Magritte

La Relazione Politica

 Akarsz-e játszani? Vuoi giocare?

Dimmi, vuoi giocare con me?
Giocare sempre,
andare nel buio insieme,
giocare ad essere grandi,
mettersi seri seri a capo tavola,
versarsi vino e acqua con misura,
giocare con perle, rallegrarsi per un niente,
indossare vecchi panni col sospiro pesante?
Vuoi giocare a tutto, che è vita,
l’inverno con neve e il lungo autunno;
si può bere un tè insieme
di color rubino e di fumo giallo?
Vuoi vivere la vita con il cuore puro,
ascoltare a lungo e temere ogni tanto,
quando sulla strada passa novembre
e lo spazzino, questo povero uomo,
che fischia sotto la nostra finestra?
Vuoi giocare ad essere serpente od uccello,
fare un viaggio lungo con nave o treno,
giocare a Natale, sognando tutte le bontà?
Vuoi giocare all’amante felice,
fingere di piangere, un funerale?
Vuoi vivere, vivere per sempre,
vivere nel gioco, che diventa reale?
Sdraiarsi tra i fiori per terra,
e dimmi, vuoi giocare alla morte?

Kosztolányi Dezső, 1912

 

                                                                                   Il Terapeuta. Magritte. 1937                  Magritte

 

A Bruno,

per averla solo intuita,

la Relazione Politica.

E per aver fatto in modo

che quella intuizione

bastasse ogni giorno.

 

Appartengo da più di cinquant’anni ad una cultura che ha difeso l’unione perché qualcuno mantenesse il comando o, almeno, decidesse l’orientamento. Un’idea arcaica di comunione in funzione di un potere, talvolta, inconsapevole e colpevole. E il potere è sempre una questione di troppo amore o di poco amore. Nelle relazioni, riconosco le posizioni di forza, di competizione, di dominio e di sfruttamento che, talvolta, non si presentano come tali e che perciò sono tranelli.

La Relazione Politica cambia il senso comune della cultura corrente. Prevede operazioni chirurgiche su tentativi ideologici sottili di asservimento. Essa è carnale, generativa ed è un modo per conservare la memoria e continuare a crescere.

In questa ricerca non indago la centralità della relazione nell’agire politico, piuttosto la prospettiva della differenza di genere che rende politico ogni agire consapevole. La relazione si fa politica  quando l’azione cosciente di due persone è contestualizzata e riguarda tutti, ricade su tutti, modificando in una comunità modi di pensare comuni e scontati.

La formula femminista “il personale è politico” indica la singolarità dell’esperienza che assume valore politico, ovvero quell’esperienza che non si esaurisce nella singolarità. Insomma, partire da sé non vuol dire fermarsi presso di sé. Si tratta di una pratica che individua precisamente il conflitto rispetto alla realtà data e produce altri significati, altre misure, altri saperi. (L.Colombo)

La psicologia appresa con il diploma di laurea e, in seguito, con la specializzazione in Analisi Transazionale, mi insegna filosofie, metodologie e tecniche perché diventi proprio io, perché esprima me stessa. L’unica, l’ultima autorità, rispetto a me, sono io: questa una delle numerose lezioni in quattro anni di analisi personale. Il riconoscimento dell’io, la protezione di sé, il permesso di esistere, l’energia che fluisce fra pensieri, sentimenti e azioni: si costituisce così il cammino del costruirsi Persona.

La Relazione Politica, attraverso il pensiero della differenza teorizzato da Carla Lonzi e da Luisa Muraro, aggiunge una nuova prospettiva: nella relazione ci accompagniamo in due verso quello che diventiamo e ne teniamo conto. Dal diventare quello che si è, all’essere quello che andiamo diventando: fra una prospettiva e l’altra c’è la morte di mezzo, c’è la presenza del limite, del contesto, dell’altro, diverso e in conflitto.

Riconoscersi attraversati dalla differenza sessuale significa riconoscere di non poter mai ricominciare da zero, ma che ci si trova sempre nel bel mezzo di tante cose già fatte, malfatte, nominate, imposte, rimediabili o irrimediabili. (Luisa Muraro, p.7)

È il passaggio da una visione egocentrica a possibili prospettive egocentrate. Da un io obeso che cresce come il muschio senza radici, alle espressioni numerose di sé, agli <ii> nelle relazioni.  Risolti gli ordini copionali, con misericordia, ci assistiamo nel cambiamento, tenendo conto dell’asimmetria di genere.

La Relazione Politica propone nuove forme di coscienza. Fra due persone, il dolore, l’amore, la morte possono tradursi in comunicazioni ricattatorie: le tragedie greche testimoniano!

Il due della differenza sessuale, come il tre della Trinità, non serve per contare. Il punto è capire che la differenza attraversa ogni singolarità e le impedisce di essere tutt’intera e dunque di bastare a se stessa. (L.Muraro, p.7)

Sperimentare una Relazione Politica significa risolvere il sentimento-ricatto e il pregiudizio di inadeguatezza, davanti a chiunque, in qualsiasi situazione, a favore della predisposizione mentale a capire e a favore della curiosità. Questo tipo di relazione è il contrario della noia, rispetto a ciò che in due mettiamo al mondo, con la meraviglia dell’ignoto.

La colpa rimane il territorio del potere, del ricatto, del malsano gioco psicologico. Le comunicazioni gerarchiche offrono un esito sicuro. I giochi psicologici, nella inconsapevolezza e ripetitività, propongono sempre un finale certo, risolutivo e separatista, confermando una Vittima, un Persecutore e un Salvatore, ciascun ruolo isolato.

Nella Relazione Politica il confronto sano che tiene conto della realtà, risolve immediatamente il senso di colpa. La consapevolezza è l’antidoto al senso di colpa.

La Relazione Politica non si esprime per bontà della vittima sacrificale, né per la mania di salvare l’umanità, né per la pretesa dell’intellettuale da banco. Essa è, invece, coscienza nel contesto, coscienza dell’esperienza che si vive e sulla quale si ragiona assieme. E’ il disincanto che arriva dall’aver fatto i conti con gli accadimenti reali e dall’averli pensati assieme criticamente. Per questo, la Relazione Politica è essenzialmente leale.

La Relazione Politica ha valore in sé, non prevede ruoli da spartire, non ha valore strumentale, non serve necessariamente a mettere al mondo figli, a comprare una casa, ad accudire la famiglia, a trovare un lavoro. Questa non serve a mantenere l’equilibrio per sopravvivere, a stare sereni, a divertirsi un po’ e a mostrarsi maturi. Non ci sono ruoli nei quali stare a confermare copioni difensivi. Viene risolto il rischio che l’altra persona possa peccare di opportunismo perché ciascuna è strumento naturale, convinto e gioioso dell’esistenza altrui e traghetta la relazione verso altri orizzonti.

La realtà è: ci offriamo il permesso di non invocarla in continuazione, di non condannarci alla dichiarazione d’intenti. Contestualizzare significa fare i conti con il tempo e gli accadimenti. Il privilegio, nella Relazione Politica, è che l’amore rimane intatto e accresce il valore della comunità. Esso, facendosi attraversare dalle prove e dalle valutazioni, rimane, negandosi. L’amore nella Relazione Politica esprime l’onestà di ogni essere umano nel contesto delle quattro variabili: genetica ed ereditaria, ambientale, casuale e personale.

Con queste riflessioni richiamo le esperienze dell’adultità e della tarda maturità. Per riconoscersi serve la disciplina dell’attesa, è fondamentale amare la relazione, desiderare di coltivarla, oltre il bene dovuto a sé e all’altro/a. Ogni persona ha atteso perché fosse la relazione ad innamorare, ad interessare, offrendosi come territorio, come causa del divenire dell’una e dell’altro.

Bisogna essere autonomi per godere della simbiosi artistica che nega il legame come struttura legittimata da un potere esterno per riconoscerlo, poi, come dono del presente. Relazione artistica perché non la si difende e non la si pretende, la si attende…

La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile; le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano. (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel)

Autonomia e indipendenza sono concordate assieme, per il bene proprio e altrui. Di fatto siamo due universi distinti. Da una parte l’eterno presente dell’azione, il qui e ora dell’impegno, dove vivere equivale ad agire. Dall’altra la narrazione, il passato, il senso della recinzione. Solo quando lo scarto fra i due paradigmi culturali e temporali è registrato, allora la Relazione Politica prende forma.

In essa, è costitutivo il conflitto, il divergere, l’eccedenza sana perché cresce sull’autonomia psicologica. Si è soli, riscoprendo il sollievo del silenzio, perché non si possono tenere sempre le note alte. Nella Relazione Politica è la cura che si libera dalle catene della salvazione dell’altro a tutti i costi e  diviene libertà, presa in carico gioiosa, compagnia consapevole ed ironica.

L’una dà la forma, l’altro ubbidisce. E viceversa. In latino oboedire è composto da ob-audire, udire stando di fronte a qualcuno. Ma l’obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo chi è libero può obbedire. Nella Relazione Politica, l’obbedire è la possibilità sana degli ordini “Piaci” e “Compiaci”, è la benedizione offerta nella libertà. Ascoltare e obbedire vanno, dunque, compresi all’interno di un dialogo e presuppongono un’alleanza  perchè motivati da una forza simbolica.

Il silenzio non è assenza di presenza ma è esercizio di parola che tace e la mancanza è pratica simbolica della presenza dell’altro. L’assenza ha valore simbolico quando diviene strumento per avviare la ricerca di significati. Come la gratuità che è, soprattutto, simbolica,  perché non sia un falso manipolativo; infatti, nel dare c’è sempre l’attesa di essere ricambiati in un certo modo, <a buon rendere> , pericolosamente, si afferma.

La forma dell’amore politico è sperimentabile quando non è per me e per te che io e te siamo in relazione. La relazione fra due è simbolicamente erotica, di éros che nasce da Pòros e Penìa, ricchezza e povertà, risorsa e limite, desiderio e realtà.

Il desiderio è progetto nella realtà –  al contrario dell’aspettativa magica –  se ne fa carico, la vede e la trascende. Esso è in gran confidenza con la solitudine, per reggere la distanza dall’altro, per lasciarlo essere quello che è e che diviene in una prospettiva sempre comunitaria.

L’apprendimento che ci viene incontro e che, in maniera diversa ci unisce, è l’appartenenza fra libertà e protezione, la realtà fra immaginazione e morte.

Vai pure,  non è vattene o me ne vado, non è ti lascio o mi lasci, significa: faccio il tifo per te mentre vivi, chè tu possa essere felice. Con gentilezza:  “la madonna ti accompagni”, si dice nel mio dialetto pugliese.

Vai pure, dal latino vivas: ché tu viva, ché stia in buona salute, ché vada!

Vai pure: ci sono e ci sei, in attesa che l’intuizione divenga ricerca, pensiero, scelta agita.

Vai pure per rimanere presso l’essere noi.

Vai pure perché sta accadendo ed è così che si compie la realtà.

Vai pure sorvegliando  e amando ciò che diventiamo.

Vai pure fra la gente verso i fatti che ti attraverseranno.

Vai pure così acquisiamo il ricordo e ne decidiamo il racconto.

Vai pure: solo così “io sono a te” e “tu sei a me”. Non solo il desiderio e l’appartenenza, ma la realtà del desiderio e la realtà dell’appartenersi.

 Vai pure, come la benedizione di un’alleanza che non viene meno.

 

Pubblicazioni considerate

  • Carla Lonzi, Vai pure, et al/Ed, 2011
  • Luisa Muraro, Non si può insegnare tutto, Ed.La Scuola, 2013
  • Laura Colombo, La violenza sessista non danneggia gli uomini, anzi, 24 luglio 2014  

 

 Ringrazio Alessandra Cappelluti  per il conforto e il confronto

 Editing: Enza Chirico

Stress da esami: realtà o leggenda metropolitana?

Pubblicato sul mensile PRIMOPIANO – agosto 2014

 

Accetto l’invito a proporre una riflessione sullo stress da esami di stato, adesso che gli ultimi diplomati si godono spezzoni di vacanze.

L’ipotesi: piuttosto che scrivere di stress legato agli esami e agli studenti, scelgo di considerare le ansie genitoriali e familiari come sintomo di veri e propri disturbi culturali legati alla mentalità, ad una visione della vita e dell’apprendimento oggi non più adeguata.

In fondo, ogni situazione di malessere ci segnala il momento di cambiare prospettiva rispetto ad una situazione. A discapito di film, romanzi e canzoni che provano a riconfermare il copione dell’esame finale come momento epico ed eroico che necessariamente divide il <prima> incolto dal <dopo> maturo.

Occupandomi di Gestione di Risorse Umane nelle aziende, confermo che la selezione e la valutazione della persona sono momenti ricorrenti fondamentali in un percorso professionale. Apro, invece, discussioni sulle modalità, sugli stati d’animo che rimandano a innegabili convinzioni rispetto alla educazione e alla produttività nel mondo del lavoro.

Lo stress da esame è approvato socialmente. Diviene distintivo di giovani, in particolare quelli che frequentano scuole considerate “importanti”. Sono loro che maggiormente assumono l’idea “viziata” dello stress attraverso determinati ordini psicologici, inconsapevolmente inviati dalle figure genitoriali performative. Gli studenti e le studentesse registrano che per “andar bene”, per essere riconosciuti/e nel contesto sociale devono essere forti, perfetti/e, devono mettercela tutta, devono compiacere.

