buio a mezzogiorno

Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno, Oscar Mondadori, 2015

Darkness at Noon, Buio a mezzogiorno è pubblicato nel 1940, nell’epoca delle grandi purghe staliniane.
Ma più che sugli eventi, l’autore ungherese scrive sui moti della coscienza di un uomo convinto della sua militanza in un partito che gli chiede di rinunciare alla propria individualità in nome di un fine superiore. Il romanzo indaga con toni forti il rapporto fra politica e morale.
Nel marzo del 1983 Koestler e la sua giovane moglie Cynthia Jefferies Patterson si uccidono: dieci anni prima si sono affiliati all’associazione Exit, favorevole all’eutanasia.

Il cambiamento, la rivoluzione, l’analisi profonda, portano con sé sempre la violenza?

buio a mezzogiorno

All’Autore si interessano Maurice Merleau-Ponty, Simone de Beauvoir, Italo Calvino.
Io mi avvicino a Koestler per studiare le possibili evoluzioni delle idee di potere e di rivoluzione. La personificazione dell’uno e dell’altra portano gli esseri umani a sottomettersi e ad immolarsi per cause assunte come indiscutibili e immodificabili. Il corredo di comportamenti maschili, come Rubasciov insegna, prevede la durezza, la resistenza ad oltranza, il cinismo, l’irreparabilità della scelta, la perfezione dell’azione, lo sforzo della vittoria, la certezza della risoluzione del dubbio.

L’ideologia è tale ed uccide perché instaura il processo di cosificazione di ogni persona. Ciò che manca alla stortura dell’ideologo non è l’intelligenza, ma l’amore. Nello stalinismo, nel totalitarismo, nel terrorismo di ogni colore, manca l’intelligenza sociale, manca il senso consapevole e condiviso della relazione e dell’esistenza. Quando vince il potere, quando vince l’idea a prescindere dal contesto reale, le persone perdono.

L’autoaccusa di Rubasciov che si dichiara colpevole di tutti i delitti che gli sono contestati si ferma all’ammissione di colpa verso il popolo e questo non basta a salvarlo e a salvare noi. Il dubbio, il malessere, il crimine non si possono valutare solo sul terreno delle idee fisse e del ragionamento binario del torto e della ragione. Il dramma è la complessità. La fatica consiste nell’ evitare le semplificazioni e le risposte maschie: da una parte la comunità operosa creativa onesta e accogliente e, dall’altra, alcuni gruppi criminali, la maggioranza buona, la minoranza cattiva. La guerra senza sconti continua a produrre folli, suicidi ed omicidi.

L’idea nuova è perdersi nell’energia relazionale che argomenta e problematizza, che integra la complessità, le luci e le ombre e che, infine, compie la rivoluzione simbolica promuovendo lo studio, la ricerca, l’intuizione, la capacità di essere prossimo, di sentirsi intimi/e. L’Analisi della Cultura e l’Educazione.

“Il fatto è: non credo più nella mia infallibilità. Ecco perché sono perduto.”p.86

“Sapeva per esperienza che la prospettiva della morte alterava sempre il meccanismo del pensiero e causava le più sorprendenti reazioni, come i movimenti di una bussola portata nei pressi di un polo magnetico.” p.43

“Bisogna trovare la causa della deficienza del Partito. Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono sbagliati. Questo è un secolo malato. Abbiamo diagnosticato la malattia e le sue cause con esattezza microscopica, ma ogni qualvolta abbiamo applicato il bisturi nuovi mali si sono sviluppati. La nostra volontà era pura e ferma, avremmo dovuto essere amati dal popolo. Ma il popolo ci odia. Perché siamo tanto odiati?” p.50

cutrufelli

Maria Rosa Cutrufelli, Il giudice delle donne, Frassinelli, 2016

cutrufelli

 

Dieci donne a chiedere, a resistere, a credere nel diritto di contare e di esistere socialmente, convinte che “…non ti guadagni soltanto il pane, con l’istruzione.  Ti guadagni la possibilità di vivere a occhi aperti”  (p.92). E, allora, ecco le maestrine, – diminutivo che sottende pregiudizi e svalutazioni – missionarie dell’alfabeto, girovaghe in tutta Italia, a rappresentare la disciplina, il nerbo della scuola.

Maria Rosa Cutrufelli, da molti anni e con diverse pubblicazioni, si interessa, studia e riporta, come in questo suo ultimo romanzo, alcune vicende fondamentali sulla strada della coscienza e della liberazione delle donne. Stavolta, ci accompagna a Montemarciano, nei primi del Novecento, nel periodo politico in cui accadeva lo scandalo dei popolari, in cui i cattolici stringevano l’accordo, considerato contro natura, con i repubblicani e i socialisti.

Un gruppo di maestre accoglie l’appello lanciato da Montessori e, di conseguenza, in paese diviene insopportabile la febbre del voto, la febbre delle donne giudicate malate di suffragismo. L’articolo 54 della legge elettorale lo recitava chiaramente: “…il voto è interdetto alle donne, agli analfabeti, nonché ai pazzi, ai detenuti in espiazione di pena e agli imprenditori che hanno subito una procedura di fallimento…”

Come ricorda il romanzo, Lodovico Mortara, nuovo presidente della corte d’appello di Ancona non ostacola e, anzi, offre alle donne la possibilità di scegliere e la libertà di raccontarla, la scelta, di argomentarla. Così diviene il giudice delle donne, unico essere umano a rappresentare la possibilità di una cultura del cambiamento e dell’apertura che ancora oggi stenta a manifestarsi.

È interessante, attraverso il lavoro della scrittrice, seguire lo sviluppo delle vicende di Alessandra, di Teresa, di Luigia, sentire la fatica, le idee, l’autorità, senza odio, per amore di sé e delle altre, in situazioni diverse in cui fa comodo a uomini spaventati che la donna rimanga timida e goffa, giacché “oggi pretende il voto, domani chissà” (p.72).

In una società confusa e in continua trasformazione, è certo, solamente, che le donne devono tacere, lavorare in casa, supportare, semmai, il marito, i figli, gli anziani, a garanzia della stabilità familiare. L’indipendenza lavorativa, economica e, prima ancora, psicologica, delle donne è vissuta come una minaccia per l’ordine sociale. La cultura prevede con certezza che il loro mestiere è sposarsi per accudire marito e figli. “Udivo di nuovo la voce furiosa di mio padre che sbraitava: <No e ancora no. Studiare va bene, è questione di civiltà, ma il tuo lavoro è il matrimonio! O vuoi fare la guerra agli uomini? Finirai sola come tua zia Clotilde>.” (p.9)

Ancora, negli anni ’80, io ascoltai questi discorsi, certo più sottintesi e meno imperativi, a coronare la mia laurea, come fosse un finale, come il limite massimo, come la moneta di scambio per poter fare da moglie ad un professionista! Il lavoro delle donne ha sempre umiliato gli uomini perché ritenuti incapaci di provvedere al loro mantenimento economico ma, in realtà, preoccupati di mancare il controllo. Ancora oggi sento voci di persone imbrigliate/i nel vecchio modello: fra loro c’è sempre una Vittima e un Persecutore, chi sceglie e chi si sottomette, chi vince e chi perde, chi è infelice e chi comanda, chi festeggia sguaiatamente e chi studia e riflette.

Tale professor Benanni, amministratore pubblico, urla convinto “con la pappagorgia tremante d’emozione: Le donne sono schiave della natura, non possiedono quel superiore spirito maschile che da sempre è, e deve essere, il cardine dello Stato.” (p.71) E anche don Peppo dal pulpito, definitivamente maledice: le donne oneste non si sporcano con la politica. Perciò le donne raccontate nel romanzo devono essere caute, proteggersi e farsi da parte.

Cutrufelli nel poscritto ricorda come “gli scrittori…sono come gazze ladre che rubano tutto ciò che luccica…E la realtà, i fatti, le cose realmente accadute, sono molto luccicanti” (p.250). Ed io ricordo a lei come le scrittrici sono gazze ladre, di più!

“A volte penso che Luigia sia un po’ come quei pesci che mettono nei pozzi o nelle vasche per spurgare l’acqua. Ecco: lei ripulisce l’acqua perché tutte, in futuro, possano nuotarci dentro.” (p.70)

Abbiamo bisogno di libri come questo e di donne che possano continuare a ripulire, con tenacia, con sapienza, rimanendo severe, gioiose e pazienti.

pink floyd

Gente di Via del Corno

 

Pratolini

Film “Cronache di poveri amanti”, 1954, Carlo Lizzani

 

Scorrono foto di blitz e di operazioni poliziesche: guardo il Male, che è sempre banale, mentre ammala persone nascoste dietro la necessità di obbedire. Esse rimangono, dopo il dovere eseguito, bestie braccate dai sensi di colpa che si manifestano in modi più deleteri perché non ammessi alla coscienza e, di conseguenza, non rielaborabili nelle angosce di morte che inducono. Guardo esseri umani schierati da una parte e dall’altra, al tempo stesso, vittime e carnefici, tutti in preda agli istinti di fuga e, maggiormente, di attacco, legittimati dai deliri di persecuzione, dalla identificazione del nemico, dalla difesa ad oltranza, dalla ossessione di vincere, adesso, ad ogni costo.

Sono indignata e, ancor più, mi interessa il pensiero sottostante che intravedo, il processo decisionale che predispone le azioni violente, perché rimandano ad una umanità intera con un pensiero e una visione da curare. Non ora e non qui io discuto la necessità politica dello sgombero e le politiche d’immigrazione e le buone maniere usate, forse, prima, per allontanare la pelle nera.

Molte volte, in situazioni calde, decidendo di cedere dinanzi a piccole azioni oscene, esprimo la volontà decisa di evitare la costruzione del primo anello di una catena, per non salire nella linea della violenza. Sono sempre guardinga, anche dinanzi ad accenni di azioni, in qualche modo, aggressive perché so della fragilità umana e della facile possibilità della deriva violenta. Sono determinata, dopo, schivato il pericolo, a ritornarci per pensare assieme, per litigare ancora sulle strategie, per ascoltare, per trovare soluzioni in territori mentali, all’inizio, imprevisti e imprevedibili.

Penso che no, un gesto piccolo piccolo di riconoscimento dell’alterità, come la carezza “buona” di un poliziotto, non basta. È fragile come un rèfolo di vento in un’estate infuocata. Colgo, però, il signum, la tensione flebile, intermittente, ma di direzione costante, forse anche inconsapevole, a governare con libertà, le divise e le difese psicologiche. In quanto psicologa devo scorgere e registrare anche il minimo segnale – attenta a non finire nel ruolo del Salvatore che si immola, senza che qualcuno lo abbia chiesto e, infine, senza riuscire a salvare, davvero, nessuno. Il lavoro di coscienza e di conoscenza di sé inizia proprio cogliendo l’attimo di mancamento dinanzi alle strutture rigide del vecchio copione. Mi basta un accenno, mi basta registrare il divertĕre, il prendere un’altra direzione rispetto al solco tracciato, per agganciare qualunque essere umano in una proposta di trasformazione.

Per chi, come me, pattuisce un accompagnamento verso gli inferi della propria coscienza, significa ritornare e smettere di perpetrare un delitto verso la propria persona, prima ancora che contro qualcuno/a. Certo, la formazione dona il meglio di sé nell’opera di prevenzione, ma quando si arriva alla difesa della propria pelle, i torti e le ragioni sono da ogni parte equamente divisi.

È prima della deriva, ab origine, che intervengo sulla cura di una cultura malata,  arroccata nella figliolanza e primogenitura con déi, ricordati nella mitologia greca, che vantano strumenti di potere come il ratto e lo stupro, adoperati come prassi.

La pulsione di morte è naturale nell’essere umano e i finali tragici di copione rimangono l’omicidio, il suicidio e la follia: urge organizzare un percorso formativo per interrogarci sulla morte. Non è vendibile, ma è necessario. Parto dalla educazione all’indagine dei sotterranei, perché ogni persona doni a se stessa una possibilità di rinascita. È un percorso che necessita della presenza della consulenza psicologica e filosofica, assieme.

Ridefinisco l’invito espresso con le migliori intenzioni, per la manifestazione del 28 agosto, da Ada Colau, sindaca di Barcellona che, in ogni caso, seguo e condivido. No tinc por, Non abbiamo paura. Mi piacerebbe che fosse: ho paura, ma scelgo di continuare a pensare e a capire. Dinanzi al male, dinanzi alla morte, l’invito non può mai essere a non aver paura e a reagire, quindi, come una divinità umiliata e non come una persona ferita e dolorante, com’è! Se non riconosco la paura, rischio di finire sotto gli ordini genitoriali Sii Forte e Sii Perfetto e sotto le ingiunzioni Non Sentire, Non essere Te Stesso, Non essere Sano che stanno a ricordare i copioni degli uomini e anche delle donne forti che non devono chiedere e cedere mai. C’è tanta paura da accogliere, per apprendere a proteggermi, per continuare a pensare e a costruire i cambiamenti. Take care of yourself. Intendo cuidar de mi mismo, a y sobretodo afronto mis miedos.

