno.

Il potere omologante, invece, lucida, tornisce le superfici, tiene vive le divisioni, illumina i bicchieri mezzi pieni o vuoti, ripropone l’aspetto ludico come preponderante, fortifica l’analfabetismo psicologico e la certezza che si vince o si perde, facilita la sudditanza e disdegna il pensiero critico.

Se, invece, il processo è intero e la visuale è completa, apprendiamo a legare le cause agli effetti e continuiamo a provare interesse al viaggio fatto assieme, ai pensieri curiosi durante l’incontro, alle prospettive diverse possibili, piuttosto che alla risoluzione finale e all’obbedienza.

Giudicare è misurare l’altra persona secondo la propria esperienza. Contrariamente, però, scelgo di capire le ragioni, di chiedere informazioni, di ascoltare i processi decisionali, di inserire il racconto dell’altro nello scenario della sua esistenza, di confliggere con lui: tutto questo lo chiamo relazione. La valutazione assume il valore di uno sguardo e di una lettura sulla vita dell’altro partendo consapevolmente da sé.

L’altro non è derivato da me. Io non posso che essere io, come l’altro non può che essere quello che è e tutti e due siamo già salvi perché autonomi e diversi. Utilizzando i linguaggi dell’Analisi Transazionale, io non so se sono ok e non so se l’altro è ok, ma so, per certo, che sono proprio io e che l’altro è proprio lui/lei. Di conseguenza, confermo l’ok Corral tra di noi, come metodo per rappresentare le convinzioni su di sé e sull’altro.

La psicologia marca il confine fra il giudizio, possibile per chiunque viva nel mondo, e la disciplinata predisposizione e pratica ad assumere l’alterità da parte dei professionisti, nei territori vasti dell’umano.

“Io non sarò mai te nè tua. Tu non sarai mai me nè mio.”: riprendo il monito di Luce Irigaray

La capacità critica esce rafforzata divenendo pratica del proprio punto di vista donato all’altra persona. Nelle interazioni, non posso che raccontare la mia esperienza che non è quella dell’altro. Posso dichiarare: “Io al posto tuo avrei detto, avrei fatto…”. Ma io al posto dell’altro non ci sono. L’esperienza suggerisce che le persone adattate e sottomesse, si irritano, pretendendo che, necessariamente, vinca questo o quell’altro, che salga sul palcoscenico il frammento, non il divenire del viaggio insieme e nel suo insieme, il tutto.

Ripenso alla brutta esperienza del dirigente malamente licenziato: l’indignazione è la chiave di lettura per non rimanere complici di un sistema che chiede anche l’assoluzione a persone, pur maltrattate, che, ancora e sempre, “lo salvano” e immaginano di  ”salvarsi” dichiarando che, nelle grandi aziende, è così che funziona, è giusto che sia così, in fondo, forse, serviva solo un po’ di gentilezza.

Ecco, è in fondo, alle radici che chiedo di cambiare, non in superficie, non le modalità di comunicazione, ma la convinzione comune sulla sacralità e la gravità della condizione del lavoro, delle persone lavoratrici e cittadine. Altrimenti, incoraggiando questo sistema antiumano, non si salva né se stessi, né il futuro possibile del pensiero organizzativo. Argomentare, problematizzare, assumere il pensiero critico: in ogni comportamento agito si realizza la visione della vita, il pensiero e il sentimento.

Icaro, attraverso la lettura psicologica, se rimane a fare il pioniere icaro, da buon Salvatore, se rischia e osa altri fragili voli di cera, altri progetti, è un ossessivo compulsivo, totalmente fuori dalla realtà, non è un eroe. Costui è un misero che dovrà lavorare sul senso del limite, sull’arroganza, sugli ordini psicologici <Sii perfetto>, <Metticela tutta>, <Sii forte>, non è un vincente ottimista.

In una azienda, la figura del Salvatore, rimanda alle <strutture di potere> di foucaultiana memoria, utilizzate per assoggettare e ammaestrare il corpo sociale, perché il gruppo dominante mantenga controllo e privilegi ab aeterno.

Il Salvatore non vede la realtà, alienando la propria esistenza nella prestazione. Vedere non coinvolge solo gli occhi. Vedere la bellezza, vedere le forme artistiche, iniziando dai libri cari, vedere le persone, significa ritrovarsi nelle tre radici del verbo greco ὁράω, orào: –ἶδ, -id, –ὁρ, -or, –ὁπ, -op.

-Id richiama l’avere idea rispetto all’alterità; -or è l’oracolo e riprende la funzione profetica in una relazione; op riporta all’opera, all’azione, alla generatività della relazione.

Uscire dal triangolo drammatico e dal ruolo di Salvatore, oltre che dall’acidità di stomaco, significa farsi carico di un lavoro disciplinato, duro, onesto, attraverso l’educazione e la formazione, ciò al fine di vedere se stessi e l’alterità inseriti in un contesto. Non ti vedo se non mi vedo.

Per l’essere umano Trieb sostituisce Istinkt, infatti, come chiarisce Umberto Galimberti:

Trieb, a differenza dell’istinto diretto a una méta, è una semplice “spinta” … Apertura al mondo e plasticità nell’adattamento fanno dell’uomo un essere la cui vita dipende dalla “costruzione” che egli ne fa, attraverso quelle procedure di selezione e stabilizzazione con cui raggiunge “culturalmente” quella selettività e stabilità che l’animale, grazie all’istinto, ha per natura…

… cultura fatta di tecnica che ne assicura l’esistenza, e di istituzioni che ne regolano la condotta. Il problema è che la tecnica non diventi a tal punto egemone da ridurre l’uomo a semplice funzionario dei suoi apparati, e le istituzioni così impotenti da non essere in grado di impedirlo. (D la Repubblica,28maggio2016)

Editing: Enza Chirico

 

 

 

 

 


Relazioni di formazione imbrigliate in spettacoli e messinscene

 Non è necessario che tu esca di casa.

Rimani al tuo tavolo e ascolta.

Non ascoltare neppure, aspetta soltanto.

Non aspettare neppure,

resta in perfetto silenzio e solitudine.

Il mondo ti si offrirà per essere smascherato,

non ne può fare a meno, …

Franz Kafka, Diari

 

Sulla scrivania di Kafka pare figurasse la scritta warten, aspetta.

E così mi propongo di aspettare riflettendo, ogni volta che sono invitata a presentare i percorsi formativi o ad affrontare un argomento di psicologia. Scelgo io stessa di organizzare i momenti di incontro per informare un pubblico intorno ai miei studi e alle attività nell’area delle Risorse Umane. Seguendo i personali ordini materni, si mangia a casa: non si organizzano apericene, happy hours, outdoors, laccato street food et consimilia. Sono lontana dalle interazioni fagocitanti e ancor più da uno storytelling che semplifica e non accelera, ma rende inerte e banale il dire. Il mezzo utilizzato, nella maggior parte dei casi, diviene impedimento alla relazione pedagogica, alla relazione di éros. Non mi occupo di creare racconti e storie, applicando all’impresa i principi della narrazione. Semmai, il format narrativo è per me lo strumento – mai il fine – utilizzato nella formazione per riconoscere, analizzare, modificare copioni e minicopioni.

Nelle relazioni, propongo la dialettica: la tesi, l’antitesi, la sintesi. Il partire da sé e il pensare assieme, la concentrazione e il silenzio, lo scambio dinamico dei pensieri. Apprendere la dialettica, l’arte di argomentare, favorisce il conflitto che giustappone, componendoli, punti di vista legittimi, opposti e contradditori. Considero l’imperativo di conquistare, sedurre il pubblico come parte della strumentistica disordinata del patriarca. Propongo, quindi, la cura della parola, prima che la scelta della musica e dell’immagine (il profetico bagno delle immagini di Marshall McLuhan), al fine di non sostituire la vita con la rappresentazione di essa.