Tipologie variegate di ragazzi prendono forma: quelli  ai quali non importa nulla e  gli altri che soffrono di disturbi diversi legati all’alimentazione, all’umore, al sonno; ragazzi come geni incompresi e quelli visti come eredi nella parte marcia della dinastia familiare, rappresentano gli estremi di una cultura che allinea gli esseri umani come prodotti più o meno riusciti di un popolo occidentale vincente e telegenico a tutti i costi… quasi pronti per un reality qualsiasi.

Tre assunti di base, come inizio, per avviare riflessioni antropologiche rispetto alla crescita dei cuccioli d’uomo i quali sono, nella specie animale, i più bisognosi di tempo per crescere.

Il primo pensiero: come figure genitoriali iniziamo a riconoscere e a ridiscutere come virtù, la paura di non riuscire e di non essere i primi, il successo valutato sempre rispetto all’altro, mai per se stessi, l’efficienza e l’efficacia, la necessità di rientrare in circuiti esclusivi di potere (in verità, solo escludenti), di sforzarsi di assomigliare a un modello esterno glitterato. Tutto da ridiscutere, a favore del privilegio di essere ciò che ciascuno è e di custodire con determinazione e gentilezza la propria crescita in ogni tappa.

Il secondo pensiero: l’apprendimento di un essere umano, continua ad accadere coltivando la potenza, l’energia come interesse verso l’esistenza, la protezione di sé, il permesso alla curiosità, il perdono rispetto al possibile fallimento e ad ogni segnale di limite della persona stessa.

Il terzo pensiero: in una relazione di reciprocità, figure genitoriali e giovani studenti sono motivo di apprendimento le une per gli altri: ci trasformiamo tutti o nessuno cresce. Questi pensieri non manifestano alcun cedimento rispetto alla serietà, alla fatica, alla disciplina che qualunque apprendimento, in qualunque campo, esige. Semmai,  questi liberano dai processi mentali che obbligano i nostri figli a pensare alla vita come un sacrificio, al lavoro come una lotta, alle relazioni solo come intrighi fra furbizia e manipolazione.

Allora, la proposta è conservare lo stress come categoria medico-psicologica da considerare in altre occasioni. Al contrario,  vale più che mai  l’invito ad accompagnare gli studenti attraverso i cinque anni di scuola superiore, mentre si costituiscono persone, ad accudirli con discrezionechiedi a me qualora avessi bisogno – con affetto conta su di me, sempre – e ironia – come suggerisce un personaggio di Finale di partita di Samuel Beckett, “Sei sulla Terra, non c’è cura per quello”.

 

Editing: Enza Chirico

L’autorità della presenza

L’autorità non offre garanzia ma si offre come un’opportunità;

chiede di essere riconosciuta e praticata per quello che promette.

Luisa Muraro

 

 

A Franco,

ché il contrario dell’amore non è l’odio.

E’ la paura

 

In questo lavoro rendo conto delle ricerche intorno all’autorità del ruolo dei miei clienti come responsabili aziendali e titolari e di me nella interazione come autorità per loro. Talvolta, davanti alla richiesta di sospendere le attività,  taccio e vado via. E questo mi pesa come un abbandono, una incapacità a spiegare le ragioni della mia presenza in azienda. Mi riduco impotente, speculare di un cliente impotente, in una azienda annichilita.

Ho imparato che l’autorità è “un bene immateriale, pregiato… è virtù cardinale” (L.Muraro)

E’ fondamentale che le parti si ridiano energia e, quindi, autorità reciproca, al fine di produrre, oltre al reddito, economie di felicità.

La convinzione diffusa – il meccanismo di difesa – è che la psicologia del lavoro, delle organizzazioni, dei processi relazionali non serva, costi troppo e che sia una complicazione inutile, un neo da estirpare. Nei periodi che generalmente si indicano come crisi, invito le persone a prendersi cura, attraverso il lavoro psicologico-relazionale, della paura di fallire, di non farcela, di non essere adeguate, di non essere comprese e di non capire.

Pensare assieme, raccontare la propria esperienza serve ad ampliare l’orizzonte, a costruire la speranza, a trovare opzioni, a illuminare altre prospettive, a darsi le motivazioni. In una parola, serve ad offrire un senso alla difficoltà. Ed è la mancanza di senso a far chiudere le aziende, ancor prima del fallimento economico.

Credo a Luigi Einaudi che nel 1944, in piena guerra,  affermava che l’imprenditore è uno che realizza progetti, non è uno che massimizza i profitti.

I responsabili delle aziende che conosco, proprio tutti, usando il linguaggio analitico transazionale, necessitano, per essere autorità, di darsi il permesso di esistere. E di esistere interamente, di esserci come uomo e come donna, diversi. E di accettare con gioia e curiosità non solo la diversità in partenza, ma il diventare diversi per se stessi, mentre le relazioni accadono.

In un’azienda, cosa significa darsi il permesso di esistere  e di esistere in prima persona?

Seguendo gli studi di Eric Berne, le ingiunzioni – non puoi…, non devi…, non essere… –  sono comandi, informazioni, messaggi di copione negativi e restrittivi. Ogni essere umano acquisisce inconsapevolmente le proprie ingiunzioni come una modalità per sopravvivere ai contesti, per essere accettato dal gruppo di appartenenza in quel momento.  Fra le ingiunzioni, la più velenosa, in una organizzazione,  è non esistere.

L’ingiunzione si manifesta paralizzando il pensiero, rendendo insicura qualsiasi azione intrapresa, facendo affiorare l’inutilità di ogni scelta, l’impossibilità di ogni opzione e via di uscita. Incontro esseri umani condannati al dubbio, all’incertezza esistenziale, alla spada di Damocle, alla mercé della sfortuna (meritata e non fatale) perché non sono stati abbastanza bravi e capaci. Tragicamente soli, mi rendo conto di non poterli incontrare, nella relazione,  mai e da nessuna parte.

L’ingiunzione non esistere si esprime in azienda come malattia culturale: la mia esistenza e l’esistenza degli altri non producono significati, non sono in comunione, sono invisibili e sterili. Gli altri e le altre rappresentano problemi ulteriori da risolvere, grane da allontanare e da sfuggire. Rivivo il vecchio paternalismo che produce di più e più velocemente facilitando. l’iperadattamento e la simbiosi: ogni titolare/responsabile costruisce le basi per non esistere, per non contare, per non essere visto davvero da alcuno.

La mia ipotesi è legare la risoluzione dell’ingiunzione mortifera all’acquisizione di autorità.

Supero l’idea che convenga essere autorevoli e non autoritari. Credo che dipenda dalla situazione e dalle persone il proporsi più o meno come autorevoli o autoritari. Sono convinta che la distinzione proposta non serva più nel momento in cui assumiamo il legame fra autorità ed esistenza.

Auctor, in latino, è il creatore, il promotore, il testimone, il maestro. Io non sono autorità quando non produco, non creo, quando non offro alcuna testimonianza.

Al contrario, sono auctor, attore e attrice, quando decido di spendere la mia presenza, in situazioni reali, anche conflittuali.

Il conflitto non è una condizione negativa e io non indico la mediazione dei conflitti, ma l’educazione a riconoscere e a spiegare le proprie ragioni, ascoltando e facendosi carico di quelle altrui.

E’ un modo di trovare insieme diverse possibilità. Darsi il permesso delle contrattazioni riduce sicuramente i tempi delle soluzioni trovate e crea comunità, benessere e successi.

Una delle prospettive possibili, abitando la relazione, è che sono davanti ad una persona che morirà, che se ne andrà storicamente o metaforicamente.

Ogni essere umano lo percepisce, lo sa, anche quando non lo chiarisce del tutto a se stesso. Questo pericolo fa paura e, dunque, sceglie fra due possibilità: fuggire da quella persona o attaccarla come causa del proprio malessere.

Questa è una esemplificazione per chiarire che ogni essere umano ha autorità in quanto è in relazione, quando registra la propria angoscia di morte accogliendola, quando decide di agire la paura come meccanismo di difesa consapevole, come protezione.

Il contrario dell’amore non è l’odio, è la paura. E la paura negata,  diviene la colpa dell’altro.

Seguendo gli studi di Luisa Muraro, capisco che  l’autorità è fondante, non fondata, non ha un fondamento, essa stessa è un fondamento. Non è data la relazione senza che ciascuna persona si riconosca e riconosca l’altra come autorità, come avente diritto e dovere ad essere quella che è.

Non esiste la relazione delegittimando l’altro rispetto alla sua esistenza e, nel caso dell’azienda, al suo ruolo. Le idee, le decisioni, le convinzioni sono criticabili, la persona, no: essa è autorità.

Nel caso contrario siamo davanti all’ingiunzione non esistere.

L’autorità è onesta perché dichiara l’esserci, lo spendersi nell’interezza del sé, in un confronto chiuso in ogni incontro e riaperto ad ogni ripresa, come in un viaggio a tappe.

Senza l’accettazione consapevole dell’esistenza di sé e dell’altro essere umano, riconosco soltanto le manipolazioni del potere e gli inganni della gerarchia conservativa che si difende e della base che si avvilisce e si ammutolisce lagnosa.

L’autorità diviene pratica di relazione circolare quando consente il racconto di sé, la condivisione dell’esperienza, lo scambio di pensiero, il silenzio come riflessione presso di sé, prima della contrattazione e verso la trasformazione.

“Penso che dire: io esercito autorità sia semplicemente dire che cosa si sta svolgendo nella relazione”(Cigarini,p.28)

Ecco il messaggio: siamo autorità in quanto vive/i, partecipanti coscienti, testimoni credibili nella diversità, ombre e luci di uomini e di donne che interagiscono.

L’autorità mantiene la sua promessa, esprimendosi con i sintomi evidenti della fatica gioiosa, della presenza collaborativa e conflittuale, esprimendosi come risposta di senso alla realtà.

 

Libri consultati

Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg&Sellier, 2013

Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, 2010

L’autorità femminile, Incontro con Lia Cigarini, Ed.Centro Culturale V.Woolf,1991

 

 

La Scuola di Educazione alla Persona

Voglio pensare e costituire in ogni azienda

una Scuola di Educazione alla Persona

perché mi sta a cuore che la condizione umana

si legittimi come bellezza lavorativa, anche

A Lelio

affinché, imparando

ad agire il talento

e a praticare la paura,

confermi la scelta di Adriano Olivetti,

attraverso lo studio e la ricerca,

il riconoscimento e  la creazione

 

L’articolo 41 della Costituzione Italiana ci informa che l’iniziativa economica privata è libera e che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

L’Articolo 2 ci ricorda che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità  e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Questi due articoli rappresentano la ragione e legittimano la presenza, in ogni realtà aziendale, della Scuola di Educazione alla Persona.

Trasformare il sistema organizzativo credendo in una morale d’impresa e praticandola,  significa ragionare su una nuova visione antropologica, dei lavoratori e delle lavoratrici. Di lavoro si può e si deve vivere bene. L’organizzazione è un posto dove essere felici, non solo dove realizzare e percepire un reddito.

L’Azienda, oltre a seguire le leggi e a pagare le tasse, crea conoscenza e garantisce il processo di umanizzazione. La Scuola accompagna, scrive assieme ad ogni persona una storia, propone ragionamenti sulla quotidianità, costruisce una cittadinanza organizzativa, crea un patrimonio relazionale.

Le domande ineludibili sono: Qual è il senso del mio lavoro qui dentro? Quale il senso del denaro? Quale il senso della produttività e della spesa? Quali i guadagni in termini non solo economici, ma psicologici, comunitari, politici?

La Scuola di Educazione alla Persona non è un modello da applicare, ma un orientamento da seguire, una mentalità da acquisire. Le persone e le relazioni al centro dell’organizzazione, non sono una formula, ma una pratica che previene il fanatismo, la demagogia, l’idolatria.

I risultati dell’azienda non dipendono solo dalla tecnologia o dalle scelte di mercato o congiunture finanziarie, ma dal bagaglio di conoscenze, di creatività, di servizi di qualità, di cambiamento territoriale in continua costruzione.

Nel lontano ’94 un imprenditore mi disse che non poteva “tenermi” (ndr: per imprenditori pugliesi, accettare un contratto) e pagarmi per studiare!

Ribadisco la proposta che la qualità della prestazione e la qualità della relazione hanno pari valore. La competenza tecnica è indistinguibile dalla presenza sociale positiva e proficua di ogni essere umano, dal suo impegno culturale e politico. La minaccia che avverto non è il profitto facile, come si diceva una volta, ma il profitto inutile, apparente, inesistente seppur pletorico.

La Scuola di Educazione alla Persona, fedele ai principi della Costituzione, si fa strumento per pensare, capire, stabilire relazioni fra mondo imprenditoriale e mondo scientifico, fra mondo sindacale e mondo accademico, fra le attività politico parlamentari e le ricerche.

La cultura della libertà è l’opposto dell’ “ammaestrare” le persone ricattandole sul bisogno di lavoro. La Scuola propone di assistere ciascuno nel suo divenire persona perché propone una idea di sviluppo economico, all’interno di una comunità partecipe ed avanzata che non contrasta le spinte di trasformazione.

Talvolta i personaggi cresciuti nelle organizzazioni non sono adeguati, talvolta il mondo accademico e scientifico, si chiude o emigra. Talvolta gli abusivi falsificano e danneggiano la ricerca psicologico-organizzativa. Il lavoro psicologico aiuta a diffidare dell’oblazione maliziosa, a riconoscere i mecenati e ad allontanare i filantropi umanitaristi.

Parlare e scrivere di Risorse Umane non significa necessariamente essere dentro la storia di una Organizzazione. Non è cambiando tecniche di gruppo che si esercita la professione di consulente nella Gestione Risorse Umane. Non è parlando di parità o progettando formazione per gruppi di donne che si offre un contributo alla differenza di genere.