“Cronache di poveri amanti” è un romanzo che ho riletto ultimamente e che considero adeguato in un percorso formativo che preveda il divenire persona. L’umanità adolescente è bene che si avvicini con cura alla lettura di questa storia, pensata dal fiorentino Vasco Pratolini mentre, a Napoli, si occupa della sceneggiatura di Paisà, il film neorealista di Rossellini.

L’Autore scrive, dal ’40 al ‘46, nel periodo storico del fascismo, ma il romanzo consente riflessioni a posteriori sui fascismi, cioè sulle idee fisse di una società onnipotente e inumana che punisce e produce dolore e morte. Padri come tiranni, mogli come serve offese e vendicative, amanti vittime di violenza, figli e figlie tristi e nemici/che, madri sovrane, padroni che possiedono le vite degli altri senza governare la propria… e la Signora, cattiva quanto infelice, che “segue il proprio destino da superuomo”.

Studiamo il racconto semplice dell’evoluzione complessa di una comunità di Via del Corno, a Firenze, la crescita dei suoi uomini e delle sue donne nei sentimenti, nei pensieri, nelle azioni decise.

Conduciamo vite piccole da cornacchiai, fragili e prepotenti, riconosciamo i nostri Angeli Custodi, moriamo nelle nostre “notti dell’Apocalisse”: un’occasione ancora, a capire la Storia di cui siamo comunque partecipi, a soffrire le storie personali, a scegliere come vogliamo diventare.

“Cambiar pelle non si può: occorre una volontà riservata a pochi. Solo i santi vi riescono, e qualche volta i poeti. Coloro, cioè, che credono veramente in qualcosa di eterno. Il suicidio è più facile, è alla portata di ogni intelletto medio. Ma per suicidarsi occorre non volersi bene, o volersene troppo. Bisogna credere, altrettanto veramente, che la vita non possa offrire altre gioie. Pure che queste gioie sarebbero inaccessibili o misere qualora restassimo in vita. Rari sono i Santi, più rari i Poeti. Il numero degli intellettuali medi che un giorno si accorgono di essere giunti al loro fallimento morale è, invece, sterminato. E i suicidi, al confronto, uno zero. Si apre allora ai nostri occhi, una terza strada, che è l’unica sulla quale sappiamo di poterci avventurare poiché è quella che ci ha condotti dove siamo. Si tratta soltanto di correggere il nostro passo che finora è stato faticoso, ed ha finito con l’avvilirci perché camminavamo ai margini, tra i sassi e gli sterpi che la nostra coscienza accumulava – e tutte le pietre miliari erano nostre, tante ferite al cuore! Ora, invece, decidiamo di battere la via maestra, quella sulla quale camminano milioni come noi, e di tenere lo sguardo fisso all’orizzonte. Era pur quella la mèta che ci prefiggevamo: e camminando spediti <sulla buona strada> che la raggiungeremo. Vi sono, naturalmente, anche su questa strada ostacoli e barriere, ma ci apriremo il varco assieme agli altri, e getteremo le macerie da una parte: le macerie che quando procedevamo da soli, ai margini della strada, ci ostruivano il cammino, con i loro dubbi e rimosi! Così facendo, un uomo tradisce, sì, se stesso, ma una volta per sempre. Dopo di che avrà finito di fingersi. Attaccandosi a questa certezza, con la disperazione del naufrago, toccherà subito la riva della persuasione, si sarà autenticamente trasformato. Non si ricorderà più quello che egli era. E non perché non vorrà ricordarsi, ma perché davvero non si ricorderà. Avrà, a suo modo, cambiato pelle, e creduto di conservare intatto l’Ideale. Che gli sembra lo stesso eterno, ma che invece è caduco, come il suo corpo, poiché è diventato un ideale accessibile al suo corpo. Ora egli è certo di arrivare alla mèta. Di arrivare si tratta. Arrivare cioè al giorno in cui si incontrerà con la morte, che oggi ha rifiutata siccome la vita gli offriva delle gioie che meritavano di essere godute: sono gioie semplici, umane come onesto e semplice è stato il suo spirito. Alla vita noi chiediamo il successo del nostro lavoro, la felicità familiare, l’affermarsi dell’Idea in cui abbiamo sempre creduto e per la quale abbiamo sempre lottato e siamo arrivati al limite della disperazione. Ma non domandateci le cause di codesta disperazione, si tratta di una cosa che non c’è mai appartenuta. Del nostro passato noi ricordiamo soltanto ci che ci concilia col nostro presente, e che serve al nostro avvenire. E siamo sinceri, adesso, disperatamente sinceri. Non chiamate tutto ciò vigliaccheria: dimenticare è l’aiuto che ci offre la vita, perché la viviamo.” (V.Pratolini, pp.365/66)

 Riferimenti bibliografici

  • Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, Bur, 2011
  • Ada Colau, la città in comune, Alegre, 2016
  • Di Vittorio, A.Manna, E.Mastropierro, A.Russo, a cura di, L’uniforme e l’anima, Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, ed.Action30, 2009

 

Editing: Enza Chirico

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Libertà di follia

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Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, Oscar Mondadori, 1963

Mario Tobino è stato medico nei manicomi, poeta e scrittore, ed io recupero questo suo prezioso romanzo, pubblicato nel 1953, grazie alle ricerche di Ina, una giovane collega e archeologa di libri.

La pazzia è davvero una malattia? È una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo?
La scelta diaristica dell’autore offre al romanzo un valore di testimonianza, una valenza politica. Con una scrittura lirica e popolare, Tobino racconta, con sguardo e parola di carità, la quotidianità delle matte nude e sole, senza che avvertano la solitudine e la nudità. Donne che, a causa della follia, hanno usato l’amore, la mancanza, la solitudine, il corpo, per farsi male, per evitare la felicità dolorosa dei conflitti nella relazione e nel mondo.

È una musica di grida e di lamenti, per confrontarsi con la realtà, per continuare ad amare il lavoro di psichiatra. La follia è una malattia della quale “non si sa l’origine né il meccanismo” e, per poterla dire, bisogna frequentarla e coinvolgersi nelle esperienze che di essa recuperano le ombre da cui origina.

Tobino esprime gratitudine verso la follia e verso quelle matte che, ad una ad una, riconoscendolo, lo riportano al senso della sua professione e che, ancor prima, lo confermano nell’accettazione di un’umanità diversa. Per le persone sane è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli, quindi, di vederli, di capire, di ricordare. Dopo, molto più tardi, arriverà il ’68, noi conosceremo Franco Basaglia e lo psichiatra americano che lo ispirò, Thomas Szasz, conosceremo Bruno Orsini e la legge 180 che ha reso l’Italia l’unico paese al mondo, ancora oggi, che ha scelto l’abolizione del manicomio psichiatrico.

Il manicomio di Magliano è un piccolo mondo antico, tenero, povero e romantico, dove la chiusura è protezione, giacché fuori, nel dopoguerra, c’è ancora la fame, l’ignoranza, la paura, l’ingenuità dinanzi all’oscuro potere. Il racconto della quotidianità sofferente è triste e compassionevole. Il paternalismo che riconosco, l’atteggiamento bonario e benefico, lo sguardo di benevola concessione di Mario Tobino rappresentano un primo passaggio obbligato nella lunga strada che ancora compie la moderna psichiatria.

La malattia mentale esiste. Come la comunità riconosce le persone malate di mente e come se ne prende cura? Ancora oggi, queste scelte, continuano a fare la differenza, in una organizzazione civile. La follia è, in fondo, quello che una società decide di farsene di essa, nelle sue diverse espressioni: opzione di libertà oppure incapacità di produrre, spazio e tempo di creatività o diversità oscura e nemica, bellezza difficile o inutile sopravvivenza.

“La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare.” p.14

“Non si vuol considerare che i sentimenti sono il più grande ed emozionante mistero, quelli che ci uniscono per un golfo sotterraneo con qualcosa di divino, con un Dio che non abbiamo mai visto ma sappiamo esistere e ci fa paura. Gli umili di mente con Costui di continuo conversano senza saperlo, e poi come bestie satolle se ne stanno pacifiche a digerire. I poveri di mente seguon le più povere leggi, le elementari e, se le cose si svolgono secondo la regola, stanno tranquilli e ignoti tutta la vita. Quando anche in queste povere leggi li ostacolano, dopo avere a lungo sopportato, manifestano ingenui deliri, a causa dei quali vengon ricoverati al manicomio… I poveri di mente nascono in ogni paese e qui, al manicomio di Lucca, provengono da sperduti cascinali, provengono dai lavori della campagna, dei quali ancora portano sulla pelle l’acuto odore, e negli occhi mantengono la stupefazione perché sia avvenuto così: perché abbiano impedito le loro leggi elementari. Il patrimonio di costoro è esclusivamente composto di sentimenti, che in loro non sono mescolati al peccato ma rappresentati da: amore per loro stessi, amore verso gli altri. I deboli di mente, i fragili di spirito, parlano e vivono come tutti gli altri, soltanto sono incapaci a immaginare e attuare consapevolmente il peccato.”
p.178-79

Scuola di Ipazia

Consulenza e Formazione in azienda: riparto in prima, in salita

Scuola di Ipazia

1.L’esperienza attuale  

“… le parole, sai, sono come gli odori, quando non ami più l’odore di qualcuno è semplicemente perché non lo ami più. Così, quando non ami più le parole, è perché ti stai staccando dalle cose che queste rappresentano”.

Michela Franco Celani, La casa dei giorni dispersi, Salani, 2009, Pag.98

 

Trentacinque… cosa misurano trentacinque anni di professione? Sono un attimo di respiro, un credo gioioso, un’amarezza infinita. Vivo ancora, da psicologa aziendale, nella militanza e, quasi, in clandestinità. Ho una vita professionale da precaria, ma non sono una precaria dell’esistenza e questa convinzione, finora, ha garantito la durata e il valore delle mie attività lavorative. Mi chiedo, oggi, se il precariato coinvolga solo lo stato lavorativo o rappresenti, invece, una condizione ontologica. Mi chiedo quanto sia possibile che il mio essere stesso si modifichi, sia per la mancanza di comprensione nelle aziende che a causa di chi chiede, di chi partecipa, di chi nega. Le quattro aree di indagine e di applicazione, consulenza, formazione, selezione e valutazione, sono interdipendenti e riguardano un’unica professione. La progettualità adulta chiede la pre-visione a breve, a medio e a lungo termine giacché, dove manca la proiezione di sé e l’organizzazione nel futuro, anche prossimo, non può darsi alcuna attività vitale consapevole. Scrivere e render conto è per me strumento di assistenza durante la trasformazione.

Negli ultimi anni, incontro un’umanità diversa, ammassata in locali spesso fatiscenti e inadeguati. Incontro individui forzosamente arrampicati su sgabelli di fortuna oppure comodamente seduti in alberghi estranei, a riempire stanzoni anonimi e pretenziosi, animati da innovazioni tecnologiche, sempre le ultime e quindi, già in odor di morte. I luoghi inadeguati della formazione rivelano il decadimento di una professione che necessita di rivedere tutto radicalmente. Sento chiamare con il nome di Formazione le modalità di sopravvivenza di quattro cialtroni che hanno immaginato la frontiera dell’ultimo business, dichiarando la resa davanti al significato profondo di un qualunque intervento che abbia luogo in una organizzazione definita.

Non sono perdente, ma spesso ho perso e in questa sconfitta avverto una dignità e un orgoglio che non sentirei in una vittoria – rispetto a cosa, poi?

Formattore, brain coach, allenatore emotivo, esperto della felicità, personal trainer, problem solver, motivatore, deprogrammatore. (Quest’ultimo, negli USA è il consulente a cui vengono affidati i soggetti sfuggiti alle sette e che per una settimana vive e interagisce continuamente con il plagiato). Ciascuno di essi è un soggetto, quasi sempre maschio o maschia, diplomato, più o meno quarantenne, licenziato dall’azienda in cui era occupato, con l’idea fissa che la consulenza e, ancor più, la formazione prevedano un generico talento affabulatorio, in realtà concionesco, a raccontare qualcosa in pubblico. Dispensatore di nozioni feticcio, preda di pigrizia intellettuale e divulgatore da social, egli azzarda formule con slide patinate raccolte e immortalate come seme pregiato. La sua faccia è su facebook settimanalmente e quotidianamente condivisa con suonata assolo, con l’aria di chi la sa lunga, lanciando suggerimenti banali che chiama pillole, termine chiaramente trafugato al campo medico. Talvolta è il laureato più o meno confuso ad essere autorizzato all’utilizzo di metodi e di tecniche al confine con l’abuso della professione di psicologo. Molte società nascono avendo come fine il denaro e forniscono al mercato personaggi simpatici, grintosi, affascinanti, seducenti, coltivatori di hobby ed entusiasti delle novità. Telegenici.

