Ripensando… all’autostima

 

 Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 2, 2007

Propongo in questo spazio scritti irregolari e vagabondi, riflessioni irriverenti e scanzonate.

Nelle organizzazioni incontro molti  sopravvissuti, patiti della political correctness: adeguarsi, compiacere, fare buon viso a cattivo gioco, attaccare il povero somaro…

Dopo anni di pane e veleno, di libri e cioccolato, ecco affacciarsi il privilegio dell’età, l’esercizio del ripensamento, il coraggio della discussione non più contro qualcuno ma come fedeltà al reale.

Nell’attività che svolgo come psicologa nell’ampio territorio della Gestione delle Risorse Umane, un nodo cruciale è il passaggio dall’azienda, al senso di comunità dell’azienda. La parola chiave è autostima: mi chiedono di valutarla nei colloqui di selezione, di promuoverla negli incontri formativi, di evidenziarne la mancanza nei team di lavoro mal riusciti, di pretenderla dai responsabili, di elemosinarla dai nuovi assunti.

Autostima è la valutazione della persona rispetto al sé ed esprime il giudizio relativo al valore personale. Penso che l’autostima sia al centro di ogni problema di comunicazione. Chi non si stima, non ha relazioni sane. L’autostima viene meno negli stati di depressione e aumenta negli stati maniacali: questo nei manuali di psicologia. Nella quotidianità aziendale mi rendo conto che il rifugio nell’autostima, come richiesta, come accusa (dell’altro), come vanto (di sé), come argomento/passatempo è spesso il segnale di personalità egocentriche. Affermazione di sé, forza, efficacia, efficienza, determinazione, flessibilità, autocontrollo, vengono contrabbandate come sinonimi dell’ autostima e proprio questa, nel frattempo, sta diventando il peccato mortale delle persone inserite nelle nostre organizzazioni. La pre-occupazione di sé, in nome dell’autostima, è evidente, dovunque, nei corridoi e nei consigli di amministrazione. In nome dell’autostima, ci si occupa,  prima e solo di sé.

Proporre consulenza all’ azienda è ermeneutica, nel senso di  tradurre, interpretare, s-velare, condividere. Dunque, fermiamoci a considerare che è solo nella tensione verso l’altro che l’io trova conferma di sé. L’altro è la prova per il singolo di esserci (dasein), di essere gettato dentro la situazione, di vivere la realtà.

Sono convinta: all’inizio non c’è l’Uno ma il Due e tutto nasce dall’incontro. Persino Narciso, l’Autosufficiente per antonomasia, arriva, bisognoso di alterità, a riconoscere se stesso, la propria immagine come altro-da-sé. E Dio crea l’altro a <sua immagine e somiglianza>, l’altro che diviene, così, espressione della trascendenza dell’io.

Da Sartre, per il quale solo lo sguardo dell’altro ci <oggettivizza>, a Lévinas che guarda il volto dell’altro come traccia d’infinito, la richiesta è che gli esseri umani siano egocentrati, che abbiano già dimorato presso di sé il tempo adeguato per camminare verso l’altro  e che condividano l’esperienza di Martin Buber: “Divento io nel  tu; divento io, dico tu”.

Noto, nei gruppi di lavoro, che l’integrazione dell’altro, spesso richiesta e vantata è, in fondo, negazione dell’alterità. L’altro non è un voyeur rispetto alla nostra bontà e disponibilità affinché lui si adatti,  ma esprime la conditio stessa dell’esistenza organizzativa.

Uscire dall’autoaffermazione, “lasciarsi andare” di fronte all’altro è permettere a sé e all’uomo con cui si è in dialogo di partecipare alla realtà della vita. La stima che ciascuno nutre per sé porta ad accogliere, assistere, curare, gestire, non serve a riconoscere, non a meravigliarsi, non a scoprire il  visage come evento. Oltre  l’autostima, c’è l’arte del dialogo, la sorpresa dell’incontro, l’inutilità della bellezza.

“Due non è il doppio ma il contrario di Uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato” (Erri De luca, Il contrario di uno, Feltrinelli)

Non condanno la ricerca dell’autostima, la considero solo un passaggio. Il conseguimento della stima di sé non può essere il fine, ma uno stadio iniziale dell’esperienza esistenziale. Mi piace chi si stima una volta per tutte e se lo dimentica a servizio del collega, del capo, chi sceglie di perdersi nell’evento/relazione vincente.

Ripensando… all’ apprendimento

 

 Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 3, 2007

 

“Comunicare l’un l’altro, scambiarsi informazioni è natura;

 tener conto delle informazioni che ci vengono date è cultura” Goethe

 

 

“Aspettate, fatemi pensare psicologicamente prima di rispondere!”

Attivando percorsi di selezione e formazione del personale nelle aziende, pare che, dichiarata la laurea in psicologia, ci si debba rivolgere a me, per così dire, proponendosi psicologicamente. Credo che in quella frase, al di là del linguaggio popolare e al di là del sorriso rispetto al trattamento che mi si riserva, sia racchiusa l’idea di un apprendimento con il pensiero che distinguo da un apprendimento senza il pensiero. L’apprendere con il  pensiero esprime il sentimento di professionalità, che è diverso dall’autostima. E’ sintonia e benessere condividendo un cammino, è esercizio di umiltà sociale (Camus). La coscienza dell’apprendimento e del pensiero è educazione civica. U.Galimberti nel Dizionario di Psicologia descrive l’apprendimento come un processo psichico che consente una modificazione durevole del comportamento per effetto dell’esperienza. Dunque, sento – penso – agisco: creo, così, storie e relazioni. Apprendo e penso e il pensare è relazione e la relazione è condivisione di tempo, spazio ed energia o non è. Che per  Watzlawick  non si possa non comunicare, mi rende ancora più inquieta, perché, spesso, è scontato comunicare senza pensare. La comunicazione che non produce apprendimento-pensiero-relazione è pratica pericolosa che irrigidisce confini, contorni, zone, schemi, strutture  di ciascuno.

dovevofarloio?nonavevocapito!nonmenesonoaccorto!nessunomelohadetto!

(versione non perdente).

so!hocapito!melavedoio!sonocerto!vabene!assolutamentesì!telospiegoio

(versione non vincente).

Non voglio svolgere attività con chi esegue il compito, con chi garantisce la presenza, magari anche polemica – così sembra anche uno impegnato e vivace – con chi fa il proprio dovere, con chi afferma di aver capito – magari sapeva già – con chi ha ragione perché l’altro ha torto. La fretta della risposta, appunto, per togliersi il pensiero, assume la forma di una presa per i fondelli. Chiedo di esserci davanti all’altro, prima ancora di capire e di esprimere il sapere. Capire e sapere rappresentano un corridoio buio e stretto verso la relazione, ma non sono garanzia di relazione. Si tratta, apposta, di farsi mancare la risposta per arrendersi alla riflessione, per concedersi il tormento delle idee, dinanzi alla presenza dell’altro.

Scelgo di raccontare e ascoltare storie e di condividere strade e non cedo alla tentazione di proporre corsi sulla motivazione del personale, (altra ricerca affannosa, espressione dell’apprendimento senza pensiero), legata quasi sempre ad aumento di denaro, di benefit, di voto, in generale, legata ad una ricompensa.

Apprendere e pensare sono in confidenza con l’immaginazione, il ricordo, il discernimento, il senso, l’intenzionalità dell’azione. Il computer o la lavatrice servono a fare ciò per cui sono progettati, ma niente di più. L’essere umano è coautore, si autoinventa, continua a dare forma a se stesso. L’apprendimento senza pensiero produce il deterioramento del pensiero come nei deliri o nelle idee dominanti, vissute dal soggetto come assolutamente vere per il lato affettivo intimamente connesso.

Condivido con F.Savater l’idea che gli esseri umani sono programmati in quanto <esseri>, ma non in quanto <umani>. Chi apprende e pensa avvia percorsi poco noti, accetta di rischiare idee senza rete, nuovi schemi logici, cioè nonschemi creativi, crea diverse sistemazioni concettuali o aperture epistemologiche, ipotesi, dubbi.

Ritorno a quel pensare psicologicamente, interazione dalla quale scherzosamente si avvia la riflessione proposta, per ribadire la ricerca di un pensare con l’anima, fino all’evoluto heideggeriano pensiero poetante. Capire non è indispensabile quanto esserci. In una relazione la certezza di non aver capito è apprendimento con il pensiero. E’ bello scegliere una soluzione davanti all’emergenza che consenta di  continuare a discutere, di continuare a non sapere con dignità. Apprendere e pensare è attività artistica e obbliga all’apparente follia di abbandonare la lettura dell’elenco telefonico a favore del cammino, della ricerca, della sorpresa,  di una vita intesa non come durata produttiva, ma come intensità ed evento.

