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Cultura d’azienda e leadership: una lettura secondo l’A.T.

Atti del Congresso Italiano di Analisi Transazionale 1991

Introduzione

L’A.T. viene da tempo utilizzata come teoria della comunicazione nella selezione e formazione del personale in azienda. Il modello funzionale degli Stati dell’Io, le transazioni, le carezze, i giochi sono strumenti utili nel migliorare le interazioni fra individui all’interno delle imprese. Negli ultimi tempi l’organizzazione ha il bisogno di una sorta di check-up che permetta di capire, prima di decidere di intervenire, che analizzi, dapprima separatamente poi in modo integrato, la leadership e il management. L’una è legata alla creazione e modificazione della cultura, l’altro è visto come aspetto operativo. Si delineano nuove figure professionali, gli analisti della cultura, i professionisti di pronto intervento che alla fine della “cura”, come i medici dimettono i pazienti, lasciano l’azienda. Compiti dei “green berets” sono: ristrutturare l’organizzazione, individuare i ruoli, ridistribuire le responsabilità attraverso un percorso emotivo-cognitivo in un intreccio spesso complicato di lavoro e legami affettivi. Successo aziendale e coerenza culturale vanno di pari passo. Il management deve essere coerente con una certa visione del mondo, con il senso che l’uomo dà alla sua esistenza e all’universo, coerente, quindi, con la leadership.
Il mio lavoro evolve attraverso il passaggio dall’applicazione alla teoria, dalla metodologia pratica alla comprensione delle finalità.

Analisi Transazionale e Analisi Organizzativa

L’A.T. ha la capacità di interpretare le problematiche profonde della esperienza organizzativa nei suoi aspetti sociali e psicologici.
Scienza dell’impresa è, oggi, non solo effettuare prove e controlli ma analizzare il clima, la filosofia, l’ideologia, lo stile, cioè i copioni ma anche i palinsesti di copione, rappresentati nell’azienda dai passaggi evolutivi e formativi e ancora analizzare i suoi Stati dell’Io, che sono il mezzo di percezione e interazione diretto con il mondo esterno, ma anche gli Organi Psichici di cui essi sono l’espressione fenomenico-comportamentale. Se, come si intuisce dalla lettura di alcuni Autori (Schein, Landier, Morgan, ecc…) consideriamo la cultura come la struttura di personalità di un’organizzazione espressa da un G (convinzioni, regole), da un A (strategie) e da un B (entusiasmo per il successo, promozioni, riconoscimenti pubblici), allora possiamo pensare che questi ultimi sottendano “tre diversi sistemi di personalità” o di culture “che percepiscono e reagiscono in modo diverso all’ambiente circostante a seconda delle proprie funzioni” (Berne, 1961): l’Esterocultura, la Neocultura, l’Archeocultura. Tali aspetti determinano il comportamento, indicano ai componenti del gruppo come la realtà va percepita, pensata e sentita e “non si prestano a confronti né a discussioni” (Schein, 1990). Se negli interventi formativi ha senso parlare di diagnosi comportamentale e sociale e, quindi, di un consulente che facilita e addestra, nell’analisi organizzativa il consulente è un “terapeuta culturale” (Schein) che aiuta il leader a condurre l’azienda verso la consapevolezza della propria identità, più che dare suggerimenti su ciò che si dovrebbe fare. Di conseguenza, nell’analisi della impresa, si integrano necessariamente la diagnosi comportamentale, storica, sociale e fenomenologica. “La cultura si sviluppa intorno ai problemi interni ed esterni che i gruppi affrontano e diventa sempre più astratta fino a tradursi negli assunti generali e fondamentali sulla natura della realtà, del tempo, dello spazio, dell’attività e dei rapporti umani” (Schein). Quando parliamo di cultura parliamo di struttura di personalità dell’azienda. Allora, la filosofia, la personalità del fondatore, il clima e lo stile sono elementi visibili della cultura ma non rappresentano il tutto. Nell’esaminare una cultura questi sono i sintomi, le manifestazioni non le cause, l’essenza profonda è a livello inconscio, o meglio non visibile, non può essere studiata
con metodi invadenti come questionari o interviste ma si raggiunge con la collaborazione di studiosi interni ed esterni all’azienda. L’analisi della cultura ci riporta al modello funzionale degli Stati dell’Io ma quando parliamo di sottocultura ci tocca analizzare il modello strutturale che in un’organizzazione rappresenta i ricordi e le strategie immagazzinati nella memoria. Si possono considerare genitori storici dell’azienda il leader fondatore, oppure l’azienda preesistente e poi integrata o ricostituita.
In linea generale, il modello strutturale dell’impresa raffigura in G3 un magazzino di messaggi trasmessi attraverso le generazioni, messaggi che ritroviamo nelle ideologie aziendali, nei simboli, nei linguaggi, nei rituali. In A3 sono introiettate affermazioni intorno a realtà che in passato erano vere e che ora non lo sono più. Per es., si diceva che “la perfezione non è di questo mondo”, oggi, invece, si parla di “difetti zero”. Oppure, la convinzione “tempo al tempo” nella odierna realtà aziendale si è evoluta nel concetto di “just in time”. In B3 ritroviamo i miti dell’organizzazione che sono percezioni del B di figure genitoriali legate al passato dell’impresa.
In A2 si colloca l’archivio, l’insieme delle strategie che l’azienda ha a disposizione. In B2 si ritrovano le esperienze immagazzinate sin dai primi tempi della fondazione. In G1 (o Elettrodo, come Berne lo definisce) si evidenziano le regole, le formule magiche che anche oggi, in modo quasi coatto, senza che ci sia una ragione apparente, vengono riproposte. Ad es., Henry Ford soleva affermare: “Ogni cliente può volere la macchina del colore che preferisce, purché sia il nero”. E questa magia in alcune aziende esiste ancora. In A1 (o PP) si ritrovano le capacità intuitive di problem solving, le risorse di cui l’organizzazione dispone nei momenti di impasse, per es., la costruzione di nuove immagini, la pubblicizzazione di prodotti, le azioni di propaganda. Infine il B1 (o B somatico) rappresenta i sentimenti legati alle esperienze passate. Per es., in alcuni momenti di crisi, pare non vi sia in azienda la capacità di pensare ma solo i sentimenti spiacevoli legati all’idea che “anche 10 anni fa, quando successe… poi andò a finire che…” (fig.1).

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Interventi di formazione e analisi dell’organizzazione: contratto di liberazione dal copione e contratto di analisi di copione.

Nel lavoro aziendale siamo dinanzi ad una nuova prospettiva clinica oltre che etnografica, ad un’analisi più profonda che interviene sul management modificandone le strategie dopo aver compreso e gestito la cultura creata dalla leadership. Significa che riconoscere il tipo di struttura, agire sulle transazioni e sui giochi non basta: tante variabili possono aver condotto a quel tipo di organizzazione, bisogna capire quali nel rispetto dei principi etici fra cliente, cioè l’azienda, e lo studioso. Schein suggerisce, soprattutto, “la protezione del benessere del cliente”. Il consulente ad indirizzo analitico transazionale, analizza le resistenze in atto e punta, talvolta, i suoi interventi a rinforzare le membrane di identità copionale dell’impresa piuttosto che a stimolare la liberazione da esse. Il fine, in generale, è la conquista dell’autonomia o, parlando di aziende, è la Qualità Totale (Q.T.), che non è solo Q intrinseca del prodotto offerto ma è “Q. personale, prima che tecnica, in quanto la Q. è fondamentalmente un atteggiamento mentale” (D’Egidio, ‘91). Il copione per l’azienda è un momento necessario di identificazione, significa “esserci” in adattamento ad un ambiente e ad un gruppo sociale. Un contratto di liberazione dal copione rappresenta il raggiungimento di una nuova scelta identificatoria, decisa nel qui e ora, un nuovo palinsesto che aggiunge altre opzioni lungo le linee di forza già presenti nell’impresa. In questo tipo di contratto si tratta di “togliere la spina”, superare un ordine, liberare l’azienda da un’ingiunzione, da un sistema ricatto. E’ il momento del passaggio dalla negatività alla positività dell’identità copionale, è la scoperta della “mission” o ragion d’essere. D’Egidio parla di “vision” cioè “un orizzonte, una direzione verso cui tendere, in altre parole, il sogno imprenditoriale”, una ridecisione lungo la linea + +. Il copione per l’azienda come per l’essere umano, ha un valore autoprotettivo, di riconoscimento in appartenenza e in attaccamento ad un ambiente, ad un clima culturale, ad un gruppo. Nell’impresa non c’è la liberazione fisiologica dal copione, anche se le crisi di crescita identificatoria si susseguono. Curare l’organizzazione, in un contratto di analisi di copione, significa collaborare alle “ridefinizioni”, alle “ridecisions” che si susseguono, assistere la leadership nella consapevolezza delle problematiche di copione dell’azienda per una futura gestione delle crisi di evoluzione, affrontando il rischio di una nuova identità.
I processi di Reparenting sono continuamente in atto nell’azienda. “I dirigenti d’impresa hanno perduto, in questi ultimi anni, la maggior parte delle ragioni che davano un senso alle loro azioni” (Landier, ‘88). Siamo nell’era del vuoto.
Un tempo c’erano gli ideali di giustizia, di libertà, di solidarietà, c’erano nelle aziende, convinzioni religiose, politiche e sociali. Ora si avverte il bisogno di una nuova “morale d’impresa” (Landier), di nuovi valori portanti, insomma, di un nuovo Genitore.
A volte, l’organizzazione si protegge dal rischio di questa nuova identità, dal rischio che comporta la scelta di qualcos’altro che potrebbe anche non dare risultati soddisfacenti. Possono crearsi, allora, rapporti di dipendenza o di simbiosi con il consulente. I nuovi bisogni e i nuovi valori vengono confrontati con i vecchi e ci possono essere reazioni apparenti di rifiuto, di insopportazione. In questi casi, quando esiste una contaminazione dell’A, non è utile l’analisi di copione. Il consulente, solo dopo un’adeguata decontaminazione, potrà procedere alla ristrutturazione dell’azienda in più ampi confini.

Conclusioni

Credo in questo studio di aver osato molto. Eliminando in parte la barriera fra campo clinico e sociale il problema più grave che rimane è la tentazione, da parte del consulente, di offrire analisi non richieste ai dipendenti. Conoscere l’azienda non è sommare le griglie di personalità dei salariati. Il nostro cliente rimane sempre e solo l’organizzazione che parla anche attraverso i suoi dipendenti ma questi non sono l’impresa e fuori di essa continuano ad essere padri, figli, mariti.
Vorrei, da un lato, aver allontanato l’idea di alcuni colleghi che l’A.T. sia, in modo riduttivo e semplicistico, il “giochetto”, il “modellino” da utilizzare per fare effetto sull’ascoltatore; vorrei, dall’altro, essere riuscita a stimolare la riflessione e lo studio di altri colleghi attraverso una ricerca sistematica di possibili applicazioni dell’A.T. in campo organizzativo, giacché intuire i principi dell’A.T. è semplice ma la loro corretta e totale applicazione non lo è.

BIBLIOGRAFIA

  • Schein E., Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Ass., Milano, 1990.
  • Landier H., L’impresa policellulare, Guerini e Ass., Milano, 1988.
  • Morgan G., Sull’onda del cambiamento, F. Angeli, Milano, 1989.
  • Romanini M.T., “La nascita psicologica”, Riv.It. di A.T. e Metod. Psicoter. V, 8-9, 1985.
  • Romanini M.T., “Contratto di liberazione dal copione e contratto di analisi di copione”, Riv. It. di A.T. e Metod. Psicoter. VII, 12-13, 1987.
  • Berne E., Analisi Transazionale e Psicoterapia, Roma, Astrolabio, 1971.
  • D’Egidio F., “Intervista a cura di C. Sproccati”, Newsletter, Risorse Umane in Azienda, O.S. II, 8, 1991.

Teoria e tecniche di comunicazione nella formazione

In queste buie stanze dove passo

Giornate soffocanti, io brancolo

In cerca di finestre. Una se ne aprisse

A mia consolazione. Ma non ci sono finestre

O sarò io che non le so trovare.

Meglio così, forse. Può darsi

Che la luce mi porti altro tormento.

E poi chissà mai quante cose nuove ci rivelerebbero.

Costantino Kavafis

“Offrire più strumenti”, “interventi più pratici”, “più concretezza”, insomma, “meno teoria”: sotto forma di invito, di rimprovero, di richiesta, di lamentela mi rivolgono sempre più spesso queste osservazioni, negli incontri formativi sulla comunicazione e dintorni.

Decido, dunque, di proporre alcune riflessioni per avviare, con le persone che incontro, nuovi pensieri e nuove azioni. Per teoria intendo, in questo lavoro, “la formulazione sistematica di principi generali relativi ad una branca del sapere e delle deduzioni che da tali principi si ricavano per via puramente logica.” (Devoto, Oli, Il dizionario della lingua italiana).

Con i termini tecnica o pratica, nell’ambito delle attività formative, intendo ciò che è facilmente o immediatamente traducibile in azione, con riferimento alla realtà del vivere quotidiano e, quindi, “alle capacità e disponibilità esistenti in rapporto all’ottenimento di risultati concreti di vantaggio immediato.”

Kant, in uno scritto del 1793, supera il dualismo fra pratica e teoria e afferma: “Si chiama teoria un complesso di regole anche pratiche quando siano pensate come principi generali e si faccia astrazione da una quantità di condizioni che hanno tuttavia l’influenza necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama pratica, non qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto a principi di condotta rappresentati universalmente.”

Teoria e pratica, insomma, rappresentano uno dei nodi centrali nella semantica storica e nel <conflitto ermeneutico> delle definizioni filosofico-concettuali, della rete dei saperi e dei modelli culturali e ideologici.
Invito gli amanti delle intelaiature filosofiche a consultare il Dizionario di filosofia di N.Abbagnano, ed.Utet, alla voce Teoria-prassi, pag. 1087.

Leggo la richiesta di tecniche, in un processo formativo sulla comunicazione, come una difesa, un rifiuto a guardare il “caos che ci abita” (Jung). Quando qualcuno chiede tecniche di comunicazione e consigli pratici, intendo: “Ci rifiutiamo di pensare, raccontaci quello che dobbiamo fare”. Il bisogno è di adeguarsi, di adattarsi alle regole, piuttosto che di avviare un processo di consapevolezza. Talvolta intuisco che la pratica che mi è richiesta rappresenta soltanto un cumulo di “idee ricevute senza averle pensate”, definizione di stupidità proposta da Vaclev Havel. Ritengo offensivo per le persone partecipanti che, come formatrice, riduca l’uditorio ad una scatola vuota da riempire con regole e formule da eseguire.

Pensare è un’attività che combatte la frustrazione e produce identità positiva, al di là del compenso percepito, della gloria conquistata. In più occasioni, quello che comunemente si chiama “pratico” finisce con il diventare un automatismo incontrollato che riduce ogni stimolo, ogni idea a tabella, a glossario con il risultato di chiudere, di stabilire una volta per tutte.