Mi rammaricano le gesta di colui, considerato valoroso, un self made man che s’inventa un lavoro, del riciclato con il copione non perdente e non vincente, in rabbia di rancore o di sfida. Assisto all’apparizione approssimativa e sventata del senzamestiere che, rumoroso e colorato, si butta indifferentemente nell’arena targata GRU come docente, formatore, selettore, come esperto. Il più discreto nell’uso di titoli e onorificenze si presenta come tecnico, dimenticando che la téchne, dal greco τέχνη, è l’insieme delle norme applicate e seguite in attività intellettuali o manuali e che, necessariamente, prevede il pensare e il progettare, l’essere coscienti e conoscenti. La teoria, quindi, è la pratica e l’una non è data senza l’altra.

Nelle aziende, gli interventi alla docilità prevedono il domatore, il giocoliere che, sempre e inconsapevolmente, nelle persone, facilita l’adattamento in una nicchia senza libertà e tramite un automatismo a favore del potere di turno. Gli applausi, i sorrisi compiacenti producono, in aula, forme di assuefazione e seduzione e, di conseguenza, costruiscono stupidità collettiva. L’omologazione, la riduzione a modello, la schedatura sono espressioni di potere e di controllo su blocchi di candidati e mai divengono strumenti per capire l’adeguatezza della persona e la sua crescita eventuale all’interno dell’azienda considerata. Il comico, il giullare di corte finisce per intrattenere un pubblico che non vuole fare nessuno sforzo di pensare e che non vuole angosciarsi con i dubbi, le scelte e le domande. Ricordo l’infantile stato di sogno dell’uomo-massa di junghiana memoria.

Rilevo l’emergenza e prendo contezza che così non è, che così non si propongono la Consulenza e la Formazione semmai le si denigrano e le si annullano. Le costruzioni ideologiche sono rese possibili grazie ad un attuale impoverimento progressivo degli studi intorno ai processi consulenziali e formativi. Ogni intervento fallisce, se si adatta al mercato del lavoro, se lo compiace, se si giustifica e si mortifica davanti all’ideologia del dominio e del controllo, all’economia che paralizza, al principio di prestazione, alla tecnica che riduce tutto a strumento di gratificazione di soggetti senza coscienza. Concordo con Luigi Zoja: Il male non deriva da una cattiva intenzione, ma da una mancanza di consapevolezza.

Accolto l’altrui sospetto dell’aria snob e accademica di me, perché dedita allo studio e alla ricerca continuativa, affermo che l’impegno nell’area della GRU non può essere considerato un espediente per tirare a campare. Mi dispiaccio e sorrido quando qualche pisseur de copie, girandomi intorno, strumentalizza neologismi, ricerche, progetti. Offro pagine scritte con generosità a chi me le chiede, ma ne riconosco presto le inopportune caricature, sotto immagini ineccepibili di ottime grafiche pubblicitarie. Penso che, dopo aver riutilizzato il termine, la frase, le pagine del programma, rimanga un copiaeincolla che costruisce e agevola solo operazioni di vendita del pacchetto formativo. Viene a mancare il processo, la fatica della ricerca, il pensiero che sostiene e legittima l’uso di una parola e di un programma. Ascolto poche idee copiate, incollate e rimescolate e così divido il mondo in professionisti/e che studiano e orci da salotto.

Insistendo, alcuni operatori di marketing mi chiedono di evidenziare la caratteristica distintiva per convincere i/le clienti ad acquistare servizi da me e non da un altro. La mia risposta è che non lo so, visto che propongo progettualità acquistabili, ma non vendibili e riproducibili. Rispetto alla consapevolezza di sé, le attività di consulenza e di formazione non possono essere vendute. Il focus è sulla responsabilità, sul desiderio, sulla richiesta di ciascun/a cliente di essere accompagnata/o per capire e per migliorarsi. La consulenza e la formazione propongono sistemi di significato e non pacchetti da vendere.

Il programma formativo si avvia e procede perché in azienda e in aula ci sono persone interessate alla coscienza e alla conoscenza di sé. Il resto è magia ed è manipolazione. È abuso di potere. Vale la certezza che Luigi Zoja sottolinea:

Il cuore dell’analisi (della consulenza/formazione: n.d.r.) è etico: si propone di combattere la menzogna, prima di tutto quella che raccontiamo a noi stessi. L’etica dell’analisi non è dunque un espediente per dare rispettabilità alla professione. È una presenza originaria. (L.Zoja, op.cit.p.7)

Il cinquanta per cento di responsabilità fra le persone coinvolte, è l’atto fondativo di ogni contratto consulenziale. Il cinquanta per cento assume valore di sacro e di sano. Ogni volta che offro o ricevo, senza averlo stabilito, di più o di meno, mi ricredo: non serve. In qualunque relazione, il cinquanta per cento di responsabilità, garantisce la pulizia da ogni gioco psicologico. La relazione paritariamente con-divisa è pulita perché è liberata ed ab-soluta. Il cinquanta per cento significa che c’è l’intenzione, l’impegno, il patto a favore dell’autonomia di sé e della testimonianza credibile. Il contratto psicologico.

Garantisco il lavoro di lettura, di comprensione, di ripensamento, di valutazione dell’esperienza, coinvolta nella relazione onesta con la committenza. Con queste premesse, chi sceglie di affidarmi la cura di sé, dei/lle dipendenti e dell’azienda è già in cammino sulla strada del cambiamento. Il discorso intorno alla consulenza e, a seguire, intorno alla formazione, valutazione e selezione, è etico ed è personale, prima che economico e produttivo. Appartiene, cioè, alla storia di ciascun essere umano considerato. Per proporsi come consulente è necessario essere una persona onesta, radicale e competente.

L’idea di complessità, dopo decenni di utilizzo, è scaduta in una forma sincopata e superficiale che prevede di tenersi tutto, come nel peggiore relativismo. La scelta che dichiara: in medium stat virtus, scade nel compromesso italiota, nella mediazione inadeguata, forzata che fa l’occhiolino ad una visione compiaciuta e silente del divenire organizzativo, nonostante i sintomi dichiarati. Si media, proponendo contenuti e modalità che piacciono un po’ a tutti, perché manca il coraggio di rimanere nel conflitto. La formazione che non è legata ai processi produttivi è ritenuta astratta.

<Commerciale e tangibile> <più sales>, corredate da richieste <tipo?> <in pratica?> <concretamente?>: spesso, sono proposte che rimandano ad agglomerati di tempo a chiacchierare, senza visioni e contenuti e a prezzo altissimo o bassissimo. Infatti, il disturbo, il male, è sempre nell’esagerazione, in un verso o nell’altro. Io invito a spostare lo sguardo dal denaro alle relazioni, dal profitto al bene comune, dal mercato alla vita. Alla Persona.

Ancora, molti scambiano la metodologia sperimentale con l’animazione da villaggio turistico. Barca a vela e zattere, caccia al tesoro e camminate sui carboni, arrampicate sull’albero della cuccagna, mise en scène e attrezzature da giovani marmotte.  Un’ammüìna in cui si cucina allegramente, si coltiva la terra, si fanno costruzioni, si ride. Raccontano che queste dinamiche di gruppo facilitano il senso di appartenenza, la leadership, la capacità di negoziare e di vendere, la creatività. Sono lontana dalla concezione che la formazione debba cercare consensi solerti e applausi che anestetizzano i/le partecipanti. Tutto il teatrino che rimanda ad una metodologia esperienziale ha necessità, prima di essere praticato, di chiarire il fine e lo scenario di riferimento e, in ultimo ma non ultimo, il senso.

Perché dobbiamo frequentare corsi di leadership, di vendita, di lavoro di gruppo, di autostima? Per essere funzionali ad una struttura aziendale ordinata dagli uomini e dalle donne del vecchio patriarcato? E perché mai le donne, in azienda, dovrebbero voler diventare come gli uomini, pur di essere viste? La creatività, l’autorità, la capacità di vendere sono modalità possibili dell’essere quello che si è, in libertà, attraverso la coscienza di sé. Senza ragioni trasparenti e condivise durante gli incontri di consulenza, rifiuto la pratica formativa che chiede di diventare leader o creativa o empatica, di saper lavorare in gruppo, perché fa comodo a qualcuno o per asservimento ad una dottrina facilitata.

A questo punto, la tolleranza rispetto ai consulenti/formatori da banco non può sfiorare la complicità.

 

2. Nuovo inizio, Rivoluzione

 Audacia non significa spericolatezza, temerarietà, ma parresìa, cioè libertà, franchezza di parola, capacità propositiva di dire le cose. C’è un’espressione molto bella negli atti degli Apostoli, là dove si dice così: “Pietro andò, si alzò in piedi, insieme con gli undici e parlò ad alta voce”. Questa è la parresìa: alzarsi in piedi, avere il coraggio di parlare, insieme con gli altri, non come battitori liberi, non come frombolieri d’assalto che vanno avanti, ognuno per conto proprio. Il coraggio consiste soprattutto nel coinvolgere gli altri a parlare, come gruppo, come città.

Don Tonino Bello

 

L’insofferenza per la frantumazione del ruolo e l’indignazione per la strumentalizzazione e la propaganda ideologica in atto sono momento di partenza per una riflessione intorno alla professione, nel pensarmi e nel propormi alle aziende. La psicologia, applicata alle organizzazioni, come ogni disciplina, concede peregrinazioni, ma non imitazioni.

Le pagine scritte assumono valore di parresìa: scelgo di dire tutto, con lealtà, senza ornamenti, oltre il politicamente corretto. Io dico quello che la consulenza, la formazione, la selezione e la valutazione sono e, anche, quello che non devono essere. Io dico, con libertà di critica, specie nei confronti del potere, avviando un pensare comune, anche se mi espongo alla ritorsione. Mi sento socialmente corresponsabile e sono preoccupata di divenire connivente con le cattive attività nella gestione delle risorse umane. O con ciò che ritengo tale e forse per altri/e non lo è: ma questa è una ragione in più per parlarne con chiarezza e per sollevare questioni di verità.

Ricordo Maria, responsabile di formazione, che strumentalizza e si coalizza con gli “alunni” contro “la professoressa troppo severa che ce l’ha con me”. Oppure Francesco, altro responsabile, che richiama continuamente persone per emergenze, perché vinca la convinzione che il lavoro è più importante della formazione, pur avendo scelto di proporla nella sua azienda. E poi Antonio: “non credo agli psicologi!” e, ancora, Alfredo: “Facciamo la formazione sui dipendenti, ma io non c’entro” e Salvatore: “Non posso aspettare i tempi lunghi della formazione”. La formazione diviene volgare quando è preceduta da un pensiero volgare, escludente, cieco, disumanizzante. Il contrario è un pensiero che talvolta tace e, quando si manifesta, appare povero, essenziale, nudo, a servizio.

In quanto solitaria, preciso che le persone mi piacciono e nel contesto prostituzionale allargato, scelgo di rompere con la tradizione e i luoghi comuni, con le parole abusate, riproponendo un ritorno alla cella, al romitorio, come origine, come realtà nella consulenza aziendale.

Il tentativo di molti/e colleghi/e più giovani è di compiacere, rimanendo nelle aziende sempre dalla parte giusta, furba, della storia. La differenza è nell’assumere su di sé il rischio del cambiamento, la responsabilità di non fare finta, lasciando immutati gli organismi parassitari.

 Ancora una volta è importante essere etici senza sentirci dalla parte <giusta>, ma situandoci nella zona grigia della complessità… questo atteggiamento etico dovrebbe sforzarsi di essere non irrealisticamente puro, ma <sufficientemente buono>( L.Zoja, op.cit. p.18)

Nell’aula formativa o nel primo appuntamento con il/la cliente, non si tratta di creare un’atmosfera, ma di creare una relazione trasformativa. Il destino più triste che mi possa capitare è di non far male a nessuno, quindi, di essere inutile e invisibile.

Il ricordo goethiano Stirb und werde, muori e diventa, è l’esercizio di senso della ricerca che propongo. “Non voglio farti soffrire” è la frase peggiore che recita il nonamore. Nessuna persona si augura di sentire male, di morire dentro per crescere e per cambiare ma, certo, gli ostacoli e le ferite si rivelano come spinte per il rinnovamento, attraverso una lettura adeguata. Nella crescita c’è sempre un commiato, un partire da posizioni vecchie, comode, scontate verso la trasformazione.

È resistenza l’insistenza inconsapevole nel già vissuto, la convinzione di essere nell’unica possibilità, senza altre vie d’uscita. È protezione di sé il permanere consapevole in territori noti, dichiarando e patteggiando con noi stesse/i e con la guida professionista, i tempi e i modi di cambiamento, riflettendo sulle conseguenze, mentre ci facciamo coraggio, rivolgendoci a noi stessi/e con gentilezza e pazienza. La protezione di sé è curare le ferite perché, pur restando aperte, diventino feritoie osmotiche.

L’amore in senso politico non esprime una vaga emozione, ma si manifesta come un’azione, predisponendo un sistema, basato non solo sul profitto, ma sulla cura, sull’assistenza, sulla compassione verso la comunità. Il lavoro di cura non nasce solamente all’interno dei movimenti femministi ma, certo, la maggior parte delle volte, è declinato al femminile.