Ripensando…. all’apparente positivo

 

Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 1, 2008

 

”A qualcuno la vita deve sembrare così, una continua carestia,

 e tutto quello che rimane da fare è consumare

 tutto quello che si può,

 anche se non riesce mai a soddisfarti”

(Hanif Kureishi, Il corpo, 2003)

 

L’invito del nostro tempo è a trovare se stessi, ad amarsi, accettarsi, appagarsi, svilupparsi, cambiarsi, guarirsi, affermarsi, ossessionati dall’apparire forti e vincenti.

Sono sempre più spesso colpita da persone che manifestano benessere, simpatia sociale, vivacità nell’affrontare le attività.  Noto  un presunto, falso e pericoloso <io sono ok-tu sei ok> recitato sui palcoscenici delle aziende. Incontro persone brillanti che utilizzano in maniera appropriata termini come consapevolezza, autonomia, conoscenza di sé. Abusano termini come libertà, lucidità, sapere.  Mi appaiono vincenti, riuscite, dominano perfettamente qualsiasi situazione e in qualsiasi situazione si comportano più che con leggerezza, come affermano, a cuor leggero, stufe, talvolta, di non potersi permettere il loro tenore di vita. Guardo una sorta di estroversione recitata, una confidenza esagerata, un <tutto bene, tutto bene> dichiarato troppo e troppo in fretta. Manifestano un comportamento alterato, sempre sopra le righe, chiassosamente gioiose o tristi. Confondono senza accorgersene i feedback con i giudizi, usano un linguaggio specialistico che le conforta e le autorizza a dire di tutto. Le proprie difese psicologiche vengono giocosamente sostenute con l’idea di sapere bene, con la certezza adolescenziale che tutti hanno diritto alla coperta di Linus. Guardo la capacità di  vincere, ma non l’essere vincenti, talvolta intuisco un copione perdente. Ricominciano nelle loro vite sempre da zero, mai da capo. Non salvano nulla del passato prossimo e/o remoto; fanno tabula rasa di ogni pensiero/emozione incomprensibile, evitando la compagnia del dubbio. Non continuano il viaggio portandosi dietro gli apprendimenti, ma ne iniziano uno nuovo che sembra nascere dal nulla, non generato da un conflitto e da una riscelta interiore. Il cambiamento, tra l’altro continuo e incongruente, non manifesta inquietudine, piuttosto una pressante esigenza di azzeramento. Possono essere come ognuno li vuole, amici adesso e di sempre, profondi come pozzanghere, impegnati nel gioco delle sedie: c’è sempre qualcuno che rimane in piedi. Senza una base certa, non c’è solidità, solo forza mal dosata, esagerazioni. Ascolto i loro racconti e noto che, talvolta,  sono il risultato di psicoterapie troppo brevi o superficiali. Molti studiano le cose della psicologia, sociologia e dintorni, dichiarano convinzioni precise, scelte convinte, si autocertificano la verità. Chiamo queste persone falsamente positive. E’ difficilissimo il confronto giacché diventano scontrose o compiacenti e sono bravissime a rimettere tutto a posto, anzi, a riconoscere che sono proprio d’accordo, che non c’è bisogno di dir nulla, perché sono certe di conoscere o di essere addirittura un passo più avanti. Dove? Credo da nessuna parte. Non hanno storia, ma tantissime storie che, spudoratamente, raccontano, quando capita e a chi capita per convincere l’altro e se stessi di come sono stati capaci, pronte. Non arroganza, piuttosto un esagerato e innaturale benessere, a tutti i costi. Penso all’egoismo nel senso che l’io rifiuta di ampliarsi, proponendosi in continuo rifacimento. Trascorrono l’esistenza a ristrutturare l’io, come a rimestare nel solito tegame. Ma  l’identità – che non è immagine pubblica – passa unicamente attraverso il riconoscere,  l’assumere e il trattenere silenziosamente e dolorosamente l’altro.

Molti usano parole come se non avessero elaborato il lutto, la perdita, il dolore, l’assenza, il tradimento lasciandosi, semplicemente, tutto alle spalle. Il senso del lutto è sentire che la verità è inaccettabile. Se manca questo, di conseguenza, manca l’elaborazione della gioia. Non parlo né di nevrosi, vista l’assenza di conflitti profondi,  né di psicosi, in cui la personalità è completamente destrutturata. Non una sindrome, piuttosto un vizio, una abitudine manifesti soprattutto nella socialità, tendenze di gruppo, presentate come nuovi valori della modernità. Mi convinco che si tratta di un corpus ostinato di comportamenti ripetitivi,  coatti,  poggiati come un telo sulla personalità. Galimberti (L’ospite inquietante, 2007) riprende l’idea del nichilismo e la fa sembrare una malattia, più che una scusa. Certo, il disagio non è psicologico, è culturale, afferma il filosofo. Evitando il dilettantismo affettato, il rimedio è in una nuova forma mentis, nella libertà di ricerca  e nella riflessione di senso per pensare altrimenti l’esistenza. L’invito primario è a volere una predisposizione del corpo, dello spirito, della mente alla sobrietà, all’essenziale, al raccoglimento, evitando la meticolosità e l’austerità, segnali opposti di una stessa mancanza di comunicazione. “La mia fragilità mi porta ad amare, dunque, l’amore è la risposta a un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione che senza l’altro il mio esserci nel mondo è votato solo alla morte, al non esserci; e la solitudine dell’uomo di vetro è la peggiore delle malattie, delle malattie del vivere” (V.Andreoli, L’uomo di vetro, 2008)

Rileggo: più che riflessioni, ho utilizzato i 5467 caratteri per esprimere un mio malessere.

Invio: condividere con più persone uno stato d’animo è la parola necessaria per creare un silenzio nel quale avvicinarsi.

 

 

 

 

Pubb-010-01

Il Self Reparenting nelle Organizzazioni

 Il self reparenting nelle organizzazioni, Riv. It. di A. T. e Metod. Psicoter. XII, 22, Giugno 1992

 

Nelle organizzazioni il successo ha migliaia di padri e nessuno si occupa del bambino
K. Ohmae

 

Self-Reparenting in organizations

The article deals with the Self-Reparenting as an instrument to analyze the evolution of the organization.
In the company the Personality  is a function that should protect its identity.
For a company, it is natural to go out from the script, as a human being does.
A company that wants to evolve, develops a proper system of values, a proper Personality which includes only a part of its founder’s convinctions, and is completed by the experience of the group, the process of Self Reparenting helps the company to save “what was good” in the old culture: by providing new chances, by restructuring the Personality ego state and by increasing its own identity as an organization.

 

Premesse e Obiettivi

Le riflessioni proposte in questo articolo partono da una prospettiva clinica dello sviluppo organizzativo. Il modello clinico vede l’azienda non più come macchina ma come persona ed è per questo motivo orientato al cambiamento e al miglioramento più che alla analisi descrittiva di essa. L’A.T. offre una teoria della personalità aziendale intesa non solo come risultato del vissuto di gruppo ma come integrazione a sè stante di un G, di un A e di un B e offre una terapia sistematica per una autoanalisi dell’organizzazione. La mia, tesi consiste nell’illustrare il Self Reparenting come un procedimento che può facilitare l’evoluzione dell’organizzazione in modo che essa possa “sentire” i suoi sentimenti, prendersene carico e utilizzare tale consapevolezza per la sua crescita.

In quest’ottica, per esempio, all’entusiasmo per il successo di un prodotto segue una scrupolosa attenzione ai bisogni dei consumatori e “la disponibilità a riconsiderare la natura dei prodotti e il loro uso, così come il modo di organizzare al meglio tutto il sistema organizzativo che li progetta, fabbrica e commercializza” (K. Ohmae) (fig. 1).

Pubb-010-01Obiettivo centrale di un’azienda diventa, allora, creare nuovo valore per i clienti incontrando i loro bisogni e non solo migliorando tecnologicamente il prodotto.

Ulteriore scopo di questo articolo è proseguire una sorta di addestramento alla capacità e al coraggio di utilizzare l’A.T. nella diagnosi e prognosi del processo di nascita ed evoluzione dell’organizzazione oltre che come strumento per comprendere e migliorare l’interazione nei gruppi.