In un periodo di grandi confusioni è determinante essere radicali, netti, evitando semplificazioni eccessive e omologazioni.

La profondità è sempre un grembo: complesso, ampio, faticoso, lento.

L’etica delle Risorse Umane non si risolve a temere la mancata trasparenza o le eventuali controversie,  privilegiando la distanza dalla dimensione spirituale, psichica e filosofica.

Il rischio dell’illusione egoica è in agguato e, come psicologa,  lo assumo minuto per minuto nelle attività che svolgo, in relazione continuata con la Figura di Riferimento Aziendale.

Il lavoro è trasversale e non confusamente plurale, è complesso, mai superficialmente complicato.

All’interno della Scuola di Educazione alla Persona si avviano pensieri e formazioni intorno al senso della giustizia, della responsabilità, delle libertà, della cura dell’ambiente.

Viene capovolto il metodo del Problem Solving a favore del Metodo delle Prospettive, ispirato alle riflessioni di Cézanne.

 “Non so raggiungere l’intensità che si manifesta davanti ai miei sensi, non ho quella magnifica ricchezza di colori che anima la natura. Qui, in riva al fiume, i motivi si moltiplicano; lo stesso soggetto, visto da angolazioni differenti, offre una materia di studio così interessante e varia che credo che potrei lavorare per mesi senza cambiare posto, solo inclinandomi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra” (p.146).

 “Devo lavorare sempre, ma non per arrivare al finito, che suscita l’ammirazione degli imbecilli… Non devo cercare di portare a termine, se non per il piacere di fare cose più vere e più sapienti. Credetemi, c’è sempre un’ora in cui ci s’impone e si trovano estimatori molto più ferventi, più convinti di quelli che sono lusingati solo da una vana apparenza” (p.60)

Quindi, ogni giorno, in azienda non c’è un problema da risolvere, ma ci viene offerta la comprensione della realtà, considerandola da innumerevoli posizioni.

Non si pongono problemi da risolvere,  ma apprendimenti da conseguire attraverso le relazioni, lo studio, il confronto, la ricerca, le sperimentazioni.

L’idea di un lavoratore  competente rimanda direttamente al processo di una persona  impegnata nella costruzione relazionale ed aziendale. L’educazione è la dimensione del divenire umano, del divenire uomini e donne.

Oltre la meschinità dell’incentivo, altro strumento di un potere gerarchico che non si fida, c’è la crescita del bene relazionale. Contro l’adulterazione delle comunicazioni di potere, l’Educazione alla Persona  serve a resistere alle corruzioni e influisce sulle decisioni riguardanti le persone.

Oltre il capriccio, l’ambizione, la vanità, la superficialità, il benessere posticcio, nelle formazioni che la Scuola promuove si affrontano temi controversi e in modo controverso, legati alla salute, al territorio, alle politiche del lavoro, alle nuove economie.

Davanti a questo scenario prospettato, praticare la paura, significa riconoscerla come compagna protettiva perché segnale di governo e di consapevolezza. Seguiamo un personale percorso di crescita. Una mancata coscienza rispetto alla paura rende autoreferenziati e autocentrici proprio quei responsabili più intelligenti e potenti: perché a loro spetta la scelta iniziale di promuovere le trasformazioni.

Questo lavoro deve essere fatto.

 

Libri di riferimento

  • Adriano Olivetti, Il cammino della Comunità, Ed.di Comunità, 2013
  • Adriano Olivetti, il mondo che nasce, Ed.di Comunità, 2013
  • Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, 2010
  • Paul Cézanne, Lettere, SE, 1985

 

Editing: Enza Chirico

 

Donna di isola, donna di eremo, donna di cella. Storie di formazione permanente

 

Articolo apparso su www.bitontotv.it, maggio 2011

 

Lidia Ravera, A Stromboli, Laterza, 2010

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, 2011

Goliarda Sapienza, L’Università di Rebibbia, Rizzoli, 2006

Nei confronti di certi libri mi coglie una sorta di riserbo, un pudore che si ostina a custodire per molto tempo prima di dire. Decido di scriverne, osando ancora incontri fra donne diverse che solo attraverso le mie esperienze di lettrice si incontrano. E scelgo di non riportare alcun brano perché le parole rimangano, tutte, intatte, quando chi legge le incontrerà.

Sono libri di formazione di base, racconti che accompagnano in quel <turismo del vacuum>  che è arte dell’essenziale. Goliarda Speranza, Lidia Ravera, Adriana Zarri raccontano storie che offrono indicazioni metodologiche per itinerari del corpo, dell’animus/a, della mente. Un po’ come una guida dei sentieri di montagna o un manuale del nuoto che non vanno solo letti, ma impongono l’esperire.

Mi rendo conto di quanto, proponendo percorsi formativi nella mia attività lavorativa, sia evidente una resistenza culturale oltre che psicologica, una incapacità di fermarsi, per andare indietro, in profondità, e apprendere a dire <io, con…>. Ci fa bene riproporre il ritorno alla propria isola, cella, eremo, come ritorno all’origine, per ritrovare la misura degli eventi frantumati nella quotidianità frettolosa.

Le autrici ripropongono percorsi di riflessione interiore per diventare soggetti, unici, guariti dall’ossessiva ripetizione dell’uguale.  Ripenso ai nessi tra vita, tempo, qualità del lavoro, tra welfare e cura. Costitutivo di ogni cammino di formazione è viversi isola, cella, eremo, guardando il limite, il confine, la realtà per riconoscere, valutare, per avvertire la privazione pungente e consentire che nasca il desiderio. Il rifugio accoglie e lascia andare e, talvolta, si propone come luogo da abitare e che consente di superare l’equivalenza tra vita e attivismo. Diviene indispensabile farsi interpellare dal silenzio e dalla riflessione per ritrovare la sana dimensione della collettività. Anche la cura dell’altro può riproporre una relazione di potere, anche la libertà è posizione adolescenziale di volere e potere fare tutto, specie se si è a casa propria, anche l’autonomia delle scelte può essere deriva di narcisismo. Attendere ciò che emerge spontaneamente dalla cella, dall’isola, dall’eremo, significa lasciare accadere nuove forme, lasciare emergere dal silenzio prospettive impreviste, piuttosto che infilare a forza i pensieri nella bottiglia, nella vecchia mentalità.

Lidia, Adriana, Goliarda, donne che sperimentano, partendo da sé, la libertà che tiene conto delle premesse e delle condizioni da cui scaturisce, libere dall’ossessione di avere, di possedere, di essere, a costi alti, visibili.

 

 

Cambiamenti del maschile

Articolo apparso su www.bitontotv.it, novembre 2010

 

Niccolò Ammaniti, Io e te, Einaudi, 2010

Ivan Cotroneo, Un bacio, Bompiani, 2010

Andrea Manni, Strano l’amore, ed.e/o, 2010

Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità, Einaudi, 2010

Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita. (Prefazione di Goffredo Parise al libro di F.Piccolo)

Negli ultimi mesi di lavoro, sono frequenti gli episodi di uomini che mi evitano, aspettando che il tempo della consulenza esterna passi, manifestando una resistenza culturale più grave di quella psicologica rispetto ai processi di consapevolezza avviati in azienda con la formazione. Mi convincono, allora, questi scrittori, maschi, “ostaggi dell’Autonomia dell’Irrequietezza” (Manni, p.17). Nella quotidianità dell’organizzazione appare sempre più chiara la vecchia e irrimandabile <questione maschile> che alimenta il potere attraverso il rapporto uno-massa. La relazione è pensare assieme e operare per il bene comune, è fondare i legami non più solo sulla forza, ma sulla capacità di comunicazione e comprensione reciproca. “Una delle operatrici mi aveva spiegato che non esistono persone belle o brutte, esistono solo quelli che hanno qualcosa, e alla fine tutti, chi più e chi meno, hanno sempre qualcosa se hai voglia di guardare bene.” (Cotroneo,p.14)

Gli autori ci aiutano nella riscrittura del potere maschile e del potere patriarcale proponendoci l’incontro con personaggi che si adattano e contrattano, che arrivano a vedere l’altra persona nella sua fastidiosa alterità e non come appendice. Uomini intelligenti, nelle pagine lette, perché capaci di desideri e di immaginazione.

“Poi l’ho vista. Stesa a terra tra i soldi, sola e disperata. Dentro di me qualcosa si è spezzato. Il gigante che mi teneva contro il suo petto di pietra mi aveva liberato.” (Ammaniti,p.85)

Rifiuto l’alternativa che molti uomini propongono tra il consumo del corpo, della mente dell’altra/o e l’autocontrollo perbenista coperto dalla pretesa buonafede o dalla concessione all’ansia del ruolo. Accettare la libertà di differire, di divergere, oltre le proiezioni personali, significa essere liberi, significa pensare, proporre relazioni reali, sentire una <piccola felicità malinconica>. “…pian piano, invece, ho imparato a resistere, e resto affezionato alle cose che mi piacciono, penso che non fa niente se sono arrivato tardi. Mi sento un po’ stupido, ma un po’ felice lo stesso.” (Piccolo,p.50)

Il pensiero dominante in tutte le mie esperienze aziendali non è l’episodio conclusivo dell’esclusione altrui, ma ciò che la precede: la concezione del gruppo, del lavoro, della relazione, dell’organizzazione stessa.

Propongo, regalando questi libri, di cominciare a parlare delle nostre modalità relazionali, dolorose e gioiose, di come ci esprimiamo nelle comunicazioni, di come costruiamo le relazioni, di come le neghiamo, di come ne abbiamo paura.

Non è tempo perso, il tempo dei nostri personaggi; essi maturano attraverso le tappe dell’esperienza, non buttando via niente. Divenire capaci di realtà vuol dire attraversare l’esperienza del limite, della parzialità, della distanza, della diversità, della perdita del controllo sulla propria vita e su quelle degli altri.

La realtà della faticosa vita quotidiana diventa degna quando arrivo all’incomprensione davanti all’altro, a registrare frasi, atteggiamenti che non mi aspettavo. Se rinuncio al ricatto seilasolitascemaillusa, allora, sperimento quel <consegnare l’altro a quello che è> che la riflessione del filosofo insegna e che la metodologia psicologica chiama decontaminazione.

“Mi faceva impazzire, quando vedevo un film, che papà e mamma stessero sempre a discutere della fine, come se la storia fosse tutta lì e il resto non contasse nulla.” (Ammaniti,p.96)

Il tempo di quel <resto> che rimane fra la pretesa della prima e dell’ultima parola è il tempo donato alla relazione. Non esistono geni dell’aggressività e lo studio del giovane Telmo Pievani allontana i pregiudizi sulla violenza innata. È la scienza, oltre all’arte e alla letteratura, a mettere in luce, nelle stesse specie, la varietà di strategie adattive improntate alla solidarietà di gruppo, alla reciprocità e all’altruismo.

Nelle storie raccontate da ciascun autore è superata l’idea infantile del Vero Uomo, a favore del limite dell’uomo vero che, abbandonati i narcisismi adolescenziali, decida di aiutarmi, per esempio, a districare la matassa dei rapporti simbiotici e fusionali nei luoghi di lavoro. Puzza di alibi la chiusura nel violento silenzio con l’ambaradam di comportamenti escludenti, manipolativi, legati al potere piccolo piccolo di tenere in scacco, di decidere senza l’altra/o, di stabilire a prescindere.

Aspetto uno scatto di dignità verso una relazione nella quale si apprende proprio perché conflittuale, aperta, sempre, a incomprensioni, dubbi, ripensamenti.

“Anzi, nella notte, quando i pensieri prendono corpo con più coraggio, penso che c’è di più: e se sono io con il mio desiderio di guardare e di tenere tutto insieme, tutta la strada – se sono io che con il mio desiderio che le cose accadano in modo morbido, le faccio accadere in questo modo morbido?”(Piccolo,p.83)

 

 

Pubb 004 01

Cultura d’azienda e leadership: una lettura secondo l’A.T.

Atti del Congresso Italiano di Analisi Transazionale 1991

Introduzione

L’A.T. viene da tempo utilizzata come teoria della comunicazione nella selezione e formazione del personale in azienda. Il modello funzionale degli Stati dell’Io, le transazioni, le carezze, i giochi sono strumenti utili nel migliorare le interazioni fra individui all’interno delle imprese. Negli ultimi tempi l’organizzazione ha il bisogno di una sorta di check-up che permetta di capire, prima di decidere di intervenire, che analizzi, dapprima separatamente poi in modo integrato, la leadership e il management. L’una è legata alla creazione e modificazione della cultura, l’altro è visto come aspetto operativo. Si delineano nuove figure professionali, gli analisti della cultura, i professionisti di pronto intervento che alla fine della “cura”, come i medici dimettono i pazienti, lasciano l’azienda. Compiti dei “green berets” sono: ristrutturare l’organizzazione, individuare i ruoli, ridistribuire le responsabilità attraverso un percorso emotivo-cognitivo in un intreccio spesso complicato di lavoro e legami affettivi. Successo aziendale e coerenza culturale vanno di pari passo. Il management deve essere coerente con una certa visione del mondo, con il senso che l’uomo dà alla sua esistenza e all’universo, coerente, quindi, con la leadership.
Il mio lavoro evolve attraverso il passaggio dall’applicazione alla teoria, dalla metodologia pratica alla comprensione delle finalità.