Riconosco consulenti da una parte o dall’altra e tutte/i interi. L’emarginazione, la solitudine, l’incomprensione sono la misura della radicalità del ruolo da me rivestito di cui oggi avverto la necessità. La proposta è lontana dalle tendenze dominanti easy, smiling e carefree, facili e sorridenti. Le incomprensioni che dichiaro con i/le clienti e i/le colleghi/e che riconosco tali richiamano alla mancanza di chiarezza su etica e morale, su visioni antropologiche e non riguardano semplicemente la scelta legittima di metodi e strumenti diversi. Sempre più spesso mi imbatto in un utilizzo illegale della legalità nei territori della formazione.

Rilevo una malattia della cultura aziendale che chiamo scotoma della formazione intesa come cammino di analisi e di cura. Scotomizzare è una forma di svalutazione che rimanda ad un allontanamento, ad una originaria difesa, alla paura davanti all’ipotesi di un possibile svelamento di sé. La mia presenza professionale è delegittimata attraverso le assenze, i pregiudizi, le attese magiche proprio da parte dei responsabili che favoriscono la diffusione di atteggiamenti di sospetto e di evanescenza della realtà.

La cultura aziendale può ammalarsi di nevrosi: quando questa è inconsapevolmente autoreferenziata, centrata su di sé e serve solo a chi la comanda e a chi la gestisce; quando è inadeguata in una situazione definita da persone reali; quando dice parole, spesso in inglese, senza fornire lo spiraglio per entrare in relazione, quando riproduce una foto statica di un momento altro dalla realtà, travisata dal senso comune. Vedo le vecchie parole della formazione e sento il loro malessere: empatia, ascolto, motivazione, bisogno, problem solving, brainstorming, out door, sono termini che hanno già dato e che hanno diluito il significato iniziale. Percolando ai livelli più bassi si disperde e si vanifica ogni significato. Io sostituisco queste arma laboris con lo studio di parole per ripensare e condividere nuovi assi culturali: per esempio, realtà e contesto, persona, respiro e corpo, educazione, linguaggio, antropologia, orientamenti e prospettive, etica, estetica, indignazione, rivoluzione culturale, rivoluzione simbolica.

Quando ho iniziato ad occuparmi di formazione, nelle aziende italiane e nei master, giravano maggiormente elementi maschili e tecnocrati. La mia proposta era accurata e seria, ma mancava di autorità maschile, era diversa per contenuti, destruens per metodologie, per strumenti utilizzati in aula. Era me! Con l’esperienza maturata, penso che, prima ancora dei contenuti, delle metodologie e degli strumenti, la diversità del mio lavoro in aula era, fin dagli inizi, rispetto ad altri, nelle visioni di vita e di lavoro e, di conseguenza, nel cammino da compiere. Degli esperti che richiamo alla memoria, riconoscevo l’esperienza, la ricerca, la disciplina, nella presenza professionale e nella pratica quotidiana, ma continuavo nella mia opera di rivoluzione di donna, di psicologa, di consulente. Quasi sempre erano maschi o erano donne maschili e proponevano interventi contro il potere attraverso il potere della formazione, infatti, tutti/e, non vedevano l’ora di poter giocare <a psicologia>. Ero sempre in conflitto e a rischio di sostituzione, da parte del committente, dei miei moduli didattici.

Nelle organizzazioni, i risvegli delle menti e la consapevolezza che rende ogni persona culturalmente attrezzata sono un rischio di esclusione. Si tratta di intenderci su domande iniziali: per quale società, per quale uomo e per quale donna nasce e vive l’organizzazione aziendale? Prima di ogni contratto, bisogna che committente e agenzia formativa, si intendano su una idea comune rispetto a quale persona/cittadino/dipendente contano e quale senso abbiano gli eventuali interventi dell’agenzia con le umane risorse.

L’essere neutro, applicato alla formazione, offre solo la possibilità di diventare in qualche modo celebrità qualsiasi. La diversità di genere, invece, consente di capire, scegliere e dosare le parole, alla fine, le uniche adeguate, intorno alla formazione; parole che fanno cadere il sipario dell’eterno spettacolo, della finta allegria, in nome di successi e di forze finte, oltre i mondi aziendali soli, vuoti, squallidi e retti da forti poteri patriarcali e manipolativi.

Credo nel divenire della persona tutta intera, non nonostante, ma attraverso le variabili genetiche ed ereditarie, ambientali e sociali, casuali e di scelta personale.

Il moto interiore è indispensabile momento iniziatico per avvicinarsi alla consulenza. Cerco di scorgere nell’altro/a che si avvicina e a cui io vado incontro, una gioiosa attenzione, un orientamento anche generico alla ricerca, una inquietudine di base. La vera prima mossa è lo scatto interiore, il sentimento del cambiamento, la messa a fuoco dei desideri, delle mancanze.

Incontro donne e uomini che spesso non ricoprono ruoli apicali, ma che si manifestano pensosi/e, interessati/e seriamente a capire, incontro persone studiose, che credono ad una severa disciplina della mente. Le parole scambiate in uno spazio formativo hanno un valore perché corrispondono alla tensione interiore di ciascuno/a. Se non vengo riconosciuta come e nel ruolo, rischio di perseguitare, di dover continuamente giustificare la mia presenza, di scusarmi per i miei interventi, di chiedere il permesso di confrontare.

 3. La schivata: a sottrarre, a proteggere

Nel mondo di oggi, la disparità dei rapporti di forza invece di diminuire sembra crescere e ci espone alla violenza che nasce dentro e che cade addosso. Dobbiamo riequilibrare le forze, prendere in mano nostra tutte le nostre forze personali per creare un equilibrio, per non trovarci esposte passivamente allo strapotere dei media e dei soldi…

… Togliersi dalla fascinazione terribile della strapotenza. Bisogna spostarsi di lato. Il debole può spostare la posta in gioco in un altrove che non è più nella mira della forza dell’altro potente. Io la chiamo la schivata. Togliersi dalla mira del di più, del di meno, dell’invidia e del rancore…è la potenza di essere tutto ciò che è. Non imbrogli, non miraggi, non inganni. Questa forza, la vita e le cose, ce la comunicano quando riusciamo a vedere, a sentire e a significare con parole vere… L’azione tempestiva è l’azione giusta nel momento. Lo strapotere sente che noi ci siamo. Che lo senta. Costringiamolo a contenersi altrimenti non fa che crescere… Politica è sostituire i rapporti di forza e lo schiacciamento con rapporti tra esseri umani che siano liberi e felici.

Luisa Muraro, gennaio 2017, intervista di P.Columba  

 

Il traguardo è prima. Voglio dire che, per ciascuna persona, avanzare significa, anche, andare indietro, in profondità, a capire le origini e le ragioni. Parlo dell’attitudine all’analisi personale come prevenzione sana, diversa dalla psicoterapia che cura il disturbo emerso. È necessario un accompagnamento che consegni filosofie, metodi, strumenti e che supervisioni, all’inizio, il lavoro di presa in carico di sé, di autocoscienza.

Ho pensato alla Scuola di Educazione alla Persona come un luogo e un tempo dedicati, in presenza di una guida, alla comprensione del proprio copione, dei propri giochi psicologici, del system racket che sottende ad ogni esperienza esistenziale infelice. È una possibilità per predisporre, per orientare, per schivare le traiettorie previste dal potere che ingaggia la guerra, che misura, che va a vincere perché qualcuno perde e muore. Questo potere fagocita e mente, paga e ricatta, sottomette in modo grossolano e sottile: sancisce un obiettivo comunemente inteso come una méta prestabilita da raggiungere, una finale che prevede sempre un vincitore, un secondo, un terzo e i perdenti.

La Scuola rientra nelle scienze sociali, nelle scienze umane, Geisteswissenschaften (Dilthey) e, attraverso la comprensione di sé e degli altri/e, vuole superare il maschilismo e l’esercizio della forza, l’acriticità e l’ideologia retriva che da essi derivano.

L’Educazione alla Persona è un’azione efficace che precede l’eventuale processo formativo, rappresentandone l’elemento costitutivo e anticipandone le evoluzioni. Essa guida tra negazioni, nascondimenti, menzogne e difese, giacché divenire coscienti delle personali modalità di abitare il mondo ha un fine etico per ogni persona. La formazione, in seguito, attiverà i processi e amplierà la ricerca comune.

La Scuola propone un percorso antico, rivoluzionario e realistico restituendo letture diverse rispetto alla realtà, creando tempi e spazi di relazioni, perseguendo una conoscenza trasversale. Educare alla persona è scuola d’arte, artigianale, di accompagnamento, un servizio alla crescita che attraverso l’uno/a, ricade su un’intera comunità. L’educare non offre soluzioni immediate, perché indica prospettive non rispetto ad un problema, ma ad una situazione contestualizzata, valutata come opportunità di apprendimento.

Non si tratta di credere o di non credere, genericamente, nella Educazione alla Persona, di considerarla come un tempo sospeso o perso rispetto all’attività lavorativa, non si tratta neanche di aver avuto in passato esperienza più o meno significative con faccendieri occasionali. Richiamo l’attenzione sul senso e sulla funzione dell’Educazione alla Persona, prima di ragionare sulla figura professionale che ne deriva. La Scuola di Educazione alla Persona si fa strumento indispensabile nella costituzione, nella diffusione e nella continua trasformazione della cultura all’interno di un’organizzazione. La Scuola non è indipendente ed è in debito di riconoscenza con le maestre e i maestri, con le persone incontrate, con i libri studiati, con le letture che non si arrendono ad una immediata comprensione.

Ogni incontro di Educazione alla Persona richiede la presenza, senza interruzioni, dei/lle partecipanti, perché riconosce l’apprendimento nella interazione, nella relazione che va accadendo in presenza. Non è possibile, quindi, recuperare con appunti, schede, materiali didattici diversi che, pur se importanti, escludono il vissuto personale nella situazione. La dinamica di gruppo è il viaggio che, attraverso la comprensione e il coinvolgimento, avvia il cambiamento e dà senso all’incontro formativo. Quello che ciascuna persona sente, pensa e decide di agire nel gruppo rappresenta motivo di analisi e di lettura.

Il cammino più o meno lungo proposto dalla Scuola di Educazione alla Persona si interessa di relazioni nella diversità di genere ed è una permanente proposta di apprendimento per conoscere e per governare se stessi/e in compagnia degli altri e delle altre, inseriti/e in un contesto sociale e lavorativo. La diversità di genere coniugata con l’educazione alla persona è un modo per abitare il mondo e il mondo del lavoro. È un lavoro sulla struttura e sulla funzione. Di cosa parliamo quando parliamo di donne e di uomini? Per quale vita sociale, lavorativa ci prepariamo? Per dialogare con chi? E su cosa?

In ogni situazione aziendale, la scommessa della Scuola di Educazione alla Persona è dare un senso collettivo a quello che avviene. Viviamo la vita attraverso una forma di rappresentazione della vita stessa, attraverso un filtro, una chiave di lettura che riporta alla storia personale di ciascuno/a. La nostra mente ha una base immaginativa, mitopoietica. È indispensabile ripartire da una fenomenologia dell’esperienza, che significa la possibilità di tornare alle cose stesse. Infatti, il senso di ciò che ci accade è direttamente collegato al fenomeno: se non smontiamo il sistema di credenze è difficile che venga fuori una visione originaria delle cose.

Continuo a preferire rispetto ad una formazione di base, che chiamo Educazione alla Persona, uno/a psicologo/a regolarmente iscritto/a all’albo, con un percorso di crescita e di analisi personale di almeno cinque anni, certificato presso una scuola riconosciuta. Illuminante può essere l’attività formativa condivisa con un/a filosofo/a che pratichi l’insegnamento al pensiero.

Non ci sono iniezioni veloci e pillole, fine settimana intensivi e corsi brevi che licenziano maestri di comunicazione e dintorni. La serietà è lenta. Solo l’esperienza non basta, la tentazione è rappresentata dalla generalizzazione e dalla personalizzazione di ogni assunto. Se non hai una chiave di lettura per leggere i fatti accaduti, se non ti dai le ragioni di quella esperienza, non puoi svolgere la funzione pedagogica.

L’Educazione alla Persona è il lavoro intrapreso accompagnati/e da maestri/e adeguate/i e testimoni credibili e seguiti/e per tutto il resto della vita in una Comunità di Ricerca di riferimento.

Lavoro perché avvenga il passaggio dall’azienda nevrotica all’azienda poetica. In azienda la felicità si persegue con l’interdipendenza, con il mutuo scambio fra la cultura del molteplice e la cultura dell’organizzazione. Spesso, invece, l’integrazione in un’azienda concepisce solo l’assimilazione. Si sopravvive e ci si amalgama, divenendo un esecutore, un uguale. L’identità aziendale (noi siamo così, abbiamo sempre fatto così) pretende il mimetismo, la scomparsa delle diversità, in nome di una comune integrazione al sistema che provvede ad ammaestrare. La complessità, la varietà sono sempre guardate come minacce al potere e allora, chi detiene un dominio, non essendo interessato alle persone, fa presto a ridurre l’individuo a funzione, espellibile dal sistema stesso, dropout.