 

Lo Stato dell’Io Genitore nell’Organizzazione

Secondo l’Oxford Shorter Dictionary, “l’identità è la qualità o condizione dell’essere sempre lo stesso; l’essenziale e assoluto essere medesimo; l’unicità”. Identità e unicità, dunque, ma, secondo l’A.T., in continuo cambiamento ed evoluzione. Infatti, l’organizzazione, come l’essere umano, evolve in autogenesi lungo il tempo e la sua cultura è l’espressione esterna di una energia interna, è l’espressione di ciò che Edgar Schein chiama assunti di base. Questi rappresentano le risposte che un gruppo ha appreso per sopravvivere nell’ambiente esterno e per superare i problemi di integrazione all’interno.
Secondo lo studioso, i comportamenti delle persone, le norme all’interno dei gruppi di lavoro, i valori dominanti di un’organizzazione, la filosofia che guida la politica aziendale, le regole, l’atmosfera che viene comunicata, riflettono la cultura dell’azienda anche se la somma di tali variabili non corrisponde alla sua essenza.
Tale essenza si ritrova a livello più profondo, quello, come dicevo, degli assunti di base.
La mia ipotesi è che la cultura aziendale si esprima attraverso le regole (G2), le strategie (A2) e l’entusiasmo (B2) anche se queste sono solo rappresentazioni di essa.

Per comprendere la vera sostanza de la personalità aziendale, è utile osservare il modello strutturale di secondo ordine. Considerando, in questo lavoro, soltanto lo Stato dell’Io Genitore, ritroviamo in G3 le ideologie, i simboli, i linguaggi, in A3 le affermazioni intorno alla realtà che in passato erano considerate vere, in B3 i miti, le percezioni del B di figure genitoriali legate al passato dell’organizzazione (fig. 2).

Pubb-010-02Tale analisi del G permette di capire ed esaminare gli assunti di base e cioè “i valori dati per scontati che si trasformano in convinzioni e in idee a cui si fa riferimento automaticamente, come a delle abitudini inconscie” (E. Schein, op. cit.).

Il vantaggio è che tali assunti in A.T. noi sono più entità astratte ma comportamenti chiari e osservabili.
Ritroviamo, inoltre, in questo concetto, la coazione a ripetere, requisito predominante nell’evoluzione del copione aziendale.
L’azienda è correlata all’ambiente in cui si evolve e da questo trae spunti per autoriconoscersi come «azienda Alfa» e come «altra da Beta». Essa si adatta all’ambiente che risponde al suo bisogno di attaccamento, bisogno che è alla base del costituirsi un’identità.
Il copione per l’organizzazione è, dunque, un adattamento che si esprime con un comportamento identificatorio.

 

Alcuni esempi

Utilizzando questi concetti di A.T., possiamo illustrare, per intenderci, il caso della Jones Company presentatoci da E. Schein nel suo libro. Jones, immigrante e figlio di piccoli commercianti, aveva costruito una grande catena di supermarket.
Egli vendeva a credito, accettava sempre di cambiare la merce venduta dimostrando di fidarsi dei clienti, insegnava al personale come doveva comportarsi e rimproverava i subordinati che non seguivano le regole e i principi stabiliti, credeva nel valore della competizione interpersonale.
La cultura, ossia la personalità di questa azienda si identificava con il suo fondatore: i miti, le leggende, le storie di questo primo periodo di vita comunicavano ed esprimevano i valori e le convinzioni di Jones; l’organizzazione si evolveva in adattamento e in attaccamento al leader fondatore. Dopo la morte di quest’ultimo l’azienda attraversò un lungo periodo di disordine intellettuale a causa del vuoto creato dalla mancanza di Jones e dal pensionamento di molte altre figure chiave della cultura. Le persone sia esterne che interne non furono in grado di assumere la guida dell’azienda. In definitiva non si trattava in questa azienda di trovare un leader tanto bravo come il fondatore, genitore storico, ma di effettuare un vero e proprio Self Reparenting che garantisse di “salvare” ciò che funzionava della vecchia cultura inserendo nuove variabili, ristrutturando lo Stato dell’Io Genitore.

Man mano che l’azienda si evolve, sviluppa un sistema di valori autonomo, un G autonomo che comprende solo in parte le convinzioni del fondatore ed integra in sè il vissuto del gruppo, la storia e l’esperienza della sua esistenza. Questo processo è visibile, per esempio, dai depliant e dagli opuscoli pubblicati per 1’orientamento dei dipendenti, dal materiale di formazione, dalle video cassette.
All’inizio della vita di un’organizzazione, non si tratta semplicemente di identificazione con l’altro (fondatore, leader…) ma di qualcosa di molto più complesso che parte dal confronto inconsapevole tra le proprie qualità originali e il modello stesso considerato valido.
Confrontando i comportamenti e i vissuti fenomenologici del modello esterno l’organizzazione forma in sé un modello di categorizzazione autoprotettiva e normativa, costituita da cognitività ed emotività. Berne parla del Sistema Esteropsiche, ossia il Genitore.

Schein proponendo un’analisi della cultura aziendale afferma che non si tratta di consolidare modelli di significato già diffusi, ma di distruggere quelli esistenti e sostituirli con i nuovi, “occorre tornare nell’inconscio del profondo aziendale e far ripartire l’azienda da quei valori che le sono propri”. Seguendo l’A.T. la proposta non è tanto quella di eliminare il G dell’azienda perchè essa possa star  bene ma di recuperare altre parti del sé.
In conclusione, il G per l’azienda è funzione destinata a proteggere l’identità, funzione che ha un significato interiore ma che si esprime attraverso un comportamento.

Uscire dal copione, o allargare i limiti, è naturale per l’organizzazione così come per l’essere umano.
Ogni crisi di crescita in azienda mette in crisi la sua identità precedente e la stimola ad aumentarla e ad approfondirla.
Pur aumentando la varietà della sua identità ogni scelta nuova, ogni cambiamento, significa rifiutare alcuni modi di essere.
Se guardiamo i confini degli Stati sulla carta economica, notiamo che, a differenza della carta geografica, questi non sono più ben definiti, si parla di economia intercollegata. Infatti i flussi delle attività finanziarie e industriali rendono un qualsiasi prodotto non più nazionale ma globale.
Per esempio, è difficile definire la nazionalità di un prodotto Sony che possiede impianti in Alabama e invia cassette audio e video in Europa. Il termine «estero» inteso come straniero, estraneo, è ormai obsoleto, il nuovo modello per le aziende è la globalizzazione, il mercato mondiale. La strategia della globalità prevede che le aziende rinuncino a curare solo il proprio orticello, rinuncino a “nascondere” alla concorrenza le nuove tecnologie, pur conservando lo spirito di appartenenza e attaccamento alla casa madre.
In fondo accettare di essere se stessa in modo più ampio, globale, appunto, significa scegliere qualcosa e lasciar perdere qualcos’altro.
Lo scopo è dare il permesso all’azienda di superare se stessa, di smettere di adattarsi ad un percorso noto, non di perderlo ma di mantenere le parti positive, utili di esso.
Spesso, nell’organizzazione si enfatizza, si dà spazio all’aspetto in cui essa si è riconosciuta.
Quando in azienda si scopre un tasto giusto non lo si molla più e si ha l’impressione che il tasto opposto sia molto pericoloso. “Vado bene solo se…” significa essere sulla scala della sopravvivenza e questo è limitante. L’idea sana e nuova che permette in azienda di affrontare ogni situazione è che si può essere e fare questo e anche l’opposto, utilizzando i tasti bianchi e neri.
E’ sicuramente un rischio esistenziale, si può cadere nel caos e non sapere più chi si è. Per questo l’azienda non può arrivare a ridecidere se non ha mutato il Genitore. Ed è da questa nuova figura che si ha la forza di cambiare strategie, di scegliere nuove strade, di attaccare, forse, il Genitore precedente. L’Adulto e il Bambino colgono con l’intuito e la conoscenza probabilistica le scelte che adesso vanno bene e le provano.