La persuasione, come funzione pragmatica della comunicazione, non punta a convincere l’altro e ad ottenerne fiducia e approvazione, ma diviene cammino di scoperta e di allargamento delle mappe mentali e ideali di ogni interlocutore. Infine, è la realtà che opera la persuasione, indicando per ogni persona le diverse prospettive in ogni qualsivoglia situazione. Correndo il rischio di essere out, non posso rimanere ostaggio di spettacoli impastati senza criterio, di gate keeper scatenati, di trend setter, di influencer del pensiero che comandano i salotti up to date, dispensatori di carezze plastificate, del tipo adoro!, carinissimo!, assolutamente!. Un eterno birignao. La posa, la provocazione, la frivolezza, la paccottiglia offerta in combriccole e allegre brigate hanno conferito a opportunisti e mascalzoni audaci lo statuto di formatori.  Insomma, un Hellzapoppin’.

Penso che l’incontro formativo light, “così come il cinema light e l’arte light, dà allo spettatore la confortevole impressione di essere colto, rivoluzionario, moderno, e di essere all’avanguardia, con uno sforzo intellettuale minimo. In questo modo, la cultura che si propone come avanzata e di rottura, in verità diffonde il conformismo attraverso le sue manifestazioni peggiori: il compiacimento e l’autosoddisfazione.” (Vargas Llosa,p.26)

Anche quando concepisco l’incontro informativo di due ore, so che esso è già l’inizio di un lavoro capillare e artigianale, di apprendimento e di messa in forma. La presentazione di percorsi di educazione alla persona non può pagare il dazio ad una diminutio rivestita da strategia di marketing. È indispensabile scegliere chiare modalità di interazione fin dall’inizio perché il viaggio dipende anche dai primi dieci minuti in cui ci si incammina. Ma davvero essere così furiosamente e soavemente esperti dell’intrattenimento avvicina i clienti? La proposta formativa che viene presentata ha l’obbligo di essere accattivante? Sono contraria all’indottrinamento che produce adattamenti. Certo, io scelgo una formazione fondativa, nel senso che costituisce la relazione come fondamento e mette in forma le modalità trasparenti e consapevoli, in ogni contesto, anche leggero. Talvolta, dico: “giocando, giocando, con lievità, ma non è a giocare!”. È una questione di cultura, non di conoscenza intorno alle tecniche di comunicazione e di persuasione. Infatti, “…la conoscenza ha a che vedere con l’evoluzione della tecnica e della scienza, e la cultura è qualcosa che precede la conoscenza, una propensione dello spirito, una sensibilità e un’attenzione alla forma che dà senso e guida le conoscenze.” (Vargas Llosa, p.8)

Già in passato mi interrogavo sui malefici delle tecniche di attrazione seduttiva nella professione

http://www.ndcomunitadiricerca.it/le-esercitazioni-in-aula/

http://www.ndcomunitadiricerca.it/teoria-e-tecniche-di-comunicazione-nella-formazione/

E mi chiedo se posso costringere qualcuno ad essere libero, forzarlo a pensare con la propria testa e mi interrogavo se chi si occupa di formazione abbia anche questo compito. Oggi la gravità dei giochi psicologici – interazioni di potere – di chiunque e in ogni situazione, richiede il richiamo all’analisi, richiede l’utilizzo di una psicologia sociale del profondo, l’indagine seria oltre la superficie, perché divengano note le ragioni di alcuni linguaggi e comportamenti, prima di proporne i cambiamenti. Non posso costringere alcuno alla relazione, però, sempre, propongo relazioni fuori da triangolazioni velenose. L’educare a sé e all’alterità cura i disturbi relazionali, legati alla messinscena, alla diluizione del discorso, alla falsificazione degli scopi, al nascondimento del desiderio, allo spostamento delle ragioni fondamentali dell’incontro.

In questo periodo storico vale tutto, perché non conta più accompagnare la natura di ciascuno, affinarne le competenze, specializzarsi, far bene quel che si fa. Nella società del consumo di massa e mediatica, spesso gli individui sono considerati “cretini sociologici” (E.Morin). La scuola di educazione Alla persona si propone di promuovere, nell’utilizzo della strutturazione del tempo, luoghi e momenti dedicati alle attività di apprendimento, all’intimità e alla noità  e non distoglie l’attenzione dal fine ultimo neanche durante i rituali e i passatempi. La scuola di educazione Alla persona non riconosce come indispensabili le categorie della simpatia, della telegenicità, della seduzione e, men che mai, l’entusiasmo generico verso gli hobby e le novità. La formazione accoglie gli appassionati della viandanza, né turisti, né cercatori d’oro. Il viaggio dell’educarsi come persona produce coscienza e sapienza, intensifica l’importanza dell’esperienza esistenziale attraverso la fatica e il patimento.

Il turista parte per loisir, per moda, opportunità, per caso ed è veloce, curioso, fotografa, ingoia immagini, coglie occasioni e paesaggi, cerca distrazioni. Il cercatore è incentrato sulla percezione di sé, ha in mente la possibilità di arricchirsi, di fare business. Il viandante, invece, avverte fortemente il richiamo del cammino, si avvia e si avvia ancora, non può farne a meno, riconosce l’elezione e la dannazione, sopporta tutto per passione della ricerca, della scoperta di una personale Via dei Canti, come Bruce Chatwin. Ancora una volta la relazione e la responsabilità sono strettamente legate al cammino di consapevolezza: ogni persona decide il suo cinquanta per cento di responsabilità. Quando manca, sicuramente, interagiamo in un gioco psicologico fra persecutori, vittime e salvatori, attori in uno schermo triangolare. La realtà della relazione di me, in quanto donna, psicologa, relatrice/docente, sostituisce il potere che sceglie la menzogna dello svago per intrufolarsi, convinto di vincere perché le persone non pensano e non si scambiano idee, sono decontratte. Il potere che è sempre singolare, maschile, giocosamente vigliacco.

“Ci può essere relazione anche se l’essere umano a cui dico tu non lo percepisce nella sua esperienza. Perché il tu è più di quanto l’esso sappia. Il tu fa di più, e gli succede di più di quanto l’esso sappia. Qui non sopravviene alcun inganno: qui è la culla della vita reale.” Martin Buber

 

Riferimenti bibliografici

  • Martin Buber, Le parole di un incontro, Città Nuova, 2000
  • Emmanuel Levinas, Violenza del volto, Morcelliana, 2010
  • Edgar Morin, Dialogo, Libri Scheiwiller, 2003
  • Giuseppe Prezzolini, L’arte di persuadere, Introduzione di Alberto Asor Rosa, LiguoriEd.,1991
  • Mario Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo, Einaudi, 2013

 

Ringrazio Enza Chirico per l’opera di editing

Per amore di chiarezza, editare un testo (altro da correggere le bozze o da prestare servizio di ghostwriter) consiste in alcune competenze precise:

  • sistemare parti di testo con errori di coerenza e affinarne il livello di comprensibilità;
  • controllare e rivedere il senso della narrazione (quanto più un testo presenterà periodi funzionali al suo interno – con funzionali intendo che ogni frase ha una ragione di causa o effetto o di relazione stretta – tanto più chi legge ne sarà coinvolto intuendo il senso della presenza di esempi, descrizioni, dialoghi, ecc…);
  • migliorare le scelte stilistiche e strutturare al meglio la sintassi, conservando intatti i contenuti di chi scrive;
  • individuare il climax per rendere le cose scritte vicine all’apogeo del significato.

Solo Enza, così !

 

 

 

Blanche e Marie

Le donne e la follia

Per Olov Enquist, Il libro di Blanche e Marie, Iperborea, 2006

Blanche e Marie

 

Le donne e la follia.

Blanche, Marie e le intelligenze della mente femminile.

Due regine in cui isteria e genialità rivelano una possibilità di ricerca scientifica.

Una pazza, una strega e il tempo mancato della profezia.

I corpi delle donne come geografie di conoscenza.