Analisi Transazionale e Analisi Organizzativa

L’A.T. ha la capacità di interpretare le problematiche profonde della esperienza organizzativa nei suoi aspetti sociali e psicologici.
Scienza dell’impresa è, oggi, non solo effettuare prove e controlli ma analizzare il clima, la filosofia, l’ideologia, lo stile, cioè i copioni ma anche i palinsesti di copione, rappresentati nell’azienda dai passaggi evolutivi e formativi e ancora analizzare i suoi Stati dell’Io, che sono il mezzo di percezione e interazione diretto con il mondo esterno, ma anche gli Organi Psichici di cui essi sono l’espressione fenomenico-comportamentale. Se, come si intuisce dalla lettura di alcuni Autori (Schein, Landier, Morgan, ecc…) consideriamo la cultura come la struttura di personalità di un’organizzazione espressa da un G (convinzioni, regole), da un A (strategie) e da un B (entusiasmo per il successo, promozioni, riconoscimenti pubblici), allora possiamo pensare che questi ultimi sottendano “tre diversi sistemi di personalità” o di culture “che percepiscono e reagiscono in modo diverso all’ambiente circostante a seconda delle proprie funzioni” (Berne, 1961): l’Esterocultura, la Neocultura, l’Archeocultura. Tali aspetti determinano il comportamento, indicano ai componenti del gruppo come la realtà va percepita, pensata e sentita e “non si prestano a confronti né a discussioni” (Schein, 1990). Se negli interventi formativi ha senso parlare di diagnosi comportamentale e sociale e, quindi, di un consulente che facilita e addestra, nell’analisi organizzativa il consulente è un “terapeuta culturale” (Schein) che aiuta il leader a condurre l’azienda verso la consapevolezza della propria identità, più che dare suggerimenti su ciò che si dovrebbe fare. Di conseguenza, nell’analisi della impresa, si integrano necessariamente la diagnosi comportamentale, storica, sociale e fenomenologica. “La cultura si sviluppa intorno ai problemi interni ed esterni che i gruppi affrontano e diventa sempre più astratta fino a tradursi negli assunti generali e fondamentali sulla natura della realtà, del tempo, dello spazio, dell’attività e dei rapporti umani” (Schein). Quando parliamo di cultura parliamo di struttura di personalità dell’azienda. Allora, la filosofia, la personalità del fondatore, il clima e lo stile sono elementi visibili della cultura ma non rappresentano il tutto. Nell’esaminare una cultura questi sono i sintomi, le manifestazioni non le cause, l’essenza profonda è a livello inconscio, o meglio non visibile, non può essere studiata
con metodi invadenti come questionari o interviste ma si raggiunge con la collaborazione di studiosi interni ed esterni all’azienda. L’analisi della cultura ci riporta al modello funzionale degli Stati dell’Io ma quando parliamo di sottocultura ci tocca analizzare il modello strutturale che in un’organizzazione rappresenta i ricordi e le strategie immagazzinati nella memoria. Si possono considerare genitori storici dell’azienda il leader fondatore, oppure l’azienda preesistente e poi integrata o ricostituita.
In linea generale, il modello strutturale dell’impresa raffigura in G3 un magazzino di messaggi trasmessi attraverso le generazioni, messaggi che ritroviamo nelle ideologie aziendali, nei simboli, nei linguaggi, nei rituali. In A3 sono introiettate affermazioni intorno a realtà che in passato erano vere e che ora non lo sono più. Per es., si diceva che “la perfezione non è di questo mondo”, oggi, invece, si parla di “difetti zero”. Oppure, la convinzione “tempo al tempo” nella odierna realtà aziendale si è evoluta nel concetto di “just in time”. In B3 ritroviamo i miti dell’organizzazione che sono percezioni del B di figure genitoriali legate al passato dell’impresa.
In A2 si colloca l’archivio, l’insieme delle strategie che l’azienda ha a disposizione. In B2 si ritrovano le esperienze immagazzinate sin dai primi tempi della fondazione. In G1 (o Elettrodo, come Berne lo definisce) si evidenziano le regole, le formule magiche che anche oggi, in modo quasi coatto, senza che ci sia una ragione apparente, vengono riproposte. Ad es., Henry Ford soleva affermare: “Ogni cliente può volere la macchina del colore che preferisce, purché sia il nero”. E questa magia in alcune aziende esiste ancora. In A1 (o PP) si ritrovano le capacità intuitive di problem solving, le risorse di cui l’organizzazione dispone nei momenti di impasse, per es., la costruzione di nuove immagini, la pubblicizzazione di prodotti, le azioni di propaganda. Infine il B1 (o B somatico) rappresenta i sentimenti legati alle esperienze passate. Per es., in alcuni momenti di crisi, pare non vi sia in azienda la capacità di pensare ma solo i sentimenti spiacevoli legati all’idea che “anche 10 anni fa, quando successe… poi andò a finire che…” (fig.1).

Pubb 004 01

Interventi di formazione e analisi dell’organizzazione: contratto di liberazione dal copione e contratto di analisi di copione.

Nel lavoro aziendale siamo dinanzi ad una nuova prospettiva clinica oltre che etnografica, ad un’analisi più profonda che interviene sul management modificandone le strategie dopo aver compreso e gestito la cultura creata dalla leadership. Significa che riconoscere il tipo di struttura, agire sulle transazioni e sui giochi non basta: tante variabili possono aver condotto a quel tipo di organizzazione, bisogna capire quali nel rispetto dei principi etici fra cliente, cioè l’azienda, e lo studioso. Schein suggerisce, soprattutto, “la protezione del benessere del cliente”. Il consulente ad indirizzo analitico transazionale, analizza le resistenze in atto e punta, talvolta, i suoi interventi a rinforzare le membrane di identità copionale dell’impresa piuttosto che a stimolare la liberazione da esse. Il fine, in generale, è la conquista dell’autonomia o, parlando di aziende, è la Qualità Totale (Q.T.), che non è solo Q intrinseca del prodotto offerto ma è “Q. personale, prima che tecnica, in quanto la Q. è fondamentalmente un atteggiamento mentale” (D’Egidio, ‘91). Il copione per l’azienda è un momento necessario di identificazione, significa “esserci” in adattamento ad un ambiente e ad un gruppo sociale. Un contratto di liberazione dal copione rappresenta il raggiungimento di una nuova scelta identificatoria, decisa nel qui e ora, un nuovo palinsesto che aggiunge altre opzioni lungo le linee di forza già presenti nell’impresa. In questo tipo di contratto si tratta di “togliere la spina”, superare un ordine, liberare l’azienda da un’ingiunzione, da un sistema ricatto. E’ il momento del passaggio dalla negatività alla positività dell’identità copionale, è la scoperta della “mission” o ragion d’essere. D’Egidio parla di “vision” cioè “un orizzonte, una direzione verso cui tendere, in altre parole, il sogno imprenditoriale”, una ridecisione lungo la linea + +. Il copione per l’azienda come per l’essere umano, ha un valore autoprotettivo, di riconoscimento in appartenenza e in attaccamento ad un ambiente, ad un clima culturale, ad un gruppo. Nell’impresa non c’è la liberazione fisiologica dal copione, anche se le crisi di crescita identificatoria si susseguono. Curare l’organizzazione, in un contratto di analisi di copione, significa collaborare alle “ridefinizioni”, alle “ridecisions” che si susseguono, assistere la leadership nella consapevolezza delle problematiche di copione dell’azienda per una futura gestione delle crisi di evoluzione, affrontando il rischio di una nuova identità.
I processi di Reparenting sono continuamente in atto nell’azienda. “I dirigenti d’impresa hanno perduto, in questi ultimi anni, la maggior parte delle ragioni che davano un senso alle loro azioni” (Landier, ‘88). Siamo nell’era del vuoto.
Un tempo c’erano gli ideali di giustizia, di libertà, di solidarietà, c’erano nelle aziende, convinzioni religiose, politiche e sociali. Ora si avverte il bisogno di una nuova “morale d’impresa” (Landier), di nuovi valori portanti, insomma, di un nuovo Genitore.
A volte, l’organizzazione si protegge dal rischio di questa nuova identità, dal rischio che comporta la scelta di qualcos’altro che potrebbe anche non dare risultati soddisfacenti. Possono crearsi, allora, rapporti di dipendenza o di simbiosi con il consulente. I nuovi bisogni e i nuovi valori vengono confrontati con i vecchi e ci possono essere reazioni apparenti di rifiuto, di insopportazione. In questi casi, quando esiste una contaminazione dell’A, non è utile l’analisi di copione. Il consulente, solo dopo un’adeguata decontaminazione, potrà procedere alla ristrutturazione dell’azienda in più ampi confini.

Conclusioni

Credo in questo studio di aver osato molto. Eliminando in parte la barriera fra campo clinico e sociale il problema più grave che rimane è la tentazione, da parte del consulente, di offrire analisi non richieste ai dipendenti. Conoscere l’azienda non è sommare le griglie di personalità dei salariati. Il nostro cliente rimane sempre e solo l’organizzazione che parla anche attraverso i suoi dipendenti ma questi non sono l’impresa e fuori di essa continuano ad essere padri, figli, mariti.
Vorrei, da un lato, aver allontanato l’idea di alcuni colleghi che l’A.T. sia, in modo riduttivo e semplicistico, il “giochetto”, il “modellino” da utilizzare per fare effetto sull’ascoltatore; vorrei, dall’altro, essere riuscita a stimolare la riflessione e lo studio di altri colleghi attraverso una ricerca sistematica di possibili applicazioni dell’A.T. in campo organizzativo, giacché intuire i principi dell’A.T. è semplice ma la loro corretta e totale applicazione non lo è.

BIBLIOGRAFIA

  • Schein E., Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Ass., Milano, 1990.
  • Landier H., L’impresa policellulare, Guerini e Ass., Milano, 1988.
  • Morgan G., Sull’onda del cambiamento, F. Angeli, Milano, 1989.
  • Romanini M.T., “La nascita psicologica”, Riv.It. di A.T. e Metod. Psicoter. V, 8-9, 1985.
  • Romanini M.T., “Contratto di liberazione dal copione e contratto di analisi di copione”, Riv. It. di A.T. e Metod. Psicoter. VII, 12-13, 1987.
  • Berne E., Analisi Transazionale e Psicoterapia, Roma, Astrolabio, 1971.
  • D’Egidio F., “Intervista a cura di C. Sproccati”, Newsletter, Risorse Umane in Azienda, O.S. II, 8, 1991.

Teoria e tecniche di comunicazione nella formazione

In queste buie stanze dove passo

Giornate soffocanti, io brancolo

In cerca di finestre. Una se ne aprisse

A mia consolazione. Ma non ci sono finestre

O sarò io che non le so trovare.

Meglio così, forse. Può darsi

Che la luce mi porti altro tormento.

E poi chissà mai quante cose nuove ci rivelerebbero.

Costantino Kavafis

“Offrire più strumenti”, “interventi più pratici”, “più concretezza”, insomma, “meno teoria”: sotto forma di invito, di rimprovero, di richiesta, di lamentela mi rivolgono sempre più spesso queste osservazioni, negli incontri formativi sulla comunicazione e dintorni.

Decido, dunque, di proporre alcune riflessioni per avviare, con le persone che incontro, nuovi pensieri e nuove azioni. Per teoria intendo, in questo lavoro, “la formulazione sistematica di principi generali relativi ad una branca del sapere e delle deduzioni che da tali principi si ricavano per via puramente logica.” (Devoto, Oli, Il dizionario della lingua italiana).

Con i termini tecnica o pratica, nell’ambito delle attività formative, intendo ciò che è facilmente o immediatamente traducibile in azione, con riferimento alla realtà del vivere quotidiano e, quindi, “alle capacità e disponibilità esistenti in rapporto all’ottenimento di risultati concreti di vantaggio immediato.”

Kant, in uno scritto del 1793, supera il dualismo fra pratica e teoria e afferma: “Si chiama teoria un complesso di regole anche pratiche quando siano pensate come principi generali e si faccia astrazione da una quantità di condizioni che hanno tuttavia l’influenza necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama pratica, non qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto a principi di condotta rappresentati universalmente.”

Teoria e pratica, insomma, rappresentano uno dei nodi centrali nella semantica storica e nel <conflitto ermeneutico> delle definizioni filosofico-concettuali, della rete dei saperi e dei modelli culturali e ideologici.
Invito gli amanti delle intelaiature filosofiche a consultare il Dizionario di filosofia di N.Abbagnano, ed.Utet, alla voce Teoria-prassi, pag. 1087.

Leggo la richiesta di tecniche, in un processo formativo sulla comunicazione, come una difesa, un rifiuto a guardare il “caos che ci abita” (Jung). Quando qualcuno chiede tecniche di comunicazione e consigli pratici, intendo: “Ci rifiutiamo di pensare, raccontaci quello che dobbiamo fare”. Il bisogno è di adeguarsi, di adattarsi alle regole, piuttosto che di avviare un processo di consapevolezza. Talvolta intuisco che la pratica che mi è richiesta rappresenta soltanto un cumulo di “idee ricevute senza averle pensate”, definizione di stupidità proposta da Vaclev Havel. Ritengo offensivo per le persone partecipanti che, come formatrice, riduca l’uditorio ad una scatola vuota da riempire con regole e formule da eseguire.

Pensare è un’attività che combatte la frustrazione e produce identità positiva, al di là del compenso percepito, della gloria conquistata. In più occasioni, quello che comunemente si chiama “pratico” finisce con il diventare un automatismo incontrollato che riduce ogni stimolo, ogni idea a tabella, a glossario con il risultato di chiudere, di stabilire una volta per tutte.

Nella relazione ogni persona non è all’esterno, a proporre una tecnica di comunicazione e a vedere l’effetto che fa, ma è all’interno dell’accadere con l’altro-da-sé, in un dato momento e luogo. Non ci sono azioni che ci vedono spettatori, la tecnica ha senso solo se utilizzata all’interno della relazione. Ogni teoria e applicazione che da essa conseguono sono filtrate attraverso la personale sensibilità di chi la usa.