 

Il Pianoforte a coda

Ho parlato nel paragrafo precedente di tasti bianchi e neri e questi mi hanno suggerito l’immagine di grandi e neri pianoforti a coda…
Yamaha è una fabbrica di pianoforti tentata di abbandonare questo settore, giacché la gente non ha tempo, passione o soldi per acquistare questo prodotto.
Migliorare la qualità dei pianoforti non servirebbe ad aumentare le vendite. Tra l’altro, la concorrenza coreana offre costi più bassi.
Alla Yamaha si è riusciti a sviluppare una combinazione di sofisticata tecnologia digitale e ottica per registrare e riprodurre ogni suono impiegando lo stesso tipo di floppy-disk da tre pollici e mezzo che si usa sui PC. In pratica significa poter registrare dal vivo i concerti dei pianisti più famosi, oppure, per chi suona il flauto, poter invitare qualcuno che lo accompagni al pianoforte e registrarne l’esecuzione e, in assenza del pianista, poter suonare il pezzo con l’accompagnamento del pianoforte.
K. Ohmae commenta: “Yamaha non ha seguito le vie consuete, non si è buttata a capofitto per tagliare i costi, moltiplicare i modelli, ridurre le spese generali. Ha guardato con occhi nuovi alla possibilità di creare valore per i milioni di pianoforti che già erano sul mercato”; ha deciso, cioè, di utilizzare i tasti bianchi e quelli neri.
Le vendite sono aumentate ma, ciò che più conta, l’azienda ha ampliato la sua identità, il suo copione.
Come la Yamaha, altre organizzazioni hanno bisogno di un Self Reparenting; questo non significa buttar via il vecchio G ma integrarlo con le novità. Assumere un nuovo G non è soltanto effettuare rivoluzioni o cambiamenti radicali giacché si può tornare ad utilizzare gli stessi schemi, le stesse regole del vecchio G ma dopo averlo affrontato.
I vecchi leaders nello Stato dell’Io Genitore, provenendo da figure storiche, non possono essere aggiornati o eliminati ma, attraverso il proceso di S.R., lo Stato dell’Io può essere ristrutturato.
E’ necessario che i manager capiscano la necessità di tali processi. Essi tendono ad abituarsi allo status quo, a stabilire nuove ortodossie ostacolando il processo naturale di crescita dell’azienda.
Self Reparenting significa ristrutturare e questo è possibile quando non c’è contaminazione, quando esiste una buona funzione dell’A.
La diagnosi degli Stati dell’Io è legata al riconoscimento, alla consapevolezza del soggetto, in tal caso, dell’azienda. Se l’organizzazione si rifà il G, si ridà le leggi, la filosofia, la mission: in tal modo può proteggersi e continuare a crescere.
Nel caso in cui essa decida di agire dal B, per esempio, guidata solo dall’entusiasmo per i corsi di formazione o per i prodotti di moda, non avrà successo duraturo, giacché il vecchio G è in agguato ed è ancora potente.
E’ importante per il terapeuta culturale evidenziare l’A dell’organizzazione, prima di proporre interventi. E’ sicuramente un lavoro faticoso e delicato, forse il consulente perderà la sua magia, dovrà lavorare sul suo controtransfert prima ancora che sul transfert dell’azienda.
Il rischio è di proporre ottimi corsi formazione, anche utilizzando l’A.T., ma non di formare l’azienda proponendo la Analisi Transazionale d.o.c..
Bisogna capire il senso di un intervento di formazione nel contesto del cammino di un’azienda. Non è importante che l’azienda risolva il problema per cui il consulente è stato chiamato ma che, prima di tutto, si rifaccia il Genitore.
Certo, non si può ignorare il problema che l’organizzazione presenta anche se 1’analista della cultura percepisce il problema esistente sotto una determinata richiesta: bisogna seguire l’uno e l’altro.
Senza questa analisi, il corso di formazione è una nuova maschera, i comportamenti assunti sono solo adattamenti con cui il B dell’azienda compiace all’interno e all’esterno.

 

Ipotesi di Intervento

Utilizzando la tecnica del Reparenting di J.L. Schiff, il terapeuta aziendale si impegna per contratto a divenire il G sostituitivo e dà all’organizzazione nuove positive opzioni che rimpiazzano i messaggi restrittivi ricevuti dagli effettivi genitori storici.
Questo procedimento può creare una simbiosi fra operatore esterno ed organizzazione e può essere utilizzato purché il consulente ne sia consapevole e sappia che su quella simbiosi dovrà in seguito lavorare per romperla.

Il Self Reparenting è da intendersi:
a) come un processo evolutivo autonomo e fisiologico;
b) come adattamento e apprendimento in rapporto all’ambiente e al sè;
c) come processo terapeutico, nel senso che il cambiamento, pur essendo determinato naturalmente dal gruppo, è anche il risultato dell’interazione e dell’attività delle persone interne ed esterne ad esso.

Per Muriel James l’applicazione del S.R. prevede sette tappe fondamentali.
Nelle aziende, lavorando con i dipendenti a vari livelli, rimangono i principi anche se mutano le metodologie.
Innanzitutto è necessaria nell’organizzazione la consapevolezza della necessità di un nuovo G che si integrerà con il vecchio.
Sintetizzo in una serie di domande le informazioni che il consulente dovrà raccogliere utilizzando la metodologia che riterrà più adeguata.
– Com’è l’azienda ideale?
– Come sono i dirigenti ideali?
– Come sarebbe diversa l’azienda se avesse avuto leaders ideali?
– Come si può procedere all’inserimento di questi nuovi leaders, cioè, alla costruzione di questi nuovi genitori?
– In che cosa si vorrebbe che l’azienda migliorasse?
– Cosa è necessario fare perché questo avvenga?
– Quali sono i risultati positivi della vecchia leadership?
– Quali quelli negativi?
– Quali sono le caratteristiche del fondatore che non sono più adeguate?
– Quali quelle che oggi sono ancora utili?

 

A questo punto, è importante aiutare l’organizzazione a fare una diagnosi comportamentale, sociale, storica e fenomenologica del proprio Stato dell’Io G. Per le prime tre si può utilizzare l’egogramma di Dusay che sarà compilato da vari gruppi di lavoro che non dovranno, comunque, trascrivere il proprio egogramma ma quello dell’azienda. Il rischio per l’esperto è che, un po’ per caso e un po’ per zelo, si ritrovi a proporre diagnosi non richieste ai dipendenti, dimenticando che il solo e vero cliente è l’organizzazione.
La diagnosi fenomenologica consiste in terapia nell’aiutare il paziente a ritornare ad una scena infantile. Nell’azienda si può chiedere ai dipendenti di descrivere o disegnare l’organizzazione a un anno o a cinque anni di vita, così come l’hanno vissuta.
Con l’immaginazione si possono far sedere di fronte ai partecipanti il fondatore o altre figure genitoriali e invitarli a ritornare a quella scena e dire ciò che non poterono in quella occasione.
Bisogna tener conto, come già sottolineato, che non si tratta di un lavoro sui sentimenti dei dipendenti o sulle loro relazioni con i dirigenti. Non è proponibile, ad esempio: “Di al tuo capo quanto sei arrabbiato perché  non ti aumenta lo stipendio” ma, piuttosto: “Ritorna in quella riunione quando si decisero certe strategie, determinate metodologie ed obiettivi e ripensa, riformula, dando all’azienda nuove opzioni”. Oppure: “Cosa faresti oggi rispetto a quella scelta di campagna pubblicitaria…”.
Un’ulteriore tappa è proporre gruppi di lavoro per informarsi sul significato, sull’evoluzione e sui vari stili della leadership: ipercritica, iperprotettiva, incoerente, contraddittoria, ecc.
Si analizza, in sintesi, la funzione genitoriale all’interno di un’azienda: come è cambiato il ruolo del leader, cosa significa oggi essere un capo, a cosa serve, quali sono i suoi obiettivi e le sue funzioni.
Altro momento importante è scoprire i bisogni del B dell’azienda, le aspettative, le magie. Sono efficaci, a tal proposito, studi e ricerche sui miti, sulle metafore, sulle formule magiche esistenti in azienda.
Si passa, in seguito, alla valutazione dei dati.
Con uno o più incontri si considerano e si valutano le informazioni ricevute dall’A, le aspettative del B e le richieste o le critiche del vecchio G.
Solo adesso si definiscono i contratti discutendo e stabilendo progetti per eventuali corsi di formazione che, a questo punto, saranno mirati, adeguati e chiari.
Infine il consulente assiste l’azienda durante il processo di cristallizzazione del G.
E’ la fase in cui essa è consapevole di utilizzare l’Adulto, il Genitore e il Bambino ed è pronta a fare a meno della consulenza: è il cambiamento che Berne chiamava autonomia; in azienda si parla di Qualità Totale.
Il lavoro durante le fasi presentate va personalizzato e ri-inventato ogni volta a secondo dell’ambiente aziendale in cui ci si trova ad operare; si possono, infatti, utilizzare questionari, interviste, gruppi di lavoro, colloqui per agevolare il flusso di informazioni fra i dipendenti e il o i consulenti esterni.
Non utilizzo il Self Reparenting all’inizio dell’analisi, ma quando l’organizzazione è meno contaminata ed ha una buona funzione dell’Adulto. In genera il problema che mi viene presentato è nel Bambino Adattato dell’ azienda. Di conseguenza il mio primo obiettivo è fare modo che l’A sia informato.
L’organizzazione contaminata affronta i problemi con molti pregiudizi e cerca di mantenere una tradizione che ormai è superata. Lavorare utilizzando il Self  Reparenting non significa ignorare il Bambino ma offrire un nuovo G che promuove e approva la crescita in modo che il B dell’organizzazione che prende una nuova decisione abbia due forti alleati, il G e 1’A, a favore dei cambiamenti.
Credo che il compito dell’esperto di lavorare con i dipendenti dell’azienda per renderli consapevoli delle proprie scelte, non di risolvere i problemi ma di offrire loro una chiave di lettura perchè possano autonomamente riscoprire le soluzioni che esistono già all’interno dell’ organizzazione.