 “Un anno dopo Blanche si ammalò per la prima volta. Era incomprensibile. La prima operazione le costò il piede destro. Fu così che cominciò. Ma per lungo tempo Blanche avrebbe ricordato quella domenica pomeriggio in cui lei e Marie, due donne belle, sole in laboratorio, mano nella mano davanti all’inspiegabile miracolo, si erano ritrovate avvolte da quei colori e da quelle misteriose radiazioni che, senza che ne fossero consapevoli, rappresentavano l’ingresso della modernità in quel museo dell’amore che erano i loro due corpi ancora perfetti.” pp.26-27

Nutro affezione per la storia, un po’ reale, un po’ immaginata da Per Olov Enquist, che ho a lungo custodito, di Blanche Wittman, paziente e cavia del dottor Charcot, (maestro di Freud) e di Marie Curie, la scienziata polacca insignita per due volte del premio Nobel.

Il romanzo, attraverso l’utilizzo complesso di numerose tecniche narrative, origina dai quaderni (libro giallo, libro nero e libro rosso) che Blanche lascia alla sua morte. Dolorosamente ereditiamo la possibilità di assumere l’equilibrio mentale come una ricerca continua.

Le relazioni si manifestano come il territorio dell’ illuminismo e dell’oscurantismo, dell’amore e della morte, della scienza e della magia. La testimonianza femminile segna la via per contenere tutto in sé, per non lasciar andare via nulla, per rimettersi al mondo, attraverso la coscienza e la conoscenza, in una relazione complessa fra il desiderio, il radio, l’arte e gli uomini.

Nella storia di Blanche e Marie riconosciamo e ci riprendiamo la forza profetica femminile che, senza il potere del consenso, custodisce, esorta, edifica, scuote attraverso il discernimento e la capacità di governo.

Quando le donne si incontrano, si riconoscono e lavorano assieme, la strutturazione del tempo viene illuminata dall’intimità. Attraverso l’isolamento, i rituali, i passatempi, anche attraverso i giochi psicologici, si rivelano formule diverse e nuove di <noità>. Il senso della bellezza si rinnova e ciò che viene chiamata follia, è solo il cambiamento già in atto, con tutta la paura e la gioia.

“Lesioni da congelamento nell’anima! Una spina nell’amore! Marie pensava che la storia della ragazza morta fosse inventata. Che Pierre avesse semplicemente paura di lei. Perché era troppo viva per lui. Se ne era lamentata con Blanche: perché gli uomini hanno tanta paura delle donne profondamente vive, al punto che scambiano la forza per la morte, e fuggono?” p.86

“Qual è la formula chimica del desiderio? E perché non esiste un’unità di misura dell’amore, perché l’amore cambia continuamente, a differenza del metro campione, quella decimilionesima parte del quarto di meridiano terrestre, perché non esiste un peso atomico del desiderio, stabilito, premiato, per tutti, per sempre?” p.128

Ingrao

Le donne e il lavoro

Chiara Ingrao, Dita di dama, La Tartaruga ed., 2009

Ingrao

 

Le dita di dama richiamano l’immagine delle mani di Maria “mi’ fija metalmeccanica”, mani da ventenne che osservano, che pensano, mani capaci di coinvolgere e di decidere. Ritrovo la vita parallela della Storia e delle storie delle donne. È un romanzo di formazione, commovente come la realtà, che fotografa attraverso gli episodi di vita, gli amori, la stanchezza quotidiana, la lotta e “le quaranta ore settimanali, l’aumento salariale uguale per tutti, il diritto di assemblea”p.75.

Negli anni ’70, Chiara Ingrao è sindacalista e ricorda quegli anni non solo come il periodo dei terrorismi, ma come il tempo in cui maturano, anche, attraverso il pensiero e l’azione delle donne, il contratto dei metalmeccanici, lo Statuto dei lavoratori e le relazioni gerarchiche e frustranti con il potere dei sorveglianti, dei marcatempo, dei capisquadra, dei capireparto.
“<Dal basso> era un’espressione molto usata, piaceva tantissimo; eccetto a Maria, che la trovava volgare. È offensivo, diceva, <basso> a chi? Ora perché uno sta in fabbrica, va considerato basso? Io no mi sento bassa per niente, protestava.” p.101

Leggo la storia della dignità delle lavoratrici raccontata da Francesca, voce narrante, studentessa di legge, amica del cuore di Maria. Dita di dama, dita di donne che, fabbricando televisori nella romana Voxon, strutturano la politica come trasformazione del quotidiano, come rivoluzione simbolica, come scelta di comunione. Perché tutte le persone vincano.

Risento le discussioni sulla qualità del lavoro in fabbrica, la paura delle bombe sui treni, l’approvazione traumatica per molti/e della legge sul divorzio, gli scontri di Reggio Calabria, la grande manifestazione dei metalmeccanici a Roma, Trentin, Ciccio Franco assieme a Ninanana, ‘Aroscetta, Peppe, Mammassunta,…

Dedico questa lettura a Nuccia che mi raccontava da sindacalista gli anni in cui anche qui a Bari prendeva forma ed energia il pensiero delle donne: la coscienza femminile, il doppio sì del lavoro e della famiglia, l’emancipazione, l’autonomia, l’indipendenza.
Riscopro, così, le radici antiche di un impegno faticoso e appassionato, personale e professionale nella Gestione delle Risorse Umane: i posti di lavoro come occasioni di crescita, la promozione nella diversità dell’uomo e della donna, la consapevolezza di sé come base di ogni crescita sana.

Chiedo alla scrittrice: cosa c’entrano i versi danteschi che intitolano i capitoli del romanzo? Oggi c’è davvero bisogno di un’abbondanza di senso?

Non chiudo il libro, convinta che ci sarebbe lavoro se gli artigiani e le artigiane della filosofia e della psicologia fossero impegnati in prima linea nella creazione e nella applicazione di una antropologia lavorativa, di una visione comunitaria della società etica e morale, di una Educazione Alla Persona, verso il divenire persona. Lo studio, la ricerca, la formazione, ed è già politica.

“Immaginati le facce, le storie, i corpi: solo così puoi capire a che accidenti serve la legge”p.168

La ianara

Destino di donna

Licia Giaquinto, La ianara, Adelphi, 2010

La ianara

 

La scrittura decisa ed evocativa, il linguaggio mistico e potente di Licia Giaquinto odora di magie segrete, di riti pagani e di destini incantati.
Nel secondo Novecento, fra i monti di una Irpinia arcaica, la ianara è una strega sapiente e protettiva, ma è anche una mammana rozza e pericolosa. Adelina, ianara come sua madre e sua nonna, è temuta e cercata, è scacciata e ritrovata.

“Adelina ha fatto solo quello che andava fatto. Ha seguito il filo del destino che si srotolava giorno dopo giorno come un piccolo gomitolo tenuto in mano da chi sa chi.” p.26

La ianara riproduce infinite volte la proiezione della parte oscura di sé che ogni persona emargina e che continua ad affiorare. La colpa, l’invidia, l’arroganza sono il male degli esclusi dalla felicità, dei vinti dalla storia, degli analfabeti emotivi e cognitivi. I cattivi e le cattive ignorano la libertà quotidiana di fecondarsi e di venire al mondo e manifestano il bisogno di offrire e di ricevere la cura con parole e azioni sgradevoli.

“Adelina era certa che non sarebbe diventata mai donna, che non sarebbe cresciuta. Perché aveva capito che diventare donna significava sangue.” p.60

La ianara è l’angelo malefico, perduto fra la confusione e la salvezza, ingannato dalla passione negata. Adelina esprime la sua energia anestetizzata per paura di non riuscire ad addomesticare l’amore, a contenere l’eccedenza della gioia, a legittimare la curiosità della conoscenza. Nel copione riscoperto c’è tutto, la maledizione e la benedizione, la metà marcia e la parte odorosa, l’appagamento della presenza e il vuoto della mancanza.