Nella relazione ogni persona non è all’esterno, a proporre una tecnica di comunicazione e a vedere l’effetto che fa, ma è all’interno dell’accadere con l’altro-da-sé, in un dato momento e luogo. Non ci sono azioni che ci vedono spettatori, la tecnica ha senso solo se utilizzata all’interno della relazione. Ogni teoria e applicazione che da essa conseguono sono filtrate attraverso la personale sensibilità di chi la usa.

Sono contraria a giustificare e a legittimare prassi preconfezionate e anche all’abolizione della tecnica tout-court a favore di interventi selvaggi e approssimativi. Scelgo la flessibilità critica, lo studio e il dubbio dinanzi a qualsiasi presunta ortodossia. Evito l’applicazione acritica delle tecniche di comunicazione sperimentando che soltanto la riflessione, la scelta, la convinzione custodiscono e si prendono cura della relazione. Non esistono teorie o metodi giusti, ma solo relazioni d’anime e sani coinvolgimenti. Avverto il bisogno di devozione più che di tecniche.

Siamo abituati a guardare i sintomi e non le cause. Cambiamo le tecniche senza cambiare convinzioni e valori. La pratica non è la traduzione concreta della teoria. L’operatività e l’azione non sono, semplicemente, la declinazione di un’attività di pensiero, di una filosofia. La teoria e la pratica non si incontrano mai, non coincidono, non diventano l’una l’applicazione brutale dell’altra. Altrimenti creano, quando rappresentano facce della stessa medaglia, il sospetto di incoerenza e, di conseguenza, il marchio, per l’una, di essere astratta, inutile e, per l’altra, di mirare ai profitti, ai prodotti, nell’accezione meno umana.

La relazione con l’altra persona esige l’arte, prima ancora delle tecniche.

“L’avvenire sarà fatto di individui, non di epoche e di scuole, le quali non sono altro che delle comodità della storia della letteratura… Le scuole non contano…. Le teorie non sono molto importanti, in generale. Possono però costituire degli stimoli per creare, e allora diventano di una certa utilità.” (J.L.Borges, Testamento poetico letterario, Giunti, 2004)

Se il sistema è complesso, c’è bisogno di multidisciplinarietà; chi sa tutto su poco rischia di rimanere a difendersi. Ricerco non le formule, ma le ragioni di quelle formule, non l’unica soluzione, ammesso che ci sia, ma la tensione verso tutte le soluzioni possibili. “Bisognerebbe sforzarsi di rendere ogni cosa il più semplice possibile, ma non più semplice.” (A. Einstein)

Oggi vale molto più rimettermi a pensare piuttosto che eseguire compiti. Controllare la situazione, in fondo, signfica solo fare in modo che vada per il suo verso. Se mi ostino a seguire una qualsiasi tecnica, interrompo l’energia che naturalmente indirizza gli eventi e le persone.

La relazione, il legame, la solidarietà non seguono tecniche, esse accadono. Perciò bisogna immaginare più che organizzare, coltivare anime, più che stabilire strumenti e risultati, riconoscere e scoprire, più che trovare e applicare soluzioni date come certe. L’incontro con l’altro opera nei campi del <sacro>, dell’<interiorità>, del <bello>, non solo del <normativo>. Invito a prenderci cura dei risultati e non solo ad avere fretta di conseguirli. Il lavoro in sé, per arrivare a qualsiasi risultato, è il vero valore.

Voglio interagire senza la smania di porre fine ai contrasti, alle contraddizioni, agli innumerevoli rivoli di discussione, ai rischi della continua ricerca. L’elaborazione teorica coinvolge necessariamente più discipline e più ambiti. Ho forse paura di perdermi? La pratica maniacale mi protegge perché, in fondo, chiude. Il pensiero, invece, mi scopre, apre in continuazione. Il pensiero è interrogante e chiede continuamente il conto alla motivazione che guida.

A proposito di motivazione, non mi riferisco all’interesse generico, allo slancio emotivo occasionale, ma alla motivazione come tensione specialistica, come talento che affino in continuazione.
La domanda non può essere unicamente: “Come?” A me importa: “Perché?”, “Chi?”, “Dove?” Il “come” deve sottintendere una weltanschauung, una visione della vita e del mondo, oppure è mera funzionalità staccata dal contesto, dalle persone, dai fini ultimi.

Una lavatrice può funzionare allo stesso modo dappertutto, un essere umano, no. Davanti a qualcuno che mi chiede: “Cosa faccio con questo figlio/capo/collega/studente?”, è sano rispondere che non lo so, che non sono al suo posto e, dunque, non so cosa è adeguato per lui, rispetto a quella persona, in una determinata situazione.
“Il primo passo da fare è <lo svuotamento del come>. <Non lo so>. Il non lo so è il primo passo. <Non so proprio cosa fare>.” (Hillman J.,L’anima dei luoghi, 2004)

Queste riflessioni sono ovviamente lontane dall’alibi che offre a se stesso l’essere umano scansafatiche e assenteista, il quale non aspetta altro che di istituzionalizzare la noncuranza e di proporsi come neutro nel rapporto con gli altri.
Mi ritorna alla memoria un aneddoto letto tempo fa. Una bimba torna a casa da scuola con molto ritardo. La mamma preoccupata le chiede cosa è accaduto. La bambina spiega che la sua più cara amica ha perso il gattino e lei ha scelto di restare per aiutarla. “Cosa hai fatto?” chiede la mamma. “Nulla”, è la risposta della piccola, “mi sono seduta accanto a lei e l’ho aiutata a piangere!”.

La compassione, il patire accanto all’altro, è la risposta naturale dell’essere umano.
E’ improponibile l’utilizzo di tecniche, strumenti, esercitazioni, senza che da parte di tutti vengano condivisi la filosofia di base e i principi teorici. Credo che la vecchia scrivana, il quaderno di appunti e la ricerca continua offrano perlomeno economicità di denaro, tempi e spazi. Pensare a pensare è lo scopo primario che la formazione propone, il secondo è coinvolgere quante più persone possibili.

La capacità di ideazione è diversa dalla capacità di creazione e di operazione. In primo piano, nel processo ideativo, riconosco le relazioni, le emozioni, non i principi e le procedure.
L’essere umano ha bisogno di respiro, di metafore, di simboli, di allusioni, non di modelli da seguire per far funzionare qualcosa. Se prima non cerco di capire, se non rifletto sulle possibili opzioni, a cosa serve il fare se non a liberarmi frettolosamente dall’ingombro dell’altro?

Senza il pensiero e l’emozione non sarà mai un fare pratico, né utile. Una relazione, un gruppo non rispondono, soltanto, a criteri di utilità e di efficienza ma, soprattutto, di bellezza. Ma ciò che è bellezza, è poesia (poiesispoieo, in greco è fare, costruire, produrre) e, allora, diventa utile, pratico.
“L’azione non è soltanto opzione e decisione, ma può anche essere creazione: non è solo la pratica che conduce le nostre vite, ma anche la <poetica> che produce cose e trasforma la realtà.” (F.Savater, Il coraggio di scegliere, Ed.Laterza, 2004)

L’essere umano agisce per esistere o l’essere umano è quello che fa? L’altro non è altro che l’atto che compie o l’azione è soltanto la parte visibile di un’interiorità smisurata?
Le domande di marzulliana memoria rimandano a studi e ricerche che coinvolgono l’etica, la libertà, i sentimenti, il caso, la verità… Non voglio arrivare ad una soluzione, non in queste pagine, ma studiando e discutendo, voglio continuare a non sapere con autostima ed orgoglio.

“L’azione è il contrario del realizzare un programma. Programmi sono i modelli vegetativi e gli istinti, le rose e le pantere sono <programmate> per essere ciò che sono, fare ciò che fanno e vivere come vivono…. Gli esseri umani sono programmati in quanto <esseri>, ma non in quanto <umani>…, l’azione non è fabbricazione di oggetti o di strumenti, bensì creazione di umanità.” (F.Savater, op.cit.)

Neutralizzando il pensiero, sparisce l’identità e la pratica fa emergere solo l’idoneità a svolgere determinate funzioni umane. L’apprendimento del pensiero (che si fa pensare prima di fare) è direttamente collegato all’abilità dell’ otium, alla virtù dell’attesa, alla confidenza con il senso del limite umano, al rapporto più o meno ansioso o libero con il tempo e lo spazio.

Certo, per evitare di fare, a qualsiasi costo, per evitare di usare strumenti e griglie preconfezionate, è importante capire e liberarmi di alcuni freni psicologici: la presunzione prometeica, che ci avvicina a Prometeo nell’atto di rubare il fuoco agli dei; il convincimento: esisto-solo-se-sono-utile; la pretesa di soluzione; il bisogno di offrire consigli non richiesti; la schiavitù del binomio dare-avere, la paura del silenzio e della solitudine.

Giungo, così, ad una pratica colta (dal latino, colere , coltivare), che deriva dal coltivare idee, emozioni, condivisioni. Compito della nostra epoca non è insistere su una strada, ma scoprirne il più possibile. Non la scelta fra alfa, beta o gamma, ma l’apprendere a decifrare, ad interrogare, a capire e, anche, a non cercare di capire ciò che ancora non ha deciso di svelarsi. Mi abituo a lasciarmi proteggere dal vuoto, anzi, dal pieno di nulla. Come, in matematica, lo zero non è niente, ma è un numero. Non mi preoccupo di arrivare alla meta – a quale, poi? -, mi chiedo, pittostto, se sono sulla strada della relazione e se ho bisogno di rallentare o di fermarmi.

La bellezza della relazione è lenta. Nell’applicare sistemi, formule, regole, accade quello che voglio e conosco. Davanti ad una persona aspetto, invece, che accada a me e a lei ciò che non conosco, l’imprevedibile che non immagino. La pratica si esprime verso l’altro, il lavoro da fare è stare con lui. Il rischio del fare qualcosa per qualcuno senza incontrarlo assomiglia al rischio di acquistare i mobili senza valutare se l’abitazione è un trullo, una baita, un camper, un appartamento…
Una solida attività di pensiero è la base su cui edificare l’esperienza, l’azione, le operazioni concrete. Le griglie, le tecniche favoriscono spesso l’atteggiamento mentale di chi pensa produttivamente, ma non criticamente. Platone diceva che le tecniche sono capaci di fare le cose, ma non sono capaci di valutare le cose.

“… il mondo è costituito da una rete (più che da una catena) assai complessa di entità che hanno tra loro relazioni di questo tipo, con una differenza: molte di queste entità hanno provviste proprie di energia e forse anche idee proprie su dove vorrebbero dirigersi. In un mondo di questo tipo i problemi di controllo diventano più affini all’arte che alla scienza, non solo perché tendiamo a pensare che difficoltà e imprevedibilità siano contesti per l’arte, ma anche perché è assai probabile che l’errore produca cose sgradevoli.…noi, scienziati sociali, faremmo bene a tenere a freno la nostra fretta di controllare un mondo che comprendiamo così imperfettamente. Non dovremmo consentire all’imperfezione della nostra comprensione di alimentare la nostra ansia e di aumentare così il bisogno di controllo. I nostri studi potrebbero piuttosto ispirarsi a una motivazione più antica, anche se oggi appare meno rispettabile: la curiosità per il mondo di cui facciamo parte. La ricompensa per questo lavoro non è il potere ma la bellezza. È ben strano che tutti i grandi progressi scientifici – non ultimi quelli che dobbiamo a Newton – siano avvenuti sotto il segno dell’eleganza.” (Gregory Bateson pag.30 in Manghi S., a cura di, Attraverso Bateson, Raffaello Cortina Ed.,1998)

Prima di valutare una tecnica di comunicazione come più o meno adeguata, pre-occupiamoci di creare legami. Va bene utilizzare tantissime tecniche di comunicazione, ma all’interno di una relazione, seguendo un dialogo, proponendo un confronto, presentando ipotesi.

“La relazione al tu è immediata… Fra l’io e il tu non vi è alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione. E persino l’anelito si trasforma, poiché precipita dal sogno nell’apparizione. Ogni mezzo è impedimento. L’incontro avviene solo dove è caduto ogni mezzo. ” (M.Buber, Città Nuova, 2000)

Senza la theorìa (in greco contemplazione) c’è la frenesia del protagonismo filantropico, che ha bisogno di usare tecniche, controllare risultati, valutare con il bilancino dell’orefice guadagni e rischi.
Propongo un esodo, un cammino all’interno di sé, dove recuperare teorie e tecniche, procedendo verso lacreazione di relazioni, verso la libertà dell’espressione dell’umano.

Ma posso costringere qualcuno ad essere libero, forzarlo a pensare con la propria testa e chi si occupa di formazione ha questo compito?

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Corsi di comunicazione nelle organizzazioni

 

AT anno XII – n. 23 

Communication Trainings in Organizations
The aim of the present study Is to review the consultant-organization relationship through the renovation of the logic categories of today’s training. The main suggestion is to use a clinical approach in the organizational analysis. This means:

  1. to train the organization through its workers and not to train its staff;

  2. to carry out an organizational diagnosis by using the consultant-organization relationship;

  3. to view the trainer as an analyst of the organizational culture and not just as a seller of training courses.

Consequently, the design of a training course on communication should take into account processes and dynamics, as well as contents and structures. Finally, the article presents the work done with the employees of a bank in Northern Italy.

La realtà considerata: error communis facit ius

Nella società odierna è da tutti compreso il ruolo della sartina e quello dello stilista. La differenza sottolineata non è tanto fra operatività e progettualità ma, soprattutto, fra adattamento e cambiamento. Indirizzando questa riflessione alle organizzazioni, l’osservazione che ne risulta è che esse non hanno bisogno di rattoppi casuali ma di capire ed eventualmente scegliere fra l’accomodamento del vecchio abito e l’acquisto di uno nuovo e di quale.
Al grido di “Comunicazione o morte” truppe di consulenti sono scese in campo seminando sospetti fra i partecipanti ai corsi di non aver mai in realtà comunicato e dispensando infauste premonizioni.
In questa prospettiva, è normale che lo stesso seminario sulla comunicazione sia stato proposto nell’istituto di credito, nell’azienda automobilistica e nel gruppo parrocchiale di qualsiasi regione italiana.
Spesso il consulente è dinanzi a richieste non ben definite dall’utente ma il suo primo impegno è proprio quello di comprendere, di fare una prima diagnosi e di proporre un contratto. Quindi, davanti ad una domanda generica da parte dell’organizzazione di un corso sulla comunicazione, in discussione non è tanto l’oggetto ma la motivazione e il fine, non la formazione in se stessa ma il perchè e il come.
L’obiettivo non è che la gente si voglia bene e che risolva i problemi di convivenza ma che l’organizzazione funzioni, tenendo conto che il successo di questa, passa anche attraverso il benessere dei dipendenti. Che ciascun partecipante impari a comunicare meglio può essere il fine di un gruppo di terapia ma il fine del lavoro nell’azienda è che quelle persone, in quell’ambiente capiscano e analizzino le modalità di comunicazione esistenti.
Ne consegue che la consapevolezza nella relazione con l’altro come dipendente, come capo, come collega può diventare anche consapevolezza come marito, fratello, amico ma questo è da considerarsi un punto di arrivo, non di partenza.
In sintesi la proposta è di utilizzare l’approccio clinico nell’analisi aziendale, non nel gruppo di lavoro con i dipendenti.
Berne ci dice che la credenza sottostante al gioco “Burrasca” è che se si fa abbastanza baccano non si dovranno risolvere i problemi e l’esperienza ci insegna che lo stesso risultato si può conseguire con il gioco contrario “Tutti D’accordo”, nel quale i partecipanti, in tal caso i formatori, si convincono che dove sbagliano tutti, nessuno sbaglia e che l’errore comune crea la legge.
C’è sempre un A contaminato dal B in azione, nel primo gioco con la ribellione, nel secondo con l’adattamento e il compiacimento.
L’indicazione è che gli analisti della cultura aziendale utilizzino oltre all’esperienza e agli insegnamenti acquisiti anche la capacità critica e di discernimento dinanzi all’una e agli altri.
Mintzberg ci ricorda che “se trattassimo tutte le organizzazioni allo stesso modo commetteremmo la stessa assurdità di un oculista che volesse prescrivere a tutti gli stessi occhiali”.