 

Conclusioni

Gli sviluppi e gli effetti del processo di Self Reparenting nell’organizzazione sono notevoli. Alcune trasformazioni riguardano l’idea di nazionalità che si evolve in quella di globalizzazione e la convinzione nell’ideologia che viene sostituita da criteri di utilità.
Nella nuova azienda le energie non sono più rivolte contro la concorrenza ma per ricercare nuovo valore per il cliente.
Piuttosto che abbandonare un settore considerato morto, in questa nuova ottica, si ri-penserà il prodotto.
I criteri di autorità sono sostituiti dai canali di comunicazione incrociati.
Viene, infine, a determinarsi un’etica collettiva e non più solo una somma di morali individuali.

 

Bibliografia

DAGOSTINO L., “Cultura d’azienda e leadership: una lettura secondo l’A.T.”, Atti del Congresso Italiano di A. T., 1991.

LEVITT T., “Pensare il management”, Il Sole 24 Ore, 1991.

JAMES M., “Self Reparenting: theory and procedures”, T.A. Journ, IV, 3, 1974 (“Self- Reparenting: teoria e procedimento”, Riv. It. di A. T. e Metod. Psicoter. III, 4, 1983.

OHMAE K., “Il mondo senza confini”, Il Sole 24 Ore, 1991.

SCHEIN E., Sviluppo organizzativo e metodo clinico, Guerini e Ass., 1989.

SCHEIN E., Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Ass., 1990.

Metodologie della Comunità di Ricerca

Credo che con le parole si possa fare l’esperienza di una mutazione spirituale. La letteratura è questo, o non è nulla. Per me non è intrattenimento, non è evasione; io non leggo per distrarmi, ma per concentrarmi. E quando si legge come leggo io, allora davvero la pelle muta, gli organi della percezione si trasformano, la coscienza muore e rinasce. Dalle parole che leggo io mi lascio coinvolgere, assorbire, sono passivo e poi attivo, prima nuoto, poi annego… Tu mi vedi da anni abbarbicato qui come un lichene, ma io leggendo mi avventuro nell’ignoto. Io mi muovo in verticale, mi ritrovo in mondi in cui mi sento un immigrato, un clandestino, un sentatetto. Quando leggo, io non sono io, divento un altro che non conosco, e lascio a questo straniero dentro di me la libertà di esistere. E la stessa cosa mi accade quando provo a scrivere.

Nadia Fusini, p.148-149

Le riflessioni che scelgo di condividere originano da conversazioni e comunioni di conoscenze intercorse saltuariamente. Il piacere dello studio e della osservazione fra la biologa, la consulente in economie, la poeta, la psicologa, il filosofo, l’esperto di marketing, l’imprenditore, ecc.. diventano scrittura ed esperimento di una modalità nuova di stare in relazione. Ci avviamo ad abitare territori ampi e trasversali, partendo dal racconto di noi stesse/i, condividendo letture e desideri, comunicando pensieri in presenza l’uno dell’altra.

Solo un progetto in comune, uno sguardo condiviso lungo e complesso, offre le ragioni per una relazione, ne chiarisce le modalità, fa del tempo trascorso assieme uno spazio di numerose libertà. Registriamo fra noi alleanze che ci consentono di riconoscere i semi fertili di una comunità di ricerca. Inauguriamo indagini e armoniosi incroci che prevedono un moto impertinente e continuo di curiosità, un interesse nell’utilizzo assieme della chiacchiera filosofica e della letteratura come pedagogia.

I gruppi di lavoro vanno a finire male. Ho partecipato ad associazioni, imprese, partiti, parrocchie, scuole: non sono capace di rimanere.

L’idea, oggi, è cambiare la categoria buono/brutto; bene/male riferita ad un gruppo di lavoro a favore della dimensione comunitaria come orientamento del sé, come vissuto interiorizzato ed armonico. Sì da creare l’aerea e fugace, ma logica e determinante, imago dello stormo che si muta e crea un organismo vivo e fecondo.

Di conseguenza, io registro il dato di realtà che l’appartenenza ad un gruppo per me finora non è stata mai duratura. Eppure registro, anche, paradossalmente, che mai un pensiero, una decisione o un’azione da parte mia non abbiano tenuto in  considerazione gli altri, vicini o lontani che fossero. Quando penso, immagino, scelgo, decido, non è mai con un io solitario, prescindendo dall’appartenenza, ma con un io che è storia delle relazioni, storia degli altri e delle altre che non nomino, ma che fanno parte della mia vita, pur assenti, in molti casi.

Non scelgo le persone del  gruppo: probabilmente se potessi non sceglierei proprio quelle e magari non sceglierei nessuno, ma la mia realtà umana è con quelle persone. Costoro fanno parte della mia vita anche senza la mia consapevolezza o il mio disinteresse o fastidio. Sono fatta dalla carne della mia comunità. Tanto vale esercitarla, la Comunità.

Riferimenti bibliografici:

  1. M.T.Cassini,A.Castellari, La pratica letteraria, 2007
  2. Andrea Libero Carbone, Filosofia della chiacchiera, Castelvecchi, 2009
  3. Francesca Duranti, Manuale di conversazione, Maria Pacini Fazzi ed., 2009
  4. Paolo Dordoni, Il dialogo socratico, Apogeo, 2009
  5. Nadia Fusini, La figlia del sole, Mondadori, 2012
totomiseria15

Psicologia del web

totomiseria15

Ritengo fondamentale che ogni attività commerciale, ogni professionista abbia la sua finestra sul web. Mi convince la formula del corporate magazine, cioè, una rivista aziendale che rimanda a immagini e a scritture, anche minime, di contenuti e di qualità.

Obiettivo è: mantenere con i clienti esterni relazioni possibili, avviare storie, costruire un network, una rete di persone intorno all’impresa. Gli esperti del settore parlano di content marketing.

Dopo l’analisi da parte dello psicologo aziendale, risultano adeguati e congruenti le immagini, i contenuti, i modelli, le forme del web, i linguaggi. Ogni luogo, anche virtuale, assomiglia alla persona che ne conserva la titolarietà e, un po’ per volta, anche ai suoi ospiti. Tutti partecipano alla creazione di quella che il dialetto barese riconosce come l’aria della masseria, cioè, gli odori, gli umori, i sapori, i colori, i suoni, le forme che, caratterizzando un posto, ne creano la cultura, il carattere materno. Infatti, c’è un carattere di ogni azienda/professione da riscoprire e che diviene cultura da trasmettere.

Il sito, il blog, la pagina facebook sono case virtuali e creano situazioni dove accogliere potenziali clienti e clienti fidelizzati per offrire consulenza rispetto ad un prodotto/servizio. E’ possibile ripensare la fedeltà ad un brand, ad un servizio, con l’appartenenza ad una gruppalità che condivide modi di intendere la vita, i gusti,  i desideri, i godimenti rispetto all’oggetto o al servizio offerto. La fidelizzazione non prevede più l’omologazione come un must, l’abitudine obsoleta, l’adattamento alla massa, ma la responsabilità condivisa, l’interesse e il vantaggio alla pari di chi propone e di chi acquista.

Il copiaeincolla demenziale e il mipiace superficiale vengono sostituiti dalla scelta pensata e individuante. Condivido non una frase di un autore, citando a caso, senza il contesto, ma il pensiero, le azioni compiute.

Un esempio. Considero Un uomo, il romanzo per antonomasia nel mio percorso di lettrice donna. Però, scelgo di non citare Oriana Fallaci, copiando frasi fuori dal contesto narrativo, non condividendo la visione esistenziale complessiva, la Weltanschauung dell’autrice. E’ il tempo di governare le citazioni senza abusare dei testi. L’importante non è citare, ma elaborare e metabolizzare un pensiero usando come strumento e non come fine, la citazione.