Angela Davis partecipando al Women of the world Festival 2017 a Londra, parla di femminismo intersezionale, da intersecare. In ogni azienda si manifestano impulsi di sopraffazione e l’assimilazionismo tende sempre a regnare sovrano. È importante capire di poter integrare le persone diverse dove vige la supremazia dell’uguale e dell’omologazione.

La Scuola di Educazione alla Persona non è neutra, non può rivolgersi genericamente “all’uomo del ventunesimo secolo”, non può ridursi al maschile che millanta varietà, ma si rivolge alle donne e agli uomini che, qui ed ora, vivono in relazione di diversità in un territorio. Una formazione nuova più che una nuova formazione. Anzi, una educazione di senso. Una preparazione che non pensi solo ad innovare, ma anche a progredire.

Bisogna combaciare con se stesse/i, riconoscere la propria ombra perché è il volto speculare della luce. Combaciare è la coincidenza fra il pensiero, il sentimento e il comportamento sociale agito. La consapevolezza crea dolore all’andata e al ritorno: perché si soffre e perché si leggono le difese messe in atto per sopravvivere.

La formazione nella diversità di genere assiste la donna, l’uomo e la relazione che ne consegue perché quello che deve accadere accada, attraverso la lettura possibile dei fatti verso un livello di coscienza che, cammin facendo, diviene più profondo e intride gli strati più intimi.

Da anni mi chiedo se posso obbligare qualcuno ad essere libero. Oggi rispondo che no, non posso costringere nessuno ad interrogarsi e a studiare ma che, nel mio ruolo, lì dove sono chiamata a svolgere il mio dovere, sento di dover continuare ad esercitare il confronto, la richiesta a pensare assieme, a capire assieme. Attendo con pazienza il tempo di comprensione dell’altro/a, il momento in cui decide che vuole comprendere e chiede una guida. Nello stesso tempo, colgo ogni occasione che mi si presenta per ricordare quanto è importante iniziare o riprendere il lavoro di coscienza di sé. Non è motivare, è ancor prima, aiutare a riconoscere, per qualcuno/a, per la prima volta, la possibilità di sentire, di pensare, di scegliere di agire e agire, talvolta, anche il silenzio e l’attesa.

È così che si riscopre l’energia perché si è umani/e e perché si può rinascere a se stessi/e nella mente, nel corpo, nello spirito. La Gestione delle Risorse Umane ha un inizio nella possibilità di ciascun Individuo di riconoscersi come Persona in un cammino di autonomia.

Come sottolinea Aldo Carotenuto, significa riuscire a elaborare, in un processo che terminerà alla nostra morte, la nostra presenza nel mondo come presenza unica, originale e irripetibile. Significa trovare quelle modalità attraverso cui esprimere pienamente la nostra unicità. Se <individuarsi> significa fondamentalmente differenziarsi, mai come in questi nostri tempi il compito dell’individuazione suona come una necessità, un imperativo morale.

Credo che, oltre una terapia psicologica, possa davvero esserci una educazione psicologico-letteraria-filosofica che accompagni l’essere umano durante il processo di individuazione di sè. Non solo un insegnamento, ma anche un dono, una gratuità, l’elargizione di una ricchezza che ciascuno ha creato durante la propria esistenza.

Il termine consulente, dal 1673 circa, si riferisce ad un professionista che offre informazioni e consigli. Il verbo Consŭlĕre rimanda alla riflessione, al prendersi cura di qualcuno. In un testo bizantino del IX secolo si parla del terapeutès ton logon, terapeuta dei discorsi. Questi studi mi portano in recessi trascurati dalla storia ufficiale delle aziende. Le nuove strade, i nuovi luoghi sono, oltre alle aziende, ai confini, nelle scuole, nei partiti, nelle parrocchie, nei teatri sperimentali di periferia, nei luoghi di cura, nelle associazioni e nelle piazze dove vive la gente. Un mondo a parte che resiste ai margini della ribalta della sopravvivenza consuetudinaria.

Io credo, attraverso la Scuola di Educazione alla Persona, a Gayatri Spivak:

Lo definisco “sabotaggio affermativo” perché sabotare soltanto, significa distruggere, fare in modo che qualcosa non funzioni più. Nel sabotaggio affermativo, invece, tu osservi, impari come funziona la macchina e poi fai in modo che lavori contro l’obiettivo che aveva prima. Significa conoscere il meccanismo, partire da una posizione di forza, non di debolezza. Qualunque strumento di potere, in un certo contesto, dovrebbe essere trattato in questo modo, perché è l’unica arma che abbiamo. È il nuovo attivismo, se volete; una determinazione che tende alla giustizia sociale. In altre parole, usare il capitale a fini sociali piuttosto che per il proprio beneficio o per la propria famiglia. Ovviamente è una cosa molto difficile, è un cambiamento del modo di pensare.

 

Riferimenti biblografici

  • Luigi Zoja, Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Bollati Boringhieri, 2011
  • Luciana Castellina, Ribelliamoci, Aliberti ed., 2011
  • Aldo Carotenuto, Oltre la terapia psicologica, Bompiani, 2004
  • Gayatri Spivak, L’Espresso, N.29, luglio 2017

 

 Editing: Enza Chirico

 

 

Penko Gelev

La stupidità, le stupidità, il gioco a Stupido

Penko Gelev

                                                                                                                                                               Penko Gelev, 2012

 

 

Si vede al cielo tanta assurdità

levarsi insieme alla stupidità.

Basta.

P.Cézanne, Lettere

 A Michael,

perché ci siamo fidati.

Spero che nel suo ritiro

abbia appreso il discernimento

e la protezione di sé

 

Vivace è l’interesse e numerose sono, negli ultimi anni, le pubblicazioni intorno alla stupidità umana. Riporto i testi guida che ho considerato nei quali la stupidità assume dignità di categoria.

1.“Cos’è la stupidità? Non è la cattiveria, non è una forma, e tanto meno un atto, di cattiveria o di male… contro il male ci si può organizzare, lo si può contrastare, magari impedirlo con la forza. Mentre contro la stupidità siamo senza potere. Il male sta alla stupidità come la kierkegaardiana e heideggeriana paura stanno all’angoscia. Il male e la paura si possono puntualizzare, individuare, e quindi superare; ma la stupidità e l’angoscia dilagano indefinitivamente e senza ragione motivante per tutta l’esistenza fino al punto da coestendersi e connotarla essenzialmente…. La Dummheit non è legata alla mancanza di doti intellettuali… la stupidità non è cosa congenita, ma acquisita e, pertanto, responsabile… La sua essenza va riportata all’influsso dell’ambiente e all’esercizio della libertà… presso i solitari non è facile trovare stupidità, mentre la cosa diventa facile presso gruppi e presso comunità… La stupidità più che un problema psicologico, è un problema sociologico. Non innata né congenita, ma acquisita e responsabilmente acquisita sotto l’urto dell’ambiente… Gli effetti della stupidità non riguardano, almeno immediatamente l’intelligenza. Quello che si perde è l’intima capacità di resistere, tanto che si finisce per rinunciare, coscientemente o incoscientemente, ad un atteggiamento personale, per rifugiarsi nell’anonimato del si fa o si dice per lo più. Quando si discute con un Dumm, ci si accorge subito che non si ha a che fare con lui, ma con luoghi comuni e atteggiamenti diffusi nell’ambiente. Per questo suo cedere ad un fascino subito, il Dumm è veramente un alienato, uno che manca di consistenza personale. Se la stupidità, nella sua essenza e nei suoi effetti, è un fenomeno di abdicazione personale, risulta del tutto evidente che nei suoi riguardi non è possibile un’azione di convincimento; sarebbe come voler attaccare una veste all’attaccapanni riflesso nello specchio… Soltanto una liberazione forzata, operata da gruppi di resistenza, potrà preludere ad una ricostruzione dell’uomo, basata su una serie di valori e di convincimenti”. I.Mancini,pp.259-261

 2. È sorprendente considerare che l’àmbito in cui la stupidità trova maggiori coniugazioni è quello aziendale… Il denaro costituisce oggi un elemento talmente importante che le imprese scelgono di strutturarsi nella maniera più comprensibile, chiara, logica, così da potere monitorare ogni passaggio e ridurre i rischi di un fallimento, sia nel senso ordinario del termine, ossia il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissi, sia in quello tecnico giuridico, che porterebbe allo scioglimento, per legge, di un’attività che abbia cagionato danno invece che frutti economici… Non vi è dubbio che la stupidità sia una componente della produttività, al punto che risulterebbe persino assurdo fondare un’azienda non stupida. Soffrirebbe di un forte freno decisionale che le deriverebbe dalla componente di dubbio propria della non stupidità e dai tempi richiesti a qualunque lavorazione complessa. Un’azienda non stupida dovrebbe riflettere, ponderare, meditare. Tutte operazioni che si rivelerebbero poco produttive. In altre parole, la stupidità non solo pare compatibile con il profitto, ma addirittura, sembra implementarlo e garantirlo.

Anche laddove si voglia fare uno sforzo della ragione per attivare l’efficacia aziendale, con sottili differenze addirittura tra efficacia ed efficienza, risulta che il profitto davvero c’è stato, ciò dipende dall’avere posto in atto scelte assolutamente estranee a ogni regola razionale e aver partecipato invece ai criteri della stupidità. Così lo stupido appare l’imprenditore più adeguato perché capace di dare dei forti impulsi al reddito. La logica del profitto funziona come fondamento per un procedere ordinario dell’azienda, per una sorta di risultato al minimo, di controllo dei rischi, ma è la stupidità a diventare il grande protagonista che permette di passare dall’ordinario all’eccezionale inducendo dei salti notevoli tanto da portare le aziende alla fortuna.

V.Andreoli, pp.117-125

 La stupidità è considerata da molti autori una componente distintiva e, a tratti, predominante dell’essere umano, così come l’intelligenza, in latino intelligěre, è definita dalla capacità di stabilire le connessioni e si manifesta attraverso la proiezione della sua ombra.  Così, nell’opposizione oscura e sotterranea, la stupidità rivendica una sua struttura, altra e autonoma, rispetto alla intimità e alla capacità di relazione. L’analisi stupidologica è la storia dell’essere umano che si distrae dalla coscienza della sua vita, nata per morire. Le componenti stupiditarie dell’esistenza umana ricordano, nel cammino che porta a divenire persona, la necessità di rimanere umili, legati all’humus, alla terra, alla realtà. La stupidità è cosa seria e preziosa, è la sostanza di cui siamo fatti perché, se riconosciuta, facilita la confutazione e l’ironia, quindi, la relazione.

“…proprio il tentativo di fuggire all’imbecillità che grava come un peccato originale sulla condizione umana è l’origine, sia pure fallibile e rischiosa, della intelligenza, della civiltà, di tutto ciò che di buono può aver fatto l’essere umano tanto nello spirito soggettivo (coscienza, autocoscienza e ragione […]) quanto nello spirito oggettivo (famiglia, società civile e stato), e persino nello spirito assoluto (arte, religione e filosofia)” (Ferraris, p.77).

…  Poi ci sono le stupidità rappresentate, a mio avviso, dall’ostinazione a costruire modelli e procedure politiche e sociali, fabbricazioni e strutture aziendali in cui pratiche ottuse e insensate diventano abitudini pedantemente consolidate di sottomissione e protocolli a cui attenersi senza dubitare e discutere.

Per esempio, ricordando l’ultima settimana lavorativa, mi capita di riflettere sul sistema del controllo e della punizione, lì dove questo sostituisce ed evita l’avvio della comprensione e dell’apprendimento. Lo stesso mira a colpire la costituzione di gruppi, per la difesa di scelte identitarie di categoria, passando la giornata (specie su facebook) a stanare il nemico, a riempirlo di insulti e ad espellerlo, a generare gli haters.

Si aggiunge l’iperofferta di fake news e di comunicazioni da discount sui social media verso e attraverso le masse, al posto dello studio e del pensiero condiviso fra persone.

Senza dimenticare il prodotto di un certo modo di intendere il marketing che si impone come fine e non come strumento, in cui il messaggio da trasferire, cioè il processo di ideazione, è minima cosa rispetto, appunto, ai like che produce.

Ricordo, a chi legge, l’effetto Dunning-Kruger, considerata una distorsione cognitiva a causa della quale una persona incompetente, lo è a tal punto da non accorgersi di esserlo e da progredire, ignara, nella pretesa di riconoscimenti.

Le stupidità sono le forme di gerarchia, instrumenti regni, che mortificano e non riconoscono agli esseri umani le libertà disordinate e scomode di pensiero e di azione, producendo unicamente reazione e agitazione. Vi sono situazioni in cui riconosco un padrone e mi preoccupo dell’incapacità e dell’impossibilità di scegliere dei sudditi, mi preoccupo della paralizzante violenza morale che ne deriva. Le stupidità sono sempre coniugazioni dell’onnipotenza o dell’impotenza, figlie dell’illimitato e del confine coatto.