Obiettivi e presupposti

Obiettivo di questo studio è rivedere il rapporto consulenza – azienda rinnovando le categorie logiche della formazione odierna.
Quindi, occhio puntato su processi e dinamiche oltre che su contenuti e strutture. La domanda non è solo: a chi proporre o cosa proporre in un seminario sulla comunicazione, ma, prima di tutto:
cosa è la comunicazione in quella azienda? Perchè un corso sulla comunicazione piuttosto che uno sull’informatica e come proporlo in un determinato ambiente aziendale?
L’idea iniziale è che abitare il mondo significa, in realtà, abitare la descrizione che una data epoca dà di esso. Di conseguenza, i salariati non vivono nell’azienda ma nella rappresentazione di essa. La comunicazione è il mezzo privilegiato di tale rappresentazione, è lo strumento attraverso il quale si manifesta la cultura dell’azienda. Come Edgar Morin afferma: “La conoscenza scientifica del mondo è la conoscenza dello spirito nello specchio del mondo”.
In definitiva, in azienda ciò che conta non è solo riconoscere le capacità e l’esperienza di ciascun dipendente (questo è il fine di un intervento di selezione) ma è in che modo nella relazione di gruppo le caratteristiche di una persona si incontrano con quelle di un’altra e qual è il risultato della interazione di diverse personalità, giacché l’attività e l’intimità di un gruppo sono molto di più della somma dei suoi componenti. E’ una questione di corrispondenza emotiva e di valori e non solo di analisi descrittive.
La comunicazione, in fondo, è un problema di autostima. E se è vero che “si vive guardando sempre in avanti, ma il significato della vita lo si scopre guardando indietro” (Kierkegaard), allora, ogni intervento sulle problematiche di comunicazione prevede una diagnosi intersoggettiva che passa all’interno della relazione fra consulenza e organizzazione. L’unico modo in azienda per fare una diagnosi, infatti, è farla insieme ai dipendenti.
In questo modo la formazione è promossa dall’interno, non obbligata dall’esterno, è un bisogno riconosciuto e non la risposta che compiace un insistente venditore di corsi.

Il Minicopione nell’analisi organizzativa

Da parte di alcuni studiosi di psicanalisi (Schein, Kets de Vries, Miller) e di A.T. (Giuli, Chalvin, Wagner) c’è stato il tentativo di identificare attraverso questionari, colloqui, interviste, i disturbi della personalità/cultura dell’azienda e il suo quadrante esistenziale. Teoricamente il lavoro è interessante e lo sforzo proficuo:
per l’analista è vantaggioso lavorare con la certezza, pur sempre da verificare, che una determinata organizzazione possa posizionarsi in un preciso quadrante.
Ma nella complessa operatività quotidiana, in una realtà aziendale che continua a cambiare velocemente secondo un processo di rotazione e di rivoluzione, può diventare una forzatura o una percezione non corrispondente al vero riconoscere l’organizzazione necessariamente nei meccanismi di sopravvivenza di un determinato quadrante.
Inoltre, spesso, si confonde il quadrante esistenziale dell’azienda con la griglia di personalità del leader fondatore o del presidente in carica. L’organizzazione non è solo rappresentata dalla somma delle caratteristiche di personalità dei dirigenti ma essa ha un quid, un’anima che la rende unica ed autonoma.
Risulta più utile, allora, parlare di momenti evolutivi e, quindi, di minicopione.
La ripetizione del minicopione è un momento tipologico dell’A.T. applicata alle organizzazioni. Il disturbo, la difficoltà che queste presentano richiamano la parte negativa di esso.
Utilizzo il termine di cultura dell’azienda per indicare la personalità della stessa (Dagostino, 1991).
La griglia di cultura è, in fondo, una generalizzazione, un mezzo per avvicinarsi all’unicità di quella azienda. La teoria spiega la realtà, ma non è la realtà.
Esistono innumerevoli forme organizzative non da etichettare ma da capire e spiegare.
L’A.T. permette di accettare l’azienda e la lettura di se stessa che ci offre attraverso i suoi dipendenti per incontrarla là dove lei è.
Quando penso alla cultura di un’organizzazione, mi riferisco ad un quadrante fra Ordine, Stop e Gioco e parlo non di patologia ma solo di limite di copione. Quando, invece, parlo di stili nevrotici, seguendo alcuni autori citati, o di disfunzioni organizzative, penso ad un quadrante dove il Gioco termina spesso nella posizione più perdente e poi ritorna su all’Ordine. Non c’è solo la tendenza alla disfunzione ma c’è un precipitare spesso nel momento finale.
L’organizzazione sceglie dal suo ambiente permessi ed ingiunzioni che la proteggano quanto più è possibile. Nel minicopione positivo ci sono le linee di forza, le caratteristiche innate, le stesse doti che si ritrovano nel minicopione negativo, anche se distorte (Fig. 2, 3, 4: polo positivo e negativo).
Alcuni studiosi notano che mentre l’azienda va avanti e cresce, diminuiscono le sue problematiche, ciò significa che essa, come l’essere umano, tende ad uscire dal copione quotidianamente in evoluzione e in autonomia.
Quando un’organizzazione richiede l’intervento di un esperto esterno è probabile che essa stia attraversando una fase – + (Stop) o – – (Senza sbocco). In definitiva, un momento in cui scopre una valenza negativa sul proprio vissuto, altrimenti cercherebbe di risolvere le problematiche utilizzando risorse interne e guardandosi bene dal mostrare ad estranei i propri panni sporchi.
Un’altra possibilità, in verità, più rara dati i costi della consulenza esterna, è che, guidati dalla moda e dal momento di successo che la formazione, in generale, sta vivendo, si organizzino programmi e corsi con il solo scopo di apparire innovativi e moderni.
In questo caso, il lavoro del consulente è stimolare la motivazione e il bisogno dell’analisi, avvicinandosi alle persone in quella azienda con rispetto, curiosità e interesse a capire più che fretta di salvare o di guadagnare.
Spesso c’è ostentazione e ricerca di apprezzamento da parte dell’azienda che è in una fase + – (Gioco). Al malcapitato consulente pare non resti che compiacere e guadagnarsi la sua parcella o rischiare un repentino allontanamento nel caso in cui decida di confrontare l’organizzazione fortemente contaminata.

La terza opzione per l’analista è:
– accettare il copione aziendale con la sua benedizione e maledizione, sapendo che esso dà all’organizzazione la sicurezza di qualcosa di noto, è il suo primo apprendimento, anche se è inefficiente nel caso sia l’unico mezzo che essa ha a disposizione per andare avanti;
– proporre contratti per costruire, non per demolire. L’azienda non utilizza tempo e denaro perchè i suoi dipendenti si sentano sciocchi e inadeguati dinanzi a consulenti onnipotenti;
– permettere all’organizzazione di allargare la potenzialità del suo copione e non di rinforzarsi in esso. Uscire dal copione significa smettere di darsi ordini offrendosi altre modalità di riuscita e di successo.
I quadranti aziendali che presento e i termini che utilizzo tengono conto del lavoro di colleghi analisti transazionali impegnati nel campo clinico e di psicanalisti dell’organizzazione.
Le intuizioni sono supportate dall’esperienza e le ipotesi sono verificate attraverso il lavoro con le aziende che vado svolgendo.
La fig. 1 racchiude come in una girandola i minicopioni negativi delle tre tipologie organizzative. Il triangolo di contorno che delimita i tre minicopioni ha appositamente i vertici allargati, espressione del passaggio dalla posizione “ + + Se…” alla scala della vita. Infatti, l’ordine che diviene permesso è il primo gradino verso il successo e l’autonomia.

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Mi limito in questo lavoro a delineare le caratteristiche di ciascun quadrante e a trattare, in particolare, i punti deboli e forti delle organizzazioni soltanto rispetto alle problematiche di comunicazione.
Nelle Fig. 2, 3, 4 e 5 sintetizzo le definizioni e i motivi dominanti di ciascuna tipologia organizzativa: tenera, introversa, forte e collaborativa. Gli schemi rappresentano l’inizio di una ricerca che ha ancora bisogno di studio e di approfondimento.

Fig. 2

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ORGANIZZAZIONE TENERA CENESTETICA -+ (A.T. e P.N.L.)

CONFIGURAZIONE PROFESSIONALE ORIENTATA ALLA COMPETENZA E
CONFIGURAZIONE IDEOLOGICA ORIENTATA ALLA COOPERAZIONE
(Mintzberg)

COMPORTAMENTO NEVROTICO: DEPRESSIVO (Kets de Vries e Miller)

ORDINI (+ + se…): Compiaci, Metticela tutta
INGIUNZIONI (-+): Non pensare, Non fidarti, Non arrabbiarti
GIOCHI (+-): Tutta colpa mia, Pigliami a calci, Stupida, Si.. ma, Cerco solo di aiutare, Non posso farcela
FINALE (–): Inadeguatezza, colpa

Rispetto alle problematiche di comunicazione tale tipo di organizzazione presenta nei primi incontri i segnali in seguito citati. Ciò significa che, a prescindere dalla personalità di ciascun partecipante, i dipendenti manifestano un particolare tipo di cultura aziendale, in questo caso tenera cenestetica.

il gruppo:
– Dichiara e mostra sofferenza per i conflitti interni
– Manifesta poca decisionalità
– Dichiara di essere disponibile al confronto
– E’ preoccupato di farsi accettare dagli altri (docenti, pubblico, ecc.)
– Accetta regole e cambiamenti imposti
– Esprime familiarità e cordialità
– Predilige la consultazione
– Manca di un leader

La comunicazione, in generale, è scarsa, deformata, filtrata attraverso pettegolezzi, diciture, impressioni.

Fig. 3

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ORGANIZZAZIONE INTROVERSA UDITIVA — (A.T. e P.N.L.)

CONFIGURAZIONE DIVERSIFICATA ORIENTATA ALLA CONCENTRAZIONE E CONFIGURAZIONE INNOVATIVA ORIENTATA ALL’APPRENDIMENTO
(Mintzberg)

COMPORTAMENTO NEVROTICO: SCHIZOIDE (Kets de Vries e Miller)
ORDINI (+ + se…): Sii forte, Metticela tutta
INGIUNZIONI (- +): Non fidarti, Non esistere, Non sentire
GIOCHI (+ -): Prova a tirarmi, Gamba di legno
FINALE (–): Disperazione

Il gruppo:
– Manifesta disinteresse
– Esprime estrema razionalità
– E’ dispersivo
– Mostra diffidenza
– Non accetta cambiamenti imposti
– Evidenzia disordine nella gerarchia (tutti fanno tutto)
La comunicazione verbale è quasi inesistente.

Fig. 4
ORGANIZZAZIONE FORTE VISIVA + –  (AT. E P.N.L.)

CONFIGURAZIONE BUROCRATICA ORIENTATA ALL’EFFICIENZA E CONFIGURAZIONE POLITICA ORIENTATA ALLA COMPETIZIONE
(Mintzberg)

COMPORTAMENTO NEVROTICO: PARANOIDE, OSSESSIVO, ISTERICO (Kets de Vries e Miller)

ORDINI (+ + se…): Sii forte, Sii perfetta, Compiaci, Metticela tutta, Spicciati
INGIUNZIONI (- +): Non fidarti, Non godere, Non sentire
GIOCHI (+-): T’ho beccato, Tutta colpa tua, Biasimo, Occupatissima
MOMENTO FINALE (—) : Abbandono, solitudine

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Il gruppo:
– Apparentemente non mostra conflitti
– E’ impegnato nella ricerca del responsabile
– Applica soluzioni tradizionali
– Svolge soprattutto attività di controllo
– Manifesta poca disponibilità al confronto
– Ha tendenza a negare i problemi
– E’ competitivo
– Ha al suo interno molti livelli gerarchici con accentramento di compiti
– Assume rischi eccessivi

La comunicazione è in prevalenza rigida e formale.

Fig. 5
ORGANIZZAZIONE COLLABORATIVA + + SE… (A.T.)

CONFIGURAZIONE IMPRENDITORIALE ORIENTATA ALLA DIREZIONE DI MARCIA (Mintzberg)

PRINCIPALI CARATTERISTICHE DI TALE FORMA ORGANIZZATIVA SONO: L’INTUITO, LA COLLABORAZIONE, LA DISPONIBILITA’, IL SENSO DELLA MISSION, LA STRUTTURA SEMPLICE E LINEARE.

C’E’ IN TALI AZIENDE IL PERICOLO DI TENDENZE ACCENTRATRICI E DI SQUILIBRI A LIVELLO STRATEGICO E OPERATIVO.

LA COMUNICAZIONE E’ INFORMALE, FLESSIBILE, CHIARA.

IL RISCHIO E’ LA RECITA AMBIZIOSA DELLA REALTA’.

Le scelte per l’analista della cultura non sono sempre conseguenziali. Per determinati ambienti o situazioni la scelta del corso giusto non è fra A, B o C. Le analisi descrittive sono utili per comprendere il problema, non per risolverlo. La soluzione è tanto più vera e valida se è il gruppo stesso a trovarla, la stessa azienda al suo interno. Il corso si costruisce insieme ai partecipanti anche se il consulente entrando in aula ha già un’idea di come aiuterà quelle persone ad aiutarsi in quella azienda.

Presentazione di un caso
Il lavoro che ho svolto presso un istituto di credito rende difficile l’applicazione sic et simpliciter della teoria enunciata.
La fig. 6 rappresenta la griglia di cultura della banca che continuo a verificare incontrando i suoi dipendenti. L’analisi effettuata tiene conto contemporaneamente di 4 variabili:

  1. il copione della banca italiana, in generale;

  2. il copione di ciascun dipendente della banca considerata;

  3. il copione dell’istituto di credito esaminato;

  4. il mio copione.