La vendita si trasforma in processo di consulenza e non è più un’azione coatta per la sopravvivenza dell’attività commerciale. Il cliente è informato, coinvolto, incuriosito e accompagnato a capire di più. Il nuovo processo di vendita non propone di mollare qualcosa a qualcuno nel più breve tempo possibile, con modi più o meno seduttivi, ma propone di incontrare persone offrendo una consulenza gentile, appassionata e competente, entrando in una relazione che ciascuno sceglie con libertà e autorità.

Quotidianamente o settimanalmente, attraverso la pagina web, si propone agli interlocutori uno scambio, una circolarità di informazioni, una novità, una conoscenza, onde coinvolgerli in una storia da scrivere insieme.

Il sito non è una trovata, una triste protesi, ma diviene strumento del sapere e di una cultura lievitante in un gruppo sempre più allargato.

Editing: Enza Chirico

marthia

Versi e camminamenti. Coscienza e conoscenza di sé attraverso la poesia

Premessa

Il lavoro proposto si ispira alle ricerche sull’arte poetica e sulla narrativa come cura del sé, attraverso l’espressione e l’azione di testi poetici e letterari.

Il cervello preferisce la poesia: all’Università di Exeter, Adam Zeman con il suo gruppo di lavoro scopre che durante la lettura o l’ascolto di poesia si attivano non solo le aree cerebrali tipiche della lettura, ma anche le stesse che si accendono quando si ascolta la musica e che sono responsabili del classico “brivido lungo la schiena”. La poesia attiva la corteccia cingolata posteriore e il lobo temporale mediale, legate all’introspezione.

Al genere umano è concessa una base poetica della mente la quale propone il suo linguaggio attraverso l’immaginazione.

Condivido il pensiero di Sarah Zuhra Lukanić, poeta croata  della Compagnia delle Poete:  “Probabilmente La Poesia salverà il mondo, ma gli ordinary people non hanno la fortuna dei poeti, bisogna indicar loro la strada. L’educatore alla diversità come ricchezza deve essere per forza un amante della poesia, se è anche un poeta è ancora meglio. Un’anima poetica sarebbe perfetta. Alcuni anni fa, un noto economista americano propose di assumere un artista per salvare l’impresa. Propongo di assumere un poeta educatore per salvare l’educazione”.

  • La Poesia è continuo farsi – poiein – reiterato a “allargato” nel ritmo, Dall’incontro con il teatro, essa stessa nella parola-canto dei rapsodi, poesia è dirsi e darsi maieutico, che ci espone all’altro, cercando, con l’altro il dir(si) in comune, la crepa nella diga, quello spiraglio, unico, preciso, da cui affacciarsi a sé, vedere finalmente balenare emozioni in moto, archetipiche e da sempre appartenenti all’uomo in quanto tale.
  • La Poesia è “procedere per sottrazione”, liberare la parola, quella sola, una, che si faccia, si affacci, che sia. Perché la parola è radice.
  • La parola prima del senso.
  • Il suono dei versi è una cicatrice omessa. È graffio che si mostra. È ustione e memoria di quella stessa ustione a rimandare a sé.
  • La Poesia è l’unica parola detta. È, ancora, il fiato nel corpo. I muscoli, i nervi, il sangue, nella voce. È il mio corpo tutto che si fa verso: “Ogni verbo è prima nei nostri muscoli, che nella nostra lingua”(Lello Voce).
  • La Poesia è, dunque, esperienza, l’esperire tutto umano che si ritrova, che ci ritrova e ci riconduce.

La poesia appare nell’essere. Anzi, come il filosofo afferma “il poetare pensante è, in verità, la topologia dell’essere”. I versi scritti appartengono a chi li ascolta, a chi li interpreta, non muoiono, se detti, perché sono pre-detti. Il poeta, allora, è medium, strumento, di discernimento, di speranza.

Intendo coltivare la speranza come analisi di realtà e capacità di desiderare.

La nebbia del mondo

Non raggiunge la luce dell’essere

Noi sopraggiungiamo troppo tardi per gli dei

E troppo presto per l’essere. Per questo

L’uomo è poesia già cominciata.

L’andare verso una stella, soltanto questo.

Pensare è trovarsi limitati ad un solo pensiero

Che un giorno si arresta nel cielo del mondo,

come una stella.

Martin Heidegger

Le ragioni

Nella poesia non c’è  il fascino delle parole, ma il tormento della struttura e della funzione di una sola parola, quella.  Cerchiamo nella poesia la parola che copre e svela universi, cerchiamo i versi che abbiamo smarrito, i versi che non sappiamo dire.

La poesia vive lasciandosi esistere, abbandonandosi hic et nunc, qui e ora, all’energia originaria, proponendosi come aspirazione senza fine.

La poesia è fino in fondo, è ancora…, è il pensiero che non finisce mai che può essere detto senza morire. Essa esprime l’esperienza con l’altro/a come atopia, non classificato, senza posto, senza discorso. L’altro/a, dopo essere diventato/a esistenza, diviene essenza. La poesia è il pensiero primordiale, un istinto primario, rappresenta ciò che possiamo chiamare l’anima pensante.

La poesia non è se non nel rendersi nota, esiste solo nell’evento dell’ascoltazione.

Dal punto, alla forma, all’immagine, dall’idea riconosciuta e mai conosciuta prima, alla forma reale, all’immagine storica. È l’impensabile che da sé diviene pensabile.

Le nuvole nel mare prendono origine da se stesse, sono ora ciò che non sono ancora mai state. Non resta che mettersi a servizio della poesia incondizionatamente. La poesia come forma di esperienza dell’originario depositata nella memoria. Il termine greco è mnemosyne, diverso da anamnesis che esprime il ricorso storico, il ricordo di ciò che è stato costruito.

“Soltanto la poesia – l’ho imparato terribilmente, lo so – la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato dalla propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento” (Giuseppe Ungaretti)

Attraverso la lettura della poesia si può generare se stessi nell’origine accudendo il vuoto dell’esperienza.

Ideale e reale, pubblico e privato, mistica e storia, Artemide celeste e Artemide terrestre: è questa la fatica e la bellezza della ricerca poetica. Ecco, in fondo, la poesia è niente, fatta di niente, a niente è dovuta, non serve a niente. L’incontro con il nulla non può essere progettato e inseguito, deve essere donato. La poesia è pura esistenza, è il Niente consapevole e sano, è l’oscurità che ha in sé la luce. Al contrario la nientificazione di Narciso è il non senso, il vuoto senza speranze, opaco.

L’obiettivo previsto è il passaggio dalla personalità autocentrica ad una personalità libera e autocentrata.

I camminamenti di poesia diventano tecniche di relazione attraverso numerose applicazioni:

  • la gestione del vuoto
  • il verso spezzato
  • la metrica interna che varia secondo l’animo e l’estro
  • la cancellazione di tutte le parole per arrivare alla scelta di quella parola
  • la fine del verso e l’inizio
  • la storia
  • il punto, la linea, l’immagine
  • l’ascoltazione come musica, gradualità di toni
  • la crisi del verso, la distruzione del verso per ricomporlo
  • la parola nuda, sola, essenziale, assoluta, intensa, incognita, scarna

 La Creazione, la Recitazione, l’Interpretazione e il Cambiamento sono i momenti che attraversano il gruppo di lavoro. Riconosco e utilizzo la poesia come strumento di ricerca, il suono come richiamo primordiale,  i versi come desiderio per avviare  l’indagine del profondo, la voce come guida per riconoscermi, il ritmo per scoprire le corporeità complesse verso linguaggi di comunità.