Sono contraria a giustificare e a legittimare prassi preconfezionate e anche all’abolizione della tecnica tout-court a favore di interventi selvaggi e approssimativi. Scelgo la flessibilità critica, lo studio e il dubbio dinanzi a qualsiasi presunta ortodossia. Evito l’applicazione acritica delle tecniche di comunicazione sperimentando che soltanto la riflessione, la scelta, la convinzione custodiscono e si prendono cura della relazione. Non esistono teorie o metodi giusti, ma solo relazioni d’anime e sani coinvolgimenti. Avverto il bisogno di devozione più che di tecniche.

Siamo abituati a guardare i sintomi e non le cause. Cambiamo le tecniche senza cambiare convinzioni e valori. La pratica non è la traduzione concreta della teoria. L’operatività e l’azione non sono, semplicemente, la declinazione di un’attività di pensiero, di una filosofia. La teoria e la pratica non si incontrano mai, non coincidono, non diventano l’una l’applicazione brutale dell’altra. Altrimenti creano, quando rappresentano facce della stessa medaglia, il sospetto di incoerenza e, di conseguenza, il marchio, per l’una, di essere astratta, inutile e, per l’altra, di mirare ai profitti, ai prodotti, nell’accezione meno umana.

La relazione con l’altra persona esige l’arte, prima ancora delle tecniche.

“L’avvenire sarà fatto di individui, non di epoche e di scuole, le quali non sono altro che delle comodità della storia della letteratura… Le scuole non contano…. Le teorie non sono molto importanti, in generale. Possono però costituire degli stimoli per creare, e allora diventano di una certa utilità.” (J.L.Borges, Testamento poetico letterario, Giunti, 2004)

Se il sistema è complesso, c’è bisogno di multidisciplinarietà; chi sa tutto su poco rischia di rimanere a difendersi. Ricerco non le formule, ma le ragioni di quelle formule, non l’unica soluzione, ammesso che ci sia, ma la tensione verso tutte le soluzioni possibili. “Bisognerebbe sforzarsi di rendere ogni cosa il più semplice possibile, ma non più semplice.” (A. Einstein)

Oggi vale molto più rimettermi a pensare piuttosto che eseguire compiti. Controllare la situazione, in fondo, signfica solo fare in modo che vada per il suo verso. Se mi ostino a seguire una qualsiasi tecnica, interrompo l’energia che naturalmente indirizza gli eventi e le persone.

La relazione, il legame, la solidarietà non seguono tecniche, esse accadono. Perciò bisogna immaginare più che organizzare, coltivare anime, più che stabilire strumenti e risultati, riconoscere e scoprire, più che trovare e applicare soluzioni date come certe. L’incontro con l’altro opera nei campi del <sacro>, dell’<interiorità>, del <bello>, non solo del <normativo>. Invito a prenderci cura dei risultati e non solo ad avere fretta di conseguirli. Il lavoro in sé, per arrivare a qualsiasi risultato, è il vero valore.

Voglio interagire senza la smania di porre fine ai contrasti, alle contraddizioni, agli innumerevoli rivoli di discussione, ai rischi della continua ricerca. L’elaborazione teorica coinvolge necessariamente più discipline e più ambiti. Ho forse paura di perdermi? La pratica maniacale mi protegge perché, in fondo, chiude. Il pensiero, invece, mi scopre, apre in continuazione. Il pensiero è interrogante e chiede continuamente il conto alla motivazione che guida.

A proposito di motivazione, non mi riferisco all’interesse generico, allo slancio emotivo occasionale, ma alla motivazione come tensione specialistica, come talento che affino in continuazione.
La domanda non può essere unicamente: “Come?” A me importa: “Perché?”, “Chi?”, “Dove?” Il “come” deve sottintendere una weltanschauung, una visione della vita e del mondo, oppure è mera funzionalità staccata dal contesto, dalle persone, dai fini ultimi.

Una lavatrice può funzionare allo stesso modo dappertutto, un essere umano, no. Davanti a qualcuno che mi chiede: “Cosa faccio con questo figlio/capo/collega/studente?”, è sano rispondere che non lo so, che non sono al suo posto e, dunque, non so cosa è adeguato per lui, rispetto a quella persona, in una determinata situazione.
“Il primo passo da fare è <lo svuotamento del come>. <Non lo so>. Il non lo so è il primo passo. <Non so proprio cosa fare>.” (Hillman J.,L’anima dei luoghi, 2004)

Queste riflessioni sono ovviamente lontane dall’alibi che offre a se stesso l’essere umano scansafatiche e assenteista, il quale non aspetta altro che di istituzionalizzare la noncuranza e di proporsi come neutro nel rapporto con gli altri.
Mi ritorna alla memoria un aneddoto letto tempo fa. Una bimba torna a casa da scuola con molto ritardo. La mamma preoccupata le chiede cosa è accaduto. La bambina spiega che la sua più cara amica ha perso il gattino e lei ha scelto di restare per aiutarla. “Cosa hai fatto?” chiede la mamma. “Nulla”, è la risposta della piccola, “mi sono seduta accanto a lei e l’ho aiutata a piangere!”.

La compassione, il patire accanto all’altro, è la risposta naturale dell’essere umano.
E’ improponibile l’utilizzo di tecniche, strumenti, esercitazioni, senza che da parte di tutti vengano condivisi la filosofia di base e i principi teorici. Credo che la vecchia scrivana, il quaderno di appunti e la ricerca continua offrano perlomeno economicità di denaro, tempi e spazi. Pensare a pensare è lo scopo primario che la formazione propone, il secondo è coinvolgere quante più persone possibili.

La capacità di ideazione è diversa dalla capacità di creazione e di operazione. In primo piano, nel processo ideativo, riconosco le relazioni, le emozioni, non i principi e le procedure.
L’essere umano ha bisogno di respiro, di metafore, di simboli, di allusioni, non di modelli da seguire per far funzionare qualcosa. Se prima non cerco di capire, se non rifletto sulle possibili opzioni, a cosa serve il fare se non a liberarmi frettolosamente dall’ingombro dell’altro?

Senza il pensiero e l’emozione non sarà mai un fare pratico, né utile. Una relazione, un gruppo non rispondono, soltanto, a criteri di utilità e di efficienza ma, soprattutto, di bellezza. Ma ciò che è bellezza, è poesia (poiesispoieo, in greco è fare, costruire, produrre) e, allora, diventa utile, pratico.
“L’azione non è soltanto opzione e decisione, ma può anche essere creazione: non è solo la pratica che conduce le nostre vite, ma anche la <poetica> che produce cose e trasforma la realtà.” (F.Savater, Il coraggio di scegliere, Ed.Laterza, 2004)

L’essere umano agisce per esistere o l’essere umano è quello che fa? L’altro non è altro che l’atto che compie o l’azione è soltanto la parte visibile di un’interiorità smisurata?
Le domande di marzulliana memoria rimandano a studi e ricerche che coinvolgono l’etica, la libertà, i sentimenti, il caso, la verità… Non voglio arrivare ad una soluzione, non in queste pagine, ma studiando e discutendo, voglio continuare a non sapere con autostima ed orgoglio.

“L’azione è il contrario del realizzare un programma. Programmi sono i modelli vegetativi e gli istinti, le rose e le pantere sono <programmate> per essere ciò che sono, fare ciò che fanno e vivere come vivono…. Gli esseri umani sono programmati in quanto <esseri>, ma non in quanto <umani>…, l’azione non è fabbricazione di oggetti o di strumenti, bensì creazione di umanità.” (F.Savater, op.cit.)

Neutralizzando il pensiero, sparisce l’identità e la pratica fa emergere solo l’idoneità a svolgere determinate funzioni umane. L’apprendimento del pensiero (che si fa pensare prima di fare) è direttamente collegato all’abilità dell’ otium, alla virtù dell’attesa, alla confidenza con il senso del limite umano, al rapporto più o meno ansioso o libero con il tempo e lo spazio.

Certo, per evitare di fare, a qualsiasi costo, per evitare di usare strumenti e griglie preconfezionate, è importante capire e liberarmi di alcuni freni psicologici: la presunzione prometeica, che ci avvicina a Prometeo nell’atto di rubare il fuoco agli dei; il convincimento: esisto-solo-se-sono-utile; la pretesa di soluzione; il bisogno di offrire consigli non richiesti; la schiavitù del binomio dare-avere, la paura del silenzio e della solitudine.

Giungo, così, ad una pratica colta (dal latino, colere , coltivare), che deriva dal coltivare idee, emozioni, condivisioni. Compito della nostra epoca non è insistere su una strada, ma scoprirne il più possibile. Non la scelta fra alfa, beta o gamma, ma l’apprendere a decifrare, ad interrogare, a capire e, anche, a non cercare di capire ciò che ancora non ha deciso di svelarsi. Mi abituo a lasciarmi proteggere dal vuoto, anzi, dal pieno di nulla. Come, in matematica, lo zero non è niente, ma è un numero. Non mi preoccupo di arrivare alla meta – a quale, poi? -, mi chiedo, pittostto, se sono sulla strada della relazione e se ho bisogno di rallentare o di fermarmi.

La bellezza della relazione è lenta. Nell’applicare sistemi, formule, regole, accade quello che voglio e conosco. Davanti ad una persona aspetto, invece, che accada a me e a lei ciò che non conosco, l’imprevedibile che non immagino. La pratica si esprime verso l’altro, il lavoro da fare è stare con lui. Il rischio del fare qualcosa per qualcuno senza incontrarlo assomiglia al rischio di acquistare i mobili senza valutare se l’abitazione è un trullo, una baita, un camper, un appartamento…
Una solida attività di pensiero è la base su cui edificare l’esperienza, l’azione, le operazioni concrete. Le griglie, le tecniche favoriscono spesso l’atteggiamento mentale di chi pensa produttivamente, ma non criticamente. Platone diceva che le tecniche sono capaci di fare le cose, ma non sono capaci di valutare le cose.

“… il mondo è costituito da una rete (più che da una catena) assai complessa di entità che hanno tra loro relazioni di questo tipo, con una differenza: molte di queste entità hanno provviste proprie di energia e forse anche idee proprie su dove vorrebbero dirigersi. In un mondo di questo tipo i problemi di controllo diventano più affini all’arte che alla scienza, non solo perché tendiamo a pensare che difficoltà e imprevedibilità siano contesti per l’arte, ma anche perché è assai probabile che l’errore produca cose sgradevoli.…noi, scienziati sociali, faremmo bene a tenere a freno la nostra fretta di controllare un mondo che comprendiamo così imperfettamente. Non dovremmo consentire all’imperfezione della nostra comprensione di alimentare la nostra ansia e di aumentare così il bisogno di controllo. I nostri studi potrebbero piuttosto ispirarsi a una motivazione più antica, anche se oggi appare meno rispettabile: la curiosità per il mondo di cui facciamo parte. La ricompensa per questo lavoro non è il potere ma la bellezza. È ben strano che tutti i grandi progressi scientifici – non ultimi quelli che dobbiamo a Newton – siano avvenuti sotto il segno dell’eleganza.” (Gregory Bateson pag.30 in Manghi S., a cura di, Attraverso Bateson, Raffaello Cortina Ed.,1998)

Prima di valutare una tecnica di comunicazione come più o meno adeguata, pre-occupiamoci di creare legami. Va bene utilizzare tantissime tecniche di comunicazione, ma all’interno di una relazione, seguendo un dialogo, proponendo un confronto, presentando ipotesi.

“La relazione al tu è immediata… Fra l’io e il tu non vi è alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione. E persino l’anelito si trasforma, poiché precipita dal sogno nell’apparizione. Ogni mezzo è impedimento. L’incontro avviene solo dove è caduto ogni mezzo. ” (M.Buber, Città Nuova, 2000)

Senza la theorìa (in greco contemplazione) c’è la frenesia del protagonismo filantropico, che ha bisogno di usare tecniche, controllare risultati, valutare con il bilancino dell’orefice guadagni e rischi.
Propongo un esodo, un cammino all’interno di sé, dove recuperare teorie e tecniche, procedendo verso lacreazione di relazioni, verso la libertà dell’espressione dell’umano.

Ma posso costringere qualcuno ad essere libero, forzarlo a pensare con la propria testa e chi si occupa di formazione ha questo compito?

Pubb 011 01

Corsi di comunicazione nelle organizzazioni

 

AT anno XII – n. 23 

Communication Trainings in Organizations
The aim of the present study Is to review the consultant-organization relationship through the renovation of the logic categories of today’s training. The main suggestion is to use a clinical approach in the organizational analysis. This means:

  1. to train the organization through its workers and not to train its staff;

  2. to carry out an organizational diagnosis by using the consultant-organization relationship;

  3. to view the trainer as an analyst of the organizational culture and not just as a seller of training courses.

Consequently, the design of a training course on communication should take into account processes and dynamics, as well as contents and structures. Finally, the article presents the work done with the employees of a bank in Northern Italy.