“E’ come se tra Dio e Satana ci fosse stato un patto all’inizio dei tempi: tante anime per l’uno e tante per l’altro, e il resto delle anime da conquistarsi giorno per giorno, minuto per minuto, come in una partita a scopa. Con l’angelo custode da un lato e il demonio dall’altro di ogni cristiano a litigare dalla mattina alla sera per portarlo di qua o di là, al bene o al male.” p.109

Negare, nascondere e respingere sostituiscono la capacità di godere, di comunicare, di ridere. Il desiderio tradito di conoscenza si trasforma in sortilegio, il pensiero oppresso diviene invidia che azzanna, l’urgenza di amare e di essere amati si deforma in malanimo. Tocca vigilare sulla caduta e darsi una mano, chiedere sostegno, offrirsi il perdono.
Sullo sfondo, nel romanzo, la costruzione di un’autostrada, come sfida di una modernità e di una conoscenza faticose verso libertà possibili.

La ianara, ogni giorno, non è morte, è solo un dolore infinito, l’incapacità di offrire a se stessa dignità di esistenza. La ianara è compagna negata da riconoscere perché segna la via, infastidisce e pretende accoglienza e protezione, è nome che arriva da lontano.

Ianua è porta che si apre, apertura che si rivela, luce che segna il passaggio fra l’interno e l’esterno. Diana e le sue sacerdotesse, le Dianarie, sono come madri: continuano la ricerca, camminano a caccia di antichi saperi e accudiscono le nature nascoste. Giano, il dio bifronte, è come padre: governa il passato e il futuro, muove i cicli naturali e consente l’inizio.

“Niente di ciò che è stato si perde. Uomini, donne, fiori, animali, piante: ogni cosa conserva la traccia della propria esistenza anche quando non esiste più. Glielo hanno insegnato sua madre e sua nonna in un tempo remoto sprofondato in un pozzo.” p.23

Yalom

La relazione al centro della cura

Irvin D.Yalom, Creature di un giorno, Neri Pozza, 2015

Yalom

Apprezzo e leggo con passione i romanzi di Irvin Yalom, psichiatra psicoterapeuta e insegnante di fama internazionale, nato nel 1931. Il titolo riprende un pensiero di Marco Aurelio: “Siamo tutti creature di un giorno; colui che ricorda e colui che è ricordato…”.

La memoria, l’atto di ricordare, dinanzi ad un testimone, gli episodi della propria vita serve, ad ogni essere umano, per offrire un senso al dolore e per ritrovare le ragioni del viaggio esistenziale.

Ciascun capitolo è dedicato ad un incontro, alla storia di una persona che sceglie di essere guidata per ridecidere le proprie prospettive rispetto alla malattia, alla morte, all’abbandono, alla sconfitta, al tradimento, al trauma dell’esistenza. Ogni percorso di rinascita che leggo mi appartiene, ogni racconto è parte di me: l’analisi, la riflessione, la coscienza e la conoscenza rappresentano i passaggi per divenire consapevole e autonoma.

Irvin Yalom partecipa alla svolta relazionalista, iniziata negli anni Ottanta, della psicoanalisi americana. Nell’approccio classico, monopersonale, i confini fra paziente e psicoterapeuta sono rigidamente dichiarati e mantenuti. Invece, nella psicologia bipersonale, ambedue i partecipanti alla relazione terapeutica sono pienamente coinvolti in essa.

Yalom, fine intellettuale, con la grande esperienza accumulata in più di cinquant’anni di pratica psicanalitica, conferma, ed io insieme a lui, l’idea delle possibili numerose letture della malattia psicologica.

Nella Educazione alla Persona, la consapevolezza della mancanza, della morte, del limite è la via del benessere, l’unica. La <cura> è affrontare il tema esistenziale, all’interno di una relazione di éros che si pone all’opposto del rapporto di potere. La relazione di éros, riconferma le libertà di ogni persona, fa circolare energie vitali positive, avvia apprendimenti nuovi e pratiche quotidiane verso il cambiamento.

“Le categorie diagnostiche sono invenzioni arbitrarie, sono il prodotto del voto di un comitato e vengono invariabilmente sottoposte a considerevoli revisioni a ogni decennio che passa.”p.181

Non ci sono, quindi, tecniche risolutive. Solo nella relazione gli esseri umani accolgono il divenire, governandone i processi con la narrazione. Autore e lettore, terapeuta e paziente, si trovano nella stessa relazione e utilizzano un linguaggio non tecnico, semplice ed amabile. Un elemento importante che permette a tutti gli “attori” coinvolti di partecipare alla ricerca delle letture e delle ipotesi di soluzione possibili.

Il messaggio, per chi legge, deve essere chiaro: è bene rimanere ancorati ad una scuola di formazione, ad una scelta teorica precisa, ad un percorso personale di analisi. Solo attraverso lo studio sistematico e guidato, è possibile <divertere> e apportare modifiche ai paradigmi di base. Questo assunto vale per i professionisti della psicologia e di ogni altra disciplina. Il rischio riguarda le licenze a fare, a formare e a curare che molti assumono con pericolosa leggerezza, fantasticando che tutto si risolva in una gran bella chiacchierata.

“Rinunciare alla speranza di un passato migliore è un’idea potente… Lei non ha rinunciato alla speranza di un passato migliore, se n’è scritta uno nuovo di zecca…”p.148

Portugallia

Genitorialità e Amore

Selma Lagerlöf, L’imperatore di Portugallia, Iperborea, 2014

Portugallia

Selma Lagerlöf, premio Nobel per la letteratura e prima donna nominata fra gli Accademici di Svezia, nasce nel 1858 nel mondo arcaico, fiabesco e spirituale al confine fra Svezia e Norvegia, fra odore di boschi e di contadini rudi che dolcemente suonano il violino.

Gli alberi-troll dagli occhietti maligni che ritirano i loro artigli con la melodia dei canti di Natale, costituiscono lo scenario della storia straziante e gentile sull’amore complicato in famiglia. Ogni capitolo breve è una pennellata sapiente fra privato e sociale, fra immaginazione e realtà, fra desiderio e morte.

Incontro padroni stupidi e disumani e lavoratori sofferenti e profetici e incontro Jan, duro e affaticato contadino di Skrolycka, che scopre e vive la felicità nella paternità, nell’appartenenza e nell’attaccamento alla piccola Klara Fina Gulleborg, nome magnifco che richiama la luce, il calore, la preziosità del sole.

“Ma ora, che aveva una figlioletta così straordinaria, Jan non era più soltanto un povero bracciante. Ora aveva un tesoro da mostrare e un fiore di cui fregiarsi. Era ricco con i ricchi e potente con i potenti.”p.45
“Non è solo il giorno in cui è nata Klara Gulla, è anche il giorno in cui è nato il mio cuore.” p.32

Ma, giovane e bellissima, per quindici lunghi anni, Klara abbandona la casa paterna, senza dare notizie di sé. Per Jan diviene impossibile lasciar andare la figlia, luce e ragione della propria vita. Nelle relazioni fra genitori e figli, la distanza marca l’autonomia e la realizzazione libera e compiuta dell’amore. Jan non ce la fa, trasforma in delirio il bisogno di possederla e si protegge dal dolore trasfigurando la realtà.

Nella fantasia amorosa di suo padre, Klara, invece che una prostituta, appare come la discreta e straordinaria imperatrice di Portugallia, paese immaginario. L’amore che non prevede anche la libertà diviene un inganno che trasforma il padre in un folle.

Ma Jan ci convince che la protezione di sé si può esercitare anche smettendo di curare la follia. Il padre, la made e, al suo ritorno, la figlia si lasciano attraversare dalle fantasie, leggendole e assumendole come una difesa e come la forma dell’amore ostinato che continua a credere, consapevole e profetico, alla felicità della propria carne. A dispetto degli avvenimenti, delle calunnie, a dispetto della sua stessa vita, Jan si fa strumento di coscienza e di redenzione.

