25 novembre: memoria patriarcale di Stato

Riflessione pubblicata parzialmente sul mensile Primo Piano – dicembre 2015

 

A Caterina, figlia a me, verso di me,

perché eserciti il discerniménto

 

Oltre l’applauso o il dissenso, avverto l’urgenza di capire e di interrogarmi.

 … Ma che cos’è la femminilità che il maschio dovrebbe reperire nel suo inconscio? È la figura della “relazione” che la donna esprime già nel suo corpo il quale, a differenza di quello maschile, è predisposto per l’altro, sia nel senso della generazione fisica (che avvenga o non avvenga), sia nel senso della relazione amorosa. E questo perché la donna cerca la sua identità a partire dalla relazione, a differenza del maschio arroccato nella sua identità a prescindere dalla relazione. L’evoluzione del maschio, per poter essere politica deve essere prima psichica, e spero che non richieda, come tutte le evoluzioni psichiche, qualche millennio.

Umberto Galimberti, D la Repubblica, 12 marzo 2011

 

Eva, Havà, fa il giusto movimento, dal basso verso l’alto, di spiccare il frutto della conoscenza. Una legge contraria a quella di gravità le sollevava il braccio verso l’alto. Esiste in natura, oltre all’attrazione terrestre, un’attrazione opposta, da chiamare celeste. Eva, Havà, non aspetta che il frutto cada in grembo. Da un albero, compreso quello della conoscenza, sarebbe caduto comunque. Lei lo va a spiccare finché alto sul ramo. L’effetto di quella prima conoscenza è un’espansione delle percezioni: “E si spalancarono gli occhi di loro due”. Lei e Adam scoprono di essere nudi. Nessun animale sa di esserlo. Da un’ora all’altra loro due non appartengono più al resto delle specie viventi. Sono diventati una variante, la novità che aggiunge.

Erri de Luca, E disse, Feltrinelli, 2010, p.40-41

 

Il 25 novembre di ogni anno è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e può diventare la giornata dei dualismi riproposti ovunque, fra il dentro e il fuori, la piazza e l’abitazione, il pensiero intimo e l’esposizione, fra la violenza, da una parte, e la normalità, dall’altra. Dopo la giornata di denuncia per ribadire la forza delle donne e sollecitare dovuti cambiamenti culturali e politici, chiedo vite di comunità per problematizzare il pensiero e il sentire nei corpi, diversi, numerosi, inquieti. “Non si uccide per amore, ma l’amore, c’entra”, afferma Lea Melandri.

Una certa cultura a senso unico che chiamo monocultura, mette continuamente in scena le azioni di uomini di potere e di donne che ne imitano i comportamenti: il comando, il controllo, l’abuso, il ricatto, il possesso, la manipolazione sono variabili del mito della virilità minacciata. E, ancora, sfilano immagini di violenza maschile reattiva, con posture che dichiarano il disorientamento e il vittimismo.

Il quotidiano di ciascuno/a, il lavoro, la famiglia, le comunicazioni, sono considerati fuori tema. Propongo che, come Lea Melandri dichiara, il fuori tema divenga il tema e che, quindi, possiamo dirci dello scarto, di me e di te e di noi e di questi corpi nostri.

Della manifestazione in piazza, del pubblico, mi importa il processo, il privato, la viandanza. Voglio parlare di violenza alle donne, di bullismo e di resistenze maschili ad adeguarsi ad una sessualità altra dalla loro, quella che molte donne vanno scoprendo, esplicitando la corporeità e il diritto di non subordinare la loro volontà ad altri. Propongo di riflettere sulla natura sessuale della cultura predatoria, oltre gli stereotipi che imprigionano e segnano le esperienze di sessualità, di paternità e di maternità, di attività lavorativa.

Troppe donne che celebrano il 25 novembre non si sganciano da una narrazione patriarcale. Gli atti simbolici e culturali hanno potere politico ed è davvero il caso di assumerne la responsabilità pensata. L’attività di pinkwashing,  “la passata in rosa” fa sembrare più bello e legittima il potere. È una mistificazione nominare la violenza sulle donne, riunirsi in gruppi, proporre spettacoli di piazze. Dinanzi all’automatismo delle scelte nella ritualità, i feudatari moderni, sorridono compiaciuti.

Mi impegno a vedere, a indagare la connessione tra la crescita ingiusta imposta dalle politiche economiche e la crescita della violenza degli uomini. Il modello economico patriarcale non prevede l’economia della natura e del sostentamento. Il saccheggio della crescita illimitata facilita la cultura dello stupro della terra e la cultura dello stupro della donna.

Venir fuori, sì, ma, soprattutto, sapere cosa farne e come, degli svelamenti attuati. Togli le scarpe (rosse), metti la maschera, recita la poesia, accendi i lumini, urla al microfono: quello che si mette in atto nelle piazze può essere perverso. E’ lo spettacolo che rassicura il patriarcato, perché mostra l’incapacità isterica delle donne di raccontarsi diverse. Può diventare una recita conformista che non rompe alcuno schema.

Spesso, le donne si muovono all’interno di una dicotomia rigida: santa o puttana; vittima o strega. Da una parte, le piccole donne consegnate ai salvatori, ai nuovi patriarchi, quelli moderni e telegenici, più pericolosi di quelli vecchi e cattivi. E, dall’altra, le streghe contrarie ai vittimismi che restano a testa alta per rivendicare le proprie scelte e che vengono consegnate agli inquisitori. Destini paralleli, mai incroci dialoganti.

Incontro donne portatrici di occhi maschili, di sguardi potenti ed escludenti, donne in relazione secondo modelli patriarcali, donne che incarnano proprio le visioni maschili che vogliono rinnegare.

Non sono genericamente contro la violenza e non ripropongo solo la solidarietà con versi, proclami e riti, strumentali, sempre, al potere. Lo studio e la ricerca presuppongono l’analisi dei modelli maschili e femminili, la dualità di genere come interpretazione del proprio sé, la rappresentazione storica del maschile e del femminile, il lavoro sulle radici della propria storia: chiamo questo lavoro Educazione alla Persona.

Credo nell’onestà e nella giustizia di una psicologia sociale possibile che si manifesti non con l’astensione, ma con il continuo vigilare nella contaminazione, non necessariamente patologica. Mettendoci in relazione con quello che andiamo diventando e modulandone il pensiero.

La stessa Legge sul femminicidio rischia di fare da cornice ideologica ad una politica di superficie. Sottolineo alcune variabili.

La parola: il termine <femminicidio> è ancora fastidioso e urticante perché in odore di femminismo e perché, soprattutto, carico di una spiazzante risonanza ancestrale che richiama il gretto rapporto primario tra i sessi e la sua intrinseca ferinità. Il Femminicidio si chiama, con transparenza, Violenza Maschile.

L’inasprimento delle pene: è considerato la panacea di tutti i mali. Punire non sempre significa risolvere. Credo nell’educazione di una visione di vita nel limite e nel rispetto della diversità e non nell’onnipotenza.

La donna non può ritirare denuncia: questo mette in discussione il principio di responsabilità personale della donna rispetto alla dimensione della sua vita personale nel rapporto di coppia. Si attribuisce così allo Stato una responsabilità giuridica che tocca alla radice la faglia densa di inestricabili contraddizioni che, per ogni donna, sta nel rapporto tra pubblico e privato, tra personale e politico.

Il Femminicidio riguarda l’uomo: il delitto scaturisce intimamente dal rapporto tra i sessi e chiama in causa i modi della sessualità maschile nell’epoca in cui viviamo, densa di vecchi e nuovi patriarcalismi fuori controllo e delle convulsioni dell’identità maschile.

La vittimizzazione delle donne: la Legge propone il contrario di quella libertà femminile che ha avuto la forza di operare il rovesciamento. E lo Stato, per il tramite delle sue istituzioni, risponde a modo suo, come si risponde oggi, nell’epoca del declino del Welfare e dello stato di emergenza strisciante: con leggi segnate dall’imperante vocazione securitaria della contemporaneità e dal taglio di tutte le possibili spese sociali che vadano oltre quelle elementari.

Propongo:

– Percorsi di Formazione Permanente nelle scuole sul governo di sé e delle emozioni.

– Formazione Formatori per insegnare la coscienza e la consapevolezza rispetto alle dinamiche di potere.

– Formazione sui Linguaggi per gli uomini e le donne coinvolti/e in ogni campo di attività professionale.

– Laboratori culturali sull’autonomia e le relazioni decontaminate da simbiosi e da giochi psicologici che puntano a tenere l’altro/a sotto scacco.

Il potere, la violenza maschile, i ruoli sociali, i cambi generazionali sono problematiche culturali, da riportare all’impegno di persone psicologhe e antropologhe.

La violenza è la relazione mancata e la Scuola di Educazione alla Persona prevede, oltre lo studio della cultura, anche una personale e radicale indagine interiore.

Il lavoro è sul coraggio di sé, sul coraggio di essere nient’altro che quello che si è, lontano da diplomazie, manipolazioni farisaiche e mercimoni: questo processo personale, libera, pazientemente, anche gli altri e le altre. La grande scommessa è capire, coinvolgersi interamente, con tutta la persona, compromettersi, cambiare.

E’ meglio ammalarsi di libri che davvero.

Segnalo alcune letture, per incominciare:

  • Laura Pennacchi, Il soggetto dell’economia, Ediesse, 2015
  • Vandana Shiva, Fare la pace con la terra, Feltrinelli, 2014
  • Lea Melandri, Amore e violenza, Bollati Boringhieri, 2011
  • Stefano Ciccone, Essere maschi, Rosenberg&Sellier, 2009

 

Editing: Enza Chirico

Una città per sè

Una città per sé – la visione della Città Metropolitana da Christine de Pizan alla differenza di genere [1]

 

Le città sono un insieme di tante cose:

di memoria, di desideri, di sogno d’un linguaggio;

le città sono luoghi di scambio,

come spiegano tutti i libri di storia dell’economia;

ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci,

sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.

Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici

che continuamente prendono forma e svaniscono,

nascoste nelle città infelici.

Italo Calvino

 

 

A Giovanni,

che ha agito la città, la scuola, la persona,

che non ha avuto obiettivi da raggiungere,

ma solo strade e versi da percorrere,

con scarpe grosse,

con amore

 

 

Premessa

Il mio lavoro indaga le ricadute degli aspetti psicologici intorno all’idea di Città Metropolitana. Infatti, una cosa è accorpare 41 comuni, altra è far sentire corpo gli abitanti di 41 amministrazioni comunali. Si effettua un passaggio da gruppo a comunità, da gruppo a stormo, definito in una precedente ricerca. (http://www.ndcomunitadiricerca.it/dalla-squadra-allo-stormo/).

E parto da me che da una vita fuggo l’appartenenza cementificata a gruppi, fuggo possibili prigioni in perimetri definiti. Questa ricerca ha inizio in un vecchio frantoio di famiglia, ereditato e scelto come studio/casa. In origine, ricordo bene, una vetrina decorata con preziosi merletti si apriva direttamente sulla strada, come una via di luce per l’interno buio, come una possibilità di rimanere a parlare sulla soglia per gli abitanti e per i visitatori, come un corridoio che permetteva lo scambio, la mescolanza, gli sguardi casuali, gli incontri di passaggio, la curiosità.