Dal primo incontro ho valutato la problematica dell’azienda e le sue possibilità di sopravvivenza. Ho fatto la prima diagnosi per intuito, consapevole che l’unica vera diagnosi poteva farla il cliente che, però, nei primi tempi, non mi ha affatto aiutata. Mi sono resa conto del pericolo di rottura dell’azienda, in tal caso, il suicidio. Infatti, la banca popolare presa in considerazione è un’azienda locale di 500 dipendenti che da alcuni anni vive nella minaccia di essere assorbita da un istituto di più grandi dimensioni.
Ho accettato la richiesta di un corso sulla comunicazione – era questo il problema che mi avevano presentato – sapendo che dietro la richiesta esterna c’era una richiesta non esplicita, profonda su cui avremmo, in seguito, lavorato.
Può sembrare un paradosso ma, collaborando con le organizzazioni, l’intervento è tanto più adeguato quanto meno l’esperto si affatica a risolvere il problema. Tra l’altro, i suggerimenti, gli aiuti, le interpretazioni talvolta sono proiezioni identificatorie ma sempre tolgono potere al cliente. Misuro l’utilità del mio aiuto nei cambiamenti che riesco a non fare e nelle idee, anche se illuminanti, che riesco a non dichiarare; nei mutamenti anche minimi che permetto alle persone di fare e nei pensieri che permetto loro di esprimere.
Credo che la comunicazione sana offra la possibilità di valorizzare le persone più che di gestirle.
Ho pensato all’inizio del nostro rapporto che il cliente avesse diritto a rimanere confuso intuendo che la sua confusione era, forse, rabbia negata. Arrivare al contratto in questa organizzazione significa accettarla con la difficoltà dichiarata e formulare attraverso una chiarificazione un contratto per arrivare ad una destinazione chiara e utile sia al formatore che all’azienda.

Fig.6
GRIGLIA Dl CULTURA DELLA BANCA POPOLARE

LINEE DI FORZA: interesse e attenzione per l’altro (pubblico, collega), fantasia, empatia, intuizione, capacità di esecuzione.

MECCANISMI DI DIFESA: adattamento, impotenza.

ORDINI: Sforzati, Compiaci, Sii perfetto.

INGIUNZIONI: Non esistere, Non pensare, Non farcela, Non sentire sentimenti spiacevoli, Non arrabbiarti, Non lamentarti.

GIOCHI: Si.. .ma, Gamba di legno.

RUOLO: V/P.

SENTIMENTO RICATTO: confusione.

TRANSAZIONI PREVALENII: B-B; G-B.

CONTAMINAZIONE: Dal G.

BISOGNI MANIFESTI: Stima, protezione.

COPIONE: Quasi, Dopo.

USCITA DI FUGA: Comportamenti passivo-aggressivo.

Non ho proposto un contratto dal G giacché per questa banca avrebbe significato mantenersi nel copione e continuare a strutturarsi in esso e ho accettato che continuasse i suoi giochi pensando come Muriel James che il gioco talvolta non è uno sbaglio ma una strada più lunga per arrivare a qualcosa.
I dipendenti ditale organizzazione sono ottimi ascoltatori, perciò ho scelto di non esagerare con le lezioni.
L’azienda tenera è in una posizione che permette al consulente di aiutarla, il rischio è che la cura, ossia la formazione, non finisca mai. Inoltre, questa banca sembra essere tenera, in realtà, non fa mai quello che qualcun altro vuole.
Compiacendo dimostra che l’estraneo, l’esperto ha torto. Fa una richiesta e quando gli viene concessa afferma di non averne avuto bisogno. Insomma manifesta un disturbo passivo – aggressivo.
Durante i 5 giorni di corso sulla comunicazione le mie proposte di lavoro correvano sul filo Sentire – Pensare – Agire.
Con varie esercitazioni (questionari autovalutativi, lavori di gruppo, lezioni autogestite, disegni, rappresentazioni) ho dato spazio alla capacità di realizzazione del gruppo utilizzando la sua intelligenza intuitivo analogica. Questo ha permesso ai partecipanti di astrarre i significati riportandoli alla realtà aziendale, di tirare le conclusioni, di evidenziare i punti chiave, di riassumere i contenuti, insomma di apprendere in maniera autonoma e di riconoscere le grandi potenzialità del gruppo. I tempi nel lavoro con le aziende sono molto allungati e gli interventi molto diluiti rispetto alla terapia con il singolo paziente. La situazione che con il paziente si realizza nella prima visita, nell’organizzazione, generalmente, si realizza nel primo anno di lavoro.
Dopo quattro mesi dalla fine dei miei corsi, il direttore del personale, il direttore della formazione ed io ci rincontreremo…
Ciò che sappiamo è che partiremo dalla consapevolezza di aver comunicato, espressa nel nostro ultimo saluto: “E’ stato un piacere trattare con lei. Ci siamo capiti”.

Conclusioni

In questo mio studio sono partita dalla teoria, dal copione e minicopione aziendale poi sono passata al confronto con la realtà. Alla realtà non è possibile mettere un punto perchè continua a raccontarsi. Non parto mai dall’esperienza concreta per ritrovarla e rinchiuderla nella teoria. Confondere la teoria con la realtà, la tipologia con l’azienda è come confondere le briciole di pane di Pollicino con la strada. Le aziende sono la strada, l’obiettivo; invece, le teorie, le griglie sono le briciole, lo strumento per ritrovarle.
Per gli studiosi di analisi organizzativa un leader con comportamento nevrotico è uguale e dà sempre origine ad una organizzazione nevrotica.
Io credo, invece, che la nevrosi del dirigente interessi il suo terapeuta, la nevrosi dell’azienda interessi l’analista della cultura. Ho incontrato gruppi di persone sane che vivevano in un’organizzazione nevrotica.
Per questo non parlo di formazione del personale ma unicamente di formazione dell’azienda attraverso i dipendenti. Essi non chiedono analisi personali, forse non ne hanno bisogno ed io non sono un terapeuta clinico: è una questione di ottica, di filosofia, di chiarezza contrattuale e non semplicemente un’incomprensione linguistica.
Credo sia proprio questo l’errore a cui Mintzberg si riferisce quando scrive:
“L’esperto è una persona che riesce ad evitare tutti i trabocchetti e marcia diritto verso il grande errore”.
Ho scoperto che quando il consulente smette di parlare, i partecipanti iniziano a comunicare e a pensare, quando l’uno smette di fare, gli altri incominciano ad operare e a cambiare seguendo un processo autonomo e naturale. E’ straordinario scoprire quanta gente in gamba lavora nelle nostre aziende, se solo le si dà la possibilità di pensare!

Bibliografia

BARAVELLI M., a cura di, L’organizzazione della banca, Egea, 1989.
CHALVIN D., L’Analisi Transazionale, Franco Angeli, Milano, 1990.
DAGOSTINO L., “Cultura d’azienda e leadership: una lettura secondo l’A.T.”, Atti Congr. It. di A.T., 1991.
GIULI M., L’A.T. nelle organizzazioni, Franco Angeli, 1988.
KETS DE VRIES M.F.R., MILLER D., L’organizzazione nevrotica, Raffaello Cortina Editore, 1992.
MINTZBERG H., Management mito e realtà, Garzanti, 1991.
MORIN E., “Auto-eco-conoscenza”. In M. Cerruti, L. Preta (a cura di), Che cos’è la conoscenza, Laterza, Bari, 1990.
ROMANINI M.T., “Principi nelle pelli dei rospi”, Riv. It. diA.T. eMetod. Psicot.,
III, 4, 1983.
RÒMANINI M.T., BONAGURA I., PROIETTI N., SERGI M.G., TORTI P., “Disturbi di personalità o copioni non vincenti e perdenti?”, Atti Congr. It. di A. T., 1991.
WAGNER A., Il manager Transazionale, Franco Angeli Trend, 1988.

Pubb 005 01

L’analisi transazionale utilizzata nell’assessment center

 T.A. used in the Assessment Center

The article examines and evaluates the theoretical and technical contribution provided by T. A. in personnel selection, specifically in the Assessment Center. Its selection method Is adjusted to the T.A. philosophy: the individual is O.K. and has the capacity to think, choose and change.
In addition, the article illustrates the various implementation steps of the Assessment Center based on the two T.A. fundamental principles: contract and open communication. The ego-state functional analysis, the discount matrix, the personality social grid are tools which – providing the methodology with specificity-make work more effective for evaluators and evalueès and more efficient for the company.

Il contesto ambientale

Negli ultimi anni assistiamo ad una trasformazione turbolenta del mondo socio-economico. Le imprese si evolvono secondo criteri imprevedibili e con passaggi spesso non lineari.
Cambiano gli obiettivi aziendali: non si tratta più di produrre e vendere ciò che si ha e si sa fare, ma di scoprire i bisogni dei consumatori attraverso ricerche di mercato e di offrire, in seguito, a quel segmento di mercato, i prodotti richiesti. Il concetto di vendita si evolve in quello di marketing management. Le nuove competenze manageriali richiedono non solo un’adeguata preparazione operativa ma, soprattutto, diversi comportamenti, valori e filosofie.
Si manifesta, di conseguenza, la necessità di riconoscere, identificare e valorizzare tali potenzialità all’interno dell’azienda.

L’Assessment Center

Dagli inizi degli anni ‘70, in Italia viene utilizzato l’Assessment Center (A.C.). Questa tecnica nasce, durante la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti per selezionare agenti segreti impegnati in attività di controspionaggio.
Negli anni ‘50, sempre in America, assistiamo alle prime rielaborazioni del metodo per scegliere capi di primo livello e, in seguito, dirigenti.
La tecnica si esplica attraverso tre fasi.

Nella fase di introduzione:
– si individuano le caratteristiche personali della mansione;
– si analizzano le abilità richieste per il profilo professionale di riferimento;
– si manifestano le aspettative e le richieste della committenza e della consulenza.

Nella fase di avvio:
– vengono elaborati i programmi e scelte le prove da utilizzare nelle giornate di esame (2 in generale). Tali esercitazioni servono ad evidenziare il possesso o meno delle dimensioni manageriali preliminarmente fissate. Si addestrano gli assessors interni ed esterni all’azienda che osserveranno e valuteranno i candidati, durante le prove, in modo più possibile unitario ed oggettivo.

Nella fase di gestione:
– l’administrator (il coordinatore dell’A.C.) e gli assessors propongono le prove osservando e valutando il comportamento dei soggetti;
– si riuniscono gli esaminatori per stendere i profili dei candidati;
– dopo la partecipazione al programma, si fornisce il feedback ai candidati.

L’Assessment Center è definito come un sistema di valutazione del potenziale di sviluppo professionale e/o manageriale di persone già dipendenti dell’organizzazione. Viene anche utilizzato per selezionare neo laureati ad alto potenziale di crescita in grandi sistemi integrati (multinazionali, holding, istituzioni pubbliche, grandi aziende e banche). L’A.C. è stato finora previsto esclusivamente per quadri intermedi, tecnici e dirigenti.
Oggi, la sua applicazione e la sua credibilità dipendono unicamente dalle capacità e dalla preparazione di chi lo adopera. L’uso e l’abuso che sono stati fatti dell’A.C., venduto con le più svariate etichette, hanno maggiormente portato ad una confusione riguardo le modalità, gli scopi e le potenzialità del metodo. L’A.C. ha legato la sua fortuna e il suo insuccesso più all’affidabilità delle persone che ne hanno analizzato il contenuto e utilizzato la tecnica che non alla sua intrinseca efficacia.
Mike Von Audtshoorn afferma che “i centri di valutazione hanno un altissimo livello di formale validità che, però, non corrisponde ad una validità di fatto”. E non è semplicemente una questione di valutatori più o meno specializzati ma anche di una mancanza di chiarezza riguardo le tecniche e i principi teorici.
L’A.C. non ha, infatti, basi teoriche, non è legato ad alcuna corrente di pensiero psicologico o filosofico, è esclusivamente una tecnica di tipo pragmatico-aziendale, uno strumento flessibile, personalizzato e utilizzato con varie modalità.
Dalla lettura di vari autori pare che sia più facile dire ciò che l’A.C. non è, piuttosto che delinearne le caratteristiche specifiche.
Scopo di questo lavoro è:
1) rielaborare il metodo secondo l’assunto filosofico dell’A.T.: la persona è OK ed ha la capacità di pensare, di scegliere e di cambiare;
2) riproporre le varie fasi di applicazione seguendo i due principi fondamentali della pratica A.T.: – il metodo contrattuale, – la comunicazione aperta.

Osservazioni su esperienze di A.C.

In certi casi, proporre l’A.C. nelle organizzazioni è come indossare un abito da sera per una gita in campagna: ci si sente “à la page”, anticonformisti, innovativi ma anche inadeguati e scomodi.
Si ignora che “giudicare il valore e i risultati degli individui che compongono un’azienda significa anche giudicare il valore e i risultati di un’azienda” (Zerilli, 1987). Inevitabilmente si interviene sul tessuto, sulla struttura e sulla politica di quest’ultima che potrebbe anche non consentirlo o non essere pronta a tale confronto. L’accusa che tutti rivolgono a tutti è di non stare ai patti: in realtà ciascuno non ha la possibilità di esplicitare richieste ed aspettative che restano, la maggior parte delle volte, pericolosamente sottintese.
D’altro canto, i partecipanti all’A.C. si sentono presi in giro su due fronti: dall’azienda che non dichiara apertamente i suoi obiettivi (spesso non li conosce!) e dai valutatori, a loro giudizio, asserviti alle richieste dei capi.
Chi si sente minacciato attacca e la controparte si difende. L’organizzazione, i dipendenti e i valutatori si scambiano velocemente i ruoli di Vittima, Persecutore e Salvatore in una giostra di sentimenti racket in cui è difficile districarsi.
Ciascuno tende a mantenere una posizione sociale + – in cui i giochi preferiti sono: “Ti ho beccato”, “Biasimo”, “Se non fosse per me”, “Tutta colpa sua”.
Evidenti sono le contaminazioni, da parte dei consulenti dal G (Es.: “tutti i candidati” oppure “Tutti i responsabili dell’azienda cercano di manipolare l’esperto”) e/o dal B (Es.: “Non sono adatto a scegliere il candidato ideale”) e da parte dei dipendenti dal G (Es.: “Non ci si può fidare delle società di consulenza” oppure “della azienda”) e/o dal B (Es.: “C’è qualcosa che non va in me”).
I giochi, i comportamenti derivanti dal triangolo drammatico, le contaminazioni, sono elementi che confermano la presenza di una svalutazione osservabile, in aula, durante la fase di gestione dell’A.C., negli atteggiamenti di astensione, di iperadattamento e di agitazione da parte dei partecipanti e degli osservatori.
Si notano, infatti, sguardi fissi nel vuoto, silenzi, dita che tamburellano sui tavoli, ginocchia tremolanti, sigarette e caramelle utilizzate per alleviare il disagio.
Le persone diventano accomodanti, seguono compiacendo i compiti che si crede l’azienda desideri siano svolti.
Si può costruire un esempio di matrice della svalutazione per i partecipanti all’assessment in cui lo stimolo è rappresentato dall’imbarazzo di trovarsi in una stanza con i colleghi ad affrontare le esercitazioni proposte, il problema è la selezione e valutazione e le opzioni sono i vari modi di affrontare l’esperienza nuova del centro di valutazione (Fig. 1).

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Ciascuno dei candidati svalutando una qualsiasi diagonale svaluterà anche in tutte le variabili al di sotto e alla destra di essa.
Se i partecipanti e i valutatori non sono consapevoli e non affrontano la svalutazione iniziale, quella nella diagonale più alta, tutto l’intervento di A.C. sarà svalutato e le informazioni che gli osservatori cercheranno di raccogliere corrisponderanno solo ad una realtà fortemente contaminata.