La storia imperdibile, narrata dalla scrittrice sapiente, sensibile e paziente, continua ad ispirare le vite di madri, di padri, di figli e di figlie, redime e rilancia prospettive e riflessioni sulle complesse relazioni familiari.

“Jan non è matto. Il signore gli ha posto uno schermo davanti agli occhi, perché non veda quello che non sopporterebbe di vedere. E di questo non si può che essere riconoscenti.”p.230

Self-Reparenting-fig1

Self Reparenting

Self Reparenting

 

Actualité en Analyse Transactionnelle
Avril 1993, Vol.17, N°66

Restructurer le Parent organisationnel

 

Les réflexions que je propose dans cet article se fondent sur une approche “clinique” du développement organisationnel (1), en ce sens que le modèle utilisé pour aborder l’entreprise  n’est plus celui d’une machine, mais celui d’une ’personne’, ce qui oriente la démarche vers le changement et le progrès plutôt que vers des analyses descriptives. L’A.T. constitue de ce point de vue une théorie de la ’personnalité’ de l’entreprise, considérée non plus seulement comme la résultante du vécu du groupe, mais surtout comme l’intégration, douée de consistance propre, d’un ’Parent’, d’un ’Adulte’ et d’un Enfant’ ; l’A.T. permet sur cette base un traitement systémique par l’autoanalyse de l’organisation. Je me propose de présenter dans cette perspective la ’restructuration du Parent organisationnel’, ou ‘auto-parentage des organisations’ (2), en tant que processus favorisant leur évolution en les amenant à prendre conscience de leurs vécus profonds, analogues à des sentiments, à les prendre en compte et à les utiliser pour leur propre croissance.

 

Un exemple : le lancement d’un nouveau produit suscite tout d’abord une phase d’enthousiasme ; vient ensuite une attention minutieuse aux besoins du consommateur et «la disponibilité à remettre en cause la nature du produit et son utilité, et même la façon d’organiser au mieux le système organisationnel qui le lance, le fabrique et le commercialise» (3), comme le représente la figure 1. Dans cette perspective, l’objectif premier d’une entreprise dépasse la simple amélioration technologique du produit : il s’agit de créer pour les clients une valeur nouvelle qui corresponde à leurs besoins.

 

Pubb-010-01

 

Un autre objectif de cet article est de ‘former’ les intervenants, si l’on peut ainsi s’exprimer, pour qu’ils aient les capacités et le courage d’utiliser l’A.T. comme un instrument de diagnostic et de pronostic de l’évolution organisationnelle, et non plus seulement comme un outil de compréhension et d’amélioration des interactions groupales.

L’état du moi Parent dans l’organisation

Identité de l’organisation et présupposés de base

Le dictionnaire d’Oxford définit l’identité comme «la qualité ou la condition d’être toujours le même ; l’aspect essentiel et absolu du fait d’être soi-même ; l’unicité»” (4). L’identité est donc unicité, mais l’A.T. nous apprend qu’elle est toujours en changement et en évolution. L’organisation, comme l’ètre humain, est en évolution et en autogenèse permanente ; sa culture est l’expression externe d’une énergie intérieure, l’expression de ce que Edgar Schein appelle les ’présupposés de base’ (5), c’est-à-dire les réactions assimilées par le groupe en vue de survivre dans son milieu externe et de surmonter les problèmes internes d’intégration.
D’après les spécialistes, la culture de l’entreprise se reflète dans les comportements des personnes qui la composent, dans ses valeurs dominantes, dans la philosophie qui guide sa politique, dans ses règles, dans son atmosphère ambiante. On ne peut toutefois réduire son essence à la somme de tous ces paramètres : elle se situe à un niveau plus profond, celui précisément des ’présupposés de base’. Mon hypothèse est que la culture de l’entreprise s’exprime à travers les règles (P2), les stratégies (A2) et l’enthousiasme (E2), même si ces éléments ne sont que des représentants de cette culture.

Pour comprendre ce qu’est fondamentalement la ’personnalité’ d’une entreprise, il est utile de prendre en compte le modèle structural de deuxième ordre. Je ne considérerai ici que l’état du moi Parent. Nous trouvons en P2 les idéologies, les symboles et les discours ; en A3 les affirmations concernant la réalité qui ont été jadis considérées comme vraies ; et en E3 les mythes et les perceptions de l’Enfant des personnages parentaux ayant joué un rôle dans le passé de l’organisation.

Pubb-010-02

Cette analyse du ’Parent’ permet de comprendre et d’examiner les présupposés de base, c’est-à-dire «les valeurs qui n’ont pas été mises en question et qui se sont transformées, soit en convictions et en idées auxquelles on fait automatiquement référence, soit en habitudes inconscientes» (6). L’avantage de l’A.T. est de considérer ces présupposés non comme des entités abstraites, mais comme des comportements clairs et observables. On retrouve par ailleurs dans cette notion celle de “compulsion de répétition”, nécessaire au premier chef pour comprendre l’évolution d’une entreprise.

L’entreprise est liée au milieu dans lequel elle évolue. Elle prend dans celui-ci les repères qui lui permettent de se reconnaître comme ’l’entreprise Alpha’ ou ’l’entreprise Gamma’ ; elle s’y adapte parce qu’il répond à son besoin d’attachement, sans lequel aucune identité ne peut se construire, il en découle que le scénario de l’entreprise est une adaptation qui s’exprime par un comportement visant son identité.

Exemples

Nous pouvons illustrer ces notions transactionnelles par l’exemple de la Jones Company, que Schein (7) présente dans son ouvrage. Jones, immigrant issu d’une famille de petits commerçants, fonde une chaîne importante de supermarchés. C’est un homme qui vend à crédit et accepte toujours d’échanger la marchandise, faisant montre ainsi d’une grande confiance envers ses clients ; il croit à la valeur de la compétition entre les personnes, enseigne à son personnel la manière dont il veut qu’il se comporte et blâme ses subordonnés lorsqu’ils enireignent les règles et les principes établis. La culture, ou si l’on veut la ’personnalité’ de l’entreprise, s’identifie au départ à celle de son fondateur ; les valeurs et les convictions personnelles de celui-ci sont transmises et véhiculées par les mythes, les légendes et les récits concernant l’histoire de la firme à ses débuts, et l’organisation évolue dans un esprit d’adaptation et d’attachement à cette figure fondatrice.

Après la mort de Jones, l’entreprise traverse une longue période de crise intellectuelle. Il n’est plus là, et la plupart des autres personnes qui occupent une position dans la culture du groupe ne sont guère tournées vers la pensée : différents leaders, provenant de l’extérieur aussi bien que de l’intérieur, s’avèrent incapables de la guider.

Comme on le voit, la question est mal posée : dans une telle entreprise, il ne s’agit pas tant de trouver un leader aussi brillant que le fondateur historique, mais d’effectuer un véritable ’auto-parentage’, une restructuration du Parent organisationnel, qui garantisse le maintien de ce qui fonctionnait dans l’ancienne culture tout en y insérant des variables nouvelles.

Au fur et a mesure que l’entreprise évolue se développe un système de valeurs qui lui est propre, un ’Parent’ autonome qui ne se réduit pas aux convictions du fondateur, mais intègre de manière continue le vécu du groupe et son histoire, comme on peut le voir, par exemple, dans le matériel de formation, les cassettes vidéo, les dépliants et les opuscules visant à communiquer au personnel les orientations de la firme. Le début d‘une organisation ne peut donc s’expliquer uniquement par l’identification à une personne, fondateur, leader ou autre. Le processus est bien plus complexe ; il s’enracine dans la confrontation inconsciente entre ses qualités propres et le modèle lui-même, dont la validité est admise. A partir des comportements et des vécus phénoménologiques liés au modèle externe du fondateur, l’organisation se forge en elle-même un modèle autoprotecteur et normatif à partir duquel elle appréhendera et classera les données, et où se mélangent les aspects cognitifs et émotionnels. Berne parle à ce propos de ’système extéropsychique’ ou de ’Parent’.