Io vivo in un open space, non ho mai costruito una vetrata, un’impalcatura muraria che consenta di separare in modo definitivo il dentro dal fuori. Ma la piccola porta a vetrina non c’è più, il grande e solido portone di legno è sempre chiuso, misura, certo, della mia scelta di esserci con riserva, di fiutare il pericolo, di poter pensare bene, prima di aprire. Io ricevo per appuntamento e non è possibile incontrarmi per caso. Registro un tratto comune durante le frequentazioni della mia casa/studio, sia negli sporadici incontri con gli amministratori della politica che con i miei clienti e il prossimo, in generale: non solo la paura del diverso, ma la paura di chi è uguale, di chi si conosce da sempre e, per questo, annoia, visto che se ne conoscono i vizi, le appartenenze, le abitudini e le tentazioni.

Mi impegno a favore di scelte urbanistiche che mettano al centro della città la relazione e non la mercificazione, i temi dell’abitare con le difficoltà delle persone e con le nuove povertà. Il patriarcato, immortale e onnipresente, ha creato le architetture con vicoli ciechi, chiuse, severe, controllate e dure, come le mentalità ignoranti e arroganti, suscitando gli eccessi del poco e del troppo: sono pochi o sono troppi gli eventi, le inaugurazioni, le feste, gli spettacoli. In quanto occidentali, siamo tutti e tutte figli – non figlie, ma solo figli – di Eros. Platone parla di Eros come erede di Poros e Penìa, di Abbondanza e di Mancanza. Di conseguenza, la realtà che è il limite e misura, cura e valutazione, deve essere messa al mondo come figlie.

Propongo percorsi formativi di Educazione alla Persona – diversi dalle conferenze, dalle tavole rotonde, dai seminari – sistematici e perenni, per gli amministratori e per la cittadinanza, per una visione della Città Metropolitana ripresa dalla Cité des Dames di Cristine de Pizan e dalla lettura delle donne della differenza di genere.

Non credo nelle architetture che, da sole, favoriscano le relazioni. La circolarità di un luogo, di una costruzione non garantisce tout court la relazione e il benessere di chi vi dimora.

Evidentemente, non immagino una città di sole donne, né inseguo, se pur interessata, la suggestione di una società come i Moso, nello Yunnan, ai piedi dell’Himalaya, affidata alle dabu o matriarche. (E’ una società matrifocale e matrilineare, in cui non esistendo il matrimonio, è risolto il conflitto permanente tra l’agnazione e la cognazione, cioè tra la parentela di sangue, maschile, e la parentela civile, acquisita attraverso il matrimonio con una donna.)

Sono contraria a pericolose logiche di appartenenze identitarie e chiedo di ragionare sulla globalizzazione non in opposizione alla localizzazione. Le riconosco, piuttosto, come due opportunità da studiare: la specificità e l’unicità originale di ogni luogo e la complessità dei fenomeni connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.

 

[1] Attraverso la proposta e il progetto dell’arch. Loredana Modugno, l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bari, nell’ambito della programmazione della Commissione Pianificazione Territoriale, intende promuovere, quale progetto prioritario per le annualità 2014-2017, attraverso l’organizzazione di eventi tematici itineranti, un piano di azioni di sensibilizzazione finalizzate a condividere la conoscenza dei territori della “Città metropolitana”, evidenziandone criticità e punti strategici, al fine di sostenere modelli di sviluppo virtuosi, condivisi e sostenibili.

L’idea è quella di sviluppare una piattaforma collaborativa che riunisca figure che operano sul territorio attraverso la co-partecipazione. Tale piattaforma collaborativa è un format di ricerca aperto, basato sull’idea che lo sviluppo delle conoscenze e la condivisione siano gli strumenti principali per trovare soluzioni concrete per uno sviluppo urbano sostenibile. In un territorio ricco di storia, di tradizioni e di bellezza, il progetto Pianifica T.U. (Territorio e Urbanistica), rappresenta una occasione per valorizzare le singole specificità presenti nei comuni metropolitani, ma anche una opportunità per aumentare la “cultura complessiva”, diffondendo conoscenza sui cambiamenti in atto. Pianifica T.U. è un progetto di pianificazione “comunitaria”, che individua nella condivisione di idee e progetti innovativi realizzati da architetti, pianificatori, innovatori sociali, ricercatori, cittadini, etc., la possibilità di generare modelli di sviluppo.

 

Riflessioni e ragioni

Credo nelle visioni, negli orientamenti, nelle pratiche avviate verso la comunità democratica e verso le idee coltivate da Simone Weil prima e da Adriano Olivetti negli anni cinquanta.

Il nonluogo è riconosciuto da Marc Augè nel ‘92 come luogo privo di un’identità, anonimo, staccato da qualsiasi rapporto con il contesto sociale, la tradizione, la storia. Esso, in fondo, si definisce nella struttura, non nella funzione. E la funzione dipende dalle presenze, dipende dalla volontà includente. Il luogo comune del nonluogo può essere un passaggio evolutivo, naturale e consapevole, da gruppo neutro e obbligato, a comunità carnale nella diversità di genere.

Le città, inclusi gli aeroporti, gli ipermercati e i parchi di divertimento possono essere il luogo dell’homo socialis, delle persone in relazione. L’individualismo è un passaggio di crescita, l’essere umano cerca inevitabilmente l’incontro, lo scambio, la comunicazione, l’affiancamento e cerca un senso. Ogni città è serbatoio di possibili esistenze comunitarie, di potenzialità collettive ed è matrice di testimonianze e di patrimoni della civiltà.

«La disciplina urbanistica si è costruita in funzione della salvaguardia della proprietà privata», nota Bianca Bottero, urbanista del Politecnico di Milano e della rete delle «Città vicine».

L’essere umano nasce eletto e condannato alla relazione e la Città metropolitana esprime una comunità consapevole e convinta, oltre che un ente locale previsto dalla Legge sulla Riforma dell’Ordinamento degli Enti locali (Legge 8 giugno 1990, n.142).

Attraverso una lettura psicologica, la Città Metropolitana si racconta come un modo di stare al mondo, una visione della vita integrata e includente, una opportunità per passare da immagine di un gruppo a senso della comunità. La Città Metropolitana è Weltanschauung, è modello, anche psicologico, di crescita umana, sociale ed economica.

E’ importante vedere i luoghi che caratterizzano le nostre tappe di vita e ridisegnare una geografia simbolica, una mappa del cuore. Chi ha un luogo, chi ha luoghi, ha anche una storia da raccontare.

C’è una giustizia in ogni luogo; in esso tutto convive, tutto esprime un senso della presenza: il benessere, l’appartenenza, l’integrazione, la coesione sociale.

In latino, habitare secum, in francese chez soi, a casa propria, abitare la propria interiorità: è questo il valore che ribadisco nella scelta della Città Metropolitana.

Il viaggio inizia proprio da qui, qui dove siamo, non esiste un altro posto e un altro tempo: il cammino continua a fianco degli altri. Non è possibile pensare di poter esistere al di fuori della comunità urbana. Il gruppo divenendo stormo libera una creatività interattiva che guadagna il suo successo dalla capacità relazionale delle persone. Voglio incontrare e formare persone che sappiano non solo risolvere i problemi ma porli, persone non solo brave ad adattarsi a ruoli prestabiliti e a difenderli, ma a suddividerli, ad orientarli, a crearli.

Siamo vittime di un riduzionismo pedagogico: il pensiero, la teoria, la prospettiva psicologica, sono state semplificate, ridotte a show televisivo, quasi che i destinatari, oltre ad avere poco tempo, avessero anche poco cervello. Quindi è indispensabile partire da ogni territorio mentale indagato (sviluppo, comunità locale/globale, concertazione ecc. …) conoscendo e mettendo in comune le mappe mentali di quante più persone possibili, come il progetto Pianifica T.U. propone.

L’intelligenza è intelligere, cogliere i nessi. Molti sono intelligenti, ma non coltivano l’intelligenza sociale perché dopo aver colto i nessi, non sanno che farsene.

Un’intelligenza incapace di considerare il contesto e il complesso rende incoscienti e irresponsabili. Cultura è recuperare tutte le parti del sé in cui contraddizione e coerenza non sono caratteristiche che si autoescludono, ma variabili infinite di un’unica realtà. La cultura della Città Metropolitana è immaginazione, studio e ricerca, attività, energia, qualità della collettività, stratificazione storica. La cultura, senza il pensiero e la relazione che la fanno bella, è inutile e diviene malessere psicologico, iperattività, ossessione di produzione, sovraesposizione, fumo.

“La Città Metropolitana rappresenta la comunità, ne cura gli interessi, promuovendone lo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio, secondo principi di sostenibilità, tutela ambientale, solidarietà e considera la diversità territoriale come valore per la definizione delle politiche di area vasta”(dallo “Statuto” della Città Metropolitana di Bari approvato il 18 Dicembre 2014)

Esploriamo ed esprimiamo assieme al nostro prossimo, i modi di essere Città Metropolitana, non come Barcellona o Parigi, ma proprio in quanto Bari.

Prima di ogni azione, l’intervento è psicologico e prevede il lavoro con mentalità obsolete, con i copioni perdenti e non vincenti, con gli usi e i costumi reiterati senza discernimento e senza critica, con le interazioni psicologicamente malsane di giocatori psicologici incalliti, perché inconsapevoli e ripetitivi, con i ruoli sociali venduti e comprati per tornaconto personale e pericoloso.

La pianificazione e la progettistica sono le azioni concrete che seguono un pensare profondo, condiviso, a lungo termine, sul corpo sociale. Esse richiedono una scelta politica, di comunità ed una politica come tensione verso la comunità.

Il tempo degli esperti di bilancio, degli amministratori, dei tesorieri, prevede, prima, il lavoro dei filosofi e delle filosofe, degli psicologi e delle psicologhe.

La pianificazione psicologica urbanistica territoriale sostituisce, all’inizio, la pianificazione economica e dei poteri. Il “grattacielismo” non si esprime soltanto nell’ostinata costruzione di grattacieli, ma nella relazione che architetti e clienti hanno con la visione dello spazio di vita e di comunità umana. La verticalità e l’orizzontalità delle costruzioni rappresentano una variabile psicologica, oltre che architettonica.

Certo, non è un invito a pulire ogni volta le stalle prima di andare a cavalcare, semmai, esprimo l’esigenza di una scelta consapevole, di coscienza, di etica perché, se manca, continuerò a registrare la compulsione nell’aprire locali, nella riabilitazione di zone urbane abbandonate, nel costruire, nell’organizzare sagre, festival, serate a tema. Per farne cosa? Perché e con chi? La ripetitività non richiama necessariamente un disturbo neurologico e del comportamento sociale ma, sicuramente, mette in luce la mancanza di governo dell’età adulta, reiterando un primordiale atto piacevole, comunque solitario, nonostante la presunta gruppalità. Far vedere, ostentare, mostrarsi sono manifestazioni opposte al benessere. La quantità non è la categoria di valutazione della persona e della città secondo la differenza di genere: senza struttura progettuale ampia, senza télos, senza un senso e un fine pensato, chiaro e condiviso, ogni funzione, ogni attività realizzata, è un sintomo, non un’opera artistica.

Osservare un luogo significa venire a contatto con emozioni, pensieri, ricordi personali che quel luogo suggerisce. Ogni luogo scelto, grande o piccolo, ricco o povero, è accettato da ciascuno come proprio, ristrutturato, vissuto; esso è il segno della presenza. Considero la valenza emozionale che ogni posto assume quando è frequentato, quando è vissuto da esseri viventi.