 “Lascia avvenire la bellezza. Tu, falla accadere. Tienila stretta tra i tuoi palmi, se ti bussa. Lascia la riva, rischia il mare aperto. Lascia avvenire la bellezza se ti invita. Perdono te. Perdono me finché è per tempo. Tu non sprecare un’altra goccia del tuo slancio. Sii cassa armonica, ora, amplifica il tuo passo, il corpo tutto che fa arco alle parole. Apriti e abbraccia, presta un varco perché accada. Scocca un tuo bacio, fatti fiore sulla bocca. Fiorisce e torna, la bellezza, che è sopita. Falla avvenire, che redima, che ci insegni. Lascia avvenire te, poi me, fammi avvenire: per tutto quello che verrà, ti benedico.” 

marthia carrozzo

Riferimenti bibliografici

  • Marthia Carrozzo, Di bellezza non si pecca eppure – Trilogia di idrusa,(con Pref. di Lello Voce),Ed. Kurumuny
  • Sara Stulle, La poesia è musica per la mente, in Mente e Cervello, N.108, dic.2013, p.23
  • Sarah Zuhra Lukanić, Solo la poesia potrà salvarci, in Lettera Internazionale, N.117, dic.2013, pp.36-37
  • H.M.Enzensberger,A.Berardinelli, Che noia la poesia, Einaudi, 2006
  • Mario Luzi, Vero e verso, Garzanti, 2002
  • Carotenuto A., Oltre la terapia psicologica, Bompiani, 2004

 

Ogni scritto divulgato può essere riprodotto liberamente. Non ci sono, in questo caso, diritti di autore. Il testo ha lo scopo di far conoscere il mio pensiero. Chi utilizza anche parzialmente il testo ha il dovere morale di citare la fonte, le autrici, il titolo.

 

 

 marthia      Marthia Carrozzo è poetessa e attrice.

 Nel 2004 collabora al Laboratorio sul Potere della Parola con Giovanni Lindo Ferretti;

Del 2007, la sua prima raccolta poetica, Utero di Luna (Besa), con prefazione di Alda Merini, che sin da subito, la segue nei suoi esordi poetici: «Qui le premesse sono eccellenti e ci aspettiamo che fiorisca la grande poesia».

Il passo successivo, Pelle alla Pelle, dimore di mare e solo sensi (LietoColle, 2009).

L’incontro con il teatro diviene in lei input per una ricerca poetica personale e incentrata sulla parola, sul ritmo, sulla necessità di dare corpo e respiro al verso da ripensare nella voce.

Continua ad approfondire le potenzialità della voce, formandosi all’Accademia del Doppiaggio, dove studia con Roberto Pedicini e Christian Iansante.

Scelta a rappresentare la Puglia per la poesia alla Biennale dei giovani artisti d’Europa e del Mediterraneo, Bjcem Skopje 2009.

Il suo ultimo ritratto in versi, “Di bellezza non si pecca eppure  – trilogia di Idruda” (kurumunny, 2012) , vanta la prefazione di Lello Voce.

Vincitrice della 19^ edizione del Premio Nazionale di Poesia Inedita “Ossi di Seppia” ( Arma di Taggia, 27 gennaio 2013)

Il 20 aprile 2013, è stata affidata a lei l’apertura del “Next – La Repubblica delle Idee” a Bari, Teatro Petruzzelli.

Dalla squadra allo stormo

Dalla squadra allo stormo: lettura ed evoluzione delle

dinamiche gruppali.

Tra partenza e ritorno

 

Siamo liberi di andare dove ci aggrada e di essere quelli che siamo
R.Bach,p.87

A  Michele,
che non ha mai amato questa ricerca ma, non amandola, l’ha capita benissimo

L’inizio: il brano che ispira

Non mi ero sbagliato. Sta succedendo qualcosa di enorme nel cielo, dentro quei piccoli cervelli di pochi grammi che attraversano lo spazio come frecce, in tutto quel brulicare di ali che scompigliano l’atmosfera. Le rondini si stanno preparando a migrare. In apparenza continuano a fare la loro solita vita. Volano all’impazzata, come sempre, lanciando grida. Solcano il cielo a becco spalancato per inghiottire badilate di insetti. Sbucano come sempre dai loro mille nidi invisibili, aerei, nelle grondaie arrugginite e bucate, nei fori tra le pietre e sui tetti sfondati di questo borgo fuori dal mondo di cui hanno preso possesso. Piombano a volo radente, come sempre, sul filo d’acqua delle vasche, rischiando di sfracellarsi sui loro spigoli di pietra, le rondini adulte e quelle altre nate da poco che stanno imparando i loro primi, piccoli e folli voli. Eppure, eppure… c’è una frenesia nuova, una concitazione nuova, un impazzimento più grande nel loro comportamento. Si incrociano in punti molto alti del cielo, stridono ancora più forte. Chissà che cosa si stanno dicendo? Chissà cosa sta succedendo tra quelle nuvole di corpicini in volo? Qual è la scintilla che ha dato inizio a tutto quanto? Come si creano le prime aggregazioni lassù nello spazio, nei primi voli sempre più gremiti che cominciano a ruotare su questi ruderi deserti che stanno per essere abbandonati, senza che forse neppure loro ancora lo sappiano? Scendono in picchiata sempre più numerose sopra le vasche, come se stessero facendo riserva d’acqua prima del lunghissimo viaggio verso chissà dove, sbucando dal voltone basso e dalla curva della strada come frecce e tuffandosi sul filo dell’acqua a becco spalancato, stridendo, sbattendo sulla sua superficie immobile con la punta delle loro lunghe ali impazzite. Chissà se lo sanno dove andranno? Se almeno qualcuna di loro lo sa e riesce a comunicarlo alle altre, oppure se si inventano il viaggio mentre sono già in viaggio, in quei primi cerchi sterminati pieni di miriadi di cervellini di pochi grammi che attraversano da ogni parte il cielo del mondo, così fitti che non si capisce come fanno a muovere là dentro tutte quelle ali?

Si fermano sempre più numerose sugli spigoli delle vecchie case diroccate, sui bordi dei tetti, su qualche vecchio filo rimasto. Poi si alzano di nuovo in volo. Sembra che stiano riprendendo la vita di tutti i giorni, sembra che niente sia cambiato, che non sia in vista nessuna partenza, che chissà per quale ragione sia stata rimandata, per qualche impercettibile modificazione della temperatura e della composizione dell’aria che solo loro hanno percepito immediatamente, vivendo così in alto, nel cielo. Sembrerebbe ancora presto per partire. È ancora estate. Invece, il giorno dopo, tutto questo incredibile impazzimento riprende. Si riformano nuovi stormi più grandi, ricominciano a volare sfrangiati nel cielo, per attirare a sé le altre rondini ancora isolate. Ma subito dopo si sciolgono di nuovo, in pochi istanti ognuna prende una direzione diversa. Però più in alto, ancora più in alto, si stanno riformando altri stormi. E poi altri ancora. Finché si vedono all’improvviso le prime grandi nuvole sterminate brulicanti di rondini urlanti che si lanciano verso quel folle viaggio di cui non conoscono neanche la meta.

Lo hanno capito prima di tutti gli altri, là in alto, che qualcosa sulla terra è cambiato, che sta succedendo qualcosa di enorme, che l’estate sta finendo, che fra un po’ il cielo e la terra non saranno più gli stessi, comincerà l’autunno, l’inverno.

Antonio Moresco, p.85-86-87

La realtà quotidiana

Si fa presto a dire gruppo: fare gruppo non è affatto garanzia di comunione, di effettiva condivisione prospettica e di cambiamento.

Il gruppo è strumento di comprensione, di valutazione e di azione rispetto ad una realtà.  Sempre più spesso, invece, <fare gruppo>, <entrare in un gruppo>, <parlarne in gruppo> pare sia il fine ultimo di molte persone. Perché?

Si fa presto a dire squadra: organizzare una squadra prevede che si debba combattere/scontrarsi e vincere/perdere contro gli avversari, prevede la convinzione di un <noi>, più forti e belli, e di un <loro> piccoli e brutti. Che senso ha?

Frequentemente il gruppo o la squadra sono la manifestazione di un individualismo allargato a quelli riconosciuti intimi: una forma di covile che si avvita in se stesso a tre, a cinque, a venti e che non prevede l’avvistamento fastidioso di volti diversi. Nega, per questo, il divertimento e il movimento. Di conseguenza, nella mia esperienza di formatrice, all’idea e alla realizzazione del gruppo/squadra, scelgo di approfondire la visione, il metodo e la tecnica dello stormo.

Intendo indagare alcune variabili dello stormo, come  gruppo compatto di uccelli o di insetti in volo in formazione ordinata.

Oltre i giochi psicologici di sopravvivenza

Si fa presto a dire squadra: seguendo la teoria dell’analisi transazionale, i giochi psicologici si manifestano come pratiche relazionali ripetitive e inconsapevoli. Modi rigidi e automatismi per avviare il vecchio disco in ogni occasione e svalutare definitivamente se stessi, gli altri, la vita. L’uscita copionale attraverso uno o più giochi diviene una modalità difensiva, un alibi per stare al mondo senz’aria, in asfissia permanente, un restringimento di visuale, un risultato perdente assicurato.