La realtà considerata: error communis facit ius

Nella società odierna è da tutti compreso il ruolo della sartina e quello dello stilista. La differenza sottolineata non è tanto fra operatività e progettualità ma, soprattutto, fra adattamento e cambiamento. Indirizzando questa riflessione alle organizzazioni, l’osservazione che ne risulta è che esse non hanno bisogno di rattoppi casuali ma di capire ed eventualmente scegliere fra l’accomodamento del vecchio abito e l’acquisto di uno nuovo e di quale.
Al grido di “Comunicazione o morte” truppe di consulenti sono scese in campo seminando sospetti fra i partecipanti ai corsi di non aver mai in realtà comunicato e dispensando infauste premonizioni.
In questa prospettiva, è normale che lo stesso seminario sulla comunicazione sia stato proposto nell’istituto di credito, nell’azienda automobilistica e nel gruppo parrocchiale di qualsiasi regione italiana.
Spesso il consulente è dinanzi a richieste non ben definite dall’utente ma il suo primo impegno è proprio quello di comprendere, di fare una prima diagnosi e di proporre un contratto. Quindi, davanti ad una domanda generica da parte dell’organizzazione di un corso sulla comunicazione, in discussione non è tanto l’oggetto ma la motivazione e il fine, non la formazione in se stessa ma il perchè e il come.
L’obiettivo non è che la gente si voglia bene e che risolva i problemi di convivenza ma che l’organizzazione funzioni, tenendo conto che il successo di questa, passa anche attraverso il benessere dei dipendenti. Che ciascun partecipante impari a comunicare meglio può essere il fine di un gruppo di terapia ma il fine del lavoro nell’azienda è che quelle persone, in quell’ambiente capiscano e analizzino le modalità di comunicazione esistenti.
Ne consegue che la consapevolezza nella relazione con l’altro come dipendente, come capo, come collega può diventare anche consapevolezza come marito, fratello, amico ma questo è da considerarsi un punto di arrivo, non di partenza.
In sintesi la proposta è di utilizzare l’approccio clinico nell’analisi aziendale, non nel gruppo di lavoro con i dipendenti.
Berne ci dice che la credenza sottostante al gioco “Burrasca” è che se si fa abbastanza baccano non si dovranno risolvere i problemi e l’esperienza ci insegna che lo stesso risultato si può conseguire con il gioco contrario “Tutti D’accordo”, nel quale i partecipanti, in tal caso i formatori, si convincono che dove sbagliano tutti, nessuno sbaglia e che l’errore comune crea la legge.
C’è sempre un A contaminato dal B in azione, nel primo gioco con la ribellione, nel secondo con l’adattamento e il compiacimento.
L’indicazione è che gli analisti della cultura aziendale utilizzino oltre all’esperienza e agli insegnamenti acquisiti anche la capacità critica e di discernimento dinanzi all’una e agli altri.
Mintzberg ci ricorda che “se trattassimo tutte le organizzazioni allo stesso modo commetteremmo la stessa assurdità di un oculista che volesse prescrivere a tutti gli stessi occhiali”.

Obiettivi e presupposti

Obiettivo di questo studio è rivedere il rapporto consulenza – azienda rinnovando le categorie logiche della formazione odierna.
Quindi, occhio puntato su processi e dinamiche oltre che su contenuti e strutture. La domanda non è solo: a chi proporre o cosa proporre in un seminario sulla comunicazione, ma, prima di tutto:
cosa è la comunicazione in quella azienda? Perchè un corso sulla comunicazione piuttosto che uno sull’informatica e come proporlo in un determinato ambiente aziendale?
L’idea iniziale è che abitare il mondo significa, in realtà, abitare la descrizione che una data epoca dà di esso. Di conseguenza, i salariati non vivono nell’azienda ma nella rappresentazione di essa. La comunicazione è il mezzo privilegiato di tale rappresentazione, è lo strumento attraverso il quale si manifesta la cultura dell’azienda. Come Edgar Morin afferma: “La conoscenza scientifica del mondo è la conoscenza dello spirito nello specchio del mondo”.
In definitiva, in azienda ciò che conta non è solo riconoscere le capacità e l’esperienza di ciascun dipendente (questo è il fine di un intervento di selezione) ma è in che modo nella relazione di gruppo le caratteristiche di una persona si incontrano con quelle di un’altra e qual è il risultato della interazione di diverse personalità, giacché l’attività e l’intimità di un gruppo sono molto di più della somma dei suoi componenti. E’ una questione di corrispondenza emotiva e di valori e non solo di analisi descrittive.
La comunicazione, in fondo, è un problema di autostima. E se è vero che “si vive guardando sempre in avanti, ma il significato della vita lo si scopre guardando indietro” (Kierkegaard), allora, ogni intervento sulle problematiche di comunicazione prevede una diagnosi intersoggettiva che passa all’interno della relazione fra consulenza e organizzazione. L’unico modo in azienda per fare una diagnosi, infatti, è farla insieme ai dipendenti.
In questo modo la formazione è promossa dall’interno, non obbligata dall’esterno, è un bisogno riconosciuto e non la risposta che compiace un insistente venditore di corsi.

Il Minicopione nell’analisi organizzativa

Da parte di alcuni studiosi di psicanalisi (Schein, Kets de Vries, Miller) e di A.T. (Giuli, Chalvin, Wagner) c’è stato il tentativo di identificare attraverso questionari, colloqui, interviste, i disturbi della personalità/cultura dell’azienda e il suo quadrante esistenziale. Teoricamente il lavoro è interessante e lo sforzo proficuo:
per l’analista è vantaggioso lavorare con la certezza, pur sempre da verificare, che una determinata organizzazione possa posizionarsi in un preciso quadrante.
Ma nella complessa operatività quotidiana, in una realtà aziendale che continua a cambiare velocemente secondo un processo di rotazione e di rivoluzione, può diventare una forzatura o una percezione non corrispondente al vero riconoscere l’organizzazione necessariamente nei meccanismi di sopravvivenza di un determinato quadrante.
Inoltre, spesso, si confonde il quadrante esistenziale dell’azienda con la griglia di personalità del leader fondatore o del presidente in carica. L’organizzazione non è solo rappresentata dalla somma delle caratteristiche di personalità dei dirigenti ma essa ha un quid, un’anima che la rende unica ed autonoma.
Risulta più utile, allora, parlare di momenti evolutivi e, quindi, di minicopione.
La ripetizione del minicopione è un momento tipologico dell’A.T. applicata alle organizzazioni. Il disturbo, la difficoltà che queste presentano richiamano la parte negativa di esso.
Utilizzo il termine di cultura dell’azienda per indicare la personalità della stessa (Dagostino, 1991).
La griglia di cultura è, in fondo, una generalizzazione, un mezzo per avvicinarsi all’unicità di quella azienda. La teoria spiega la realtà, ma non è la realtà.
Esistono innumerevoli forme organizzative non da etichettare ma da capire e spiegare.
L’A.T. permette di accettare l’azienda e la lettura di se stessa che ci offre attraverso i suoi dipendenti per incontrarla là dove lei è.
Quando penso alla cultura di un’organizzazione, mi riferisco ad un quadrante fra Ordine, Stop e Gioco e parlo non di patologia ma solo di limite di copione. Quando, invece, parlo di stili nevrotici, seguendo alcuni autori citati, o di disfunzioni organizzative, penso ad un quadrante dove il Gioco termina spesso nella posizione più perdente e poi ritorna su all’Ordine. Non c’è solo la tendenza alla disfunzione ma c’è un precipitare spesso nel momento finale.
L’organizzazione sceglie dal suo ambiente permessi ed ingiunzioni che la proteggano quanto più è possibile. Nel minicopione positivo ci sono le linee di forza, le caratteristiche innate, le stesse doti che si ritrovano nel minicopione negativo, anche se distorte (Fig. 2, 3, 4: polo positivo e negativo).
Alcuni studiosi notano che mentre l’azienda va avanti e cresce, diminuiscono le sue problematiche, ciò significa che essa, come l’essere umano, tende ad uscire dal copione quotidianamente in evoluzione e in autonomia.
Quando un’organizzazione richiede l’intervento di un esperto esterno è probabile che essa stia attraversando una fase – + (Stop) o – – (Senza sbocco). In definitiva, un momento in cui scopre una valenza negativa sul proprio vissuto, altrimenti cercherebbe di risolvere le problematiche utilizzando risorse interne e guardandosi bene dal mostrare ad estranei i propri panni sporchi.
Un’altra possibilità, in verità, più rara dati i costi della consulenza esterna, è che, guidati dalla moda e dal momento di successo che la formazione, in generale, sta vivendo, si organizzino programmi e corsi con il solo scopo di apparire innovativi e moderni.
In questo caso, il lavoro del consulente è stimolare la motivazione e il bisogno dell’analisi, avvicinandosi alle persone in quella azienda con rispetto, curiosità e interesse a capire più che fretta di salvare o di guadagnare.
Spesso c’è ostentazione e ricerca di apprezzamento da parte dell’azienda che è in una fase + – (Gioco). Al malcapitato consulente pare non resti che compiacere e guadagnarsi la sua parcella o rischiare un repentino allontanamento nel caso in cui decida di confrontare l’organizzazione fortemente contaminata.

La terza opzione per l’analista è:
– accettare il copione aziendale con la sua benedizione e maledizione, sapendo che esso dà all’organizzazione la sicurezza di qualcosa di noto, è il suo primo apprendimento, anche se è inefficiente nel caso sia l’unico mezzo che essa ha a disposizione per andare avanti;
– proporre contratti per costruire, non per demolire. L’azienda non utilizza tempo e denaro perchè i suoi dipendenti si sentano sciocchi e inadeguati dinanzi a consulenti onnipotenti;
– permettere all’organizzazione di allargare la potenzialità del suo copione e non di rinforzarsi in esso. Uscire dal copione significa smettere di darsi ordini offrendosi altre modalità di riuscita e di successo.
I quadranti aziendali che presento e i termini che utilizzo tengono conto del lavoro di colleghi analisti transazionali impegnati nel campo clinico e di psicanalisti dell’organizzazione.
Le intuizioni sono supportate dall’esperienza e le ipotesi sono verificate attraverso il lavoro con le aziende che vado svolgendo.
La fig. 1 racchiude come in una girandola i minicopioni negativi delle tre tipologie organizzative. Il triangolo di contorno che delimita i tre minicopioni ha appositamente i vertici allargati, espressione del passaggio dalla posizione “ + + Se…” alla scala della vita. Infatti, l’ordine che diviene permesso è il primo gradino verso il successo e l’autonomia.

Pubb 011 01

Mi limito in questo lavoro a delineare le caratteristiche di ciascun quadrante e a trattare, in particolare, i punti deboli e forti delle organizzazioni soltanto rispetto alle problematiche di comunicazione.
Nelle Fig. 2, 3, 4 e 5 sintetizzo le definizioni e i motivi dominanti di ciascuna tipologia organizzativa: tenera, introversa, forte e collaborativa. Gli schemi rappresentano l’inizio di una ricerca che ha ancora bisogno di studio e di approfondimento.

Fig. 2

 Pubb 011 02

ORGANIZZAZIONE TENERA CENESTETICA -+ (A.T. e P.N.L.)

CONFIGURAZIONE PROFESSIONALE ORIENTATA ALLA COMPETENZA E
CONFIGURAZIONE IDEOLOGICA ORIENTATA ALLA COOPERAZIONE
(Mintzberg)

COMPORTAMENTO NEVROTICO: DEPRESSIVO (Kets de Vries e Miller)

ORDINI (+ + se…): Compiaci, Metticela tutta
INGIUNZIONI (-+): Non pensare, Non fidarti, Non arrabbiarti
GIOCHI (+-): Tutta colpa mia, Pigliami a calci, Stupida, Si.. ma, Cerco solo di aiutare, Non posso farcela
FINALE (–): Inadeguatezza, colpa

Rispetto alle problematiche di comunicazione tale tipo di organizzazione presenta nei primi incontri i segnali in seguito citati. Ciò significa che, a prescindere dalla personalità di ciascun partecipante, i dipendenti manifestano un particolare tipo di cultura aziendale, in questo caso tenera cenestetica.

il gruppo:
– Dichiara e mostra sofferenza per i conflitti interni
– Manifesta poca decisionalità
– Dichiara di essere disponibile al confronto
– E’ preoccupato di farsi accettare dagli altri (docenti, pubblico, ecc.)
– Accetta regole e cambiamenti imposti
– Esprime familiarità e cordialità
– Predilige la consultazione
– Manca di un leader

La comunicazione, in generale, è scarsa, deformata, filtrata attraverso pettegolezzi, diciture, impressioni.

Fig. 3

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ORGANIZZAZIONE INTROVERSA UDITIVA — (A.T. e P.N.L.)

CONFIGURAZIONE DIVERSIFICATA ORIENTATA ALLA CONCENTRAZIONE E CONFIGURAZIONE INNOVATIVA ORIENTATA ALL’APPRENDIMENTO
(Mintzberg)

COMPORTAMENTO NEVROTICO: SCHIZOIDE (Kets de Vries e Miller)
ORDINI (+ + se…): Sii forte, Metticela tutta
INGIUNZIONI (- +): Non fidarti, Non esistere, Non sentire
GIOCHI (+ -): Prova a tirarmi, Gamba di legno
FINALE (–): Disperazione

Il gruppo:
– Manifesta disinteresse
– Esprime estrema razionalità
– E’ dispersivo
– Mostra diffidenza
– Non accetta cambiamenti imposti
– Evidenzia disordine nella gerarchia (tutti fanno tutto)
La comunicazione verbale è quasi inesistente.

Fig. 4
ORGANIZZAZIONE FORTE VISIVA + –  (AT. E P.N.L.)