Proposte per una nuova esperienza di Assessment Center in chiave analitico-transazionale

E’ essenziale, prima di tutto, intendersi sul termine “valutazione del potenziale”. Valutare le capacità potenziali significa esprimere un giudizio sul valore potenziale del soggetto, cioè su:

1) le sue capacità e possibilità di svolgere – a breve, medio o anche a lungo termine – mansioni diverse da quelle attuali e di progredire verso compiti di maggior impegno e/o responsabilità;

2) le sue attitudini, atteggiamenti, motivazioni, aspettative (possibilmente affiancando al proprio giudizio le opinioni espresse dall’interessato);

3) i settori aziendali e le mansioni verso cui presenta maggiori attitudini e capacità;

4) ogni altro settore e mansione in cui potrebbe essere inserito con buone possibilità di riuscita;

5) le specifiche posizioni a cui potrebbe accedere subito e quelle a cui potrebbe accedere una volta completata la propria formazione, preparazione ed esperienza (Ratto L., 1989, p. 518).

L’A.C., così come oggi è presentato, è uno strumento diagnostico e meno prognostico e non dà risposte che riguardano direttamente la gestione del personale.
L’obiettivo che l’organizzazione vuole raggiungere non è amministrativo; non si tratta, cioè, di decidere riguardo a trasferimenti, promozioni, licenziamenti, ecc. Si parla di obiettivi di tipo clinico (Zerilli, 1987) riguardanti le motivazioni, le aspirazioni, il miglioramento della prestazione, individuando necessità di addestramento e di formazione.
Ciò che importa, allora, è conoscere le caratteristiche comportamentali e le qualità individuali richieste ad una persona per ricoprire un certo ruolo.
Di conseguenza, il campo di lavoro si restringe: la funzione predittiva dell’A.C. è minima rispetto a quella conoscitiva.
E’ difficile prevedere con certezza gli eventuali cambiamenti psicologici di una persona.
Lo psicologo non è un profeta, funge da specchio nel qui e ora; l’unica possibile previsione consiste nel comunicare le proprie esperienze passate confrontandole con la situazione presente.

Durante l’A.C. si può offrire alle persone possibilità di apprendimento e di cambiamento che interverranno, in modo indiretto, sulle posizioni attualmente ricoperte e sulle mansioni a cui ciascuno potrebbe essere destinato lungo l’intero arco della carriera lavorativa. In tal modo, l’A.C. non rappresenta l’ambiente artificiale per recitare una parte, quella più conveniente o meno rischiosa, e la valutazione non è uno strumento di controllo ma di sviluppo.
Divenire consapevoli dei contratti verbali e dei contratti taciuti aiuta a gestire e a risolvere le difficili e sottili relazioni che si stabiliscono fra i vari soggetti istituzionali coinvolti nell’A.C.: candidati, assessors, administrator, Direzione del Personale, Management, Sindacato,.., ecc.
Lo schema proposto è un esempio delle possibili interazioni e contratti. E’ importante sapere, nella fase preliminare dell’A.C., quale impegno si ha e con chi (Fig. 2).

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L’Analisi funzionale degli Stati dell’Io permette di analizzare e delineare in modo chiaro ed univoco le abilità richieste per una determinata mansione, nella fase introduttiva dell’A.C..
Considerando ciascuna caratteristica come parte dell’insieme dei comportamenti in un determinato Stato dell’Io, si ha il vantaggio di utilizzare lo stesso linguaggio e di intendersi sui termini: capacità di negoziare, di comunicare, di motivare, capacità di analizzare, di organizzare, ampiezza di visione, flessibilità mentale, iniziativa, creatività, …ecc.
Tali dimensioni critiche rappresentano silo alcuni dei requisiti richiesti al candidato per una particolare attività lavorativa.
Decifrare e codificare ciascuna caratteristica generica riportandola ad uno Stato dell’Io, cioè, ad un comportamento osservabile nel qui e ora permette agli esaminatori e agli stessi candidati di valutare e, a volte, scoprire le diverse capacità di ciascuno. Il feedback degli osservatori non è più la sentenza inaspettata e temuta ma un confronto A-A sui contenuti e sui guadagni ottenuti da ogni partecipante.
Anche la griglia di personalità, utilizzata soprattutto in campo clinico, può essere adoperata dai valutatori che si limiteranno, in questo caso, ad annotare ciò che osservano ed ascoltano più che le proprie percezioni ed interpretazioni.
La griglia sociale, rappresentata nella Fig. 3, è solo indicativa ed è suscettibile di ulteriori approfondimenti e cambiamenti. Offre il vantaggio ai valutatori di poter seguire una mappa durante le varie prove da cui trarre, in seguito, un profilo breve ed efficiente del candidato. La griglia aiuta gli osservatori ad intendersi con un linguaggio comune e con una comune categoria concettuale. Per il profilo finale si può utilizzare un gergo non tecnico ma comprensibile per i responsabili della azienda senza che vengano inficiati i significati ed i contenuti concordati inizialmente fra assessors e administrator.

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E’ evidente che la preparazione di questi ultimi non può essere improvvisata e che l’intuizione di ciascuno deve essere sostenuta da un adeguato studio ed esperienza.
La selezione e la valutazione suggeriscono l’idea del giudizio, della scelta di qualcuno a scapito di qualcun altro.
Si instaura una relazione G-B fra consulente e candidato e l’Assessment Center, proprio per la sua struttura, evidenzia ancora di più l’effetto “gabbia di leoni”.
La capacità del valutatore che non nega la sua ansia, né quella del candidato ma la utilizza per una migliore conoscenza di sè e dell’altro, permette la crescita e l’apprendimento del gruppo. Così l’obiettivo finale non è il risultato dell’esame e il voto ma la conoscenza e la consapevolezza di sè.
Ogni individuo è libero di sperimentarsi in nuove versioni, di darsi nuove opzioni; il potenziale di una persona sana non ha limite. I problemi, le difficoltà, le “patologie”, possono essere catalogati e prognosticati ma l’evoluzione in autonomia e creatività della personalità umana è un processo assolutamente originale, sorprendente ed imprevedibile.
L’Assessment Center è uno strumento complesso ma, se ben utilizzato, offre molteplici guadagni.
L’azienda ha la possibilità di conoscere le caratteristiche di personalità dei dipendenti, le loro potenzialità e i loro bisogni di formazione. I risultati dell’A.C. possono essere utilizzati nell’immediato o nel futuro.
Il candidato ha l’opportunità di avere consapevolezza sui propri punti di forza e di sperimentare nuovi comportamenti nelle attività proposte e nelle prove di gruppo.
Il consulente ha l’occasione di effettuare una valutazione partecipata in cui la responsabilità e il “dovere”, comunque, di scegliere i candidati non migliori ma più adeguati a quel ruolo, siano condivisi con i colleghi e con gli stessi partecipanti.

Conclusioni

L’Analisi Transazionale dà unicità all’applicazione del metodo presentato, offrendo a ciascun assessor stesse modalità di raccolta e di valutazione delle osservazioni.
L’A.T. favorisce l’esame della realtà: la soggettività dei valutatori viene interpretata in chiave diversa, non c’è solo la responsabilità individuale ma c’è una responsabilità condivisa fra esaminatori ed esaminati.
L’A.C. in quest’ottica aiuta non tanto a definire le potenzialità generiche ma “ad individuare singole e specifiche tendenze di sviluppo della persona nello specifico contesto socio-organizzativo” (A. Castello d’Antonio, 1989).
Spunto per un’ulteriore ricerca è l’approfondimento della necessaria congruenza culturale/operativa fra il metodo e l’organizzazione che. vuole impiegarlo.

Riassunto

In questo articolo è analizzato e valutato l’apporto teorico e tecnico che l’Analisi Transazionale offre nella selezione del personale, in modo specifico nell’Assessment Center. Tale metodo di selezione è rielaborato secondo la filosofia analitico transazionale: la persona è OK ed ha la capacità di pensare, di scegliere e di cambiare.
Inoltre sono riproposte nell’articolo le varie fasi di applicazione dell’Assessment Center seguendo i due principi fondamentali dell’A.T.: il metodo contrattuale e la comunicazione aperta. L’analisi funzionale degli stati dell’Io, la matrice della svalutazione, la griglia sociale di personalità sono strumenti che, offrendo unicità alla metodologia, favoriscono un lavoro efficace per i valutatori e i valutati ed efficiente per l’azienda.

Bibliografia

CASTIELLO D’ANTONIO A., Scegliere per eccellere, Ipsoa, 1989
PADOVESE L., QUAGLINO G.P., “Valutazione del personale, Assessment Center e Contesto bancario”, Sviluppo e Organizzazione, n. 101, maggio-giugno 1987
RATTO L.: (a cura di), Dizionario di management, Franco Angeli, 1989
VAN AUDTSHOORN M., “Assessment Centers”, Industrial and Commercial Training, VII, 5, 1975
ZERILLI A. (a cura di), La valutazione del personale, Franco Angeli, 1987

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Le esercitazioni in aula

Risorse Umane in Azienda, anno II n. 11 Ottobre 1991

Nintersit aliquid inter clamorem theatri et scholas
Seneca

Dagli anni che seguirono il dopoguerra, la formazione nelle aziende non è più limitata al periodo che precede l’ingresso nell’organizzazione ma è un continuum nella vita lavorativa.

Il processo di formazione costante cui è indirizzata una popolazione di persone sempre più estesa ha delineato e chiarificato il ruolo dell’operatore di formazione.

Superando la distinzione fra la figura del docente e quella del formatore, valida più per gli enti interaziendali che per le società private di consulenza, l’esperto che va in aula è, comunque, la persona che procede materialmente alla progettazione, alla organizzazione e all’esecuzione dell’attività formativa.

Le sei, otto ore di aula mettono a dura prova gli spiriti più camerateschi dei giovani consulenti e le sperimentate capacità oratorie degli accademici.

Le esercitazioni proposte ai partecipanti possono, tenuto conto della fatica di chi parla e di chi ascolta, diventare semplicemente riempitivi, venendo utilizzate per spezzare la teoria. Comunque, la finalità, in questi casi, diviene quasi sempre quella di proporre lo spettacolo sperando di attirare e ravvivare l’attenzione dei corsisti.

Spesso, allora, corso di formazione esercitativo diventa sinonimo di divertente, coinvolgente, nuovo, ma non sempre sta a significare una situazione nella quale si è appreso e nella quale si è cambiato qualcosa.

E’ necessario che un’esercitazione sia adeguata e mirata agli obiettivi del corso. Il formatore che resta nel “qui e ora” si permette di “sentire” i suoi sentimenti, quelli degli altri e di valutare la situazione. Questo implica un processo di personalizzazione della guida del corso: è meglio che l’istruttore non sia semplicemente un esecutore del programma ma che sia consapevole del vissuto del gruppo e del proprio. Autonomia e flessibilità lo guidano nell’adattare il programma alle esigenze dell’uditorio. È, così, libero di decidere il momento in cui proporre l’esercizio senza doversi prendere, però, alcuna licenza riguardo alle tematiche fondamentali del corso.

STRUTTURARE IL TEMPO

Il programma prestabilito e definito nei particolari è l’espressione tangibile dell’accordo con il committente e, psicologicamente, serve anche a soddisfare il bisogno di struttura del formatore.

Ci sono sei modi diversi di strutturare il tempo (1)

• isolamento
• rituale
• passatempo
• attività
• giochi
• intimità

Se non si tiene conto degli elementi di sfondo, cioè del clima del gruppo e dei vari gradi di ricettività dell’apprendimento, l’esercitazione proposta può divenire isolamento, rituale, passatempo o gioco.

Infatti, se viene presentata come un compito in classe, può essere una barriera fra chi si sforza di portare avanti il programma e chi si sforza di seguirlo.

Essere fisicamente in una stanza non garantisce una reale interazione fra i membri. A volte, la gente si isola in un inefficace dialogo interiore che può portare alla svalutazione delle capacità personali, dell’efficienza del docente o della possibilità di cambiare la situazione.

L’esercitazione è un momento di riflessione, non un motivo per allontanarsi dal “qui e ora”.

Nella maggior parte dei casi, i presenti sono stati inviati ai corsi, o, peggio, obbligati a parteciparvi.

Quando ci si incontra si utilizzano tanti rituali: il modo di salutarsi, di prendere posto nei tavoli, di presentarsi e di presentare il programma, ecc.

Questi rituali sono prevedibili e riflettono l’ambiente aziendale, la cultura, il proprio modo di esprimersi e di comportarsi e proprio per questo ci si sente in essi rassicurati.

Visto che non si tratta soltanto di impartire una lezione ma di creare situazioni di apprendimento, con l’esercizio pratico si utilizza l’energia del gruppo e del formatore verso un obiettivo concreto: è, quindi, un’attività mirata, non un rituale.

Un uso appropriato degli esercizi presuppone da parte del docente alcune riflessioni.
A cosa serve l’esercitazione che sto proponendo?
Come mi accorgerò che è stato raggiunto il risultato prefissato?
Come lo verificherò con il gruppo?
L’aula non è la vetrina delle speranze future o il palcoscenico dei racconti del passato; è il tempo, il lavoro, la possibilità per ciascuno, ADESSO, di fare un piccolo cambiamento del modo di comportarsi.

A volte, si ha l’esigenza di dare respiro al gruppo dopo l’espletamento di una parte teorica del programma. E’ adeguato un intervento che richiami la parte ludica dei partecipanti.

Ma, spesso, si ha l’impressione di un incontro ad un cocktail party dove, in genere, si utilizza il tempo per scambiarsi opinioni preconcette sul mondo e sugli altri, dove la gente può decidere di parlare di politica, di sport, di cultura ma non decide mai di essere in prima linea.

In queste situazioni di passatempo si evidenzia un largo uso dell’impersonale “si dice…“, “si sente che…” o frasi stereotipe: “ai miei tempi…“, “la televisione ha detto che…“.

Molte volte la gente compiace, specialmente in presenza di un esperto che sa e che giudica.

Ci si chieda, allora: questa persona è cambiata o si è adattata? Il partecipante pronto, che non è abituato a perdere, sa adattarsi. In realtà, prende in giro il “professore” e se stesso: questi compiace e l’altro può sentirsi bravo.

I RUOLI

Così, diventa essenziale, prima di presentare un’esercitazione, che il formatore stimoli nel gruppo un apprendimento da professionisti e non da studenti. Se nel gruppo di lavoro non ci sono adulti che si confrontano fra pari, c’è un grande spazio per i giochi di ruolo, in cui tutti si sentono a disagio e avvertono sentimenti spiacevoli.

I tre ruoli principali sono: il Persecutore, il Salvatore e la Vittima.

Il Persecutore sminuisce con prepotenza il valore degli altri.

Il Salvatore è convinto che gli altri, senza il suo aiuto, non saranno mai abbastanza capaci ed efficienti.

La Vittima si considera inferiore rispetto agli altri e, in ogni situazione, si sentirà inadeguata e incapace.

Fare esercizi è invitare le persone a scoprirsi e queste, se si sentono minacciate, scappano o si chiudono.

Nel campo clinico si parla del furor sanandi (fretta di guarire) del terapeuta; in aula, credo si possa osservare lo stesso atteggiamento da parte del docente che vuole, a tutti i costi, che l’altro capisca e risolva. Di conseguenza, incomincia ad interpretare gli atteggiamenti, le osservazioni, ad indovinare le idee, prima che vengano espresse. Togliendo così potere alla persona, trasforma il feed-back in un confronto persecutorio.