Dans son analyse de la culture d’entreprise, Schein affirme qu’il ne s’agit pas de consolider des modèles de sens déjà répandus, mais de détruire ceux qui existent et d’y substituer des modèles nouveaux : «il est nécessaire d’agir au niveau de l’inconscient et du vécu profond de l’entreprise pour l’aider à repartir sur le fondement des valeurs qui lui sont propres» (9).  L’A.T. ne soutient pas un tel radicalisme : pour que l’entreprise puisse ‘aller bien’, il ne s’agit pas tant d’en éliminer le ’Parent’ que de l’aider à reprendre possession d’autres parties d’elle-même. En effet, et ce sera ma conclusion, le ’Parent’ de l’entreprise est une fonction destinée à en protéger l’identité ; cette fonction a un sens intérieur et s’exprime par un comportement.

Sortir de son scénario ou en élargir les limites est aussi naturel pour les entreprises que pour les êtres humains. Toute crise de croissance met en question l’identité précédente de l’entreprise et constitue une stimulation pour une croissance ou un approfondissement dans ce domaine. D’autre part, si tout choix nouveau et tout changement accroissent le nombre de virtualités différentes qui s’y inscrivent, ils impliquent aussi le refus de certaines manières d’être antérieures.

Certaines transformations des présupposés de base concernent le caractère national d’un produit. Si nous prenons une carte économique et que nous y examinons les frontières des états, nous constatons que, contrairement à une carte géographique, celles-ci ne sont plus nettement définies : on parle d’économie interconnectée. Les ramifications des activités financières et industrielles font que l’impact d’un produit, quel qu’il soit, est plus large que n’importe quelles frontières nationales. Comment définir aujourd’hui la nationalité d’un produit Sony ? : la firme possède des établissements en Alabama et envoie des cassettes audio et vidéo en Europe. Le terme ’extérieur’, dans le sens d’étranger, n’a désormais plus de sens. La globalité des stratégies amène les entreprises à ne plus cultiver uniquement leur propre jardin, par exemple en ’dissimulant’ les technologies nouvelles à la concurrence,
tout en conservant leur sentiment d’appartenance et d’attachement à la maison mère.

Finalement, accepter d’être soi-mème sur un mode plus large, plus global, plus pointu, signifie toujours choisir un élément pour renoncer à un autre. Il s’agit de donner à l’entreprise la permission de se dépasser elle-même, de quitter l’adaptation aux procédures bien connues, non pas pour les perdre, mais pour en préserver les aspects positifs et utiles.

Au sein d’une organisation, l’accent est mis souvent sur les aspects qui lui permettent de s’identifier, et ce sont eux qui occupent le plus d’espace. Lorsqu’on a fait une découverte, on ne la lâche plus et on a l’impression que l’opposé est dangereux. Or, “Je ne puis aller bien que si…” indique que l’on est dans une position de survie, nécessairement limitative. La perspective saine et novatrice qui, dans une entreprise, permet de faire face à une situation, quelle qu’elle soit, reconnaît que l’on peut admettre et faire en même temps deux choses opposées, mêler le blanc’ et le ’noir’. Cette démarche dialectique implique certes le risque existentiel de tomber dans le chaos et de ne plus savoir qui on est. C’est justement pour cela que l’entreprise ne peut ’redécider’ que si elle a changé son ’Parent’ : cette figure nouvelle lui donne la force de changer les stratégies, de choisir de nouveaux itinéraires et peut-être de s’attaquer au Parent’ précédent. ’L’Enfant’ et ’l’Adulte’ utilisent leur intuition et leur connaissance des probabilités pour s’orienter vers des choix corrects et pour prouver qu’ils le sont.

 – Le piano à queue. Les teintes noires et blanches du paragraphe précédent me suggèrent l’image d’un grand piano à queue noir… La firme Yamaha, facteur bien connu de pianos, est tentée d’abandonner ce secteur parce que les gens n’ont plus le temps, la passion ou les moyens d’acquérir ce produit. Améliorer la qualité des pianos à queue n’augmenterait pas les ventes, et la concurrence coréenne offre des prix moins élevés. Que fait l’entreprise ? Elle réussit à mettre au point une combinaison sophistiquée de technologies digitales et optiques pour enregistrer et reproduire n’importe quel son à l’aide du même genre de ’disque mou’ de trois pouces et demi que celui qu’on emploie sur un ordinateur personnel. Cela signifie en pratique qu’on peut enregistrer en direct les concerts des pianistes célèbres, mais aussi que tout flûtiste, par exemple, peut demander à un pianiste de l’accompagner, enregistrer cet accompagnement et l’utiliser pour jouer ou répéter le morceau en son absence. Voici le commentaire de K. Ohmae : «Yamaha est sorti des chemins battus : la firme ne s’est pas lancée tête baissée dans la diminution des coûts, la multiplication des modèles, la réduction des frais généraux; elle a jeté un regard neuf sur la possibilité de créer de la valeur à partir des millions de pianos existant déjà sur le marché» (10) ; en d’autres termes, elle a décidé de jouer sur les touches blanches et sur les touches noires. Les ventes ont augmenté mais aussi, et c’est le plus important, la firme a élargi son ’identité’ et son scénario.

Yamaha n’est pas la seule firme à avoir besoin d’une ’restructuration du ‘Parent’ ; ceci, je le répète, ne signifie pas rejeter l’ancien ’Parent’, mais y intégrer des éléments neufs. Adopter un nouveau ‘Parent’ n’amène pas ipso facto des révolutions et des changements radicaux ; la démarche peut aboutir tout aussi bien à reprendre les schémas et les règles de l’ancien ’Parent’, mais après confrontation. D’ailleurs, il est impossible de mettre au goût du jour ou d’éliminer la figure des anciens leaders dans le ’Parent’, puisqu’elle provient de personnages historiques, mais il est possible de ’restructurer le Parent’ par ’l’auto-parentage’ de l’organisation.

Pour cela, il est nécessaire que les managers comprennent la nécessité du processus ; or, ils ont tendance à s’habituer au status quo ou à établir des positions orthodoxes nouvelles en faisant obstacle au processus de croissance naturelle de l’entreprise. ’Restructurer le Parent’ n’est possible que si ’l’Adulte’ fonctionne bien et est exempt de contaminations. Le diagnostic des ’états du moi’ n’est valide que si le ’sujet’, en l’occurrence l’entreprise, s’y reconnaît et réagit consciemment. C’est en se refaisant un ’Parent’, en se donnant à nouveau des lois, une philosophie, une mission, que l’organisation peut se protéger et poursuivre sa croissance. Si par contre elle décide à partir de ’l’Enfant’, si par exemple elle se laisse entraîner exclusivement par les cours de formation ou par les produits à la mode, le succès sera de courte durée : l’ancien ’Parent’ restera puissant et aux aguets.

Pour intervenir au niveau de la culture de l’entreprise, il importe de dégager l’Adulte de celle-ci avant toute proposition concrète. Il est vrai que ce travail est fatiguant et délicat, que le consultant y perdra peut-être sa ’magie’ et qu’il sera amené à travailler sur son propre Contretransfert plus encore que sur le ’transfert’ de l’organisation. Le risque est grand, toutefois, de proposer d’excellents cours de formation, éventuellement par l’A.T., sans former simultanément l’entreprise en utilisant l’A.T. à ce niveau. Il est nécessaire de saisir le sens qu’une intervention de formation revêt dans le cadre du cheminement de l’entreprise. Le plus important, ce n’est pas que celle-ci résolve la situation pour laquelle elle consulte, mais qu’elle se refasse un ’Parent’. Bien entendu, on ne peut ignorer sans plus la problématique mise en avant par l’organisation : le consultant préoccupé d’analyser la culture de l’entreprise perçoit le problème sous-jacent à la demande et doit s’occuper des deux niveaux.