Contemplare un posto, continuare a guardare un luogo, incamminarmi in stanze e corridoi, mi rinvia al templum, all’arte di osservare i confini del tempio e, in essi, abbandonarmi.

Il luogo ci ridà la libertà essenziale, quella di essere dove siamo. Esso, diviene anche un fenomeno spirituale: infatti, se il tempo struttura la personalità, il luogo forgia l’anima.

Gli esseri umani bambini, matti, vecchi, difficilmente si staccano da quello che hanno appreso a sentire e a riconoscere come il proprio posto. Esso rappresenta l’identità, l’allontanarsi ha il valore della impossibilità di riconoscersi, esprime il senso della fine.

Ma dobbiamo tener conto che “… l’anima è molto lenta … La psiche non ha metodo, non è metodo. Il metodo è solo un percorso. Il significato della parola methodos è passeggiata, sentiero; perciò bisogna immaginare.” (J.Hillman), e – ancora – che “… l’appartenenza è ripensata in termini di esperienza di luogo. Il nostro bisogno storico è trovare legami, solidarietà. I luoghi non ci impongono regole rigide e principi; ci chiedono di interpretare e reinventare la realtà, riconoscere e riscoprire i legami con dimensioni meno esplorate: è qui, alla fine, l’origine della loro suggestione e del loro fascino” (C.Truppi).

Attraverso la protezione che ci offre il riconoscimento del sé e del proprio luogo possiamo arrivare con potenza e coraggio alla scelta del nonposto. Perché il mio posto, il posto di ogni essere umano è, in fondo, un nonposto, è il luogo, cioè, di ciò che adesso sta già cambiando. Intendo il nonposto come luogo del divenire, lontano dall’ostinata conservazione dell’identico.

Mi riconosco, allora, oltre che nelle righe nere, nel luogo che mi è stato dato, anche, negli spazi bianchi fra una riga e l’altra che rappresentano ciò che sta cambiando adesso in me e nel mondo.

C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo: è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova (M.Buber).

Ritengo indispensabile, nella profonda crisi di identità che tutti coinvolge, lavorare nelle città, nelle aziende, sul valore dei luoghi dove la gente trascorre gran parte della giornata. La formazione è il topos, è l’ambito spaziale idealmente determinato, in cui prenderci cura dei nostri luoghi che partecipano alla creazione della nostra identità, prima ancora che dell’idoneità, richiesta dal mercato del lavoro, perché “… i luoghi dell’educare dovrebbero essere belli – non solo funzionali – perché la bellezza educa: non è un di più, ma un indispensabile nutrimento dell’anima”(Crepet) .

Il piacere di abitare un luogo e di riconoscermi in esso, mi permette di andare avanti, di imparare, di proseguire oltre, di immaginare ciò che ancora non si è rivelato, di allargare la primaria identità perché non diventi una gabbia o uno strumento di esclusione.

Occorrono radici salde, occorre un luogo che rappresenti la stabilità, perché ciascuna persona possa godere, in seguito, la ricerca del nonposto, il quale diviene il privilegio di chi è curioso, non la condanna di chi continuamente cerca un rifugio da difendere per sopravvivere ai nemici.

Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città è il chiuso, l’ombra, il fuoco, mentre il territorio è l’aperto, la luce, l’aria. Durante l’espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio si è modificato. La città ha cominciato ad ospitare fabbriche e si è accresciuta l’importanza dei trasporti. Il territorio è stato segnato da infrastrutture, le strade, le ferrovie e le vie d’acqua e d’aria.

Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere ed usare il territorio. La città comprende il territorio e l’una e l’altro non sono realtà antitetiche. Il territorio urbanizzato prevede in alcune parti una urbanizzazione più densa, in altre la presenza della natura.

Nell’ultimo secolo la città si è estesa a macchia d’olio e sono proliferate le sue propaggini rurali-urbane: lo “svillettamento” delle campagne, le lottizzazioni a nastro lungo le coste e le vie di comunicazione. La campagna coltivata si è ridotta notevolmente come la pastorizia relegata ad attività marginale, dalle colline, dalle alture, l’insediamento è franato.

In conseguenza, l’extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno; luogo di attesa per l’ingresso tramite speculazione fondiaria, nel regno infetto dell’urbano, luogo delle discariche, dell’esportazione fuori dagli scarti urbani.

In questo scenario sommariamente rappresentato, sottolineo che il cucciolo d’uomo e di donna nasce nell’attaccamento e nell’adattamento: ogni luogo rappresenta l’appartenenza ad una terra, ad un gruppo, ad una famiglia. Solo attraversando un territorio, sentendomi appartenente a qualcosa o a qualcuno in un posto, solo adattandomi ad un ambiente, ad una comunità, posso, in seguito, avvertire e seguire la spinta ad andare, a continuare, a conoscere altri luoghi e ad integrare, infine, altre persone nella comunità. Solo chi sa di avere un posto dove poter tornare può partire, apprendere e può scegliere di proseguire. E’ indispensabile lavorare nelle città, nelle aziende pubbliche e private, nei comuni, sul valore dei luoghi dove la gente trascorre gran parte della giornata. L’impegno è re-immaginare gli spazi e le persone in attività, al fine di creare la cultura condivisa, il know-how della Città metropolitana.

 

Metodologia

Nella Città metropolitana, il partire da sé e il pensare assieme sono le metodologie della narratività. Ogni partecipante può esprimersi come homo sapiens, ludens, faber e imaginarius, cioè, come una persona che sappia lavorare e godere delle sue attività, utilizzare l’intelletto ed il cuore, raccontare parole pensate ed immaginate, dire e custodire la propria origine.

Il modello proposto è quello del progetto Pianifica T.U.; esso comprende un percorso costituito da incontri formativi per gruppi di 12/15 persone, in luoghi e spazi diversi che prevedono il massimo della differenziazione con il massimo della integrazione.

Il fine è l’armonia fra i vari protagonisti nell’elaborare pratiche quotidiane per uno sviluppo urbano sostenibile. Il fine è condividere, soprattutto la coscienza di ogni luogo, oltre che la sua conoscenza.

Crediamo che il progetto Pianifica T.U. debba essere pensato e realizzato, più che detto. E’ indispensabile evitare la divisione tra fare e pensare perchè, in seguito, in un falso mondo del lavoro, esso porta le persone a dividersi in categorie nobili che pensano e razze grossolane che fanno. Nella realizzazione del progetto, il fare presuppone l’attività di pensiero e il pensare ha in sé il seme del comportamento agito.

L’educazione alla Città Metropolitana, dunque, come mentalità, come emozione, come stile di vita per generare modelli di sviluppo possibile. I protagonisti nel progetto Pianifica T.U. si coinvolgono, ascoltano, scelgono le soluzioni e le azioni socio-culturali. Per ogni città non ci sono cambiamenti assoluti da proporre, scelte giuste a priori. Ogni cittadina/o ha un patrimonio di conoscenze, di attitudini e di interessi, di aspirazioni e di bisogni: il lavoro è esaltare, coltivare, potenziare, plasmare ogni argilla informe, per liberarne l’opera d’arte al suo interno.

 

Conclusioni

Tenendo conto di quanto sopra illustrato ed in conclusione dei lavori del workshop Pianifica T.U. emergono, condivise dal gruppo, le considerazioni che sinteticamente riporto.

Gli edifici sono spesso considerati oggetti stravaganti piuttosto che elementi palpabili a cui i nostri corpi e i nostri sistemi neurologici sono inestricabilmente connessi.

L’architettura non è un’astrazione concettuale bensì una pratica incarnata e lo spazio architettonico si costituisce primariamente attraverso un’esperienza emotiva e multisensoriale. Le scoperte scientifiche che offrono benefici in ambito biologico o psicologico, hanno anche la potenzialità di migliorare i nostri ambienti costruiti. In gruppo si sono altresì considerate le implicazioni delle neuroscienze per la progettazione architettonica.

Rivedere le categorie mentali è il lavoro di base, prima di ogni intervento/attività. I dipinti, il verde, le installazioni, l’apertura di attività commerciali, rischiano di essere un frastuono inconcludente che infiamma e che non diviene orientamento civico comune, servendo solo ed esclusivamente a rendere visibile la competenza di chi crea e realizza le opere. Mi preoccupo quando il fare, il cambiamento, le “novità” non sono anticipati e sostenuti da una prospettiva libera, includente e felice dell’esistenza.

Formare, mettere in forma, rappresenta il fondamento per l’innovazione. Attraverso il lavoro di gruppo, non presento un prodotto, ma metto a disposizione un servizio. Ritengo fondamentale sottolineare che il lavoro sulle mentalità è un lavoro di lentezza, di fatica, di pazienza e di attesa, di semina e di aperture senza reti e riserve.

Consapevole di aver contaminato i settori di ricerca al fine di segnalarne la trasversalità, benedico la comunanza di pensieri realizzata in stormo con gli architetti Annarita Angelini, Francesca Arena, Grazia Cupertino, Angela Palmisano, Luigi Panisco.

Editing: Enza Chirico

Riferimenti bibliografici

  • Lettera Internazionale 118, Corpo umano, corpo urbano, 2013
  • Marc Augé, nonluoghi, elèuthera, 1993
  • Marc Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, 1999
  • Martin Buber, Le parole di un incontro, Città Nuova, 2000
  • Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, 1993
  • Paolo Crepet, Voi, Noi, Einaudi, 2003
  • Francesca Rosati Freeman, Benvenuti nel paese delle donne, ed.XL, 2010
  • James Hillman, L’anima dei luoghi, conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, 2004
  • Harry Francis Mallgrave, L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raff.CortinaEd., 2015
  • Adriano Olivetti, Noi sogniamo il silenzio, Ed.di Comunità, 2015
  • Roberto Peregalli, I luoghi e la polvere, Bompiani, 2010
  • Christine de Pizan, La città delle dame, Carocci, 2014
  • Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, 2008

 

 

 

Parola di uomo

Sa sedurre la carne la parola

prepara il gesto, produce destini…

Patrizia Valduga

 

 

A Mauro,

che discutendo di sé per prima,

mi segnalò il limite

e, di me, il permesso e il perdono

 

 

Frequentemente ascolto parole di uomo inadeguate, linguaggi decontestualizzati, comunicazioni verbali e non verbali che rimandano ad una necessità di rieducazione a comunicare.

Come il 21 marzo 2015 a Napoli, quando tutti assistono divertiti ai commenti del cardinale su un gruppo di suore che vuole salutare il Papa: “Guarda ‘cca… ma comm’e ‘o fatto, sorelle… e cheste so ‘e clausura, figuriamoci chelle no ‘e clausura…. Mannagg’ a chell’… uè, sorelle… sorelle, tenimm che fà… state calme, sorelle… a ddo iate … a chill so’ mangian’…”.

Risulta un’immagine di suorine scatenate, allupate, liberate dalla cella. Le suore di clausura che conosco sono libere davvero, hanno lavorato sulla propria sessualità e hanno il governo della corporeità hic et nunc, nel contesto in cui vivono. Le suore che lavorano a servizio dell’umanità sanno che l’autorità è simbolica e che non riguarda la forza fisica.