“È il fare che risolve il dubbio, non il meditare. Ancora una volta, la storia è un fare, non è mai un pensare… la stupidità è una fede, perché è ignara del dubbio. Un pragmatismo radicale. La stupidità organizza le guerre, accumula patrimoni… procede con il dominio del potere e quindi con l’ingiustizia… Non è possibile che i non stupidi si affermino e prendano il potere, perché il potere in sé è stupido, impone anche al non stupido di <stupidizzarsi>” (Andreoli, pp.116-117)

In Analisi Transazionale mi è molto caro il capitolo dei giochi, rappresentando, insieme, una prospettiva, un metodo e uno strumento nella pratica di Gestione delle Risorse Umane. La consulenza aziendale riconosce il suo campo di azione proprio nell’analisi, diagnosi e cura dei giochi psicologici nelle interazioni aziendali.

I giochi psicologici sono una modalità negativa, inconsapevole e ripetitiva, di strutturare il tempo, evitando la relazione sana e, per questo, conflittuale e sostituendola, appunto, con l’intrattenimento in interazioni verbali e gestuali che svalutano se stessi, l’altro, la situazione. Dal gioco psicologico tutti gli attori escono perdenti e infelici, anche chi vince, chi ha dimostrato da che parte stanno il torto e la ragione, anche chi, applicando tecniche da imbonitore, pensa di aver effettuato una vendita vincente.

La comprensione del gioco a Stupido prevede sempre un cammino autobiografico.

In italiano utilizzo il genere grammaticale maschile perché ritengo che il gioco psicologico a Stupido sia sempre il rituale di funzione patriarcale che ricatta, anche nel caso in cui l’interazione di gioco riguardi una donna. Nel gioco psicologico a Stupido, la tesi, cioè la mitica credenza sottostante, perpetua la certezza che finché sono stupido… nessuno si aspetterà di più, oppure, non dovrò risponderne, non potrò assumermi, in quanto stupido, alcuna responsabilità.

Il gioco aziendale può essere inconsapevolmente utilizzato da un/una responsabile sotto l’ordine <Spicciati> che pensa di evitare rallentamenti e discussioni giudicate inutili. Le persone vengono tenute a bada, talvolta, anche, fagocitate dagli organizzatori di feste e team building che relegano tutti in una zona primordiale, istintiva di interazioni. Il/la dipendente che pensa può diventare un antagonista e, di conseguenza, fare richieste eccessive che, talvolta, non sono solo monetizzabili.

Essere chiamato e riconosciuto stupido conferma l’ingiunzione <Non Pensare> e prevede una Vittima che innesca il gioco e un Persecutore che si fa agganciare e ci casca, confermando la tesi. E un modo indiretto per soddisfare un bisogno. Il giocatore a Stupido può riconoscere il bisogno di essere se stesso, umano con la capacità di pensare e di esprimere il proprio pensiero il quale potrà essere modificato.

Il giocatore non ha capito o sentito o saputo, non è stato invitato, non ha ricordato, ha sottovalutato, ha dimenticato luogo o tempi, insomma ha sbagliato: e, così, nell’atto di fallire esprime tutta la sua incertezza di onnipotente. Certo, perché, questa persona non mette in conto di poter dimenticare, di poter non capire e non essere sempre gradita a tutti, non accetta la possibilità di un limite. L’attesa magica del giocatore è dover risultare, agli occhi del mondo, sempre bello, telegenico, preparato, giusto, intelligente, forte, figo, in una parola!

In certe occasioni, se non accettiamo di sentirci sbagliati, inadeguati, appunto, se non accettiamo la parte un po’ cretina di noi, allora, siamo candidati a diventare giocatori incalliti a Stupido. La stupidità appartiene all’essere umano fragile che trova il senso della sua esistenza nel riconoscersi in relazione. Può accadere a tutti di sbagliare battuta, vestito, appuntamento, strada, senza doverne approfittare, per dimostrare, ancora una volta, a noi stessi in primis, che siamo mancanti e, di conseguenza, condannabili e che, infine, nel ruolo di Vittima siamo nell’unico posto possibile a noi concesso dall’inizio dei tempi. Una catena malefica di convinzioni, ricerca di fatti e dimostrazioni.

Non credo, come afferma il filosofo Ferraris, nella utilità di distinguere l’imbecillità di élite dall’imbecillità di massa. Ogni essere, in quanto umano, a causa della sua umanità, è predisposto al gioco a Stupido nei momenti di impasse, in cui si sente incapace, manchevole, stanco, in qualche modo. Ogni giocatore esprime percentuali diverse e, dunque, gravità diversa nel gioco. Negli ultimi anni, in alcune aziende da me seguite, riscontro il terzo grado di gravità fra gli interpreti del gioco a Stupido, quelli che per uscire di scena sono costretti a finire all’ospedale, al tribunale se non al cimitero.

Per ogni persona la domanda iniziale rimane: “In quali circostanze mi rendo disponibile a iniziare o a farmi agganciare nel gioco a Stupido?”

Non si tratta di stare sempre tesi e in guardia, ma di fare attenzione agli agguati, assumendo la responsabilità della proprio umana fallibilità.

Gli interventi immediati prevedono di non ridere delle stupidaggini e di cambiare argomento. Fare la scelta di non stare al gioco, spingersi a spostare il focus dalla svalutazione dell’altro e di sé, recuperando i dati di realtà. La formazione prevede, oltre l’intervento immediato

  • di ignorare il gioco, anche la possibilità
  • di spiegarlo,
  • di offrire un’alternativa e/o
  • di giocarlo nel caso in cui il/la consulente ritenga non adeguato lo smascheramento del giocatore in pubblico nell’immediato.

Penso che l’opposto del gioco a Stupido sia l’educazione alla libertà e la cura della con-sapevolezza, di un sapere condiviso, fluendo coralmente verso una meditatio mortis.

Insomma, l’opposto è la possibilità di mantenere la scelta della stupidità, nelle sue varianti, per riconoscerla, evidenziarla e anche poterne fare a meno, ridendoci su, assieme, liberati e liberi.

Riferimenti bibliografici

  • Eric Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani, 1987
  • Sara Filanti e Silvia Attanasio Romanini, a cura di, Il modello dell’Analisi Transazionale, Franco Angeli, 2016
  • Fernando Mantovani, Stupidi si nasce o si diventa?, Ed.ETS, 2015
  • Italo Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, 1995
  • Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, 2010
  • Robert Musil, Discorso sulla stupidità, Diogene Ed., 2015
  • Maurizio Ferraris, L’imbecillità è una cosa seria, il Mulino, 2016

 

 

Editing: Enza Chirico

 

 

 

 

 

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La possibile prospettiva del cambiamento attraverso la cura della memoria

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Fritz Lang, Metropolis, 1927

Nella seconda decade del Novecento, Virginia Woolf appunta nel suo diario: “Il futuro è oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere il futuro, credo”.

Ogni persona che pensa è in grado di nominare e costruire un cambiamento, attuando così un’azione di consapevolezza e di speranza. La possibilità di sentire e di dare corpo ad una innovazione, prevede la libertà e la responsabilità dell’essere umano. La comprensione e l’accudimento dell’impercettibile, sensibile e impalpabile mutamento che il tempo esercita sulla nostra vita personale e sulla intera comunità, è espressione di autonomia. Di conseguenza, valuto come sintomi di malessere psicologico l’opposizione, la resistenza, la sfida all’evoluzione.

Premessa a questa riflessione è il ricordo di due modelli strutturati – fra i numerosi modelli offerti – per leggere il cambiamento negli individui, nei gruppi, nelle organizzazioni e nelle società.

Kurt Lewin, psicologo tedesco, avvia negli anni ‘50 le prime ricerche di psicologia sociale e descrive la transizione, da un punto di vista personale, come un processo a tre stadi. Il primo stadio è lo scongelamento (unfreezing) che comporta il superamento dell’inerzia e lo smantellamento della mentalità e delle abitudini esistenti. Il secondo stadio (change) è quello in cui si attua il cambiamento, contraddistinto dalla confusione e dalla provvisorietà legate alla transizione. L’ultimo stadio, il ricongelamento (refreezing), comporta il consolidamento alle nuove abitudini e alla loro cristallizzazione.

Considerando le organizzazioni, il Change Management include le metodologie e gli strumenti per gestire l’impatto umano nel processo di cambiamento ed è utilizzato per accompagnare e supportare la transizione, aiutando così l’organizzazione a realizzare e governare la propria trasformazione.Richard Beckhard e David Gleicher sviluppano l’Equazione del Cambiamento: D x V x F > R

D = Dissatisfaction, esprime la insoddisfazione per la situazione attuale

V = Vision, indica la progettualità, la capacità di definire la situazione futura

F = First steps, quantifica i primi passi concreti fatti verso la direzione che è stata definita e annunciata

R = Resistance, misura la resistenza incontrata dal cambiamento

La formula significa che il cambiamento è realizzabile solo se le forze che lo producono sono superiori alla resistenza che vi si oppone. Ne risulta che riesce a cambiare soltanto chi è consapevole delle energie necessarie per promuovere il cambiamento ed è disposto a difenderlo e sostenerlo senza farsi travolgere dalle difficoltà inevitabili.

Da psicologa e formatrice, gli studi e l’esperienza relativi alle dinamiche dell’evoluzione umana, mi avvicinano al pensiero di Maria Teresa Romanini e di Lia Cigarini, in tempi diversi, mie maestre. Condivido e rifletto sulla proposta di cambiare il nostro immaginario sul cambiamento.

L’essere umano è in continua trasformazione. Anche l’inerte e solitario signor Meursault, l’étranger di Camus, rappresenta un passaggio ed è in movimento attraverso il silenzio, il racconto, il ricordo. L’estraneità è il sentimento di sapersi unicamente oggetto in una definita parabola esistenziale che cade su di lui e accade senza di lui.

<Non è colpa mia>: quindi, vivere non è una responsabilità. Ma Meursault arriva fino in fondo “… pronto a rivivere tutto. Quasi che quella grande rabbia mi avesse purgato dal male, svuotato della speranza, di fronte a quella notte carica di segni e di stelle mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo.”

Meursault così, se non per costruire un mondo migliore, almeno, ribadisce il proprio diritto alla felicità, nominando per la prima volta come tenera, l’indifferenza del mondo. L’essere umano, nell’abbandono, è disposto, pur di non essere ignorato, ad accogliere carezze psicologiche negative.

In un processo di modificazione, l’azione è preceduta dalla presa in carico di un sentimento di disagio e di disperazione. Nella Gestione aziendale delle Risorse Umane la guida psicologica accompagna e facilita la possibilità di venire in contatto, identificare, fare affiorare e decidere se e come esprimere quel sentimento sgradevole, di inadeguatezza, avviando una possibilità di trasformazione.

Quindi, la persona sceglie di continuare, attraverso l’attività di pensiero e il cambiamento culturale, intervenendo sulle convinzioni e sulle decisioni copionali, derivate da intuitive e coattive illusioni infantili. Interrogare le storie personali consente di sentire, pensare, agire, godere e rilassarsi durante il percorso del rinnovamento. Senza coinvolgere le visioni e le prospettive, le azioni risulteranno soltanto adattamenti e non cambiamenti.

Recuperare la memoria della propria vicenda umana ha senso in un percorso complesso e faticoso di ampliamento del Sé. Il novantenne Guido Ceronetti, nel 2016, consegna alle stampe, un “opuscolino” in cui, con dolcezza e determinazione, offre consigli per curare la capacità mnemonica, prevenendo i fisiologici mancamenti.

“Memoria è lettura e scrittura insieme, cinema, teatro, recitazione, canto, musica, banalità e non importa se ne valga o no la pena, è riconvocazione perpetua del vissuto… La E-Memoria non ti fa imparare o recuperare durevolmente qualcosa perché ti dà a succhiare mammelle sataniche. I bambini educati con tale tipo di conoscenza, li scoprirete adolescenti in terribili penurie di memoria e in gravissima perdita parallela di uso della scrittura.”

L’attitudine e la disciplina a far crescere il seme della domanda, a riconoscere il germe di un’idea, risolve la relazione, nell’agire aziendale che riconosciamo dal primo abbaio del padrone il quale rimane incatenato al nome, alla proprietà, all’identità di razza.

Il cambiamento, se accettiamo di seguire le linee guida della Scuola di Educazione alla Persona, diviene occasione di libertà per se stessi/e, prima e, poi, affrancamento dal comando-controllo che ricade a spese della vita personale e professionale di sé, degli altri e delle altre.

Sono convinta che le relazioni, anche quelle di lavoro, se dentro la logica del dominio, finiscono sempre per essere paralizzanti. I metodi coercitivi e repressivi, i ricatti psicologici aumentano la paura, la rabbia e la tristezza. L’essere umano fissato sull’oggetto della delusione e della frustrazione non è in grado di vedere i territori altri della creatività, le prospettive diverse per guardare la realtà.

Oltre gli automatismi, l’innovazione viene supportata e significata dalla rivoluzione simbolica. Sulla strada del cambiamento sano e protetto non rilevo processi semplici di causa/effetto o risultati immediati o capovolgimenti miracolistici e tangibili come ostentazione da imbonitore coram populo.