Sans l’analyse de la culture, le cours de formation n’est qu’un nouveau masque, et les comportements qu’il entraîne ne sont que des adaptations par lesquelles l’Enfant de l’entreprise ’fait plaisir’ à l’intérieur comme à l’extérieur de ses frontières.

Hypothèses d’intervention

En s’inspirant de la technique schiffienne du reparentage (11), l’intervenant selon le modèle ’clinique’ s’engage par contrat à se substituer au ’Parent’ de l’entreprise et à lui fournir des options nouvelles et positives à la place des messages restrictifs reçus des fondateurs historiques. Un tel processus peut créer une symbiose entre l’intervenant extérieur et l’organisation ; sa mise en oeuvre exige que le consultant en ait conscience et sache qu’il devra par la suite travailler à la résoudre.

L’auto-parentage est à la fois :
– un processus évolutif autonome et physiologique ;
– une adaptation et un apprentissage en relation avec le milieu et avec soi-même ;
– un processus thérapeutique ; au niveau des groupes cela signifie que le changement, bien qu’étant essentiellement déterminé par le groupe lui-même, résulte en même temps de l’activité et des interactions des personnes à l’intérieur et à l’extérieur de lui.

Selon Muriel James (12), la démarche de l’auto-parentage comporte sept étapes. Dans les entreprises, où l’on travaille avec le personnel de différents niveaux, les méthodologies varient, mais les principes généraux demeurent.

En premier lieu, il est nécessaire que l’entreprise ait conscience de la nécessité d’un nouveau ‘Parent’ qui s’intégrera avec l’ancien.

On peut synthétiser en quelques questions les informations que le consultant devra recueillir ; il utilisera pour ce faire la méthode qui lui paraît la plus adéquate :
«- A quoi ressemble l’entreprise idéale ?
– Comment seraient les dirigeants idéaux ?
– En quoi l’entreprise serait-elle différente si elle avait eu des leaders idéaux ?
– Comment pourrait-on procéder pour y introduire ces nouveaux leaders, autrement dit pour construire ce nouveau Parent ?
– Quelles sont les améliorations souhaitées dans l’entreprise ?
– Qu’est-il nécessaire de faire pour qu’elles deviennent réalité ?
– Quels sont les résultats positifs de l’ancien leadership ?
– Quels en sont les résultats négatifs ?
– Quelles sont les caractéristiques du fondateur qui ne sont plus de mise aujourd’hui ?
– Quelles sont celles qui demeurent utiles ? »

A ce point, il importe d’aider l’entreprise a établir un diagnostic comportemental, social, historique et phénoménologique de son ’Parent’. Pour les trois premiers aspects, on peut utiliser l’égogramme (13) : on demande à différents groupes de travail de tracer, non pas leur propre égogramme, mais celui de l’entreprise. Pour l’expert, le risque est de se laisser aller, moitié par hasard et moitié par zèle, à proposer au personnel des diagnostics non prévus dans la démarche, en oubliant que son véritable client est l’organisation. Quant au diagnostic phénoménologique, il implique en thérapie un retour à une scène d’enfance. En entreprise, on ne peut bien sûr demander au personnel de la décrire ou de la dessiner telles qu’il l’ont vécue lorsqu’ils avaient un ou cinq ans, mais on peut inviter les participants à imaginer qu’ils sont assis en face du fondateur ou d’autres personnages parentaux, ou à retourner à une scène du passé et à dire ce qu’ils n’ont pu dire alors. Il importe de se souvenir, comme je l’ai déjà souligné, que ce travail n’a pas pour objet les sentiments du personnel ou ses relations avec les dirigeants. Il ne s’agit pas de proposer, par exemple : «Dis à ton chef combien tu es en colère parce qu’il refuse ton augmentation», mais bien : «Reviens à cette réunion où l’on a décidé tels ou tels objectifs, stratégies ou méthodologies ; repense-les, reformule-les, et donne à l’entreprise de nouvelles options», ou encore: «Que ferais-tu aujourd’hui à propos de cette décision d’entamer cette campagne publicitaire ?».

A l’étape suivante, on propose des groupes de travail en vue de s’informer du sens, de l’évolution et des styles différents de leadership (14) : hypercritique, hyperprotecteur, incohérent, contradictoire, etc… En somme, on analyse synthétiquement la fonction parentale à l’intérieur de l’entreprise: en quoi le rôle de leader s’est-il modifié, que signifie aujourd’hui être un dirigeant, à quoi sert le manager, quels sont ses objectifs et ses foncüons?

Une autre démarche importante vise à découvrir les besoins, les attentes et la ‘magie’ de ’l’Enfant’ de l’entreprise. Pour cela, il est efficace de rechercher et d’étudier les mythes, les métaphores et les formules magiques’ qui y ont cours.

On passe ensuite aux procédures de validation des données. En une ou plusieurs séances, on examine et on évalules informations reçues par ’I’Adulte’, les attentes de ’l’Enfant’, les exigences oue  les critiques de l’ancien ’Parent’.

Ce n’est qu’alors que l’on définit les contrats. C’est le moment de discuter et d’adopter les projets concernant d’éventuelles formations ; à ce point de la démarche, ils seront ciblés, clairs et adéquats.

Finalement, le consultant aide l’entreprise dans le processus de cristallisation du ’Parent’. Dans cette phase, il est indiqué d’utiliser les trois états du moi et d’être préparé à agir en consultant. Le changement conduit à ce que Berne appelle “autonomie”(15) ; en entreprise, on parle de “qualité totale”.

Au cours de ces différentes étapes, le travail se personnalise et se réinvente sans cesse en fonction de l’atmosphère de l’entreprise où l’on travaille ; pour faciliter la circulation des informations entre le personnel et le consultant externe, on peut avoir recours à des questionnaires, des interviews, des groupes de travail ou des rencontres.

Je n’utilise pas la ”restructuration du Parent’ au début de l’analyse, mais seuiement lorsque ’l’Adulte’ de l’organisation est moins contaminé et fonctionne correctement. En général, le problème mis en avant par l’entreprise provient de son Enfant Adapté ; c’est pourquoi mon premier objectif est de faire en sorte que l’Adulte soit informé. Lorsque celui-ci est contaminé, l’organisation aborde les problèmes avec une foule de préjugés et tente de perpétuer une tradition d’ores et déjà dépassée. Travailler avec la ’restructuration du Parent’ ne signifie pas ignorer l’Enfant mais au contraire mettre en place un nouveau ’Parent’ qui favorise et approuve sa croissance : lors des décisions futures, l’’Enfant’ comptera ainsi dans le ’Parent’ et ’l’Adulte’ deux alliés forts et favorables au changement.

Je crois que la mission de l’expert consiste à travailler avec le personnel de l’entreprise en vue de le rendre conscient de ses propres choix ; il ne s’agit pas de résoudre leurs problèmes, mais de mettre à leur disposition une grille de lecture qui leur permettra éventuellement de redécouvrir sur un mode autonome les solutions qui existent déjà dans l’organisation (16).

Conclusions

Le déroulement et les effets du processus de ’restructuration du Parent’ dans l’organisation sont remarquables. Certaines des transformations nécessaires portent sur l’idée de nationalité, qui évolue vers une vision globale, et sur les convictions idéologiques, auxquelles se substituent graduellement des critères d’utilité. Dans les nouvelles entreprises, les énergies ne sont plus tant dirigées contre la concurrence que vers la recherche de valeurs nouvelles pour le client. Plutôt que d’abandonner un secteur considéré comme ’mort’, on tendre dans cette optique à repenser le produit. Les critères qui font autorité sont constitués par l’enchevêtrement des différents canaux de communication. On en vient finalement à déterminer une éthique collective, et non pas seulement une juxtaposition de morales individuelles.

 

 

Traduit et reproduit avec autorisation de la Rivista Italiana di Analisi Transazionale e Metadologie Psicoterapeutiche, 12, 22, juin 1992, pp. 98-105 : «ll self-reparenting nelle organizzazioni».