Come il politico che minaccia, qualora la suora non obbedisse. Come il critico d’arte, studioso e ricercato nei salotti. Come l’imprenditore che, non risolvendo la propria sessualità, si ostina a vedere e a raccontarmi le colpe di una eva qualsiasi, purchè sia Eva, purchè rimanga dipendente. E, ancora, il giornalista in erba che senza sedersi, senza aver letto il testo, senza averne ascoltato la presentazione, senza essere in relazione alcuna, tuona dal fondo della sala all’adulta storica biblista: “Ma lei ritiene di essere femminile o femminista?”. L’uomosenza si spaventa e la paura produce la fuga o l’attacco. In tal caso, tutt’e due. S’impose. Scappò.

Sento l’eco della lingua della proprietà e non della relazione.

L’incubo della grande vagina “dentata” che divora, che ingoia, è l’irrisolto maschile.

Se tacessi, in questo caso, faciliterei la licenza a manifestare il patriarcato e il relativo potere ignobile. Il sorriso greve, l’atteggiamento volgarmente teatrale, il sarcasmo svalutante, il linguaggio melmoso e imbarazzante: qui la napoletanità o la pugliesità non c’entrano. Anche quando ci si esprime scherzosamente, un essere umano, è sul serio.

Di ventennio in ventennio, chiedo ad ogni uomo di apprendere ad avere riguardo, coscienza, eleganza verbale e gestuale. E chiedo che lo Stato e la Chiesa definiscano, per ogni servitore in carica, percorsi di analisi personale, di formazione e di supervisione permanenti. Chiedo ad ogni mio cliente di continuare nel percorso di educazione Alla sua persona.

Rispondere per le rime è un gioco al massacro della bellezza, prima ancora che della relazione. Registro la libertà di esporsi, nel caso del cardinale, del politico, dell’imprenditore e decido la libertà di critica, da parte mia.

L’ammiccamento, la battuta, l’occhiolino, il ciao, il piglio del comando, il rimprovero arrogante, rappresentano la cassetta degli attrezzi della menzogna seduttiva. Il gioco psicologico che tiene in scacco l’altra si manifesta nell’esagerazione, nell’uso del superlativo o nell’ipotrofia del diminuitivo. Propongo una valutazione critica dell’uso delle forme dialettali per una intimità mai reciprocamente concordata. In una relazione vale tutto se ogni persona riconosce la pari dignità nella diversità di genere. La chiave è la consapevolezza e l’autonomia di sé. Scelgo di dire tutto e di dirlo come mi piace: ne sono consapevole o quella parola, quella frase accadono senza di me?

In una relazione accetto la confidenza e la giocosità solo se originano da una nota e riconosciuta intimità. Quando i ruoli sociali sono impari cresce il sospetto che le parole della familiarità siano, invece, espressione di un potere dispari esercitato su qualcuno o di un paternalismo corrotto.

È proprio la spontaneità che mi preoccupa perché è lì, nell’espressione naturale e immediata, che si manifesta la verità delle proprie convinzioni di vita. Stare attenti a come si parla significa provvedere in tempo a formare la personale visione di sé e dell’alterità.

Paradossalmente, formare significa fare in modo che si possa non essere affatto attenti a come si parla.

Ogni espressione manifesta quello che sono e in cui credo. Si tratta di lavorare sulla sostanza, non sull’immagine: le parole corrispondono ad una scelta politica nell’esperienza umana.

Il cardinale dice: “Ho dato facoltà…”. Intende: io ho permesso alle suore. Chi ha legittimamente il potere decisionale, svolge un servizio e quindi, con occhi bassi, ancor più profondamente, rifletta sul proprio ruolo che permette di conferire e negare al prossimo eventuali permessi e opportunità.

Michel Foucault insegna che il linguaggio identifica, ordina e classifica l’esistente. La realtà è in quanto è detta, in un contesto dato. Edgar Morin invita a fare attenzione alla descrizione che faccio del mondo, perché, infine, il mondo risulta essere come lo descrivo.

Le parole di uomo sono anche utilizzate da donne che, negandosi il permesso di esistere e di essere come sono, sopravvivono sostando nei territori mentali maschili e rivendicando ruoli di comando e di controllo con gli stessi usi e costumi.

Con inquietudine e sconforto ascolto alcune donne che incontro:

“Il problema principale delle donne siamo spesso noi stesse”. Osservo che se siamo vittime, siamo anche persecutrici e salvatrici e il copione perdente è ben rinforzato e il maschilismo ringrazia.

“Aspetto una festa dell’essere umano … senza stupide distinzioni di sesso, economiche, sociali…” Penso che così mi becco, per sempre, il neutro assoluto e il sei politicamente (s)corretto, e le quote rosa e la questione femminile…

“Quando arriveremo ad essere persone, volti, corpi, mentalità senza la categoria, alquanto discutibile, di maschio e femmina?”. So che le categorie sono preesistenti alla nascita e alla volontà di ogni donna e di ogni uomo. La femminilità è immaginata da sempre come una maschilità incompiuta e invidiosa, l’educazione insegna agli uomini a dominare e alle donne ad essere oggetti.

I linguisti sono interessati alla lingua come prodotto, come sistema, i glottodidatti alla lingua come processo, come attività legata ad una persona in un determinato contesto socioculturale. Da psicologa impegnata nelle risorse umane, seguo  una ricerca faticosa per il senso libero delle mappe mentali differenti sessualmente. E perché non ci siano liberazioni per cui lottare, ma un territorio simbolico di relazioni su cui convenire per dare senso alla presenza di ciascun essere umano nel mondo.

I dualismi, gli stereotipi hanno segnato l’educazione di ogni persona. Ciascuno e ciascuna di noi rimane, talvolta inconsapevolmente,  erede di una cultura che rinforza e benedice le dinamiche di comando e di prevaricazione. Le esperienze minime e personali di riscatto, di liberazione, di rivalsa, testimoniano ancor più il lavoro sottile e manipolatorio del potere che conta. Così respiriamo la stessa aria anche se non tutti/e inquiniamo e, anzi, denunciamo chi inquina. Non si tratta di condividere, in generale o solo per sé, ma di registrare il dato di realtà che trasmettiamo e agiamo divisioni.

 “Gli aggettivi viaggiano sempre in coppia. Per ogni «bello», da qualche parte c’è un «brutto». Forse, prima del diluvio universale, gli aggettivi, come gli animali, salirono sull’arca di Noè a due a due. Ecco perché ragioniamo sempre in termini dualistici.  Se esiste una definizione consolidata di ciò che costituisce la «femminilità ideale», è grazie all’esistenza di una definizione altrettanto cristallizzata di «mascolinità ideale». “(Shafak,p.172)

“Dai miti antichi ai moderni romanzi a fumetti, dal folklore alla pubblicità, questa mentalità dualistica si è insinuata in molti ambiti della nostra vita.

 Elif Shafak riporta le credenze obsolete che insistono sull’immagine di un uomo che richiama le parole: maschile, coraggioso, cultura, giorno, razionale, cervello, chiaro, verticale, nomade, poligamo, portato ad agire, oggettivo, logos.

E di una donna che richiama le parole: femminile, insicura, passiva, natura, notte, emotiva, corpo, enigmatica, orizzontale, stanziale, monogama, portata a parlare, soggettiva, phathos.                                                                         

 Stranamente, anche le donne sono abituate a concepirsi in questi termini. I rapporti che instauriamo tra noi, le chiacchierate che facciamo e il modo in cui alleviamo le nostre figlie sono offuscati dalla dicotomia degli schemi di genere. (Shafak, p.176)

“Secondo Audre Lorde, c’è una madre nera in tutti noi, a prescindere dal fatto che siamo madri oppure no. Anche gli uomini possiedono questa qualità interiore, benché decidano spesso di ignorarla. La madre nera è un metafora che rappresenta  la voce dell’intuito, della creatività  e della passione senza freni. <I padri bianchi ci dicevano: “Penso, dunque sono”, e la madre nera in ognuno di noi – la poetessa – ci sussurra in sogno: “Sento, dunque posso essere libera”.>” (Shafak, p.272-273)

Imparo da Ferdinand de Saussure la distinzione fra langue (lingua) e parole (parola) e imparo che la parola non è nulla senza il linguaggio. Aggiungo che, nella lettura psicologica che mi appartiene, la parola e il linguaggio, tutt’e due,  fanno parte del processo educativo ed evolutivo della persona, espressioni che insieme dicono di una modalità di sentire, di pensare e di agire la relazione con il prossimo. Le forme comunicative del bambino sono di natura semiotica prima che linguistica. La competenza comunicativa è semiotica, cioè, è scelta di segni e di modi. Io sono per la psicologia che incontra la linguistica antropologica e la psicosemiotica.

La competenza comunicativa è, certo, in primis, la capacità di selezionare i suoni di una lingua (fonologia), a cui segue la scelta della struttura grammaticale adeguata (morfologia), la corretta struttura grammaticale (sintassi), la decisione di un significato da trasferire (semantica). Ma, prima di ogni cosa, la competenza comunicativa è l’idea di sé e della propria relazione con il mondo. È la persona il luogo où tout se tient, in cui tutto è legato.

Propongo, nei percorsi formativi che organizzo, i passaggi che seguono, oltre i ruoli copionali degli uomini che controllano e delle donne che proteggono. Non riferisco solo modi di dire, ma mentalità, modi di stare al mondo, visioni dell’alterità.

  •  Da sfondare nella vita, a essere felici e a raggiungere nuovi equilibri.
  •  Da penetrare il mercato a conoscere, ad aprirsi a nuove opportunità, a spandere mercanzia colorata, a meravigliare.
  •  Da scaricare la tensione, a rilassarsi e a divertirsi, a ritrovare l’armonia, a riprendere contatto con se stesse/i.
  •  Da conquistare il territorio, la fetta di mercato e il posto di lavoro, a sentirsi parte, a ritrovare il proprio spazio.
  •  Da andare dritto verso l’obiettivo, ad andare zigzagando concedendosi tutte le deviazioni.
  •  Da controllare la situazione, a partecipare agli eventi, ad organizzare il processo collettivo di governo.
  •  Da inculcare i valori, i pensieri,… ad offrire testimonianza credibile, a scambiarsi sapienze, a condividere conoscenze.
  •  Dalle armi vincenti, alle risorse, alle potenzialità, alle capacità comunicative.
  •  Da tenere in pugno, a lasciare un segno e un buon ricordo di sé.
  •  Da colpire qualcuno o qualcosa, ad offrire consapevolezza e competenza. A essere autorevoli. A chiedere attenzioni e riconoscimenti.
  •  Da difendere e difendersi, dare nome al problema.
  •  Dal cavalcare l’onda, al desiderare.
  •  Dal farsi le ossa, al godersi gli eventi.
  •  Da scavalcare e mirare in alto, a proporre, a valutare, a mediare.
  •  Da fottere l’avversario, a creare relazioni, a essere pazienti e avere buon senso.
  •  Da calpestare, pugnalare, sottomettere, stenderli tutti, da tenere per le palle, combattere, lanciare l’esca, da fare centro, inchiodare l’altro, cadere in piedi, da avere il colpo in canna e/o l’asso nella manica, a evitare l’arroganza con l’autoironia e con la leggerezza.
  •  Da spiazzare a incuriosire e a stupire.
  •  Da tenere in mano la persona o la situazione a facilitare i processi.
  •  Da <Non sono d’accordo!>, a <Voglio aggiungere che…>.
  •  Da <Non è vero…!>, a  <Capisco ciò che dici. Mi piace pensare o sottolineare che…>.
  •  Da <No!>, a <Le mie perplessità riguardano…>.
  •  Da tagliare i ponti, a facilitare e creare collegamenti.
  •  Da vincere/perdere su tutto il fronte, a dialogare e camminare insieme.
  •  Da farsi valere, a  confrontarsi.
  •  Da abbattere, da spaccare tutto, a interpretare.
  •  Da fare vedere chi si è, a integrarsi nella diversità.