CONFIGURAZIONE BUROCRATICA ORIENTATA ALL’EFFICIENZA E CONFIGURAZIONE POLITICA ORIENTATA ALLA COMPETIZIONE
(Mintzberg)

COMPORTAMENTO NEVROTICO: PARANOIDE, OSSESSIVO, ISTERICO (Kets de Vries e Miller)

ORDINI (+ + se…): Sii forte, Sii perfetta, Compiaci, Metticela tutta, Spicciati
INGIUNZIONI (- +): Non fidarti, Non godere, Non sentire
GIOCHI (+-): T’ho beccato, Tutta colpa tua, Biasimo, Occupatissima
MOMENTO FINALE (—) : Abbandono, solitudine

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Il gruppo:
– Apparentemente non mostra conflitti
– E’ impegnato nella ricerca del responsabile
– Applica soluzioni tradizionali
– Svolge soprattutto attività di controllo
– Manifesta poca disponibilità al confronto
– Ha tendenza a negare i problemi
– E’ competitivo
– Ha al suo interno molti livelli gerarchici con accentramento di compiti
– Assume rischi eccessivi

La comunicazione è in prevalenza rigida e formale.

Fig. 5
ORGANIZZAZIONE COLLABORATIVA + + SE… (A.T.)

CONFIGURAZIONE IMPRENDITORIALE ORIENTATA ALLA DIREZIONE DI MARCIA (Mintzberg)

PRINCIPALI CARATTERISTICHE DI TALE FORMA ORGANIZZATIVA SONO: L’INTUITO, LA COLLABORAZIONE, LA DISPONIBILITA’, IL SENSO DELLA MISSION, LA STRUTTURA SEMPLICE E LINEARE.

C’E’ IN TALI AZIENDE IL PERICOLO DI TENDENZE ACCENTRATRICI E DI SQUILIBRI A LIVELLO STRATEGICO E OPERATIVO.

LA COMUNICAZIONE E’ INFORMALE, FLESSIBILE, CHIARA.

IL RISCHIO E’ LA RECITA AMBIZIOSA DELLA REALTA’.

Le scelte per l’analista della cultura non sono sempre conseguenziali. Per determinati ambienti o situazioni la scelta del corso giusto non è fra A, B o C. Le analisi descrittive sono utili per comprendere il problema, non per risolverlo. La soluzione è tanto più vera e valida se è il gruppo stesso a trovarla, la stessa azienda al suo interno. Il corso si costruisce insieme ai partecipanti anche se il consulente entrando in aula ha già un’idea di come aiuterà quelle persone ad aiutarsi in quella azienda.

Presentazione di un caso
Il lavoro che ho svolto presso un istituto di credito rende difficile l’applicazione sic et simpliciter della teoria enunciata.
La fig. 6 rappresenta la griglia di cultura della banca che continuo a verificare incontrando i suoi dipendenti. L’analisi effettuata tiene conto contemporaneamente di 4 variabili:

  1. il copione della banca italiana, in generale;

  2. il copione di ciascun dipendente della banca considerata;

  3. il copione dell’istituto di credito esaminato;

  4. il mio copione.

Dal primo incontro ho valutato la problematica dell’azienda e le sue possibilità di sopravvivenza. Ho fatto la prima diagnosi per intuito, consapevole che l’unica vera diagnosi poteva farla il cliente che, però, nei primi tempi, non mi ha affatto aiutata. Mi sono resa conto del pericolo di rottura dell’azienda, in tal caso, il suicidio. Infatti, la banca popolare presa in considerazione è un’azienda locale di 500 dipendenti che da alcuni anni vive nella minaccia di essere assorbita da un istituto di più grandi dimensioni.
Ho accettato la richiesta di un corso sulla comunicazione – era questo il problema che mi avevano presentato – sapendo che dietro la richiesta esterna c’era una richiesta non esplicita, profonda su cui avremmo, in seguito, lavorato.
Può sembrare un paradosso ma, collaborando con le organizzazioni, l’intervento è tanto più adeguato quanto meno l’esperto si affatica a risolvere il problema. Tra l’altro, i suggerimenti, gli aiuti, le interpretazioni talvolta sono proiezioni identificatorie ma sempre tolgono potere al cliente. Misuro l’utilità del mio aiuto nei cambiamenti che riesco a non fare e nelle idee, anche se illuminanti, che riesco a non dichiarare; nei mutamenti anche minimi che permetto alle persone di fare e nei pensieri che permetto loro di esprimere.
Credo che la comunicazione sana offra la possibilità di valorizzare le persone più che di gestirle.
Ho pensato all’inizio del nostro rapporto che il cliente avesse diritto a rimanere confuso intuendo che la sua confusione era, forse, rabbia negata. Arrivare al contratto in questa organizzazione significa accettarla con la difficoltà dichiarata e formulare attraverso una chiarificazione un contratto per arrivare ad una destinazione chiara e utile sia al formatore che all’azienda.

Fig.6
GRIGLIA Dl CULTURA DELLA BANCA POPOLARE

LINEE DI FORZA: interesse e attenzione per l’altro (pubblico, collega), fantasia, empatia, intuizione, capacità di esecuzione.

MECCANISMI DI DIFESA: adattamento, impotenza.

ORDINI: Sforzati, Compiaci, Sii perfetto.

INGIUNZIONI: Non esistere, Non pensare, Non farcela, Non sentire sentimenti spiacevoli, Non arrabbiarti, Non lamentarti.

GIOCHI: Si.. .ma, Gamba di legno.

RUOLO: V/P.

SENTIMENTO RICATTO: confusione.

TRANSAZIONI PREVALENII: B-B; G-B.

CONTAMINAZIONE: Dal G.

BISOGNI MANIFESTI: Stima, protezione.

COPIONE: Quasi, Dopo.

USCITA DI FUGA: Comportamenti passivo-aggressivo.

Non ho proposto un contratto dal G giacché per questa banca avrebbe significato mantenersi nel copione e continuare a strutturarsi in esso e ho accettato che continuasse i suoi giochi pensando come Muriel James che il gioco talvolta non è uno sbaglio ma una strada più lunga per arrivare a qualcosa.
I dipendenti ditale organizzazione sono ottimi ascoltatori, perciò ho scelto di non esagerare con le lezioni.
L’azienda tenera è in una posizione che permette al consulente di aiutarla, il rischio è che la cura, ossia la formazione, non finisca mai. Inoltre, questa banca sembra essere tenera, in realtà, non fa mai quello che qualcun altro vuole.
Compiacendo dimostra che l’estraneo, l’esperto ha torto. Fa una richiesta e quando gli viene concessa afferma di non averne avuto bisogno. Insomma manifesta un disturbo passivo – aggressivo.
Durante i 5 giorni di corso sulla comunicazione le mie proposte di lavoro correvano sul filo Sentire – Pensare – Agire.
Con varie esercitazioni (questionari autovalutativi, lavori di gruppo, lezioni autogestite, disegni, rappresentazioni) ho dato spazio alla capacità di realizzazione del gruppo utilizzando la sua intelligenza intuitivo analogica. Questo ha permesso ai partecipanti di astrarre i significati riportandoli alla realtà aziendale, di tirare le conclusioni, di evidenziare i punti chiave, di riassumere i contenuti, insomma di apprendere in maniera autonoma e di riconoscere le grandi potenzialità del gruppo. I tempi nel lavoro con le aziende sono molto allungati e gli interventi molto diluiti rispetto alla terapia con il singolo paziente. La situazione che con il paziente si realizza nella prima visita, nell’organizzazione, generalmente, si realizza nel primo anno di lavoro.
Dopo quattro mesi dalla fine dei miei corsi, il direttore del personale, il direttore della formazione ed io ci rincontreremo…
Ciò che sappiamo è che partiremo dalla consapevolezza di aver comunicato, espressa nel nostro ultimo saluto: “E’ stato un piacere trattare con lei. Ci siamo capiti”.

Conclusioni

In questo mio studio sono partita dalla teoria, dal copione e minicopione aziendale poi sono passata al confronto con la realtà. Alla realtà non è possibile mettere un punto perchè continua a raccontarsi. Non parto mai dall’esperienza concreta per ritrovarla e rinchiuderla nella teoria. Confondere la teoria con la realtà, la tipologia con l’azienda è come confondere le briciole di pane di Pollicino con la strada. Le aziende sono la strada, l’obiettivo; invece, le teorie, le griglie sono le briciole, lo strumento per ritrovarle.
Per gli studiosi di analisi organizzativa un leader con comportamento nevrotico è uguale e dà sempre origine ad una organizzazione nevrotica.
Io credo, invece, che la nevrosi del dirigente interessi il suo terapeuta, la nevrosi dell’azienda interessi l’analista della cultura. Ho incontrato gruppi di persone sane che vivevano in un’organizzazione nevrotica.
Per questo non parlo di formazione del personale ma unicamente di formazione dell’azienda attraverso i dipendenti. Essi non chiedono analisi personali, forse non ne hanno bisogno ed io non sono un terapeuta clinico: è una questione di ottica, di filosofia, di chiarezza contrattuale e non semplicemente un’incomprensione linguistica.
Credo sia proprio questo l’errore a cui Mintzberg si riferisce quando scrive:
“L’esperto è una persona che riesce ad evitare tutti i trabocchetti e marcia diritto verso il grande errore”.
Ho scoperto che quando il consulente smette di parlare, i partecipanti iniziano a comunicare e a pensare, quando l’uno smette di fare, gli altri incominciano ad operare e a cambiare seguendo un processo autonomo e naturale. E’ straordinario scoprire quanta gente in gamba lavora nelle nostre aziende, se solo le si dà la possibilità di pensare!

Bibliografia

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CHALVIN D., L’Analisi Transazionale, Franco Angeli, Milano, 1990.
DAGOSTINO L., “Cultura d’azienda e leadership: una lettura secondo l’A.T.”, Atti Congr. It. di A.T., 1991.
GIULI M., L’A.T. nelle organizzazioni, Franco Angeli, 1988.
KETS DE VRIES M.F.R., MILLER D., L’organizzazione nevrotica, Raffaello Cortina Editore, 1992.
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MORIN E., “Auto-eco-conoscenza”. In M. Cerruti, L. Preta (a cura di), Che cos’è la conoscenza, Laterza, Bari, 1990.
ROMANINI M.T., “Principi nelle pelli dei rospi”, Riv. It. diA.T. eMetod. Psicot.,
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RÒMANINI M.T., BONAGURA I., PROIETTI N., SERGI M.G., TORTI P., “Disturbi di personalità o copioni non vincenti e perdenti?”, Atti Congr. It. di A. T., 1991.
WAGNER A., Il manager Transazionale, Franco Angeli Trend, 1988.

Pubb 005 01

L’analisi transazionale utilizzata nell’assessment center

 T.A. used in the Assessment Center

The article examines and evaluates the theoretical and technical contribution provided by T. A. in personnel selection, specifically in the Assessment Center. Its selection method Is adjusted to the T.A. philosophy: the individual is O.K. and has the capacity to think, choose and change.
In addition, the article illustrates the various implementation steps of the Assessment Center based on the two T.A. fundamental principles: contract and open communication. The ego-state functional analysis, the discount matrix, the personality social grid are tools which – providing the methodology with specificity-make work more effective for evaluators and evalueès and more efficient for the company.

Il contesto ambientale

Negli ultimi anni assistiamo ad una trasformazione turbolenta del mondo socio-economico. Le imprese si evolvono secondo criteri imprevedibili e con passaggi spesso non lineari.
Cambiano gli obiettivi aziendali: non si tratta più di produrre e vendere ciò che si ha e si sa fare, ma di scoprire i bisogni dei consumatori attraverso ricerche di mercato e di offrire, in seguito, a quel segmento di mercato, i prodotti richiesti. Il concetto di vendita si evolve in quello di marketing management. Le nuove competenze manageriali richiedono non solo un’adeguata preparazione operativa ma, soprattutto, diversi comportamenti, valori e filosofie.
Si manifesta, di conseguenza, la necessità di riconoscere, identificare e valorizzare tali potenzialità all’interno dell’azienda.

L’Assessment Center

Dagli inizi degli anni ‘70, in Italia viene utilizzato l’Assessment Center (A.C.). Questa tecnica nasce, durante la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti per selezionare agenti segreti impegnati in attività di controspionaggio.
Negli anni ‘50, sempre in America, assistiamo alle prime rielaborazioni del metodo per scegliere capi di primo livello e, in seguito, dirigenti.
La tecnica si esplica attraverso tre fasi.

Nella fase di introduzione:
– si individuano le caratteristiche personali della mansione;
– si analizzano le abilità richieste per il profilo professionale di riferimento;
– si manifestano le aspettative e le richieste della committenza e della consulenza.

Nella fase di avvio:
– vengono elaborati i programmi e scelte le prove da utilizzare nelle giornate di esame (2 in generale). Tali esercitazioni servono ad evidenziare il possesso o meno delle dimensioni manageriali preliminarmente fissate. Si addestrano gli assessors interni ed esterni all’azienda che osserveranno e valuteranno i candidati, durante le prove, in modo più possibile unitario ed oggettivo.

Nella fase di gestione:
– l’administrator (il coordinatore dell’A.C.) e gli assessors propongono le prove osservando e valutando il comportamento dei soggetti;
– si riuniscono gli esaminatori per stendere i profili dei candidati;
– dopo la partecipazione al programma, si fornisce il feedback ai candidati.