Essi ribadiscono, invece, il rischio di rimanere sotto scacco dei primitivi ordini genitoriali: <Sii forte>, <Sii perfetto>, <Metticela tutta>, <Compiaci>, <Spicciati>.  Ogni persona ha i tempi e gli spazi di semina e di crescita, acquisendo e prendendo parola, seguendo la propria natura e il contesto nel quale è inserita.

“Voglio proporre una nuova visione del modo in cui avvengono le trasformazioni… voglio ricominciare con una immaginazione adeguata alle possibilità e alle singolarità e ai pericoli che sono su questa terra in questo momento…  Al cuore del processo c’è la restituzione alle persone della loro capacità creativa e la riattivazione del loro potenziale di intervento nel mondo… I cambiamenti che contano non si svolgono semplicemente in scena sotto forma di azione, ma nelle menti di coloro che vengono descritti come pubblico. La rivoluzione che conta è quella che avviene nell’immaginazione, il che equivale ad affermare che la rivoluzione non si presenta necessariamente come rivoluzione”: è il pensiero di Rebecca Solint che accompagna la mia ricerca in Borgherese Consŭlĕre.

Il futuro, dunque, speriamo che sia oscuro, perché ogni persona custodisca e ne coltivi la curiosità, il desiderio, il talento nella progettazione e nell’esecuzione dell’opera artistica a venire e per la quale è stata nominata e si è riconosciuta.

 Riferimenti bibliografici

  • Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet, 2006
  • Luisa Cavaliere, Lia Cigarini, C’è una bella differenza, et al./ Ed.2013
  • Rebecca Solnit, Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango, 2005
  • Albert Camus, Lo straniero, Bompiani, 1947/2016
  • Guido Ceronetti, Per non dimenticare la memoria, Adelphi, 2016

Editing: Enza Chirico

Venere degli stracci

Le aporie del Salvatore psicologico

Venere degli stracci

Venere degli stracci, Michelangelo Pistoletto,1967

 

 

Mi invitano, mesi fa, a presentare il libro di un giornalista europeo sul bello dell’Italia. Di seguito riporto la riflessione che immediatamente mi torna in mente:

“Il giornalismo da solo non ha il potere di cambiare la civiltà dello spettacolo che ha contribuito a forgiare. Questa è una realtà radicata nel nostro tempo, il certificato di nascita delle nuove generazioni, un modo di essere, di vivere e forse di morire del mondo che è toccato in sorte a noi, fortunati cittadini di paesi in cui la democrazia, la libertà, le idee, i valori, i libri, l’arte e la letteratura dell’Occidente hanno riservato il privilegio di trasformare l’intrattenimento passeggero nell’aspirazione suprema della vita umana e nel diritto di contemplare con cinismo e disprezzo tutto ciò che ci annoia, ci preoccupa e ci ricorda che la vita non è solo svago, ma anche dramma, dolore, mistero e frustrazione.” (Vargas Llosa,p.44, La civiltà dello spettacolo, Einaudi, 2013)

Le transazioni intercorse, in molte situazioni, oltre la presentazione del libro, sono il pretesto per riflettere sul potere che, nelle relazioni fra persone, si annida e si nutre dei giochi di Salvatori inconsapevoli.

Di contro: pensare, argomentare, problematizzare, condividere, confliggere sono i verbi del lavoro che propongo nel cammino di Educazione alla Persona.

Il triangolo psicodrammatico di Karpman prevede tre ruoli: il Persecutore, la Vittima e il Salvatore. Quest’ultimo ritengo sia una figura psicologica più inquietante delle altre due, perché non è riconoscibile chiaramente e immediatamente. Spesso, il pericoloso Salvatore viene scambiato per un ottimista, per un volontario a servizio della patria e dell’umanità, per un pacifico.

L’ottimismo origina dall’analisi di realtà, altrimenti, è una fantasia delirante e i giochi del Salvatore rivelano distorsioni cognitive e disturbi psicologici legati all’iperadattamento, alla generalizzazione, alla manipolazione.

A proposito del libro, dopo averne apprezzato i contenuti positivi, gioiosi, ben scritti, rifletto sull’opportunità dell’operazione culturale, sulla pubblicazione che inneggia al bello d’Italia, in un periodo storico in cui la gente è spaventata, triste e arrabbiata, sotto lo schiaffo di una crisi economica che sembra eterna. Capisco il candore e l’ingenuità di chi dichiara, in cuor suo, di voler operare a favore del bene e non ammette altro, ma io scelgo di non ridurmi, per sottomissione, semmai di avviare un cambiamento con la convinzione di e in una possibile relazione.

Chi gioca nel ruolo del Salvatore, in fondo, ha paura delle ombre, non vuole vedere le mancanze. Si vergogna del vuoto e dell’assenza, mente a se stesso, talvolta, va troppo avanti o in alto, perché non può permettersi il lusso dell’archeologo del profondo.

L’elogio superlativo, l’elogio e basta, solidifica il sospetto del compiacimento, della svalutazione/ipervalutazione, della captatio benevolentiae. L’elogio risulta un’offesa, non un riconoscimento, se reiterato senza lo sfondo di un contesto ampio, che pre-veda luci ed ombre a conferire vigore plastico.

Penso che assumere in sé la totalità, l’insieme, la figura intera, conduca all’autonomia come leva di vantaggio.

In qualunque situazione e in compagnia di chiunque, salvare un pezzo rispetto al tutto, mantenere la divisione fra la luce dicibile e il buio da sottacere, solleticare il dualismo fra il bene e il peccato, fra il bello e il brutto, conferma il tornaconto del Salvatore, ma non aiuta a definire la chiarezza comunicativa, né l’eventuale originaria benevola intenzione, lasciando sul campo le vittime di una aporia circolare.

Le persone, gli scenari sociali, le visioni antropologiche sono tutte intere e interamente interagiscono fra loro. Così come la cultura, non è <a parte> dalla politica, la quale, a sua volta, non è <a parte> dalla vita personale. In azienda, i <problemi personali> non sono separati dalle prestazioni professionali e lavorative: non è possibile, ma non è neanche etico, proporre separazioni all’interno di una stessa persona. Il potere è divisorio e solitario, la relazione sana confonde e svela, includendo scenari ampi seppure conflittuali.

Per esempio, valuto la puntualità dei treni e la terra bonificata e la costruzione della mia scuola elementare, collocandole nel sistema politico in cui furono realizzate, rimanendo nei fatti della storia tutta intera e non certo, con sguardo parziale.  Modifico la valutazione di opere, pur buone e giuste, proprio perché le inserisco nello scenario globale di quel periodo storico e non a prescindere da esso.

Ripenso all’incontro con Cristina Maria che mi racconta come la città di Napoli, <a parte la camorra>, <a parte la spazzatura>, <a parte i politici ladri>, possiede opere d’arte di eccelso valore, come la statua del Cristo velato nel Museo Cappella Sansevero. Condivido con la mia amica guida come  il marmo del Cristo velato esista in quel contesto e ne assuma la spiritualità, portando su di sé i vissuti della gente, svolgendo la sua funzione inserito in quel luogo, non a prescindere da esso. Sì, il marmo assume la bellezza e la riconsegna ai nostri sensi, perché divenga carne stessa di quel territorio.

Sono psicologa e non posso legittimare la decontestualizzazione perché non favorisco i giochi psicologici messi in atto dal Salvatore di turno, il quale “salva” a costo di non tener conto della realtà, a sua insaputa o, consapevolmente, dichiarando di volerne vedere solo un pezzo, di quella realtà.

L’opera artistica, la bellezza, la cultura, non hanno bisogno di essere ripulite dal territorio, dalla gente, dalla sofferenza del tempo, neanche dalla bruttezza. La bellezza ci penetra e decide, proprio perché bella, di sporcarsi con noi, in mezzo a noi. Essa è sempre contaminata da combinazioni di elementi noti e sconosciuti, giudicati positivamente o meno.

Il potere omologante, invece, lucida, tornisce le superfici, tiene vive le divisioni, illumina i bicchieri mezzi pieni o vuoti, ripropone l’aspetto ludico come preponderante, fortifica l’analfabetismo psicologico e la certezza che si vince o si perde, facilita la sudditanza e disdegna il pensiero critico.

Se, invece, il processo è intero e la visuale è completa, apprendiamo a legare le cause agli effetti e continuiamo a provare interesse al viaggio fatto assieme, ai pensieri curiosi durante l’incontro, alle prospettive diverse possibili, piuttosto che alla risoluzione finale e all’obbedienza.

Giudicare è misurare l’altra persona secondo la propria esperienza. Contrariamente, però, scelgo di capire le ragioni, di chiedere informazioni, di ascoltare i processi decisionali, di inserire il racconto dell’altro nello scenario della sua esistenza, di confliggere con lui: tutto questo lo chiamo relazione. La valutazione assume il valore di uno sguardo e di una lettura sulla vita dell’altro partendo consapevolmente da sé.

L’altro non è derivato da me. Io non posso che essere io, come l’altro non può che essere quello che è e tutti e due siamo già salvi perché autonomi e diversi. Utilizzando i linguaggi dell’Analisi Transazionale, io non so se sono ok e non so se l’altro è ok, ma so, per certo, che sono proprio io e che l’altro è proprio lui/lei. Di conseguenza, confermo l’ok Corral tra di noi, come metodo per rappresentare le convinzioni su di sé e sull’altro.

La psicologia marca il confine fra il giudizio, possibile per chiunque viva nel mondo, e la disciplinata predisposizione e pratica ad assumere l’alterità da parte dei professionisti, nei territori vasti dell’umano.

“Io non sarò mai te nè tua. Tu non sarai mai me nè mio.”: riprendo il monito di Luce Irigaray

La capacità critica esce rafforzata divenendo pratica del proprio punto di vista donato all’altra persona. Nelle interazioni, non posso che raccontare la mia esperienza che non è quella dell’altro. Posso dichiarare: “Io al posto tuo avrei detto, avrei fatto…”. Ma io al posto dell’altro non ci sono. L’esperienza suggerisce che le persone adattate e sottomesse, si irritano, pretendendo che, necessariamente, vinca questo o quell’altro, che salga sul palcoscenico il frammento, non il divenire del viaggio insieme e nel suo insieme, il tutto.

Ripenso alla brutta esperienza del dirigente malamente licenziato: l’indignazione è la chiave di lettura per non rimanere complici di un sistema che chiede anche l’assoluzione a persone, pur maltrattate, che, ancora e sempre, “lo salvano” e immaginano di  ”salvarsi” dichiarando che, nelle grandi aziende, è così che funziona, è giusto che sia così, in fondo, forse, serviva solo un po’ di gentilezza.

Ecco, è in fondo, alle radici che chiedo di cambiare, non in superficie, non le modalità di comunicazione, ma la convinzione comune sulla sacralità e la gravità della condizione del lavoro, delle persone lavoratrici e cittadine. Altrimenti, incoraggiando questo sistema antiumano, non si salva né se stessi, né il futuro possibile del pensiero organizzativo. Argomentare, problematizzare, assumere il pensiero critico: in ogni comportamento agito si realizza la visione della vita, il pensiero e il sentimento.

Icaro, attraverso la lettura psicologica, se rimane a fare il pioniere icaro, da buon Salvatore, se rischia e osa altri fragili voli di cera, altri progetti, è un ossessivo compulsivo, totalmente fuori dalla realtà, non è un eroe. Costui è un misero che dovrà lavorare sul senso del limite, sull’arroganza, sugli ordini psicologici <Sii perfetto>, <Metticela tutta>, <Sii forte>, non è un vincente ottimista.

In una azienda, la figura del Salvatore, rimanda alle <strutture di potere> di foucaultiana memoria, utilizzate per assoggettare e ammaestrare il corpo sociale, perché il gruppo dominante mantenga controllo e privilegi ab aeterno.

Il Salvatore non vede la realtà, alienando la propria esistenza nella prestazione. Vedere non coinvolge solo gli occhi. Vedere la bellezza, vedere le forme artistiche, iniziando dai libri cari, vedere le persone, significa ritrovarsi nelle tre radici del verbo greco ὁράω, orào: –ἶδ, -id, –ὁρ, -or, –ὁπ, -op.

-Id richiama l’avere idea rispetto all’alterità; -or è l’oracolo e riprende la funzione profetica in una relazione; op riporta all’opera, all’azione, alla generatività della relazione.

Uscire dal triangolo drammatico e dal ruolo di Salvatore, oltre che dall’acidità di stomaco, significa farsi carico di un lavoro disciplinato, duro, onesto, attraverso l’educazione e la formazione, ciò al fine di vedere se stessi e l’alterità inseriti in un contesto. Non ti vedo se non mi vedo.

Per l’essere umano Trieb sostituisce Istinkt, infatti, come chiarisce Umberto Galimberti:

Trieb, a differenza dell’istinto diretto a una méta, è una semplice “spinta” … Apertura al mondo e plasticità nell’adattamento fanno dell’uomo un essere la cui vita dipende dalla “costruzione” che egli ne fa, attraverso quelle procedure di selezione e stabilizzazione con cui raggiunge “culturalmente” quella selettività e stabilità che l’animale, grazie all’istinto, ha per natura…

… cultura fatta di tecnica che ne assicura l’esistenza, e di istituzioni che ne regolano la condotta. Il problema è che la tecnica non diventi a tal punto egemone da ridurre l’uomo a semplice funzionario dei suoi apparati, e le istituzioni così impotenti da non essere in grado di impedirlo. (D la Repubblica,28maggio2016)

Editing: Enza Chirico

 

 

 

 

 


Relazioni di formazione imbrigliate in spettacoli e messinscene

 Non è necessario che tu esca di casa.