La rivoluzione nel modo di esprimermi e, quindi, di stare nella relazione, non accade da un giorno all’altro e non ha mai fine. Con lentezza e convinzione mi incammino verso nuove possibilità di comunicazione e di vita. La stanchezza, la rabbia, la tristezza, i momenti di stop mi fanno ritornare ai vecchi schemi, alle parole obsolete, ma sempre inferiore è il tempo della ricaduta e più veloce il tempo della rinascita, ogni volta. Il silenzio, la solitudine e lo studio preparano l’incontro con gli altri e le altre nei luoghi della diversità di genere.

 

Ma poi chi se ne frega, caro mio,

le parole sono esseri viventi,

in una gabbia non le puoi rinchiudere

e si accoppiano come voglion loro:

magari saudade è roba latina,

somiglia a ‘solitudine’ e ‘saluto,

dunque è inutile scervellarsi tanto.

Una cosa a noi importa che sia chiara:

a Sarajevo, che poi non a caso

vuol dir ‘serraglio per le carovane’,

il viaggio finì, e le due parole

si ritrovarono e si riconobbero

pressoché identiche. Due nostalgie

che si unirono per dar vita a un canto.”

Paolo Rumiz

 

 

 Riferimenti bibliografici

–          Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967

–          D.H.Lawrence, L’amante di lady Chatterly, Mondadori

–          Edgar Morin, La testa ben fatta, Raff.Cortina, 2000

–          Paolo Rumiz, La cotogna di Istanbul, Feltrinelli, 2010

–          Elif Shafak, Il latte nero, Rizzoli, 2010

–          F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cur.T.De Mauro, Laterza, 2009

–          Patrizia Valduga, Medicamenta e altri mendicamenta, Einaudi, 1989

donnalupo

Sette Gennaio: l’arroganza e la conoscenza

 

donnalupo

 

Ho deciso di aggiungere due chiavi psicologiche di lettura, il confronto e l’importanza del contesto e della paura, alla riflessione di Luisa Muraro della storica Libreria di Milano che a nome delle donne – anche a mio nome – esprime chiaro il suo pensiero:

“La libertà d’espressione è un bene prezioso che va difeso con tutto il coraggio che abbiamo e i mezzi leciti di cui disponiamo. Per la stessa ragione, il bene di esprimerci liberamente va usato senza censure ma con la necessaria saggezza. Offendere i sentimenti profondi di donne e uomini non per una libera trasformazione della cultura ma solo per avere successo, come vendere più copie di un libro o di un film, questo non è saggezza. Peggio ancora è servirsi della libertà d’espressione per fomentare l’odio e la paura tra culture diverse, quale che sia lo scopo.”

La sfida, la guerra, la pena di morte, l’odio, il nemico, la difesa, il torto e la ragione: sono le parole ascoltate e lette negli ultimi giorni e rimandano ad una visione malata, univoca, divisoria, escludente, ancora una volta, infelice ed onnipotente della umanità.

Esercitare il pensiero, il dubbio, l’ironia, la dialettica, il giudizio, la scelta significa credere che nasciamo con libertà in comunità. Chiarisco il significato della saggezza a cui fa riferimento la filosofa.

Non è in discussione la libertà di espressione, ma le espressioni e le libertà. Impariamo la correttezza psicologica delle interazioni, l’atteggiamento di fondo che diventa accettazione nei confronti dell’umanità diversa, impariamo il senso della relazione e il modo di comunicare pensieri e sentimenti.

Le libertà esprimono l’idea di libertà coniugata in contesti diversi, la libertà contestualizzata, che tiene conto di chi si è, del proprio ruolo, di chi sono gli altri e quale ruolo svolgono e tiene conto della situazione nella quale si propongono azioni come lo scrivere e il parlare in pubblico.

Prendo in prestito dalla tecnica di terapia di gruppo in Analisi Transazionale una operazioneil confronto – ampliandone, però l’applicazione. Confrontare significa utilizzare le informazioni che si hanno dell’altra persona, mettendo in evidenza l’incongruenza per sconcertarla, per metterla in crisi, fuori equilibrio.

L’invito di Eric Berne (1) è a decidere con responsabilità il confronto per una maggiore comprensione delle dinamiche interagenti. Mai per conquistare, mortificare e svalutare l’altro/a. Davanti all’inganno, anche inconsapevole o al gioco <a stupido/a> scegliamo di confrontare, certi che l’altra persona sia capace di cogliere l’incongruenza, di perdonarsi e di uscire dall’impasse e “generare una ridistribuzione dell’investimento di carica”. Il rischio è finire nella situazione inutile di accusa e di offesa, nell’attacco polemico, nella lite sfidante che bloccano tutti e non consentono né la coscienza nè la conoscenza.

Le condizioni che permettono il confronto prevedono, da parte di chi lo propone, la risoluzione delle smanie di conquista espresse nei toni di sarcasmo. Da parte di chi lo riceve, il silenzio e la riflessione che possono avviare un eventuale ripensamento; non perché l’esperto o il potente di turno ne sia compiaciuto, ma per la curiosità e la gioia davanti ad una opzione possibile, scoperta proprio attraverso il confronto.

L’ironia, la satira, la battuta presuppongono relazioni e l’abitudine a sorridere insieme di un’esagerazione e la complicità di chi ne conosce i limiti ed è capace di fare il tifo per nuovi apprendimenti.

La proposta è impegnarci sistematicamente per l’autonomia e la consapevolezza di ogni essere umano, è lavorare tenacemente perché le relazioni siano sempre possibili, insegnando con serietà tecniche di comunicazione sana, proponendoci severamente come testimoni di relazioni felici.

Abbiamo paura e la riconosciamo e, attraverso le analisi di realtà, agiamo la protezione.

Sperimentiamo libertà adeguate che manifestino il permesso di essere liberi, ma anche, sperimentiamo la protezione di sé e degli altri/e in un territorio, perdonandoci di non essere forti sempre, perfetti sempre, veloci e seducenti sempre: tutto questo è prevenzione ed è energia contro il potere e, alla lunga, contro ogni terrorismo.

(1)   Eric Berne, Principi di Terapia di Gruppo, Astrolabio, 1986, pp.181-82

Editing: Enza Chirico

Magritte

La Relazione Politica

 Akarsz-e játszani? Vuoi giocare?

Dimmi, vuoi giocare con me?
Giocare sempre,
andare nel buio insieme,
giocare ad essere grandi,
mettersi seri seri a capo tavola,
versarsi vino e acqua con misura,
giocare con perle, rallegrarsi per un niente,
indossare vecchi panni col sospiro pesante?
Vuoi giocare a tutto, che è vita,
l’inverno con neve e il lungo autunno;
si può bere un tè insieme
di color rubino e di fumo giallo?
Vuoi vivere la vita con il cuore puro,
ascoltare a lungo e temere ogni tanto,
quando sulla strada passa novembre
e lo spazzino, questo povero uomo,
che fischia sotto la nostra finestra?
Vuoi giocare ad essere serpente od uccello,
fare un viaggio lungo con nave o treno,
giocare a Natale, sognando tutte le bontà?
Vuoi giocare all’amante felice,
fingere di piangere, un funerale?
Vuoi vivere, vivere per sempre,
vivere nel gioco, che diventa reale?
Sdraiarsi tra i fiori per terra,
e dimmi, vuoi giocare alla morte?

Kosztolányi Dezső, 1912

 

                                                                                   Il Terapeuta. Magritte. 1937                  Magritte

 

A Bruno,

per averla solo intuita,

la Relazione Politica.

E per aver fatto in modo

che quella intuizione

bastasse ogni giorno.

 

Appartengo da più di cinquant’anni ad una cultura che ha difeso l’unione perché qualcuno mantenesse il comando o, almeno, decidesse l’orientamento. Un’idea arcaica di comunione in funzione di un potere, talvolta, inconsapevole e colpevole. E il potere è sempre una questione di troppo amore o di poco amore. Nelle relazioni, riconosco le posizioni di forza, di competizione, di dominio e di sfruttamento che, talvolta, non si presentano come tali e che perciò sono tranelli.

La Relazione Politica cambia il senso comune della cultura corrente. Prevede operazioni chirurgiche su tentativi ideologici sottili di asservimento. Essa è carnale, generativa ed è un modo per conservare la memoria e continuare a crescere.

In questa ricerca non indago la centralità della relazione nell’agire politico, piuttosto la prospettiva della differenza di genere che rende politico ogni agire consapevole. La relazione si fa politica  quando l’azione cosciente di due persone è contestualizzata e riguarda tutti, ricade su tutti, modificando in una comunità modi di pensare comuni e scontati.

La formula femminista “il personale è politico” indica la singolarità dell’esperienza che assume valore politico, ovvero quell’esperienza che non si esaurisce nella singolarità. Insomma, partire da sé non vuol dire fermarsi presso di sé. Si tratta di una pratica che individua precisamente il conflitto rispetto alla realtà data e produce altri significati, altre misure, altri saperi. (L.Colombo)

La psicologia appresa con il diploma di laurea e, in seguito, con la specializzazione in Analisi Transazionale, mi insegna filosofie, metodologie e tecniche perché diventi proprio io, perché esprima me stessa. L’unica, l’ultima autorità, rispetto a me, sono io: questa una delle numerose lezioni in quattro anni di analisi personale. Il riconoscimento dell’io, la protezione di sé, il permesso di esistere, l’energia che fluisce fra pensieri, sentimenti e azioni: si costituisce così il cammino del costruirsi Persona.

La Relazione Politica, attraverso il pensiero della differenza teorizzato da Carla Lonzi e da Luisa Muraro, aggiunge una nuova prospettiva: nella relazione ci accompagniamo in due verso quello che diventiamo e ne teniamo conto. Dal diventare quello che si è, all’essere quello che andiamo diventando: fra una prospettiva e l’altra c’è la morte di mezzo, c’è la presenza del limite, del contesto, dell’altro, diverso e in conflitto.

Riconoscersi attraversati dalla differenza sessuale significa riconoscere di non poter mai ricominciare da zero, ma che ci si trova sempre nel bel mezzo di tante cose già fatte, malfatte, nominate, imposte, rimediabili o irrimediabili. (Luisa Muraro, p.7)

È il passaggio da una visione egocentrica a possibili prospettive egocentrate. Da un io obeso che cresce come il muschio senza radici, alle espressioni numerose di sé, agli <ii> nelle relazioni.  Risolti gli ordini copionali, con misericordia, ci assistiamo nel cambiamento, tenendo conto dell’asimmetria di genere.

La Relazione Politica propone nuove forme di coscienza. Fra due persone, il dolore, l’amore, la morte possono tradursi in comunicazioni ricattatorie: le tragedie greche testimoniano!

Il due della differenza sessuale, come il tre della Trinità, non serve per contare. Il punto è capire che la differenza attraversa ogni singolarità e le impedisce di essere tutt’intera e dunque di bastare a se stessa. (L.Muraro, p.7)

Sperimentare una Relazione Politica significa risolvere il sentimento-ricatto e il pregiudizio di inadeguatezza, davanti a chiunque, in qualsiasi situazione, a favore della predisposizione mentale a capire e a favore della curiosità. Questo tipo di relazione è il contrario della noia, rispetto a ciò che in due mettiamo al mondo, con la meraviglia dell’ignoto.