Nella modalità <a squadra>, nella quale si vince o si perde, è più facile ritrovarsi come in un luogo privilegiato per confermare vecchie credenze, rinforzare pregiudizi e riproporre sistemi di svalutazione.

Generalmente in un gruppo e in una squadra valgono le regole del potere.

Vince qualcuno a scapito di altri. Il vincitore è il primo. Il potere è di chi vince. Si vince o si perde. E’ indispensabile essere i primi per vincere. L’ansia da prestazione è naturale in una gara. C’è sempre bisogno di un leader.

In una squadra che vince bisogna: puntare l’obiettivo, fare deserto intorno a sé, confondere, distanziare l’avversario, mostrargli chi si è per attaccare, per difendersi, controllare e, infine,  conquistare.

Lo stormo, invece, nega il potere a favore dell’autorità, dei legami, della spontaneità naturale e diviene strumento per veicolare visioni di vita e antropologie comunitarie.

L’interesse non solo estetico per lo stormo suggerisce rivelazioni sul comportamento collettivo.

Gli uccelli non hanno alcuna cognizione della struttura globale del gruppo. Adam Smith parla di <mano invisibile> per descrivere il comportamento spontaneo e omogeneo di individui diversi che si coalizzano verso un fine comune. Fra persone che sono in relazione vale, come mano invisibile, la magia della noità, dell’esser noi. Cioè, la certezza che, assieme a quelle persone, abbia un senso parlare, pensare, ridecidere, ché si stanno costruendo ricordi, ché si è parte di una narrazione, ché per gemmazione si produrranno idee e azioni nuove, visioni che riguardano il vivere comune, scelte alle quali da soli non saremmo arrivati, critiche a comportamenti obsoleti incoraggiate dalle presenze affettive. La noità è dono per il gruppo perché questo ha risolto la relazione autoreferenziata, la relazione centrata sul prevalere dell’uno ed è diventata misura della molteplicità e delle intimità scomode e produttive.

Il fisico Giorgio Parisi ipotizza che la coesione sia il risultato di una regola topologica anziché numerica. L’idea è che ogni animale segua i movimenti di sette vicini e applichi i vincoli di distanza, anche se lo stormo è composto da pochi individui. Quindi, il valore cruciale non è tanto la vicinanza o la numerosità del gruppo, quanto la stabilità di un comportamento, che può essere riconosciuto sempre al variare degli altri paramentri.

La disponibilità in un gruppo, la decisione di partecipare, la certezza di non poter fare altro che esserci, non è legata al numero o alla qualità presunta dei presenti, ma è una scommessa sul proprio cambiamento. Il vincolo di distanza dichiara, ad ogni modo, che l’impegno, la tensione del pensare e dell’agire valgono a favore di tutti, a prescindere da chi è più o meno partecipe o presente.

Mores et consuetudines

In uno stormo l’insieme è differente dalla somma delle parti: l’incontro, quando non conferma il copione iniziale,  ci consente di andare diventando proprio all’interno della relazione che si svela. La regola di condotta generale dello stormo è che l’ esemplare di dietro segua quello davanti. Il sistema sembrerebbe estremamente gerarchico. «Eppure le gerarchie sono flessibili e il ruolo di ogni singolo uccello può variare in continuazione» spiega Dora Biro, ricercatrice dell’ università di Oxford. «Questo sistema intercambiabile di leader e subordinati, in cui anche i membri di gerarchia più bassa possono dire la loro e contribuire alle scelte, rappresenta un sistema molto efficiente per prendere le decisioni». Se il gruppo cambia direzione, chi si trovava defilato viene a trovarsi nella posizione di leader.  «Negli stormi molto grandi, che raggruppano fino a 10mila esemplari, qualunque sistema di leadership si dissolve» spiega Andrea Cavagna. Anche la regola del seguire chi si trova di fronte viene meno. Eppure i gruppi di uccelli riescono a dipingere nel cielo forme che mutano da un secondo all’ altro senza mai perdere compattezza, cambiare di posizione rispetto ai compagni o tanto meno scontrarsi. «Ogni storno – spiega il fisico romano – prende come riferimento una manciata di altri esemplari, in genere 6 o 7, non necessariamente vicini a lui. Gli basta muoversi all’ unisono con essi per diventare parte di un corpo unico. Quello che si crea è un sistema di controllo distribuito in cui basta seguire regole semplici per ottenere un movimento collettivo molto complesso». Tracciare un parallelo fra la società degli uomini e degli storni è un obiettivo che va al di là delle intenzioni dei ricercatori.

Ogni individuo può avere un mini ritardo e l’altro aspetta: è la pratica dell’attesa perché l’altro chiarisca a se stesso, ché arrivi con le sue gambe e con la sua testa, ché si muova per interesse, non per adattamento e omologazione. Il tempo non scade, ognuno ha i suoi tempi di apprendimento e il tempo giusto, il kairòs, è quello in cui ogni persona capisce e decide. Allora, l’adattarsi al mutamento di tempo e di direzione è esercizio della libertà personale all’interno di una comunità, in armonia con l’assieme. Ogni soggetto si sposta pur collegato in una sorta di distanza regolata a favore del procedere di tutti. L’attesa dell’altro è riduzione di sé, senza pretesa di ritorno, senza applauso, senza frustrazione, senza ricatto, senza riconoscimento e  ricompensa.

Tenersi d’occhio: vale negli stormi il sapere che l’altro esiste e il vegliare sulla sua presenza, naturaliter.  Dov’è tuo fratello? Sono io il custode di mio fratello, so sempre dov’è.

La presenza è benedizione, dono, grazia, non è solo strategia di produzione. Non esclude la possibilità di ricevere, lo scambio, il do ut des, la circolarità del dare/avere, ma lo integra: tutto è spostato da un livello economico, materiale, a un livello esistenziale, spirituale. Tenersi d’occhio, come darsi voce, è ritrovarsi in una categoria mentale differente: nell’esperire l’esistente essenziale, nudo, primario, reale.

Autorità di ognuno: nello stormo nessuno aspira a essere capo, a prevalere sugli altri. Le persone sono diverse, hanno diverso valore, ma pari dignità. Ognuno esiste per se stesso, nessuno dà all’altro il permesso/diritto ad esistere.

Divenire abili e liberi di abilità significa aver fatto i conti con gli ordini interiori copionali <sii perfetto!> e <spicciati!> L’importante è sapere di esistere nella comunità, non essere i più bravi o i più veloci.

La velocità è eccellenza ed è legata all’armonia, alla bellezza, quindi anche alla lentezza. Sì, una velocità lenta o una lentezza veloce, espressioni di una categoria della musicalità e non dell’efficienza/efficacia, cioè, il massimo, non meglio identificato, nel tempo più breve possibile. Pronto per quando? Ieri: è l’espressione ansiogena del lavoro moderno che ignora il desiderio e il godimento.

Farsi volare in tranquillità e gentilezza: è l’invito degli stormi a essere presenti tutti interi nella comunità che tutto contiene benevolmente, sorvegliando e custodendo come parte di sé l’elemento distonico, l’angolo “scurnuso” delle nostre vite, la parte fragile, sciancata, orgogliosa e dolce che ognuno di noi si porta dentro e che riconosce nell’altro.

La formazione dinamica dello stormo è, anche, la forma concreta dell’inversione di rotta: l’ora di tornare a casa. Chi parte ritrova il senso del viaggio nel pensiero del ritorno. Il ritorno offre lo sguardo globale ed unitario sulle molteplici esperienze. Tornare è l’unione che prevale sulla dispersione, il combaciare con se stessi che dà forma  e ragione alle fatiche e supera la lacerazione di ogni partenza. La nostalgia, in fondo, consente il ritorno, il racconto e il nuovo inizio.

Ah, ogni molo è una nostalgia di pietra
F. Pessoa, Ode marittima

 Ringrazio Rosalba Valenza per avermi fornito informazioni, immagini, spunti di riflessione, pezzi d’anima

 Editing: Enza Chirico

 Riferimenti bibliografici:

  • Antonio Moresco, La lucina, Libellule Mondadori, 2013
  • Simone Gozzano, Com’è stabile il mio stormo, Mente & Cervello, n.90/2012
  • Cavagna, I. Giardina, A. Orlandi et al., The STARFLAG handbook on collective animal behaviour. 2. Three-dimensional analysis, «Animal behaviour», 2008b, 76, 1, pp. 237-48.
  • Italo Calvino, Palomar, Mondadori, 1994
  • R.Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, BUR, 1973
  • Benedetta Cibrario, Lo Scurnuso, Feltrinelli, 2011

 

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