 

REFERENCES

1 . SCHEIN, E., Sviluppo organizzativo e metodo
clinico, Guerini, 1989.

2. JAMES, M., Self-reparenting: Theory and
process. T.A.J., 4, 3, 1974, pp. 32-39. Trad.fr.z
A.A. T., 8, 29, pp. 5-11. C.A.T., 4, pp. 122-128.

3. OHMAE, K., Il mondo senza confini. Il Sole 24
Ore, 1991.

4. Oxford Shorter Dictionnary, Oxford.

5. SCHEIN, E., Cultura d’azienda e leadership,
Guerini, 1990.

6. ibid.

7. ibid.

8. BERNE, E., Transactional analysis in psycho-
therapy, New York, Grove Press, 1961
Trad.fr.: Analyse transactionnelle et
psychothérapie, Paris, Payot, 1975.

9. SCHEIN, E., op.cit. (N.1).

10. OHMAE, K., op.cit. (N3).

11. SCHIFF, J., SCHIFF, A., MELLOH, K., SCHIFF,
E., SCHIFF, S., RICHMAN, D., FISHMAN, J.,
WOLTZ, L., FISHMAN, C., et MOMB, D.,
Cathexis reader: Transactional analysis treat-
ment of psychosis, New York, Harper & Row,
1975.

12. JAMES, M., op.cit. (N.2).

18. DUSAY, J., Egograms and the constancy hypo-
thesis. T.A.J., 2, 3, 1972, pp. 37-41. Trad.fr.:
A.A.T., 2, 5, pp. 3-9. C.A.T., 1, pp. 35-39.

14. DAGOSTINO, L., Cuftura d’azienda e leader-
ship: une lettura secondo l’A.T. Actes du
Congrès Italien d’A. T., 1991.

15. BERNE, E., 1964: Games people play, New
York, Grove Press, 1964. Trad.fr.: Des jeux et
des hommes, Paris, Stock, 1975.

16. Cfr aussi LEVITT, T., Pensare il management, Il sole 24 Ore, 1991.

Inessa

La Politica come Educazione ai Sentimenti

Ritanna Armeni, Di questo amore non si deve sapere, Ponte alle Grazie, 2015

 

Inessa

La storia delle donne nella Storia è giudicata, ancora, inopportuna e stravagante. Sono contenta di vivere questo mio tempo ristretto e curioso in cui, infine, è possibile rileggere i fatti della rivoluzione bolscevica attraverso il libro <Di questo amore non si deve sapere>, primo nella mia classifica di letture, della giornalista Ritanna Armeni che compie, con un impegno appassionato, per tutte, una ricerca puntuale e precisa, anche negli archivi russi, aperti nel 1992.

La vita di Inessa appartiene alla rivoluzione comunista e alla nascita dello Stato Sovietico, come le vite di Alexandra Kollontaj, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg: il libro è un dono, un risarcimento a Inessa e a tutte le donne che i testi di storia continuano a mortificare, ignorarandole.

Inessa Armand, autonomamente moglie di un industriale tessile, parla quattro lingue, suona il pianoforte, eredita la libertà dei genitori artisti in un ambiente bohémien, preferisce Dostoevskij a Černyševskij e Tolstoj a Nekrason. E’ colpita “come da una frustata” quando, in Guerra e pace, legge di Nataša riconosciuta samka, femmina, solo dopo il matrimonio.

Nel 1909, nel parigino Café des Manilleurs, Inessa ha 35 anni, sposata e madre di cinque figli, e rimane rapita dai discorsi del quarantenne Vladimir Il’ič Ul’janov che puntano a rovesciare il sistema zarista. Lenin e la compagna Armand decidono di divenire guide l’una dell’altro e, assieme provano a convincere la leadership bolscevica dell’importanza delle donne lavoratrici in Russia. Ma Lenin, un po’ per volta, blocca le ambizioni di Inessa e boccia i testi che scrive sulle agitazioni in Irlanda e sul movimento operaio inglese.

E’ bella, Inessa, anche dopo il carcere e i malanni per la tubercolosi; nella foto indossa la kosovorotka, la camicia russa con i bottoni laterali. Ferma e zitta, sconosciuta e a servizio, indispensabile alla causa e silenziosa: prima ancora che culturale e politica, la quaestio è psicologica. Gli uomini e il loro potere non ce la fanno, le rivoluzioni si servono di capipopolo e guardano come secondarie le relazioni e le condizioni del pensiero femminile. Per Lenin, Inessa è Blonina, pratolina, ma rimarrà a riallineare con maniacale precisione, penne e matite sullo scrittoio.

La protagonista apre una libreria, un giornale, una scuola per i figli dei contadini a El’digino, protegge le prostitute e la comunità d’immigrati russi a Parigi, apre una scuola per le donne e a Bologna tiene corsi sulla questione femminile. La sua rivista Rabotnica (Lavoratrice) esce nella giornata della donna del 1914: il tema riguarda l’amore libero e il reddito autonomo, ma chiude contrastata dagli uomini dello stesso partito.

Lenin e Inessa progettano la prima università marxista a Longjumeaux, vicino Parigi, dove lui tiene conferenze di economia politica sulla questione agraria e sul socialismo, mentre lei continua a coltivare divergenze, anche rispetto alla stessa idea di socialismo, espressione di un potere che non sopporta i dissensi.

La compagna Armand sale nella gerarchia del partito, ma scende negli inferi di una Storia che la cancella per decenni. Nella dedizione e nel suo totale impegno pubblico al fianco di Lenin, soffoca perplessità e conflitti. Nel 1918 diviene la donna più potente di Russia, assumendo la direzione dello Žhenotdel, la commissione femminile del Comitato centrale che, nella Russia dei Soviet, pur avendo potere legislativo, è sottovalutata nella sua funzione dalle stesse donne del partito.

Il socialismo e la rivoluzione sono in opposizione agli affetti e al benessere personale, gli interessi della società e della propria vita coincidono, la vita personale è dedicata e immolata all’Utopia. I compagni disapprovano, guardano con imbarazzo i due amanti, rimangono ostili ai diritti delle donne e diffidenti verso il movimento femminile.

Lenin continuerà a considerare i sentimenti come una debolezza nell’impegno politico e l’adulterio come pratica borghese: “non si possono avere due passioni” scrive a Inessa.

Vladimir Ill’ič, leader dei bolscevichi, capo dell’Urss, per tutta la vita, si ostina a liquidare la sessualità, l’amore, le relazioni affettive, come stupidaggini, divenendo autoritario e offensivo: per lui, la rivoluzione e la ribellione allo zar hanno bisogno di ben altro. Spaventato dal tradimento del fedele Malinovskij che, in realtà, è una spia della polizia segreta della Russia zarista, Lenin ha contro ormai, in breve tempo, tutti i membri delle varie organizzazioni della socialdemocrazia e muore il 1924, quattro anni dopo Inessa.

Stalin, duramente giudicato da Vladimir Ill’ič nel suo testamento, ricatta Nadja Krupskaja, (moglie di Lenin che ha mantenuto con Inessa un atteggiamento cordiale e sereno e, in apparenza, non ha mai mostrato segni di gelosia e competizione) e la sfida a non pubblicarne il contenuto, altrimenti diventerebbe nota la relazione con Inessa: il patto scellerato dura fino al 1956, anno della pubblicazione del testamento.

Una volta, si chiamavano libri di testo: ricomincio da questo, a riscrivere bibliografie possibili per giovani donne e uomini. Le rivoluzioni devono essere terribili e sanguinose? Il cambiamento di visione antropologica deve prevedere la guerra come necessaria? L’apprendimento sociale di una nuova pluralità è sempre lotta di potere?

La politica come educazione sentimentale: Inessa ci insegna che ogni rivoluzione prevede l’arte e l’attività di coltivare relazioni di éros.