La colpa rimane il territorio del potere, del ricatto, del malsano gioco psicologico. Le comunicazioni gerarchiche offrono un esito sicuro. I giochi psicologici, nella inconsapevolezza e ripetitività, propongono sempre un finale certo, risolutivo e separatista, confermando una Vittima, un Persecutore e un Salvatore, ciascun ruolo isolato.

Nella Relazione Politica il confronto sano che tiene conto della realtà, risolve immediatamente il senso di colpa. La consapevolezza è l’antidoto al senso di colpa.

La Relazione Politica non si esprime per bontà della vittima sacrificale, né per la mania di salvare l’umanità, né per la pretesa dell’intellettuale da banco. Essa è, invece, coscienza nel contesto, coscienza dell’esperienza che si vive e sulla quale si ragiona assieme. E’ il disincanto che arriva dall’aver fatto i conti con gli accadimenti reali e dall’averli pensati assieme criticamente. Per questo, la Relazione Politica è essenzialmente leale.

La Relazione Politica ha valore in sé, non prevede ruoli da spartire, non ha valore strumentale, non serve necessariamente a mettere al mondo figli, a comprare una casa, ad accudire la famiglia, a trovare un lavoro. Questa non serve a mantenere l’equilibrio per sopravvivere, a stare sereni, a divertirsi un po’ e a mostrarsi maturi. Non ci sono ruoli nei quali stare a confermare copioni difensivi. Viene risolto il rischio che l’altra persona possa peccare di opportunismo perché ciascuna è strumento naturale, convinto e gioioso dell’esistenza altrui e traghetta la relazione verso altri orizzonti.

La realtà è: ci offriamo il permesso di non invocarla in continuazione, di non condannarci alla dichiarazione d’intenti. Contestualizzare significa fare i conti con il tempo e gli accadimenti. Il privilegio, nella Relazione Politica, è che l’amore rimane intatto e accresce il valore della comunità. Esso, facendosi attraversare dalle prove e dalle valutazioni, rimane, negandosi. L’amore nella Relazione Politica esprime l’onestà di ogni essere umano nel contesto delle quattro variabili: genetica ed ereditaria, ambientale, casuale e personale.

Con queste riflessioni richiamo le esperienze dell’adultità e della tarda maturità. Per riconoscersi serve la disciplina dell’attesa, è fondamentale amare la relazione, desiderare di coltivarla, oltre il bene dovuto a sé e all’altro/a. Ogni persona ha atteso perché fosse la relazione ad innamorare, ad interessare, offrendosi come territorio, come causa del divenire dell’una e dell’altro.

Bisogna essere autonomi per godere della simbiosi artistica che nega il legame come struttura legittimata da un potere esterno per riconoscerlo, poi, come dono del presente. Relazione artistica perché non la si difende e non la si pretende, la si attende…

La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile; le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano. (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel)

Autonomia e indipendenza sono concordate assieme, per il bene proprio e altrui. Di fatto siamo due universi distinti. Da una parte l’eterno presente dell’azione, il qui e ora dell’impegno, dove vivere equivale ad agire. Dall’altra la narrazione, il passato, il senso della recinzione. Solo quando lo scarto fra i due paradigmi culturali e temporali è registrato, allora la Relazione Politica prende forma.

In essa, è costitutivo il conflitto, il divergere, l’eccedenza sana perché cresce sull’autonomia psicologica. Si è soli, riscoprendo il sollievo del silenzio, perché non si possono tenere sempre le note alte. Nella Relazione Politica è la cura che si libera dalle catene della salvazione dell’altro a tutti i costi e  diviene libertà, presa in carico gioiosa, compagnia consapevole ed ironica.

L’una dà la forma, l’altro ubbidisce. E viceversa. In latino oboedire è composto da ob-audire, udire stando di fronte a qualcuno. Ma l’obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo chi è libero può obbedire. Nella Relazione Politica, l’obbedire è la possibilità sana degli ordini “Piaci” e “Compiaci”, è la benedizione offerta nella libertà. Ascoltare e obbedire vanno, dunque, compresi all’interno di un dialogo e presuppongono un’alleanza  perchè motivati da una forza simbolica.

Il silenzio non è assenza di presenza ma è esercizio di parola che tace e la mancanza è pratica simbolica della presenza dell’altro. L’assenza ha valore simbolico quando diviene strumento per avviare la ricerca di significati. Come la gratuità che è, soprattutto, simbolica,  perché non sia un falso manipolativo; infatti, nel dare c’è sempre l’attesa di essere ricambiati in un certo modo, <a buon rendere> , pericolosamente, si afferma.

La forma dell’amore politico è sperimentabile quando non è per me e per te che io e te siamo in relazione. La relazione fra due è simbolicamente erotica, di éros che nasce da Pòros e Penìa, ricchezza e povertà, risorsa e limite, desiderio e realtà.

Il desiderio è progetto nella realtà –  al contrario dell’aspettativa magica –  se ne fa carico, la vede e la trascende. Esso è in gran confidenza con la solitudine, per reggere la distanza dall’altro, per lasciarlo essere quello che è e che diviene in una prospettiva sempre comunitaria.

L’apprendimento che ci viene incontro e che, in maniera diversa ci unisce, è l’appartenenza fra libertà e protezione, la realtà fra immaginazione e morte.

Vai pure,  non è vattene o me ne vado, non è ti lascio o mi lasci, significa: faccio il tifo per te mentre vivi, chè tu possa essere felice. Con gentilezza:  “la madonna ti accompagni”, si dice nel mio dialetto pugliese.

Vai pure, dal latino vivas: ché tu viva, ché stia in buona salute, ché vada!

Vai pure: ci sono e ci sei, in attesa che l’intuizione divenga ricerca, pensiero, scelta agita.

Vai pure per rimanere presso l’essere noi.

Vai pure perché sta accadendo ed è così che si compie la realtà.

Vai pure sorvegliando  e amando ciò che diventiamo.

Vai pure fra la gente verso i fatti che ti attraverseranno.

Vai pure così acquisiamo il ricordo e ne decidiamo il racconto.

Vai pure: solo così “io sono a te” e “tu sei a me”. Non solo il desiderio e l’appartenenza, ma la realtà del desiderio e la realtà dell’appartenersi.

 Vai pure, come la benedizione di un’alleanza che non viene meno.

 

Pubblicazioni considerate

  • Carla Lonzi, Vai pure, et al/Ed, 2011
  • Luisa Muraro, Non si può insegnare tutto, Ed.La Scuola, 2013
  • Laura Colombo, La violenza sessista non danneggia gli uomini, anzi, 24 luglio 2014  

 

 Ringrazio Alessandra Cappelluti  per il conforto e il confronto

 Editing: Enza Chirico

Stress da esami: realtà o leggenda metropolitana?

Pubblicato sul mensile PRIMOPIANO – agosto 2014

 

Accetto l’invito a proporre una riflessione sullo stress da esami di stato, adesso che gli ultimi diplomati si godono spezzoni di vacanze.

L’ipotesi: piuttosto che scrivere di stress legato agli esami e agli studenti, scelgo di considerare le ansie genitoriali e familiari come sintomo di veri e propri disturbi culturali legati alla mentalità, ad una visione della vita e dell’apprendimento oggi non più adeguata.

In fondo, ogni situazione di malessere ci segnala il momento di cambiare prospettiva rispetto ad una situazione. A discapito di film, romanzi e canzoni che provano a riconfermare il copione dell’esame finale come momento epico ed eroico che necessariamente divide il <prima> incolto dal <dopo> maturo.

Occupandomi di Gestione di Risorse Umane nelle aziende, confermo che la selezione e la valutazione della persona sono momenti ricorrenti fondamentali in un percorso professionale. Apro, invece, discussioni sulle modalità, sugli stati d’animo che rimandano a innegabili convinzioni rispetto alla educazione e alla produttività nel mondo del lavoro.

Lo stress da esame è approvato socialmente. Diviene distintivo di giovani, in particolare quelli che frequentano scuole considerate “importanti”. Sono loro che maggiormente assumono l’idea “viziata” dello stress attraverso determinati ordini psicologici, inconsapevolmente inviati dalle figure genitoriali performative. Gli studenti e le studentesse registrano che per “andar bene”, per essere riconosciuti/e nel contesto sociale devono essere forti, perfetti/e, devono mettercela tutta, devono compiacere.

Tipologie variegate di ragazzi prendono forma: quelli  ai quali non importa nulla e  gli altri che soffrono di disturbi diversi legati all’alimentazione, all’umore, al sonno; ragazzi come geni incompresi e quelli visti come eredi nella parte marcia della dinastia familiare, rappresentano gli estremi di una cultura che allinea gli esseri umani come prodotti più o meno riusciti di un popolo occidentale vincente e telegenico a tutti i costi… quasi pronti per un reality qualsiasi.

Tre assunti di base, come inizio, per avviare riflessioni antropologiche rispetto alla crescita dei cuccioli d’uomo i quali sono, nella specie animale, i più bisognosi di tempo per crescere.

Il primo pensiero: come figure genitoriali iniziamo a riconoscere e a ridiscutere come virtù, la paura di non riuscire e di non essere i primi, il successo valutato sempre rispetto all’altro, mai per se stessi, l’efficienza e l’efficacia, la necessità di rientrare in circuiti esclusivi di potere (in verità, solo escludenti), di sforzarsi di assomigliare a un modello esterno glitterato. Tutto da ridiscutere, a favore del privilegio di essere ciò che ciascuno è e di custodire con determinazione e gentilezza la propria crescita in ogni tappa.

Il secondo pensiero: l’apprendimento di un essere umano, continua ad accadere coltivando la potenza, l’energia come interesse verso l’esistenza, la protezione di sé, il permesso alla curiosità, il perdono rispetto al possibile fallimento e ad ogni segnale di limite della persona stessa.

Il terzo pensiero: in una relazione di reciprocità, figure genitoriali e giovani studenti sono motivo di apprendimento le une per gli altri: ci trasformiamo tutti o nessuno cresce. Questi pensieri non manifestano alcun cedimento rispetto alla serietà, alla fatica, alla disciplina che qualunque apprendimento, in qualunque campo, esige. Semmai,  questi liberano dai processi mentali che obbligano i nostri figli a pensare alla vita come un sacrificio, al lavoro come una lotta, alle relazioni solo come intrighi fra furbizia e manipolazione.

Allora, la proposta è conservare lo stress come categoria medico-psicologica da considerare in altre occasioni. Al contrario,  vale più che mai  l’invito ad accompagnare gli studenti attraverso i cinque anni di scuola superiore, mentre si costituiscono persone, ad accudirli con discrezionechiedi a me qualora avessi bisogno – con affetto conta su di me, sempre – e ironia – come suggerisce un personaggio di Finale di partita di Samuel Beckett, “Sei sulla Terra, non c’è cura per quello”.

 

Editing: Enza Chirico

L’autorità della presenza

L’autorità non offre garanzia ma si offre come un’opportunità;

chiede di essere riconosciuta e praticata per quello che promette.

Luisa Muraro

 

 

A Franco,

ché il contrario dell’amore non è l’odio.