L’esercitazione, a volte, sembra essere considerata, da parte di alcuni, come l’oroscopo che permette di scoprire ciò che nessuno sa e vede. Il vuoto di conoscenza da parte dei partecipanti crea fantasie e, di conseguenza, dà spazio a comportamenti falsati ed inadeguati. E importante, per diminuire la percezione magica, che gli obiettivi e i guadagni dell’esercizio proposto siano chiari a tutti, prima o dopo lo svolgimento dello stesso.

Il concetto di sanità e di cambiamento personale non è legato solo ad una esperienza emotiva ma anche ad una esperienza cognitiva. Non si tratta, quindi, di sentirsi bene o male, dopo l’esercizio ma di capire cosa è successo, quali erano gli scopi, se sono stati raggiunti e come.

Il formatore e i corsisti devono darsi la possibilità di

SENTIRE – PENSARE – AGIRE

attraverso un processo continuo di consapevolezza personale e di gruppo. Cioè, bisogna chiedersi: cosa sta accadendo a me in questo momento, e cosa accade nel gruppo di cui faccio parte?

I VARI TIPI DI ESERCITAZIONI

In linea generale, si possono individuare tre tipi di interventi formativi, in funzione di quello che è il loro obiettivo. Si hanno quindi interventi mirati:

• al sapere
• al fare
• all’essere

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Quando questa distinzione teorica viene applicata in un programma di formazione, la suddivisione è meno evidente. Infatti i corsi sono pensati e formulati con un unico generale obiettivo di base: il cambiamento all’interno dell’azienda.

La modificazione di un determinato comportamento presuppone, da parte del partecipante, la conoscenza e la capacità di operare autonomamente. Cioè la capacità di capire i problemi e di prendersi la responsabilità dei propri sentimenti, pensieri e azioni. Il sapere, il fare, l’essere sono legati fra di loro e diventano l’espressione sociale di un processo interno che porta la persona all’autonomia attraverso sentire, il pensare, l’agire (fig. 1).

Dove il sentire assume il significato di venire a contatto, individuare ed, eventualmente, esprimere il proprio vissuto, il proprio sentimento.

Pensare è la capacità di riconoscere ed analizzare le varie soluzioni di un eventuale problema. La persona che non si dà la possibilità di pensare appare, generalmente, confusa ed agitata.

Agire è, invece, scegliere, intraprendere un’azione per cambiare uno stato di cose, avendo chiaro l’obiettivo da raggiungere.

Di conseguenza, a livello sociale, si sottolinea un percorso parallelo.

Il sentire si evidenzia nell’esprimersi, nell’essere autentici ed adeguati. Il fare, l’operare, è l’espressione di una scelta compiuta e di una decisione presa.

Infine, la conoscenza, il sapere, diventa il termometro della capacità di apprendimento e di comprensione della realtà (fig. 2).

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Il processo ora descritto non è, però, consequenziale, le varie fasi si evolvono liberamente, senza un ordine prefissato.

Nei programmi di formazione il sottotitolo “esercitazione” comprende, in realtà, varie proposte e varie finalità che tengono conto di tale processo.

Si possono distinguere:

• il gioco addestrativo;
• l’esercizio sperimentale;
• il questionario autovalutativo.

In un corso o in una fase di un corso dove l’obiettivo principale sia l’informazione e la conoscenza si proporranno giochi addestrativi, ben diversi dai giochi negativi di ruolo dei quali si è parlato prima.

Per esempio il gioco della comunicazione ad un senso rispetto a quella nei due sensi, oppure il gioco di ascoltare o quello della comunicazione verbale, ecc.

Il gioco addestrativo non sostituisce la teoria, semmai è un rinforzo ad essa. È una competizione, una gara con regole precise da seguire, dove i partecipanti verificano la propria capacità e competenza fisica e/o mentale.

L’esercizio sperimentale, invece, come ad esempio il role-playing, serve a fare pratica, a rafforzare un’attività professionale. Sarà utile, anche se più complesso come preparazione e presentazione, in un programma o parte di programma che preveda, soprattutto l’azione, l’opportunità di praticare, di affrontare concretamente i problemi e di trovare le soluzioni.

Il questionario autovalutativo è l’esercitazione meno strutturata, più difficilmente gestibile nei risultati dal formatore, ma, sicuramente, più ricca di spunti e di riflessione.

Il questionario può facilmente trasformarsi in un mea culpa, altrimenti è un validissimo strumento per valutare il proprio vissuto rispetto a se stessi, agli altri colleghi, alla situazione aziendale.

Sia che si tratti di un programma prefissato nei particolari o di un programma con temi e tempi definiti in linea generale, l’esercitazione è sempre un’occasione privilegiata per esprimere e per agire se stessi senza messaggi segreti.

Il livello sociale e quello psicologico dei partecipanti sono chiari e congruenti: ciò significa che tutti decidono di condividere l’esperienza presente.

Va bene scegliere di utilizzare l’esercitazione: il problema nasce quando c’è la convinzione, da parte del formatore, di non poter far altro. L’esercizio pratico è una decisione del docente e del gruppo per ottenere un risultato, non è una via d’uscita obbligata perché non si sa più cos’altro proporre, perché è scritto nel programma e, comunque, perché non si riesce a tenere a bada la propria ansia.

E’ importante considerare sempre le aspettative e le esigenze dell’azienda, dei partecipanti e del formatore.

Ogni intervento formativo per essere adeguato deve essere mirato costantemente al progetto previsto.

Ci si sente, allora, alleati con Seneca nell’affermare e nell’augurarsi che è necessaria una differenza fra l’applauso del palcoscenico e il successo ottenuto in aula.

(1) E. Berne, What Do You Say After You Say Hello? Grove Press, New York.

Ripensando… all’autostima

 

 Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 2, 2007

Propongo in questo spazio scritti irregolari e vagabondi, riflessioni irriverenti e scanzonate.

Nelle organizzazioni incontro molti  sopravvissuti, patiti della political correctness: adeguarsi, compiacere, fare buon viso a cattivo gioco, attaccare il povero somaro…

Dopo anni di pane e veleno, di libri e cioccolato, ecco affacciarsi il privilegio dell’età, l’esercizio del ripensamento, il coraggio della discussione non più contro qualcuno ma come fedeltà al reale.

Nell’attività che svolgo come psicologa nell’ampio territorio della Gestione delle Risorse Umane, un nodo cruciale è il passaggio dall’azienda, al senso di comunità dell’azienda. La parola chiave è autostima: mi chiedono di valutarla nei colloqui di selezione, di promuoverla negli incontri formativi, di evidenziarne la mancanza nei team di lavoro mal riusciti, di pretenderla dai responsabili, di elemosinarla dai nuovi assunti.

Autostima è la valutazione della persona rispetto al sé ed esprime il giudizio relativo al valore personale. Penso che l’autostima sia al centro di ogni problema di comunicazione. Chi non si stima, non ha relazioni sane. L’autostima viene meno negli stati di depressione e aumenta negli stati maniacali: questo nei manuali di psicologia. Nella quotidianità aziendale mi rendo conto che il rifugio nell’autostima, come richiesta, come accusa (dell’altro), come vanto (di sé), come argomento/passatempo è spesso il segnale di personalità egocentriche. Affermazione di sé, forza, efficacia, efficienza, determinazione, flessibilità, autocontrollo, vengono contrabbandate come sinonimi dell’ autostima e proprio questa, nel frattempo, sta diventando il peccato mortale delle persone inserite nelle nostre organizzazioni. La pre-occupazione di sé, in nome dell’autostima, è evidente, dovunque, nei corridoi e nei consigli di amministrazione. In nome dell’autostima, ci si occupa,  prima e solo di sé.

Proporre consulenza all’ azienda è ermeneutica, nel senso di  tradurre, interpretare, s-velare, condividere. Dunque, fermiamoci a considerare che è solo nella tensione verso l’altro che l’io trova conferma di sé. L’altro è la prova per il singolo di esserci (dasein), di essere gettato dentro la situazione, di vivere la realtà.

Sono convinta: all’inizio non c’è l’Uno ma il Due e tutto nasce dall’incontro. Persino Narciso, l’Autosufficiente per antonomasia, arriva, bisognoso di alterità, a riconoscere se stesso, la propria immagine come altro-da-sé. E Dio crea l’altro a <sua immagine e somiglianza>, l’altro che diviene, così, espressione della trascendenza dell’io.

Da Sartre, per il quale solo lo sguardo dell’altro ci <oggettivizza>, a Lévinas che guarda il volto dell’altro come traccia d’infinito, la richiesta è che gli esseri umani siano egocentrati, che abbiano già dimorato presso di sé il tempo adeguato per camminare verso l’altro  e che condividano l’esperienza di Martin Buber: “Divento io nel  tu; divento io, dico tu”.

Noto, nei gruppi di lavoro, che l’integrazione dell’altro, spesso richiesta e vantata è, in fondo, negazione dell’alterità. L’altro non è un voyeur rispetto alla nostra bontà e disponibilità affinché lui si adatti,  ma esprime la conditio stessa dell’esistenza organizzativa.

Uscire dall’autoaffermazione, “lasciarsi andare” di fronte all’altro è permettere a sé e all’uomo con cui si è in dialogo di partecipare alla realtà della vita. La stima che ciascuno nutre per sé porta ad accogliere, assistere, curare, gestire, non serve a riconoscere, non a meravigliarsi, non a scoprire il  visage come evento. Oltre  l’autostima, c’è l’arte del dialogo, la sorpresa dell’incontro, l’inutilità della bellezza.

“Due non è il doppio ma il contrario di Uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato” (Erri De luca, Il contrario di uno, Feltrinelli)

Non condanno la ricerca dell’autostima, la considero solo un passaggio. Il conseguimento della stima di sé non può essere il fine, ma uno stadio iniziale dell’esperienza esistenziale. Mi piace chi si stima una volta per tutte e se lo dimentica a servizio del collega, del capo, chi sceglie di perdersi nell’evento/relazione vincente.

Ripensando… all’ apprendimento

 

 Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 3, 2007

 

“Comunicare l’un l’altro, scambiarsi informazioni è natura;

 tener conto delle informazioni che ci vengono date è cultura” Goethe

 

 

“Aspettate, fatemi pensare psicologicamente prima di rispondere!”

Attivando percorsi di selezione e formazione del personale nelle aziende, pare che, dichiarata la laurea in psicologia, ci si debba rivolgere a me, per così dire, proponendosi psicologicamente. Credo che in quella frase, al di là del linguaggio popolare e al di là del sorriso rispetto al trattamento che mi si riserva, sia racchiusa l’idea di un apprendimento con il pensiero che distinguo da un apprendimento senza il pensiero. L’apprendere con il  pensiero esprime il sentimento di professionalità, che è diverso dall’autostima. E’ sintonia e benessere condividendo un cammino, è esercizio di umiltà sociale (Camus). La coscienza dell’apprendimento e del pensiero è educazione civica. U.Galimberti nel Dizionario di Psicologia descrive l’apprendimento come un processo psichico che consente una modificazione durevole del comportamento per effetto dell’esperienza. Dunque, sento – penso – agisco: creo, così, storie e relazioni. Apprendo e penso e il pensare è relazione e la relazione è condivisione di tempo, spazio ed energia o non è. Che per  Watzlawick  non si possa non comunicare, mi rende ancora più inquieta, perché, spesso, è scontato comunicare senza pensare. La comunicazione che non produce apprendimento-pensiero-relazione è pratica pericolosa che irrigidisce confini, contorni, zone, schemi, strutture  di ciascuno.

dovevofarloio?nonavevocapito!nonmenesonoaccorto!nessunomelohadetto!

(versione non perdente).

so!hocapito!melavedoio!sonocerto!vabene!assolutamentesì!telospiegoio

(versione non vincente).

Non voglio svolgere attività con chi esegue il compito, con chi garantisce la presenza, magari anche polemica – così sembra anche uno impegnato e vivace – con chi fa il proprio dovere, con chi afferma di aver capito – magari sapeva già – con chi ha ragione perché l’altro ha torto. La fretta della risposta, appunto, per togliersi il pensiero, assume la forma di una presa per i fondelli. Chiedo di esserci davanti all’altro, prima ancora di capire e di esprimere il sapere. Capire e sapere rappresentano un corridoio buio e stretto verso la relazione, ma non sono garanzia di relazione. Si tratta, apposta, di farsi mancare la risposta per arrendersi alla riflessione, per concedersi il tormento delle idee, dinanzi alla presenza dell’altro.

Scelgo di raccontare e ascoltare storie e di condividere strade e non cedo alla tentazione di proporre corsi sulla motivazione del personale, (altra ricerca affannosa, espressione dell’apprendimento senza pensiero), legata quasi sempre ad aumento di denaro, di benefit, di voto, in generale, legata ad una ricompensa.

Apprendere e pensare sono in confidenza con l’immaginazione, il ricordo, il discernimento, il senso, l’intenzionalità dell’azione. Il computer o la lavatrice servono a fare ciò per cui sono progettati, ma niente di più. L’essere umano è coautore, si autoinventa, continua a dare forma a se stesso. L’apprendimento senza pensiero produce il deterioramento del pensiero come nei deliri o nelle idee dominanti, vissute dal soggetto come assolutamente vere per il lato affettivo intimamente connesso.

Condivido con F.Savater l’idea che gli esseri umani sono programmati in quanto <esseri>, ma non in quanto <umani>. Chi apprende e pensa avvia percorsi poco noti, accetta di rischiare idee senza rete, nuovi schemi logici, cioè nonschemi creativi, crea diverse sistemazioni concettuali o aperture epistemologiche, ipotesi, dubbi.

Ritorno a quel pensare psicologicamente, interazione dalla quale scherzosamente si avvia la riflessione proposta, per ribadire la ricerca di un pensare con l’anima, fino all’evoluto heideggeriano pensiero poetante. Capire non è indispensabile quanto esserci. In una relazione la certezza di non aver capito è apprendimento con il pensiero. E’ bello scegliere una soluzione davanti all’emergenza che consenta di  continuare a discutere, di continuare a non sapere con dignità. Apprendere e pensare è attività artistica e obbliga all’apparente follia di abbandonare la lettura dell’elenco telefonico a favore del cammino, della ricerca, della sorpresa,  di una vita intesa non come durata produttiva, ma come intensità ed evento.

Ripensando…. all’apparente positivo

 

Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 1, 2008

 

”A qualcuno la vita deve sembrare così, una continua carestia,

 e tutto quello che rimane da fare è consumare

 tutto quello che si può,

 anche se non riesce mai a soddisfarti”

(Hanif Kureishi, Il corpo, 2003)

 

L’invito del nostro tempo è a trovare se stessi, ad amarsi, accettarsi, appagarsi, svilupparsi, cambiarsi, guarirsi, affermarsi, ossessionati dall’apparire forti e vincenti.