L’Assessment Center è definito come un sistema di valutazione del potenziale di sviluppo professionale e/o manageriale di persone già dipendenti dell’organizzazione. Viene anche utilizzato per selezionare neo laureati ad alto potenziale di crescita in grandi sistemi integrati (multinazionali, holding, istituzioni pubbliche, grandi aziende e banche). L’A.C. è stato finora previsto esclusivamente per quadri intermedi, tecnici e dirigenti.
Oggi, la sua applicazione e la sua credibilità dipendono unicamente dalle capacità e dalla preparazione di chi lo adopera. L’uso e l’abuso che sono stati fatti dell’A.C., venduto con le più svariate etichette, hanno maggiormente portato ad una confusione riguardo le modalità, gli scopi e le potenzialità del metodo. L’A.C. ha legato la sua fortuna e il suo insuccesso più all’affidabilità delle persone che ne hanno analizzato il contenuto e utilizzato la tecnica che non alla sua intrinseca efficacia.
Mike Von Audtshoorn afferma che “i centri di valutazione hanno un altissimo livello di formale validità che, però, non corrisponde ad una validità di fatto”. E non è semplicemente una questione di valutatori più o meno specializzati ma anche di una mancanza di chiarezza riguardo le tecniche e i principi teorici.
L’A.C. non ha, infatti, basi teoriche, non è legato ad alcuna corrente di pensiero psicologico o filosofico, è esclusivamente una tecnica di tipo pragmatico-aziendale, uno strumento flessibile, personalizzato e utilizzato con varie modalità.
Dalla lettura di vari autori pare che sia più facile dire ciò che l’A.C. non è, piuttosto che delinearne le caratteristiche specifiche.
Scopo di questo lavoro è:
1) rielaborare il metodo secondo l’assunto filosofico dell’A.T.: la persona è OK ed ha la capacità di pensare, di scegliere e di cambiare;
2) riproporre le varie fasi di applicazione seguendo i due principi fondamentali della pratica A.T.: – il metodo contrattuale, – la comunicazione aperta.

Osservazioni su esperienze di A.C.

In certi casi, proporre l’A.C. nelle organizzazioni è come indossare un abito da sera per una gita in campagna: ci si sente “à la page”, anticonformisti, innovativi ma anche inadeguati e scomodi.
Si ignora che “giudicare il valore e i risultati degli individui che compongono un’azienda significa anche giudicare il valore e i risultati di un’azienda” (Zerilli, 1987). Inevitabilmente si interviene sul tessuto, sulla struttura e sulla politica di quest’ultima che potrebbe anche non consentirlo o non essere pronta a tale confronto. L’accusa che tutti rivolgono a tutti è di non stare ai patti: in realtà ciascuno non ha la possibilità di esplicitare richieste ed aspettative che restano, la maggior parte delle volte, pericolosamente sottintese.
D’altro canto, i partecipanti all’A.C. si sentono presi in giro su due fronti: dall’azienda che non dichiara apertamente i suoi obiettivi (spesso non li conosce!) e dai valutatori, a loro giudizio, asserviti alle richieste dei capi.
Chi si sente minacciato attacca e la controparte si difende. L’organizzazione, i dipendenti e i valutatori si scambiano velocemente i ruoli di Vittima, Persecutore e Salvatore in una giostra di sentimenti racket in cui è difficile districarsi.
Ciascuno tende a mantenere una posizione sociale + – in cui i giochi preferiti sono: “Ti ho beccato”, “Biasimo”, “Se non fosse per me”, “Tutta colpa sua”.
Evidenti sono le contaminazioni, da parte dei consulenti dal G (Es.: “tutti i candidati” oppure “Tutti i responsabili dell’azienda cercano di manipolare l’esperto”) e/o dal B (Es.: “Non sono adatto a scegliere il candidato ideale”) e da parte dei dipendenti dal G (Es.: “Non ci si può fidare delle società di consulenza” oppure “della azienda”) e/o dal B (Es.: “C’è qualcosa che non va in me”).
I giochi, i comportamenti derivanti dal triangolo drammatico, le contaminazioni, sono elementi che confermano la presenza di una svalutazione osservabile, in aula, durante la fase di gestione dell’A.C., negli atteggiamenti di astensione, di iperadattamento e di agitazione da parte dei partecipanti e degli osservatori.
Si notano, infatti, sguardi fissi nel vuoto, silenzi, dita che tamburellano sui tavoli, ginocchia tremolanti, sigarette e caramelle utilizzate per alleviare il disagio.
Le persone diventano accomodanti, seguono compiacendo i compiti che si crede l’azienda desideri siano svolti.
Si può costruire un esempio di matrice della svalutazione per i partecipanti all’assessment in cui lo stimolo è rappresentato dall’imbarazzo di trovarsi in una stanza con i colleghi ad affrontare le esercitazioni proposte, il problema è la selezione e valutazione e le opzioni sono i vari modi di affrontare l’esperienza nuova del centro di valutazione (Fig. 1).

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Ciascuno dei candidati svalutando una qualsiasi diagonale svaluterà anche in tutte le variabili al di sotto e alla destra di essa.
Se i partecipanti e i valutatori non sono consapevoli e non affrontano la svalutazione iniziale, quella nella diagonale più alta, tutto l’intervento di A.C. sarà svalutato e le informazioni che gli osservatori cercheranno di raccogliere corrisponderanno solo ad una realtà fortemente contaminata.

Proposte per una nuova esperienza di Assessment Center in chiave analitico-transazionale

E’ essenziale, prima di tutto, intendersi sul termine “valutazione del potenziale”. Valutare le capacità potenziali significa esprimere un giudizio sul valore potenziale del soggetto, cioè su:

1) le sue capacità e possibilità di svolgere – a breve, medio o anche a lungo termine – mansioni diverse da quelle attuali e di progredire verso compiti di maggior impegno e/o responsabilità;

2) le sue attitudini, atteggiamenti, motivazioni, aspettative (possibilmente affiancando al proprio giudizio le opinioni espresse dall’interessato);

3) i settori aziendali e le mansioni verso cui presenta maggiori attitudini e capacità;

4) ogni altro settore e mansione in cui potrebbe essere inserito con buone possibilità di riuscita;

5) le specifiche posizioni a cui potrebbe accedere subito e quelle a cui potrebbe accedere una volta completata la propria formazione, preparazione ed esperienza (Ratto L., 1989, p. 518).

L’A.C., così come oggi è presentato, è uno strumento diagnostico e meno prognostico e non dà risposte che riguardano direttamente la gestione del personale.
L’obiettivo che l’organizzazione vuole raggiungere non è amministrativo; non si tratta, cioè, di decidere riguardo a trasferimenti, promozioni, licenziamenti, ecc. Si parla di obiettivi di tipo clinico (Zerilli, 1987) riguardanti le motivazioni, le aspirazioni, il miglioramento della prestazione, individuando necessità di addestramento e di formazione.
Ciò che importa, allora, è conoscere le caratteristiche comportamentali e le qualità individuali richieste ad una persona per ricoprire un certo ruolo.
Di conseguenza, il campo di lavoro si restringe: la funzione predittiva dell’A.C. è minima rispetto a quella conoscitiva.
E’ difficile prevedere con certezza gli eventuali cambiamenti psicologici di una persona.
Lo psicologo non è un profeta, funge da specchio nel qui e ora; l’unica possibile previsione consiste nel comunicare le proprie esperienze passate confrontandole con la situazione presente.

Durante l’A.C. si può offrire alle persone possibilità di apprendimento e di cambiamento che interverranno, in modo indiretto, sulle posizioni attualmente ricoperte e sulle mansioni a cui ciascuno potrebbe essere destinato lungo l’intero arco della carriera lavorativa. In tal modo, l’A.C. non rappresenta l’ambiente artificiale per recitare una parte, quella più conveniente o meno rischiosa, e la valutazione non è uno strumento di controllo ma di sviluppo.
Divenire consapevoli dei contratti verbali e dei contratti taciuti aiuta a gestire e a risolvere le difficili e sottili relazioni che si stabiliscono fra i vari soggetti istituzionali coinvolti nell’A.C.: candidati, assessors, administrator, Direzione del Personale, Management, Sindacato,.., ecc.
Lo schema proposto è un esempio delle possibili interazioni e contratti. E’ importante sapere, nella fase preliminare dell’A.C., quale impegno si ha e con chi (Fig. 2).

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L’Analisi funzionale degli Stati dell’Io permette di analizzare e delineare in modo chiaro ed univoco le abilità richieste per una determinata mansione, nella fase introduttiva dell’A.C..
Considerando ciascuna caratteristica come parte dell’insieme dei comportamenti in un determinato Stato dell’Io, si ha il vantaggio di utilizzare lo stesso linguaggio e di intendersi sui termini: capacità di negoziare, di comunicare, di motivare, capacità di analizzare, di organizzare, ampiezza di visione, flessibilità mentale, iniziativa, creatività, …ecc.
Tali dimensioni critiche rappresentano silo alcuni dei requisiti richiesti al candidato per una particolare attività lavorativa.
Decifrare e codificare ciascuna caratteristica generica riportandola ad uno Stato dell’Io, cioè, ad un comportamento osservabile nel qui e ora permette agli esaminatori e agli stessi candidati di valutare e, a volte, scoprire le diverse capacità di ciascuno. Il feedback degli osservatori non è più la sentenza inaspettata e temuta ma un confronto A-A sui contenuti e sui guadagni ottenuti da ogni partecipante.
Anche la griglia di personalità, utilizzata soprattutto in campo clinico, può essere adoperata dai valutatori che si limiteranno, in questo caso, ad annotare ciò che osservano ed ascoltano più che le proprie percezioni ed interpretazioni.
La griglia sociale, rappresentata nella Fig. 3, è solo indicativa ed è suscettibile di ulteriori approfondimenti e cambiamenti. Offre il vantaggio ai valutatori di poter seguire una mappa durante le varie prove da cui trarre, in seguito, un profilo breve ed efficiente del candidato. La griglia aiuta gli osservatori ad intendersi con un linguaggio comune e con una comune categoria concettuale. Per il profilo finale si può utilizzare un gergo non tecnico ma comprensibile per i responsabili della azienda senza che vengano inficiati i significati ed i contenuti concordati inizialmente fra assessors e administrator.

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E’ evidente che la preparazione di questi ultimi non può essere improvvisata e che l’intuizione di ciascuno deve essere sostenuta da un adeguato studio ed esperienza.
La selezione e la valutazione suggeriscono l’idea del giudizio, della scelta di qualcuno a scapito di qualcun altro.
Si instaura una relazione G-B fra consulente e candidato e l’Assessment Center, proprio per la sua struttura, evidenzia ancora di più l’effetto “gabbia di leoni”.
La capacità del valutatore che non nega la sua ansia, né quella del candidato ma la utilizza per una migliore conoscenza di sè e dell’altro, permette la crescita e l’apprendimento del gruppo. Così l’obiettivo finale non è il risultato dell’esame e il voto ma la conoscenza e la consapevolezza di sè.
Ogni individuo è libero di sperimentarsi in nuove versioni, di darsi nuove opzioni; il potenziale di una persona sana non ha limite. I problemi, le difficoltà, le “patologie”, possono essere catalogati e prognosticati ma l’evoluzione in autonomia e creatività della personalità umana è un processo assolutamente originale, sorprendente ed imprevedibile.
L’Assessment Center è uno strumento complesso ma, se ben utilizzato, offre molteplici guadagni.
L’azienda ha la possibilità di conoscere le caratteristiche di personalità dei dipendenti, le loro potenzialità e i loro bisogni di formazione. I risultati dell’A.C. possono essere utilizzati nell’immediato o nel futuro.
Il candidato ha l’opportunità di avere consapevolezza sui propri punti di forza e di sperimentare nuovi comportamenti nelle attività proposte e nelle prove di gruppo.
Il consulente ha l’occasione di effettuare una valutazione partecipata in cui la responsabilità e il “dovere”, comunque, di scegliere i candidati non migliori ma più adeguati a quel ruolo, siano condivisi con i colleghi e con gli stessi partecipanti.

Conclusioni

L’Analisi Transazionale dà unicità all’applicazione del metodo presentato, offrendo a ciascun assessor stesse modalità di raccolta e di valutazione delle osservazioni.
L’A.T. favorisce l’esame della realtà: la soggettività dei valutatori viene interpretata in chiave diversa, non c’è solo la responsabilità individuale ma c’è una responsabilità condivisa fra esaminatori ed esaminati.
L’A.C. in quest’ottica aiuta non tanto a definire le potenzialità generiche ma “ad individuare singole e specifiche tendenze di sviluppo della persona nello specifico contesto socio-organizzativo” (A. Castello d’Antonio, 1989).
Spunto per un’ulteriore ricerca è l’approfondimento della necessaria congruenza culturale/operativa fra il metodo e l’organizzazione che. vuole impiegarlo.

Riassunto

In questo articolo è analizzato e valutato l’apporto teorico e tecnico che l’Analisi Transazionale offre nella selezione del personale, in modo specifico nell’Assessment Center. Tale metodo di selezione è rielaborato secondo la filosofia analitico transazionale: la persona è OK ed ha la capacità di pensare, di scegliere e di cambiare.
Inoltre sono riproposte nell’articolo le varie fasi di applicazione dell’Assessment Center seguendo i due principi fondamentali dell’A.T.: il metodo contrattuale e la comunicazione aperta. L’analisi funzionale degli stati dell’Io, la matrice della svalutazione, la griglia sociale di personalità sono strumenti che, offrendo unicità alla metodologia, favoriscono un lavoro efficace per i valutatori e i valutati ed efficiente per l’azienda.

Bibliografia

CASTIELLO D’ANTONIO A., Scegliere per eccellere, Ipsoa, 1989
PADOVESE L., QUAGLINO G.P., “Valutazione del personale, Assessment Center e Contesto bancario”, Sviluppo e Organizzazione, n. 101, maggio-giugno 1987
RATTO L.: (a cura di), Dizionario di management, Franco Angeli, 1989
VAN AUDTSHOORN M., “Assessment Centers”, Industrial and Commercial Training, VII, 5, 1975
ZERILLI A. (a cura di), La valutazione del personale, Franco Angeli, 1987