E’ la paura

 

In questo lavoro rendo conto delle ricerche intorno all’autorità del ruolo dei miei clienti come responsabili aziendali e titolari e di me nella interazione come autorità per loro. Talvolta, davanti alla richiesta di sospendere le attività,  taccio e vado via. E questo mi pesa come un abbandono, una incapacità a spiegare le ragioni della mia presenza in azienda. Mi riduco impotente, speculare di un cliente impotente, in una azienda annichilita.

Ho imparato che l’autorità è “un bene immateriale, pregiato… è virtù cardinale” (L.Muraro)

E’ fondamentale che le parti si ridiano energia e, quindi, autorità reciproca, al fine di produrre, oltre al reddito, economie di felicità.

La convinzione diffusa – il meccanismo di difesa – è che la psicologia del lavoro, delle organizzazioni, dei processi relazionali non serva, costi troppo e che sia una complicazione inutile, un neo da estirpare. Nei periodi che generalmente si indicano come crisi, invito le persone a prendersi cura, attraverso il lavoro psicologico-relazionale, della paura di fallire, di non farcela, di non essere adeguate, di non essere comprese e di non capire.

Pensare assieme, raccontare la propria esperienza serve ad ampliare l’orizzonte, a costruire la speranza, a trovare opzioni, a illuminare altre prospettive, a darsi le motivazioni. In una parola, serve ad offrire un senso alla difficoltà. Ed è la mancanza di senso a far chiudere le aziende, ancor prima del fallimento economico.

Credo a Luigi Einaudi che nel 1944, in piena guerra,  affermava che l’imprenditore è uno che realizza progetti, non è uno che massimizza i profitti.

I responsabili delle aziende che conosco, proprio tutti, usando il linguaggio analitico transazionale, necessitano, per essere autorità, di darsi il permesso di esistere. E di esistere interamente, di esserci come uomo e come donna, diversi. E di accettare con gioia e curiosità non solo la diversità in partenza, ma il diventare diversi per se stessi, mentre le relazioni accadono.

In un’azienda, cosa significa darsi il permesso di esistere  e di esistere in prima persona?

Seguendo gli studi di Eric Berne, le ingiunzioni – non puoi…, non devi…, non essere… –  sono comandi, informazioni, messaggi di copione negativi e restrittivi. Ogni essere umano acquisisce inconsapevolmente le proprie ingiunzioni come una modalità per sopravvivere ai contesti, per essere accettato dal gruppo di appartenenza in quel momento.  Fra le ingiunzioni, la più velenosa, in una organizzazione,  è non esistere.

L’ingiunzione si manifesta paralizzando il pensiero, rendendo insicura qualsiasi azione intrapresa, facendo affiorare l’inutilità di ogni scelta, l’impossibilità di ogni opzione e via di uscita. Incontro esseri umani condannati al dubbio, all’incertezza esistenziale, alla spada di Damocle, alla mercé della sfortuna (meritata e non fatale) perché non sono stati abbastanza bravi e capaci. Tragicamente soli, mi rendo conto di non poterli incontrare, nella relazione,  mai e da nessuna parte.

L’ingiunzione non esistere si esprime in azienda come malattia culturale: la mia esistenza e l’esistenza degli altri non producono significati, non sono in comunione, sono invisibili e sterili. Gli altri e le altre rappresentano problemi ulteriori da risolvere, grane da allontanare e da sfuggire. Rivivo il vecchio paternalismo che produce di più e più velocemente facilitando. l’iperadattamento e la simbiosi: ogni titolare/responsabile costruisce le basi per non esistere, per non contare, per non essere visto davvero da alcuno.

La mia ipotesi è legare la risoluzione dell’ingiunzione mortifera all’acquisizione di autorità.

Supero l’idea che convenga essere autorevoli e non autoritari. Credo che dipenda dalla situazione e dalle persone il proporsi più o meno come autorevoli o autoritari. Sono convinta che la distinzione proposta non serva più nel momento in cui assumiamo il legame fra autorità ed esistenza.

Auctor, in latino, è il creatore, il promotore, il testimone, il maestro. Io non sono autorità quando non produco, non creo, quando non offro alcuna testimonianza.

Al contrario, sono auctor, attore e attrice, quando decido di spendere la mia presenza, in situazioni reali, anche conflittuali.

Il conflitto non è una condizione negativa e io non indico la mediazione dei conflitti, ma l’educazione a riconoscere e a spiegare le proprie ragioni, ascoltando e facendosi carico di quelle altrui.

E’ un modo di trovare insieme diverse possibilità. Darsi il permesso delle contrattazioni riduce sicuramente i tempi delle soluzioni trovate e crea comunità, benessere e successi.

Una delle prospettive possibili, abitando la relazione, è che sono davanti ad una persona che morirà, che se ne andrà storicamente o metaforicamente.

Ogni essere umano lo percepisce, lo sa, anche quando non lo chiarisce del tutto a se stesso. Questo pericolo fa paura e, dunque, sceglie fra due possibilità: fuggire da quella persona o attaccarla come causa del proprio malessere.

Questa è una esemplificazione per chiarire che ogni essere umano ha autorità in quanto è in relazione, quando registra la propria angoscia di morte accogliendola, quando decide di agire la paura come meccanismo di difesa consapevole, come protezione.

Il contrario dell’amore non è l’odio, è la paura. E la paura negata,  diviene la colpa dell’altro.

Seguendo gli studi di Luisa Muraro, capisco che  l’autorità è fondante, non fondata, non ha un fondamento, essa stessa è un fondamento. Non è data la relazione senza che ciascuna persona si riconosca e riconosca l’altra come autorità, come avente diritto e dovere ad essere quella che è.

Non esiste la relazione delegittimando l’altro rispetto alla sua esistenza e, nel caso dell’azienda, al suo ruolo. Le idee, le decisioni, le convinzioni sono criticabili, la persona, no: essa è autorità.

Nel caso contrario siamo davanti all’ingiunzione non esistere.

L’autorità è onesta perché dichiara l’esserci, lo spendersi nell’interezza del sé, in un confronto chiuso in ogni incontro e riaperto ad ogni ripresa, come in un viaggio a tappe.

Senza l’accettazione consapevole dell’esistenza di sé e dell’altro essere umano, riconosco soltanto le manipolazioni del potere e gli inganni della gerarchia conservativa che si difende e della base che si avvilisce e si ammutolisce lagnosa.

L’autorità diviene pratica di relazione circolare quando consente il racconto di sé, la condivisione dell’esperienza, lo scambio di pensiero, il silenzio come riflessione presso di sé, prima della contrattazione e verso la trasformazione.

“Penso che dire: io esercito autorità sia semplicemente dire che cosa si sta svolgendo nella relazione”(Cigarini,p.28)

Ecco il messaggio: siamo autorità in quanto vive/i, partecipanti coscienti, testimoni credibili nella diversità, ombre e luci di uomini e di donne che interagiscono.

L’autorità mantiene la sua promessa, esprimendosi con i sintomi evidenti della fatica gioiosa, della presenza collaborativa e conflittuale, esprimendosi come risposta di senso alla realtà.

 

Libri consultati

Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg&Sellier, 2013

Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, 2010

L’autorità femminile, Incontro con Lia Cigarini, Ed.Centro Culturale V.Woolf,1991

 

 

La Scuola di Educazione alla Persona

Voglio pensare e costituire in ogni azienda

una Scuola di Educazione alla Persona

perché mi sta a cuore che la condizione umana

si legittimi come bellezza lavorativa, anche

A Lelio

affinché, imparando

ad agire il talento

e a praticare la paura,

confermi la scelta di Adriano Olivetti,

attraverso lo studio e la ricerca,

il riconoscimento e  la creazione

 

L’articolo 41 della Costituzione Italiana ci informa che l’iniziativa economica privata è libera e che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

L’Articolo 2 ci ricorda che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità  e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Questi due articoli rappresentano la ragione e legittimano la presenza, in ogni realtà aziendale, della Scuola di Educazione alla Persona.

Trasformare il sistema organizzativo credendo in una morale d’impresa e praticandola,  significa ragionare su una nuova visione antropologica, dei lavoratori e delle lavoratrici. Di lavoro si può e si deve vivere bene. L’organizzazione è un posto dove essere felici, non solo dove realizzare e percepire un reddito.

L’Azienda, oltre a seguire le leggi e a pagare le tasse, crea conoscenza e garantisce il processo di umanizzazione. La Scuola accompagna, scrive assieme ad ogni persona una storia, propone ragionamenti sulla quotidianità, costruisce una cittadinanza organizzativa, crea un patrimonio relazionale.

Le domande ineludibili sono: Qual è il senso del mio lavoro qui dentro? Quale il senso del denaro? Quale il senso della produttività e della spesa? Quali i guadagni in termini non solo economici, ma psicologici, comunitari, politici?

La Scuola di Educazione alla Persona non è un modello da applicare, ma un orientamento da seguire, una mentalità da acquisire. Le persone e le relazioni al centro dell’organizzazione, non sono una formula, ma una pratica che previene il fanatismo, la demagogia, l’idolatria.

I risultati dell’azienda non dipendono solo dalla tecnologia o dalle scelte di mercato o congiunture finanziarie, ma dal bagaglio di conoscenze, di creatività, di servizi di qualità, di cambiamento territoriale in continua costruzione.

Nel lontano ’94 un imprenditore mi disse che non poteva “tenermi” (ndr: per imprenditori pugliesi, accettare un contratto) e pagarmi per studiare!

Ribadisco la proposta che la qualità della prestazione e la qualità della relazione hanno pari valore. La competenza tecnica è indistinguibile dalla presenza sociale positiva e proficua di ogni essere umano, dal suo impegno culturale e politico. La minaccia che avverto non è il profitto facile, come si diceva una volta, ma il profitto inutile, apparente, inesistente seppur pletorico.

La Scuola di Educazione alla Persona, fedele ai principi della Costituzione, si fa strumento per pensare, capire, stabilire relazioni fra mondo imprenditoriale e mondo scientifico, fra mondo sindacale e mondo accademico, fra le attività politico parlamentari e le ricerche.

La cultura della libertà è l’opposto dell’ “ammaestrare” le persone ricattandole sul bisogno di lavoro. La Scuola propone di assistere ciascuno nel suo divenire persona perché propone una idea di sviluppo economico, all’interno di una comunità partecipe ed avanzata che non contrasta le spinte di trasformazione.

Talvolta i personaggi cresciuti nelle organizzazioni non sono adeguati, talvolta il mondo accademico e scientifico, si chiude o emigra. Talvolta gli abusivi falsificano e danneggiano la ricerca psicologico-organizzativa. Il lavoro psicologico aiuta a diffidare dell’oblazione maliziosa, a riconoscere i mecenati e ad allontanare i filantropi umanitaristi.

Parlare e scrivere di Risorse Umane non significa necessariamente essere dentro la storia di una Organizzazione. Non è cambiando tecniche di gruppo che si esercita la professione di consulente nella Gestione Risorse Umane. Non è parlando di parità o progettando formazione per gruppi di donne che si offre un contributo alla differenza di genere.

In un periodo di grandi confusioni è determinante essere radicali, netti, evitando semplificazioni eccessive e omologazioni.

La profondità è sempre un grembo: complesso, ampio, faticoso, lento.

L’etica delle Risorse Umane non si risolve a temere la mancata trasparenza o le eventuali controversie,  privilegiando la distanza dalla dimensione spirituale, psichica e filosofica.