Sono sempre più spesso colpita da persone che manifestano benessere, simpatia sociale, vivacità nell’affrontare le attività.  Noto  un presunto, falso e pericoloso <io sono ok-tu sei ok> recitato sui palcoscenici delle aziende. Incontro persone brillanti che utilizzano in maniera appropriata termini come consapevolezza, autonomia, conoscenza di sé. Abusano termini come libertà, lucidità, sapere.  Mi appaiono vincenti, riuscite, dominano perfettamente qualsiasi situazione e in qualsiasi situazione si comportano più che con leggerezza, come affermano, a cuor leggero, stufe, talvolta, di non potersi permettere il loro tenore di vita. Guardo una sorta di estroversione recitata, una confidenza esagerata, un <tutto bene, tutto bene> dichiarato troppo e troppo in fretta. Manifestano un comportamento alterato, sempre sopra le righe, chiassosamente gioiose o tristi. Confondono senza accorgersene i feedback con i giudizi, usano un linguaggio specialistico che le conforta e le autorizza a dire di tutto. Le proprie difese psicologiche vengono giocosamente sostenute con l’idea di sapere bene, con la certezza adolescenziale che tutti hanno diritto alla coperta di Linus. Guardo la capacità di  vincere, ma non l’essere vincenti, talvolta intuisco un copione perdente. Ricominciano nelle loro vite sempre da zero, mai da capo. Non salvano nulla del passato prossimo e/o remoto; fanno tabula rasa di ogni pensiero/emozione incomprensibile, evitando la compagnia del dubbio. Non continuano il viaggio portandosi dietro gli apprendimenti, ma ne iniziano uno nuovo che sembra nascere dal nulla, non generato da un conflitto e da una riscelta interiore. Il cambiamento, tra l’altro continuo e incongruente, non manifesta inquietudine, piuttosto una pressante esigenza di azzeramento. Possono essere come ognuno li vuole, amici adesso e di sempre, profondi come pozzanghere, impegnati nel gioco delle sedie: c’è sempre qualcuno che rimane in piedi. Senza una base certa, non c’è solidità, solo forza mal dosata, esagerazioni. Ascolto i loro racconti e noto che, talvolta,  sono il risultato di psicoterapie troppo brevi o superficiali. Molti studiano le cose della psicologia, sociologia e dintorni, dichiarano convinzioni precise, scelte convinte, si autocertificano la verità. Chiamo queste persone falsamente positive. E’ difficilissimo il confronto giacché diventano scontrose o compiacenti e sono bravissime a rimettere tutto a posto, anzi, a riconoscere che sono proprio d’accordo, che non c’è bisogno di dir nulla, perché sono certe di conoscere o di essere addirittura un passo più avanti. Dove? Credo da nessuna parte. Non hanno storia, ma tantissime storie che, spudoratamente, raccontano, quando capita e a chi capita per convincere l’altro e se stessi di come sono stati capaci, pronte. Non arroganza, piuttosto un esagerato e innaturale benessere, a tutti i costi. Penso all’egoismo nel senso che l’io rifiuta di ampliarsi, proponendosi in continuo rifacimento. Trascorrono l’esistenza a ristrutturare l’io, come a rimestare nel solito tegame. Ma  l’identità – che non è immagine pubblica – passa unicamente attraverso il riconoscere,  l’assumere e il trattenere silenziosamente e dolorosamente l’altro.

Molti usano parole come se non avessero elaborato il lutto, la perdita, il dolore, l’assenza, il tradimento lasciandosi, semplicemente, tutto alle spalle. Il senso del lutto è sentire che la verità è inaccettabile. Se manca questo, di conseguenza, manca l’elaborazione della gioia. Non parlo né di nevrosi, vista l’assenza di conflitti profondi,  né di psicosi, in cui la personalità è completamente destrutturata. Non una sindrome, piuttosto un vizio, una abitudine manifesti soprattutto nella socialità, tendenze di gruppo, presentate come nuovi valori della modernità. Mi convinco che si tratta di un corpus ostinato di comportamenti ripetitivi,  coatti,  poggiati come un telo sulla personalità. Galimberti (L’ospite inquietante, 2007) riprende l’idea del nichilismo e la fa sembrare una malattia, più che una scusa. Certo, il disagio non è psicologico, è culturale, afferma il filosofo. Evitando il dilettantismo affettato, il rimedio è in una nuova forma mentis, nella libertà di ricerca  e nella riflessione di senso per pensare altrimenti l’esistenza. L’invito primario è a volere una predisposizione del corpo, dello spirito, della mente alla sobrietà, all’essenziale, al raccoglimento, evitando la meticolosità e l’austerità, segnali opposti di una stessa mancanza di comunicazione. “La mia fragilità mi porta ad amare, dunque, l’amore è la risposta a un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione che senza l’altro il mio esserci nel mondo è votato solo alla morte, al non esserci; e la solitudine dell’uomo di vetro è la peggiore delle malattie, delle malattie del vivere” (V.Andreoli, L’uomo di vetro, 2008)

Rileggo: più che riflessioni, ho utilizzato i 5467 caratteri per esprimere un mio malessere.

Invio: condividere con più persone uno stato d’animo è la parola necessaria per creare un silenzio nel quale avvicinarsi.

 

 

 

 

Pubb-010-01

Il Self Reparenting nelle Organizzazioni

 Il self reparenting nelle organizzazioni, Riv. It. di A. T. e Metod. Psicoter. XII, 22, Giugno 1992

 

Nelle organizzazioni il successo ha migliaia di padri e nessuno si occupa del bambino
K. Ohmae

 

Self-Reparenting in organizations

The article deals with the Self-Reparenting as an instrument to analyze the evolution of the organization.
In the company the Personality  is a function that should protect its identity.
For a company, it is natural to go out from the script, as a human being does.
A company that wants to evolve, develops a proper system of values, a proper Personality which includes only a part of its founder’s convinctions, and is completed by the experience of the group, the process of Self Reparenting helps the company to save “what was good” in the old culture: by providing new chances, by restructuring the Personality ego state and by increasing its own identity as an organization.

 

Premesse e Obiettivi

Le riflessioni proposte in questo articolo partono da una prospettiva clinica dello sviluppo organizzativo. Il modello clinico vede l’azienda non più come macchina ma come persona ed è per questo motivo orientato al cambiamento e al miglioramento più che alla analisi descrittiva di essa. L’A.T. offre una teoria della personalità aziendale intesa non solo come risultato del vissuto di gruppo ma come integrazione a sè stante di un G, di un A e di un B e offre una terapia sistematica per una autoanalisi dell’organizzazione. La mia, tesi consiste nell’illustrare il Self Reparenting come un procedimento che può facilitare l’evoluzione dell’organizzazione in modo che essa possa “sentire” i suoi sentimenti, prendersene carico e utilizzare tale consapevolezza per la sua crescita.

In quest’ottica, per esempio, all’entusiasmo per il successo di un prodotto segue una scrupolosa attenzione ai bisogni dei consumatori e “la disponibilità a riconsiderare la natura dei prodotti e il loro uso, così come il modo di organizzare al meglio tutto il sistema organizzativo che li progetta, fabbrica e commercializza” (K. Ohmae) (fig. 1).

Pubb-010-01Obiettivo centrale di un’azienda diventa, allora, creare nuovo valore per i clienti incontrando i loro bisogni e non solo migliorando tecnologicamente il prodotto.

Ulteriore scopo di questo articolo è proseguire una sorta di addestramento alla capacità e al coraggio di utilizzare l’A.T. nella diagnosi e prognosi del processo di nascita ed evoluzione dell’organizzazione oltre che come strumento per comprendere e migliorare l’interazione nei gruppi.

 

Lo Stato dell’Io Genitore nell’Organizzazione

Secondo l’Oxford Shorter Dictionary, “l’identità è la qualità o condizione dell’essere sempre lo stesso; l’essenziale e assoluto essere medesimo; l’unicità”. Identità e unicità, dunque, ma, secondo l’A.T., in continuo cambiamento ed evoluzione. Infatti, l’organizzazione, come l’essere umano, evolve in autogenesi lungo il tempo e la sua cultura è l’espressione esterna di una energia interna, è l’espressione di ciò che Edgar Schein chiama assunti di base. Questi rappresentano le risposte che un gruppo ha appreso per sopravvivere nell’ambiente esterno e per superare i problemi di integrazione all’interno.
Secondo lo studioso, i comportamenti delle persone, le norme all’interno dei gruppi di lavoro, i valori dominanti di un’organizzazione, la filosofia che guida la politica aziendale, le regole, l’atmosfera che viene comunicata, riflettono la cultura dell’azienda anche se la somma di tali variabili non corrisponde alla sua essenza.
Tale essenza si ritrova a livello più profondo, quello, come dicevo, degli assunti di base.
La mia ipotesi è che la cultura aziendale si esprima attraverso le regole (G2), le strategie (A2) e l’entusiasmo (B2) anche se queste sono solo rappresentazioni di essa.

Per comprendere la vera sostanza de la personalità aziendale, è utile osservare il modello strutturale di secondo ordine. Considerando, in questo lavoro, soltanto lo Stato dell’Io Genitore, ritroviamo in G3 le ideologie, i simboli, i linguaggi, in A3 le affermazioni intorno alla realtà che in passato erano considerate vere, in B3 i miti, le percezioni del B di figure genitoriali legate al passato dell’organizzazione (fig. 2).

Pubb-010-02Tale analisi del G permette di capire ed esaminare gli assunti di base e cioè “i valori dati per scontati che si trasformano in convinzioni e in idee a cui si fa riferimento automaticamente, come a delle abitudini inconscie” (E. Schein, op. cit.).

Il vantaggio è che tali assunti in A.T. noi sono più entità astratte ma comportamenti chiari e osservabili.
Ritroviamo, inoltre, in questo concetto, la coazione a ripetere, requisito predominante nell’evoluzione del copione aziendale.
L’azienda è correlata all’ambiente in cui si evolve e da questo trae spunti per autoriconoscersi come «azienda Alfa» e come «altra da Beta». Essa si adatta all’ambiente che risponde al suo bisogno di attaccamento, bisogno che è alla base del costituirsi un’identità.
Il copione per l’organizzazione è, dunque, un adattamento che si esprime con un comportamento identificatorio.

 

Alcuni esempi

Utilizzando questi concetti di A.T., possiamo illustrare, per intenderci, il caso della Jones Company presentatoci da E. Schein nel suo libro. Jones, immigrante e figlio di piccoli commercianti, aveva costruito una grande catena di supermarket.
Egli vendeva a credito, accettava sempre di cambiare la merce venduta dimostrando di fidarsi dei clienti, insegnava al personale come doveva comportarsi e rimproverava i subordinati che non seguivano le regole e i principi stabiliti, credeva nel valore della competizione interpersonale.
La cultura, ossia la personalità di questa azienda si identificava con il suo fondatore: i miti, le leggende, le storie di questo primo periodo di vita comunicavano ed esprimevano i valori e le convinzioni di Jones; l’organizzazione si evolveva in adattamento e in attaccamento al leader fondatore. Dopo la morte di quest’ultimo l’azienda attraversò un lungo periodo di disordine intellettuale a causa del vuoto creato dalla mancanza di Jones e dal pensionamento di molte altre figure chiave della cultura. Le persone sia esterne che interne non furono in grado di assumere la guida dell’azienda. In definitiva non si trattava in questa azienda di trovare un leader tanto bravo come il fondatore, genitore storico, ma di effettuare un vero e proprio Self Reparenting che garantisse di “salvare” ciò che funzionava della vecchia cultura inserendo nuove variabili, ristrutturando lo Stato dell’Io Genitore.

Man mano che l’azienda si evolve, sviluppa un sistema di valori autonomo, un G autonomo che comprende solo in parte le convinzioni del fondatore ed integra in sè il vissuto del gruppo, la storia e l’esperienza della sua esistenza. Questo processo è visibile, per esempio, dai depliant e dagli opuscoli pubblicati per 1’orientamento dei dipendenti, dal materiale di formazione, dalle video cassette.
All’inizio della vita di un’organizzazione, non si tratta semplicemente di identificazione con l’altro (fondatore, leader…) ma di qualcosa di molto più complesso che parte dal confronto inconsapevole tra le proprie qualità originali e il modello stesso considerato valido.
Confrontando i comportamenti e i vissuti fenomenologici del modello esterno l’organizzazione forma in sé un modello di categorizzazione autoprotettiva e normativa, costituita da cognitività ed emotività. Berne parla del Sistema Esteropsiche, ossia il Genitore.

Schein proponendo un’analisi della cultura aziendale afferma che non si tratta di consolidare modelli di significato già diffusi, ma di distruggere quelli esistenti e sostituirli con i nuovi, “occorre tornare nell’inconscio del profondo aziendale e far ripartire l’azienda da quei valori che le sono propri”. Seguendo l’A.T. la proposta non è tanto quella di eliminare il G dell’azienda perchè essa possa star  bene ma di recuperare altre parti del sé.
In conclusione, il G per l’azienda è funzione destinata a proteggere l’identità, funzione che ha un significato interiore ma che si esprime attraverso un comportamento.

Uscire dal copione, o allargare i limiti, è naturale per l’organizzazione così come per l’essere umano.
Ogni crisi di crescita in azienda mette in crisi la sua identità precedente e la stimola ad aumentarla e ad approfondirla.
Pur aumentando la varietà della sua identità ogni scelta nuova, ogni cambiamento, significa rifiutare alcuni modi di essere.
Se guardiamo i confini degli Stati sulla carta economica, notiamo che, a differenza della carta geografica, questi non sono più ben definiti, si parla di economia intercollegata. Infatti i flussi delle attività finanziarie e industriali rendono un qualsiasi prodotto non più nazionale ma globale.
Per esempio, è difficile definire la nazionalità di un prodotto Sony che possiede impianti in Alabama e invia cassette audio e video in Europa. Il termine «estero» inteso come straniero, estraneo, è ormai obsoleto, il nuovo modello per le aziende è la globalizzazione, il mercato mondiale. La strategia della globalità prevede che le aziende rinuncino a curare solo il proprio orticello, rinuncino a “nascondere” alla concorrenza le nuove tecnologie, pur conservando lo spirito di appartenenza e attaccamento alla casa madre.
In fondo accettare di essere se stessa in modo più ampio, globale, appunto, significa scegliere qualcosa e lasciar perdere qualcos’altro.
Lo scopo è dare il permesso all’azienda di superare se stessa, di smettere di adattarsi ad un percorso noto, non di perderlo ma di mantenere le parti positive, utili di esso.
Spesso, nell’organizzazione si enfatizza, si dà spazio all’aspetto in cui essa si è riconosciuta.
Quando in azienda si scopre un tasto giusto non lo si molla più e si ha l’impressione che il tasto opposto sia molto pericoloso. “Vado bene solo se…” significa essere sulla scala della sopravvivenza e questo è limitante. L’idea sana e nuova che permette in azienda di affrontare ogni situazione è che si può essere e fare questo e anche l’opposto, utilizzando i tasti bianchi e neri.
E’ sicuramente un rischio esistenziale, si può cadere nel caos e non sapere più chi si è. Per questo l’azienda non può arrivare a ridecidere se non ha mutato il Genitore. Ed è da questa nuova figura che si ha la forza di cambiare strategie, di scegliere nuove strade, di attaccare, forse, il Genitore precedente. L’Adulto e il Bambino colgono con l’intuito e la conoscenza probabilistica le scelte che adesso vanno bene e le provano.