Rimani al tuo tavolo e ascolta.

Non ascoltare neppure, aspetta soltanto.

Non aspettare neppure,

resta in perfetto silenzio e solitudine.

Il mondo ti si offrirà per essere smascherato,

non ne può fare a meno, …

Franz Kafka, Diari

 

Sulla scrivania di Kafka pare figurasse la scritta warten, aspetta.

E così mi propongo di aspettare riflettendo, ogni volta che sono invitata a presentare i percorsi formativi o ad affrontare un argomento di psicologia. Scelgo io stessa di organizzare i momenti di incontro per informare un pubblico intorno ai miei studi e alle attività nell’area delle Risorse Umane. Seguendo i personali ordini materni, si mangia a casa: non si organizzano apericene, happy hours, outdoors, laccato street food et consimilia. Sono lontana dalle interazioni fagocitanti e ancor più da uno storytelling che semplifica e non accelera, ma rende inerte e banale il dire. Il mezzo utilizzato, nella maggior parte dei casi, diviene impedimento alla relazione pedagogica, alla relazione di éros. Non mi occupo di creare racconti e storie, applicando all’impresa i principi della narrazione. Semmai, il format narrativo è per me lo strumento – mai il fine – utilizzato nella formazione per riconoscere, analizzare, modificare copioni e minicopioni.

Nelle relazioni, propongo la dialettica: la tesi, l’antitesi, la sintesi. Il partire da sé e il pensare assieme, la concentrazione e il silenzio, lo scambio dinamico dei pensieri. Apprendere la dialettica, l’arte di argomentare, favorisce il conflitto che giustappone, componendoli, punti di vista legittimi, opposti e contradditori. Considero l’imperativo di conquistare, sedurre il pubblico come parte della strumentistica disordinata del patriarca. Propongo, quindi, la cura della parola, prima che la scelta della musica e dell’immagine (il profetico bagno delle immagini di Marshall McLuhan), al fine di non sostituire la vita con la rappresentazione di essa.

La persuasione, come funzione pragmatica della comunicazione, non punta a convincere l’altro e ad ottenerne fiducia e approvazione, ma diviene cammino di scoperta e di allargamento delle mappe mentali e ideali di ogni interlocutore. Infine, è la realtà che opera la persuasione, indicando per ogni persona le diverse prospettive in ogni qualsivoglia situazione. Correndo il rischio di essere out, non posso rimanere ostaggio di spettacoli impastati senza criterio, di gate keeper scatenati, di trend setter, di influencer del pensiero che comandano i salotti up to date, dispensatori di carezze plastificate, del tipo adoro!, carinissimo!, assolutamente!. Un eterno birignao. La posa, la provocazione, la frivolezza, la paccottiglia offerta in combriccole e allegre brigate hanno conferito a opportunisti e mascalzoni audaci lo statuto di formatori.  Insomma, un Hellzapoppin’.

Penso che l’incontro formativo light, “così come il cinema light e l’arte light, dà allo spettatore la confortevole impressione di essere colto, rivoluzionario, moderno, e di essere all’avanguardia, con uno sforzo intellettuale minimo. In questo modo, la cultura che si propone come avanzata e di rottura, in verità diffonde il conformismo attraverso le sue manifestazioni peggiori: il compiacimento e l’autosoddisfazione.” (Vargas Llosa,p.26)

Anche quando concepisco l’incontro informativo di due ore, so che esso è già l’inizio di un lavoro capillare e artigianale, di apprendimento e di messa in forma. La presentazione di percorsi di educazione alla persona non può pagare il dazio ad una diminutio rivestita da strategia di marketing. È indispensabile scegliere chiare modalità di interazione fin dall’inizio perché il viaggio dipende anche dai primi dieci minuti in cui ci si incammina. Ma davvero essere così furiosamente e soavemente esperti dell’intrattenimento avvicina i clienti? La proposta formativa che viene presentata ha l’obbligo di essere accattivante? Sono contraria all’indottrinamento che produce adattamenti. Certo, io scelgo una formazione fondativa, nel senso che costituisce la relazione come fondamento e mette in forma le modalità trasparenti e consapevoli, in ogni contesto, anche leggero. Talvolta, dico: “giocando, giocando, con lievità, ma non è a giocare!”. È una questione di cultura, non di conoscenza intorno alle tecniche di comunicazione e di persuasione. Infatti, “…la conoscenza ha a che vedere con l’evoluzione della tecnica e della scienza, e la cultura è qualcosa che precede la conoscenza, una propensione dello spirito, una sensibilità e un’attenzione alla forma che dà senso e guida le conoscenze.” (Vargas Llosa, p.8)

Già in passato mi interrogavo sui malefici delle tecniche di attrazione seduttiva nella professione

http://www.ndcomunitadiricerca.it/le-esercitazioni-in-aula/

http://www.ndcomunitadiricerca.it/teoria-e-tecniche-di-comunicazione-nella-formazione/

E mi chiedo se posso costringere qualcuno ad essere libero, forzarlo a pensare con la propria testa e mi interrogavo se chi si occupa di formazione abbia anche questo compito. Oggi la gravità dei giochi psicologici – interazioni di potere – di chiunque e in ogni situazione, richiede il richiamo all’analisi, richiede l’utilizzo di una psicologia sociale del profondo, l’indagine seria oltre la superficie, perché divengano note le ragioni di alcuni linguaggi e comportamenti, prima di proporne i cambiamenti. Non posso costringere alcuno alla relazione, però, sempre, propongo relazioni fuori da triangolazioni velenose. L’educare a sé e all’alterità cura i disturbi relazionali, legati alla messinscena, alla diluizione del discorso, alla falsificazione degli scopi, al nascondimento del desiderio, allo spostamento delle ragioni fondamentali dell’incontro.

In questo periodo storico vale tutto, perché non conta più accompagnare la natura di ciascuno, affinarne le competenze, specializzarsi, far bene quel che si fa. Nella società del consumo di massa e mediatica, spesso gli individui sono considerati “cretini sociologici” (E.Morin). La scuola di educazione Alla persona si propone di promuovere, nell’utilizzo della strutturazione del tempo, luoghi e momenti dedicati alle attività di apprendimento, all’intimità e alla noità  e non distoglie l’attenzione dal fine ultimo neanche durante i rituali e i passatempi. La scuola di educazione Alla persona non riconosce come indispensabili le categorie della simpatia, della telegenicità, della seduzione e, men che mai, l’entusiasmo generico verso gli hobby e le novità. La formazione accoglie gli appassionati della viandanza, né turisti, né cercatori d’oro. Il viaggio dell’educarsi come persona produce coscienza e sapienza, intensifica l’importanza dell’esperienza esistenziale attraverso la fatica e il patimento.

Il turista parte per loisir, per moda, opportunità, per caso ed è veloce, curioso, fotografa, ingoia immagini, coglie occasioni e paesaggi, cerca distrazioni. Il cercatore è incentrato sulla percezione di sé, ha in mente la possibilità di arricchirsi, di fare business. Il viandante, invece, avverte fortemente il richiamo del cammino, si avvia e si avvia ancora, non può farne a meno, riconosce l’elezione e la dannazione, sopporta tutto per passione della ricerca, della scoperta di una personale Via dei Canti, come Bruce Chatwin. Ancora una volta la relazione e la responsabilità sono strettamente legate al cammino di consapevolezza: ogni persona decide il suo cinquanta per cento di responsabilità. Quando manca, sicuramente, interagiamo in un gioco psicologico fra persecutori, vittime e salvatori, attori in uno schermo triangolare. La realtà della relazione di me, in quanto donna, psicologa, relatrice/docente, sostituisce il potere che sceglie la menzogna dello svago per intrufolarsi, convinto di vincere perché le persone non pensano e non si scambiano idee, sono decontratte. Il potere che è sempre singolare, maschile, giocosamente vigliacco.

“Ci può essere relazione anche se l’essere umano a cui dico tu non lo percepisce nella sua esperienza. Perché il tu è più di quanto l’esso sappia. Il tu fa di più, e gli succede di più di quanto l’esso sappia. Qui non sopravviene alcun inganno: qui è la culla della vita reale.” Martin Buber

 

Riferimenti bibliografici

  • Martin Buber, Le parole di un incontro, Città Nuova, 2000
  • Emmanuel Levinas, Violenza del volto, Morcelliana, 2010
  • Edgar Morin, Dialogo, Libri Scheiwiller, 2003
  • Giuseppe Prezzolini, L’arte di persuadere, Introduzione di Alberto Asor Rosa, LiguoriEd.,1991
  • Mario Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo, Einaudi, 2013

 

Ringrazio Enza Chirico per l’opera di editing

Per amore di chiarezza, editare un testo (altro da correggere le bozze o da prestare servizio di ghostwriter) consiste in alcune competenze precise:

  • sistemare parti di testo con errori di coerenza e affinarne il livello di comprensibilità;
  • controllare e rivedere il senso della narrazione (quanto più un testo presenterà periodi funzionali al suo interno – con funzionali intendo che ogni frase ha una ragione di causa o effetto o di relazione stretta – tanto più chi legge ne sarà coinvolto intuendo il senso della presenza di esempi, descrizioni, dialoghi, ecc…);
  • migliorare le scelte stilistiche e strutturare al meglio la sintassi, conservando intatti i contenuti di chi scrive;
  • individuare il climax per rendere le cose scritte vicine all’apogeo del significato.

Solo Enza, così !

 

 

 

Blanche e Marie

Le donne e la follia

Per Olov Enquist, Il libro di Blanche e Marie, Iperborea, 2006

Blanche e Marie

 

Le donne e la follia.

Blanche, Marie e le intelligenze della mente femminile.

Due regine in cui isteria e genialità rivelano una possibilità di ricerca scientifica.

Una pazza, una strega e il tempo mancato della profezia.

I corpi delle donne come geografie di conoscenza.

 “Un anno dopo Blanche si ammalò per la prima volta. Era incomprensibile. La prima operazione le costò il piede destro. Fu così che cominciò. Ma per lungo tempo Blanche avrebbe ricordato quella domenica pomeriggio in cui lei e Marie, due donne belle, sole in laboratorio, mano nella mano davanti all’inspiegabile miracolo, si erano ritrovate avvolte da quei colori e da quelle misteriose radiazioni che, senza che ne fossero consapevoli, rappresentavano l’ingresso della modernità in quel museo dell’amore che erano i loro due corpi ancora perfetti.” pp.26-27

Nutro affezione per la storia, un po’ reale, un po’ immaginata da Per Olov Enquist, che ho a lungo custodito, di Blanche Wittman, paziente e cavia del dottor Charcot, (maestro di Freud) e di Marie Curie, la scienziata polacca insignita per due volte del premio Nobel.

Il romanzo, attraverso l’utilizzo complesso di numerose tecniche narrative, origina dai quaderni (libro giallo, libro nero e libro rosso) che Blanche lascia alla sua morte. Dolorosamente ereditiamo la possibilità di assumere l’equilibrio mentale come una ricerca continua.

Le relazioni si manifestano come il territorio dell’ illuminismo e dell’oscurantismo, dell’amore e della morte, della scienza e della magia. La testimonianza femminile segna la via per contenere tutto in sé, per non lasciar andare via nulla, per rimettersi al mondo, attraverso la coscienza e la conoscenza, in una relazione complessa fra il desiderio, il radio, l’arte e gli uomini.

Nella storia di Blanche e Marie riconosciamo e ci riprendiamo la forza profetica femminile che, senza il potere del consenso, custodisce, esorta, edifica, scuote attraverso il discernimento e la capacità di governo.

Quando le donne si incontrano, si riconoscono e lavorano assieme, la strutturazione del tempo viene illuminata dall’intimità. Attraverso l’isolamento, i rituali, i passatempi, anche attraverso i giochi psicologici, si rivelano formule diverse e nuove di <noità>. Il senso della bellezza si rinnova e ciò che viene chiamata follia, è solo il cambiamento già in atto, con tutta la paura e la gioia.

“Lesioni da congelamento nell’anima! Una spina nell’amore! Marie pensava che la storia della ragazza morta fosse inventata. Che Pierre avesse semplicemente paura di lei. Perché era troppo viva per lui. Se ne era lamentata con Blanche: perché gli uomini hanno tanta paura delle donne profondamente vive, al punto che scambiano la forza per la morte, e fuggono?” p.86

“Qual è la formula chimica del desiderio? E perché non esiste un’unità di misura dell’amore, perché l’amore cambia continuamente, a differenza del metro campione, quella decimilionesima parte del quarto di meridiano terrestre, perché non esiste un peso atomico del desiderio, stabilito, premiato, per tutti, per sempre?” p.128