La ricerca della speranza è sempre personale
M.Nussbaum, p.173
La speranza rimane prigioniera sul fondo del vaso che Pandora apre incautamente: dopo il gesto audace di Prometeo, il vaso custodisce i mali con i quali gli dèi decidono di castigare i mortali. È così che siamo, nello stesso tempo, condannati alla speranza e in essa salvati. La speranza è costitutiva dell’essere umano, l’unico fra i viventi a sapere di dover morire. Per scegliere la speranza, paradossalmente, bisogna che affondiamo nella disperazione, che la misuriamo come, per godere della luce, è necessario essere attraversati/e, talvolta con violenza, dalla notte.
In questa riflessione, rimango nella prospettiva psicologica, non varcando la soglia della teologia e della filosofia. È una condizione umana, la speranza, né positiva, neanche negativa, come la passione triste leggendo Spinoza, come il peggiore dei mali, studiando Nietzsche o come la spinta propositiva d’amore, seguendo san Paolo. Le parole costruiscono le modalità con cui decidiamo di stare al mondo, creano i pensieri. La radice indoeuropea –spe significa espansione, tensione al futuro, attesa di un esito felice; psyché in greco è il nome dell’anima, e la ricerca psicologica non può che proporsi speranzosa.
E questa costante tensione, questa crescita sembra essere governata da una delle realtà basilari originali della metafora, l’aria espirata con forza, dunque dallo sp-irito, che forse è questo soltanto: tensione, espansione e crescita costante – come lo sp-azio stesso. Come la sp-eranza. (Ivonne Bordelois, p.123)
Agire la speranza significa offrire una testimonianza onesta della propria storia, al lordo di tutta la disperazione che comporta; è un cammino faticoso da percorrere, non un obiettivo da raggiungere. Non è solo una predisposizione emozionale, è una scelta di comportamento, è un’azione che non consente di rimanere nello status quo. Credo in una abitudine di speranza pratica, non oziosa. La speranza attende di essere liberata con l’opera di autocoscienza, di consapevolezza personale, in una comunità, in un contesto storico. È un progetto di vita, i giapponesi direbbero che è il nostro personale ikigai.
Rileggendo la filosofa Martha Nussbaum, come posso staccare la spina, oggi domenica 7 aprile, ai pensieri oscuri di guerre e decadenza civica, e collegarla alle prospettive di pace, speranza e progresso? Non abbiamo ragioni per sperare, se non partendo dai nostri sentimenti, pensieri e azioni nel quotidiano. La mia speranza è che possiamo sentirci mancanti di speranza, sentirci abbastanza disperati da decidere di trasformare il copione personale che tende a rimanere fisso, ingovernabile, prigioniero delle abitudini.
Ogni giorno misuriamo la disperazione dei fatti anche attraverso i social media che incoraggiano analisi in superficie. Sperare è una gran fatica e si esprime nel pensiero critico che esige l’elaborazione di una posizione complessa, esige una ricerca ampia attraverso le contraddizioni, le opposizioni, le contaminazioni.
Come psicologa, occupandomi di selezione e di valutazione delle persone sono meno attenta, dinanzi a ogni candidato/a, alla variabile “controllo delle tensioni”: significa assicurare in azienda, la continuità e la stabilità a livello di prestazioni in condizioni di stress e di conflitto. Ecco, è possibile apprendere il controllo delle tensioni proponendo percorsi formativi adeguati e sistematici. Invece, mi preoccupo quando rilevo nel/lla candidato/a un mancato orientamento alla speranza, sempre legato a una bassa stabilità emotiva, a una incapacità di adeguare alle situazioni diverse, i giudizi, i sentimenti, i comportamenti.
Gli esseri umani irrisolti, infelici, non manifestano alcuna speranza, se non come condizione naturale del delirio, seguendo le riflessioni del filosofo e saggista rumeno Emil Cioran. In fondo, chi evita il confronto con se stesso e con la realtà fa comodo al dominio. Il condizionamento sociale, le scelte repressive con chi dissente e permissive con i sodali, lo screditamento, la negazione, sono meccanismi efficienti per zittire le persone, per ridurle nell’ordine psicologico Compiaci.
La paura è collegata al desiderio monarchico di controllare gli altri, all’incapacità di fidarsi che rimangano indipendenti e fedeli a sé stessi. Allo stesso modo una persona che rifiuta di sperare nel futuro è probabilmente un tipo accentratore, quella che ho chiamato una persona monarchica: nulla va bene a meno che non collimi perfettamente con i miei desideri, senza aree di incertezza e vulnerabilità. Non c’è nessuna speranza, perché non ho tutto ciò che voglio… lo spirito di speranza, quindi, è implicitamente collegato a uno spirito di rispetto per l’indipendenza degli altri, a una rinuncia all’ambizione monarchica, a una sorta di rilassamento ed espansione del cuore. (M.Nussbaum, p.184)
Il contrario della speranza è la paura che ricatta noi stessi/e e il prossimo; farci carico della paura, nominarla, raccontarla, misurare i fatti, ci riconsegna alla realtà. La speranza è accogliere con fiducia quello che deve accadere perché accada; non credo all’effetto placebo di un aleatorio sguardo sui bicchieri pieni o vuoti. Apprendiamo l’accoglienza, l’arte della resa che non è la rassegnazione. Apprendiamo la consegna al divenire, la lettura diversa e molteplice dei dati, delle situazioni. La speranza è la qualità della vita complessa, vissuta in movimento, in espansione e in profondità, nel luogo e nella comunità in cui siamo.
Riferimenti bibliografici
- Martha C. Nussbaum, La monarchia della paura, il Mulino, 2020
- Ivonne Bordelois, Etimologia delle passioni, Apogeo, 2007
- Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai, Einaudi, 2018