 

Il Pianoforte a coda

Ho parlato nel paragrafo precedente di tasti bianchi e neri e questi mi hanno suggerito l’immagine di grandi e neri pianoforti a coda…
Yamaha è una fabbrica di pianoforti tentata di abbandonare questo settore, giacché la gente non ha tempo, passione o soldi per acquistare questo prodotto.
Migliorare la qualità dei pianoforti non servirebbe ad aumentare le vendite. Tra l’altro, la concorrenza coreana offre costi più bassi.
Alla Yamaha si è riusciti a sviluppare una combinazione di sofisticata tecnologia digitale e ottica per registrare e riprodurre ogni suono impiegando lo stesso tipo di floppy-disk da tre pollici e mezzo che si usa sui PC. In pratica significa poter registrare dal vivo i concerti dei pianisti più famosi, oppure, per chi suona il flauto, poter invitare qualcuno che lo accompagni al pianoforte e registrarne l’esecuzione e, in assenza del pianista, poter suonare il pezzo con l’accompagnamento del pianoforte.
K. Ohmae commenta: “Yamaha non ha seguito le vie consuete, non si è buttata a capofitto per tagliare i costi, moltiplicare i modelli, ridurre le spese generali. Ha guardato con occhi nuovi alla possibilità di creare valore per i milioni di pianoforti che già erano sul mercato”; ha deciso, cioè, di utilizzare i tasti bianchi e quelli neri.
Le vendite sono aumentate ma, ciò che più conta, l’azienda ha ampliato la sua identità, il suo copione.
Come la Yamaha, altre organizzazioni hanno bisogno di un Self Reparenting; questo non significa buttar via il vecchio G ma integrarlo con le novità. Assumere un nuovo G non è soltanto effettuare rivoluzioni o cambiamenti radicali giacché si può tornare ad utilizzare gli stessi schemi, le stesse regole del vecchio G ma dopo averlo affrontato.
I vecchi leaders nello Stato dell’Io Genitore, provenendo da figure storiche, non possono essere aggiornati o eliminati ma, attraverso il proceso di S.R., lo Stato dell’Io può essere ristrutturato.
E’ necessario che i manager capiscano la necessità di tali processi. Essi tendono ad abituarsi allo status quo, a stabilire nuove ortodossie ostacolando il processo naturale di crescita dell’azienda.
Self Reparenting significa ristrutturare e questo è possibile quando non c’è contaminazione, quando esiste una buona funzione dell’A.
La diagnosi degli Stati dell’Io è legata al riconoscimento, alla consapevolezza del soggetto, in tal caso, dell’azienda. Se l’organizzazione si rifà il G, si ridà le leggi, la filosofia, la mission: in tal modo può proteggersi e continuare a crescere.
Nel caso in cui essa decida di agire dal B, per esempio, guidata solo dall’entusiasmo per i corsi di formazione o per i prodotti di moda, non avrà successo duraturo, giacché il vecchio G è in agguato ed è ancora potente.
E’ importante per il terapeuta culturale evidenziare l’A dell’organizzazione, prima di proporre interventi. E’ sicuramente un lavoro faticoso e delicato, forse il consulente perderà la sua magia, dovrà lavorare sul suo controtransfert prima ancora che sul transfert dell’azienda.
Il rischio è di proporre ottimi corsi formazione, anche utilizzando l’A.T., ma non di formare l’azienda proponendo la Analisi Transazionale d.o.c..
Bisogna capire il senso di un intervento di formazione nel contesto del cammino di un’azienda. Non è importante che l’azienda risolva il problema per cui il consulente è stato chiamato ma che, prima di tutto, si rifaccia il Genitore.
Certo, non si può ignorare il problema che l’organizzazione presenta anche se 1’analista della cultura percepisce il problema esistente sotto una determinata richiesta: bisogna seguire l’uno e l’altro.
Senza questa analisi, il corso di formazione è una nuova maschera, i comportamenti assunti sono solo adattamenti con cui il B dell’azienda compiace all’interno e all’esterno.

 

Ipotesi di Intervento

Utilizzando la tecnica del Reparenting di J.L. Schiff, il terapeuta aziendale si impegna per contratto a divenire il G sostituitivo e dà all’organizzazione nuove positive opzioni che rimpiazzano i messaggi restrittivi ricevuti dagli effettivi genitori storici.
Questo procedimento può creare una simbiosi fra operatore esterno ed organizzazione e può essere utilizzato purché il consulente ne sia consapevole e sappia che su quella simbiosi dovrà in seguito lavorare per romperla.

Il Self Reparenting è da intendersi:
a) come un processo evolutivo autonomo e fisiologico;
b) come adattamento e apprendimento in rapporto all’ambiente e al sè;
c) come processo terapeutico, nel senso che il cambiamento, pur essendo determinato naturalmente dal gruppo, è anche il risultato dell’interazione e dell’attività delle persone interne ed esterne ad esso.

Per Muriel James l’applicazione del S.R. prevede sette tappe fondamentali.
Nelle aziende, lavorando con i dipendenti a vari livelli, rimangono i principi anche se mutano le metodologie.
Innanzitutto è necessaria nell’organizzazione la consapevolezza della necessità di un nuovo G che si integrerà con il vecchio.
Sintetizzo in una serie di domande le informazioni che il consulente dovrà raccogliere utilizzando la metodologia che riterrà più adeguata.
– Com’è l’azienda ideale?
– Come sono i dirigenti ideali?
– Come sarebbe diversa l’azienda se avesse avuto leaders ideali?
– Come si può procedere all’inserimento di questi nuovi leaders, cioè, alla costruzione di questi nuovi genitori?
– In che cosa si vorrebbe che l’azienda migliorasse?
– Cosa è necessario fare perché questo avvenga?
– Quali sono i risultati positivi della vecchia leadership?
– Quali quelli negativi?
– Quali sono le caratteristiche del fondatore che non sono più adeguate?
– Quali quelle che oggi sono ancora utili?

 

A questo punto, è importante aiutare l’organizzazione a fare una diagnosi comportamentale, sociale, storica e fenomenologica del proprio Stato dell’Io G. Per le prime tre si può utilizzare l’egogramma di Dusay che sarà compilato da vari gruppi di lavoro che non dovranno, comunque, trascrivere il proprio egogramma ma quello dell’azienda. Il rischio per l’esperto è che, un po’ per caso e un po’ per zelo, si ritrovi a proporre diagnosi non richieste ai dipendenti, dimenticando che il solo e vero cliente è l’organizzazione.
La diagnosi fenomenologica consiste in terapia nell’aiutare il paziente a ritornare ad una scena infantile. Nell’azienda si può chiedere ai dipendenti di descrivere o disegnare l’organizzazione a un anno o a cinque anni di vita, così come l’hanno vissuta.
Con l’immaginazione si possono far sedere di fronte ai partecipanti il fondatore o altre figure genitoriali e invitarli a ritornare a quella scena e dire ciò che non poterono in quella occasione.
Bisogna tener conto, come già sottolineato, che non si tratta di un lavoro sui sentimenti dei dipendenti o sulle loro relazioni con i dirigenti. Non è proponibile, ad esempio: “Di al tuo capo quanto sei arrabbiato perché  non ti aumenta lo stipendio” ma, piuttosto: “Ritorna in quella riunione quando si decisero certe strategie, determinate metodologie ed obiettivi e ripensa, riformula, dando all’azienda nuove opzioni”. Oppure: “Cosa faresti oggi rispetto a quella scelta di campagna pubblicitaria…”.
Un’ulteriore tappa è proporre gruppi di lavoro per informarsi sul significato, sull’evoluzione e sui vari stili della leadership: ipercritica, iperprotettiva, incoerente, contraddittoria, ecc.
Si analizza, in sintesi, la funzione genitoriale all’interno di un’azienda: come è cambiato il ruolo del leader, cosa significa oggi essere un capo, a cosa serve, quali sono i suoi obiettivi e le sue funzioni.
Altro momento importante è scoprire i bisogni del B dell’azienda, le aspettative, le magie. Sono efficaci, a tal proposito, studi e ricerche sui miti, sulle metafore, sulle formule magiche esistenti in azienda.
Si passa, in seguito, alla valutazione dei dati.
Con uno o più incontri si considerano e si valutano le informazioni ricevute dall’A, le aspettative del B e le richieste o le critiche del vecchio G.
Solo adesso si definiscono i contratti discutendo e stabilendo progetti per eventuali corsi di formazione che, a questo punto, saranno mirati, adeguati e chiari.
Infine il consulente assiste l’azienda durante il processo di cristallizzazione del G.
E’ la fase in cui essa è consapevole di utilizzare l’Adulto, il Genitore e il Bambino ed è pronta a fare a meno della consulenza: è il cambiamento che Berne chiamava autonomia; in azienda si parla di Qualità Totale.
Il lavoro durante le fasi presentate va personalizzato e ri-inventato ogni volta a secondo dell’ambiente aziendale in cui ci si trova ad operare; si possono, infatti, utilizzare questionari, interviste, gruppi di lavoro, colloqui per agevolare il flusso di informazioni fra i dipendenti e il o i consulenti esterni.
Non utilizzo il Self Reparenting all’inizio dell’analisi, ma quando l’organizzazione è meno contaminata ed ha una buona funzione dell’Adulto. In genera il problema che mi viene presentato è nel Bambino Adattato dell’ azienda. Di conseguenza il mio primo obiettivo è fare modo che l’A sia informato.
L’organizzazione contaminata affronta i problemi con molti pregiudizi e cerca di mantenere una tradizione che ormai è superata. Lavorare utilizzando il Self  Reparenting non significa ignorare il Bambino ma offrire un nuovo G che promuove e approva la crescita in modo che il B dell’organizzazione che prende una nuova decisione abbia due forti alleati, il G e 1’A, a favore dei cambiamenti.
Credo che il compito dell’esperto di lavorare con i dipendenti dell’azienda per renderli consapevoli delle proprie scelte, non di risolvere i problemi ma di offrire loro una chiave di lettura perchè possano autonomamente riscoprire le soluzioni che esistono già all’interno dell’ organizzazione.

 

Conclusioni

Gli sviluppi e gli effetti del processo di Self Reparenting nell’organizzazione sono notevoli. Alcune trasformazioni riguardano l’idea di nazionalità che si evolve in quella di globalizzazione e la convinzione nell’ideologia che viene sostituita da criteri di utilità.
Nella nuova azienda le energie non sono più rivolte contro la concorrenza ma per ricercare nuovo valore per il cliente.
Piuttosto che abbandonare un settore considerato morto, in questa nuova ottica, si ri-penserà il prodotto.
I criteri di autorità sono sostituiti dai canali di comunicazione incrociati.
Viene, infine, a determinarsi un’etica collettiva e non più solo una somma di morali individuali.

 

Bibliografia

DAGOSTINO L., “Cultura d’azienda e leadership: una lettura secondo l’A.T.”, Atti del Congresso Italiano di A. T., 1991.

LEVITT T., “Pensare il management”, Il Sole 24 Ore, 1991.

JAMES M., “Self Reparenting: theory and procedures”, T.A. Journ, IV, 3, 1974 (“Self- Reparenting: teoria e procedimento”, Riv. It. di A. T. e Metod. Psicoter. III, 4, 1983.

OHMAE K., “Il mondo senza confini”, Il Sole 24 Ore, 1991.

SCHEIN E., Sviluppo organizzativo e metodo clinico, Guerini e Ass., 1989.

SCHEIN E., Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Ass., 1990.

Metodologie della Comunità di Ricerca

Credo che con le parole si possa fare l’esperienza di una mutazione spirituale. La letteratura è questo, o non è nulla. Per me non è intrattenimento, non è evasione; io non leggo per distrarmi, ma per concentrarmi. E quando si legge come leggo io, allora davvero la pelle muta, gli organi della percezione si trasformano, la coscienza muore e rinasce. Dalle parole che leggo io mi lascio coinvolgere, assorbire, sono passivo e poi attivo, prima nuoto, poi annego… Tu mi vedi da anni abbarbicato qui come un lichene, ma io leggendo mi avventuro nell’ignoto. Io mi muovo in verticale, mi ritrovo in mondi in cui mi sento un immigrato, un clandestino, un sentatetto. Quando leggo, io non sono io, divento un altro che non conosco, e lascio a questo straniero dentro di me la libertà di esistere. E la stessa cosa mi accade quando provo a scrivere.

Nadia Fusini, p.148-149

Le riflessioni che scelgo di condividere originano da conversazioni e comunioni di conoscenze intercorse saltuariamente. Il piacere dello studio e della osservazione fra la biologa, la consulente in economie, la poeta, la psicologa, il filosofo, l’esperto di marketing, l’imprenditore, ecc.. diventano scrittura ed esperimento di una modalità nuova di stare in relazione. Ci avviamo ad abitare territori ampi e trasversali, partendo dal racconto di noi stesse/i, condividendo letture e desideri, comunicando pensieri in presenza l’uno dell’altra.

Solo un progetto in comune, uno sguardo condiviso lungo e complesso, offre le ragioni per una relazione, ne chiarisce le modalità, fa del tempo trascorso assieme uno spazio di numerose libertà. Registriamo fra noi alleanze che ci consentono di riconoscere i semi fertili di una comunità di ricerca. Inauguriamo indagini e armoniosi incroci che prevedono un moto impertinente e continuo di curiosità, un interesse nell’utilizzo assieme della chiacchiera filosofica e della letteratura come pedagogia.

I gruppi di lavoro vanno a finire male. Ho partecipato ad associazioni, imprese, partiti, parrocchie, scuole: non sono capace di rimanere.

L’idea, oggi, è cambiare la categoria buono/brutto; bene/male riferita ad un gruppo di lavoro a favore della dimensione comunitaria come orientamento del sé, come vissuto interiorizzato ed armonico. Sì da creare l’aerea e fugace, ma logica e determinante, imago dello stormo che si muta e crea un organismo vivo e fecondo.

Di conseguenza, io registro il dato di realtà che l’appartenenza ad un gruppo per me finora non è stata mai duratura. Eppure registro, anche, paradossalmente, che mai un pensiero, una decisione o un’azione da parte mia non abbiano tenuto in  considerazione gli altri, vicini o lontani che fossero. Quando penso, immagino, scelgo, decido, non è mai con un io solitario, prescindendo dall’appartenenza, ma con un io che è storia delle relazioni, storia degli altri e delle altre che non nomino, ma che fanno parte della mia vita, pur assenti, in molti casi.

Non scelgo le persone del  gruppo: probabilmente se potessi non sceglierei proprio quelle e magari non sceglierei nessuno, ma la mia realtà umana è con quelle persone. Costoro fanno parte della mia vita anche senza la mia consapevolezza o il mio disinteresse o fastidio. Sono fatta dalla carne della mia comunità. Tanto vale esercitarla, la Comunità.

Riferimenti bibliografici:

  1. M.T.Cassini,A.Castellari, La pratica letteraria, 2007
  2. Andrea Libero Carbone, Filosofia della chiacchiera, Castelvecchi, 2009
  3. Francesca Duranti, Manuale di conversazione, Maria Pacini Fazzi ed., 2009
  4. Paolo Dordoni, Il dialogo socratico, Apogeo, 2009
  5. Nadia Fusini, La figlia del sole, Mondadori, 2012