Il rischio dell’illusione egoica è in agguato e, come psicologa,  lo assumo minuto per minuto nelle attività che svolgo, in relazione continuata con la Figura di Riferimento Aziendale.

Il lavoro è trasversale e non confusamente plurale, è complesso, mai superficialmente complicato.

All’interno della Scuola di Educazione alla Persona si avviano pensieri e formazioni intorno al senso della giustizia, della responsabilità, delle libertà, della cura dell’ambiente.

Viene capovolto il metodo del Problem Solving a favore del Metodo delle Prospettive, ispirato alle riflessioni di Cézanne.

 “Non so raggiungere l’intensità che si manifesta davanti ai miei sensi, non ho quella magnifica ricchezza di colori che anima la natura. Qui, in riva al fiume, i motivi si moltiplicano; lo stesso soggetto, visto da angolazioni differenti, offre una materia di studio così interessante e varia che credo che potrei lavorare per mesi senza cambiare posto, solo inclinandomi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra” (p.146).

 “Devo lavorare sempre, ma non per arrivare al finito, che suscita l’ammirazione degli imbecilli… Non devo cercare di portare a termine, se non per il piacere di fare cose più vere e più sapienti. Credetemi, c’è sempre un’ora in cui ci s’impone e si trovano estimatori molto più ferventi, più convinti di quelli che sono lusingati solo da una vana apparenza” (p.60)

Quindi, ogni giorno, in azienda non c’è un problema da risolvere, ma ci viene offerta la comprensione della realtà, considerandola da innumerevoli posizioni.

Non si pongono problemi da risolvere,  ma apprendimenti da conseguire attraverso le relazioni, lo studio, il confronto, la ricerca, le sperimentazioni.

L’idea di un lavoratore  competente rimanda direttamente al processo di una persona  impegnata nella costruzione relazionale ed aziendale. L’educazione è la dimensione del divenire umano, del divenire uomini e donne.

Oltre la meschinità dell’incentivo, altro strumento di un potere gerarchico che non si fida, c’è la crescita del bene relazionale. Contro l’adulterazione delle comunicazioni di potere, l’Educazione alla Persona  serve a resistere alle corruzioni e influisce sulle decisioni riguardanti le persone.

Oltre il capriccio, l’ambizione, la vanità, la superficialità, il benessere posticcio, nelle formazioni che la Scuola promuove si affrontano temi controversi e in modo controverso, legati alla salute, al territorio, alle politiche del lavoro, alle nuove economie.

Davanti a questo scenario prospettato, praticare la paura, significa riconoscerla come compagna protettiva perché segnale di governo e di consapevolezza. Seguiamo un personale percorso di crescita. Una mancata coscienza rispetto alla paura rende autoreferenziati e autocentrici proprio quei responsabili più intelligenti e potenti: perché a loro spetta la scelta iniziale di promuovere le trasformazioni.

Questo lavoro deve essere fatto.

 

Libri di riferimento

  • Adriano Olivetti, Il cammino della Comunità, Ed.di Comunità, 2013
  • Adriano Olivetti, il mondo che nasce, Ed.di Comunità, 2013
  • Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, 2010
  • Paul Cézanne, Lettere, SE, 1985

 

Editing: Enza Chirico

 

Donna di isola, donna di eremo, donna di cella. Storie di formazione permanente

 

Articolo apparso su www.bitontotv.it, maggio 2011

 

Lidia Ravera, A Stromboli, Laterza, 2010

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, 2011

Goliarda Sapienza, L’Università di Rebibbia, Rizzoli, 2006

Nei confronti di certi libri mi coglie una sorta di riserbo, un pudore che si ostina a custodire per molto tempo prima di dire. Decido di scriverne, osando ancora incontri fra donne diverse che solo attraverso le mie esperienze di lettrice si incontrano. E scelgo di non riportare alcun brano perché le parole rimangano, tutte, intatte, quando chi legge le incontrerà.

Sono libri di formazione di base, racconti che accompagnano in quel <turismo del vacuum>  che è arte dell’essenziale. Goliarda Speranza, Lidia Ravera, Adriana Zarri raccontano storie che offrono indicazioni metodologiche per itinerari del corpo, dell’animus/a, della mente. Un po’ come una guida dei sentieri di montagna o un manuale del nuoto che non vanno solo letti, ma impongono l’esperire.

Mi rendo conto di quanto, proponendo percorsi formativi nella mia attività lavorativa, sia evidente una resistenza culturale oltre che psicologica, una incapacità di fermarsi, per andare indietro, in profondità, e apprendere a dire <io, con…>. Ci fa bene riproporre il ritorno alla propria isola, cella, eremo, come ritorno all’origine, per ritrovare la misura degli eventi frantumati nella quotidianità frettolosa.

Le autrici ripropongono percorsi di riflessione interiore per diventare soggetti, unici, guariti dall’ossessiva ripetizione dell’uguale.  Ripenso ai nessi tra vita, tempo, qualità del lavoro, tra welfare e cura. Costitutivo di ogni cammino di formazione è viversi isola, cella, eremo, guardando il limite, il confine, la realtà per riconoscere, valutare, per avvertire la privazione pungente e consentire che nasca il desiderio. Il rifugio accoglie e lascia andare e, talvolta, si propone come luogo da abitare e che consente di superare l’equivalenza tra vita e attivismo. Diviene indispensabile farsi interpellare dal silenzio e dalla riflessione per ritrovare la sana dimensione della collettività. Anche la cura dell’altro può riproporre una relazione di potere, anche la libertà è posizione adolescenziale di volere e potere fare tutto, specie se si è a casa propria, anche l’autonomia delle scelte può essere deriva di narcisismo. Attendere ciò che emerge spontaneamente dalla cella, dall’isola, dall’eremo, significa lasciare accadere nuove forme, lasciare emergere dal silenzio prospettive impreviste, piuttosto che infilare a forza i pensieri nella bottiglia, nella vecchia mentalità.

Lidia, Adriana, Goliarda, donne che sperimentano, partendo da sé, la libertà che tiene conto delle premesse e delle condizioni da cui scaturisce, libere dall’ossessione di avere, di possedere, di essere, a costi alti, visibili.

 

 

Cambiamenti del maschile

Articolo apparso su www.bitontotv.it, novembre 2010

 

Niccolò Ammaniti, Io e te, Einaudi, 2010

Ivan Cotroneo, Un bacio, Bompiani, 2010

Andrea Manni, Strano l’amore, ed.e/o, 2010

Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità, Einaudi, 2010

Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita. (Prefazione di Goffredo Parise al libro di F.Piccolo)

Negli ultimi mesi di lavoro, sono frequenti gli episodi di uomini che mi evitano, aspettando che il tempo della consulenza esterna passi, manifestando una resistenza culturale più grave di quella psicologica rispetto ai processi di consapevolezza avviati in azienda con la formazione. Mi convincono, allora, questi scrittori, maschi, “ostaggi dell’Autonomia dell’Irrequietezza” (Manni, p.17). Nella quotidianità dell’organizzazione appare sempre più chiara la vecchia e irrimandabile <questione maschile> che alimenta il potere attraverso il rapporto uno-massa. La relazione è pensare assieme e operare per il bene comune, è fondare i legami non più solo sulla forza, ma sulla capacità di comunicazione e comprensione reciproca. “Una delle operatrici mi aveva spiegato che non esistono persone belle o brutte, esistono solo quelli che hanno qualcosa, e alla fine tutti, chi più e chi meno, hanno sempre qualcosa se hai voglia di guardare bene.” (Cotroneo,p.14)

Gli autori ci aiutano nella riscrittura del potere maschile e del potere patriarcale proponendoci l’incontro con personaggi che si adattano e contrattano, che arrivano a vedere l’altra persona nella sua fastidiosa alterità e non come appendice. Uomini intelligenti, nelle pagine lette, perché capaci di desideri e di immaginazione.

“Poi l’ho vista. Stesa a terra tra i soldi, sola e disperata. Dentro di me qualcosa si è spezzato. Il gigante che mi teneva contro il suo petto di pietra mi aveva liberato.” (Ammaniti,p.85)

Rifiuto l’alternativa che molti uomini propongono tra il consumo del corpo, della mente dell’altra/o e l’autocontrollo perbenista coperto dalla pretesa buonafede o dalla concessione all’ansia del ruolo. Accettare la libertà di differire, di divergere, oltre le proiezioni personali, significa essere liberi, significa pensare, proporre relazioni reali, sentire una <piccola felicità malinconica>. “…pian piano, invece, ho imparato a resistere, e resto affezionato alle cose che mi piacciono, penso che non fa niente se sono arrivato tardi. Mi sento un po’ stupido, ma un po’ felice lo stesso.” (Piccolo,p.50)

Il pensiero dominante in tutte le mie esperienze aziendali non è l’episodio conclusivo dell’esclusione altrui, ma ciò che la precede: la concezione del gruppo, del lavoro, della relazione, dell’organizzazione stessa.

Propongo, regalando questi libri, di cominciare a parlare delle nostre modalità relazionali, dolorose e gioiose, di come ci esprimiamo nelle comunicazioni, di come costruiamo le relazioni, di come le neghiamo, di come ne abbiamo paura.

Non è tempo perso, il tempo dei nostri personaggi; essi maturano attraverso le tappe dell’esperienza, non buttando via niente. Divenire capaci di realtà vuol dire attraversare l’esperienza del limite, della parzialità, della distanza, della diversità, della perdita del controllo sulla propria vita e su quelle degli altri.

La realtà della faticosa vita quotidiana diventa degna quando arrivo all’incomprensione davanti all’altro, a registrare frasi, atteggiamenti che non mi aspettavo. Se rinuncio al ricatto seilasolitascemaillusa, allora, sperimento quel <consegnare l’altro a quello che è> che la riflessione del filosofo insegna e che la metodologia psicologica chiama decontaminazione.

“Mi faceva impazzire, quando vedevo un film, che papà e mamma stessero sempre a discutere della fine, come se la storia fosse tutta lì e il resto non contasse nulla.” (Ammaniti,p.96)

Il tempo di quel <resto> che rimane fra la pretesa della prima e dell’ultima parola è il tempo donato alla relazione. Non esistono geni dell’aggressività e lo studio del giovane Telmo Pievani allontana i pregiudizi sulla violenza innata. È la scienza, oltre all’arte e alla letteratura, a mettere in luce, nelle stesse specie, la varietà di strategie adattive improntate alla solidarietà di gruppo, alla reciprocità e all’altruismo.

Nelle storie raccontate da ciascun autore è superata l’idea infantile del Vero Uomo, a favore del limite dell’uomo vero che, abbandonati i narcisismi adolescenziali, decida di aiutarmi, per esempio, a districare la matassa dei rapporti simbiotici e fusionali nei luoghi di lavoro. Puzza di alibi la chiusura nel violento silenzio con l’ambaradam di comportamenti escludenti, manipolativi, legati al potere piccolo piccolo di tenere in scacco, di decidere senza l’altra/o, di stabilire a prescindere.

Aspetto uno scatto di dignità verso una relazione nella quale si apprende proprio perché conflittuale, aperta, sempre, a incomprensioni, dubbi, ripensamenti.

“Anzi, nella notte, quando i pensieri prendono corpo con più coraggio, penso che c’è di più: e se sono io con il mio desiderio di guardare e di tenere tutto insieme, tutta la strada – se sono io che con il mio desiderio che le cose accadano in modo morbido, le faccio accadere in questo modo morbido?”(Piccolo,p.83)