Ph.Fonte Silvia Meo

Il paesaggio del ritorno

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Ph. Fonte Silvia Meo

 

Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. Nel dirlo tracciò, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. Infine fece una corona intorno al centro della ruota, che poteva essere, pensai, la cima innevata del Sumeru… E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? (Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 2016, p.116)

Anch’io ritorno dal giro delle otto montagne. Le trasformazioni inevitabili, i traslochi faticosi, le traduzioni incerte di lingue e di linguaggi segnano i radicamenti e le migrazioni interiori, con tutto il tempo che è servito. Costruiamo l’abitazione per il riposo, per lo studio, per l’incontro, per la preghiera con l’esperienza anche dell’età, e con il lavoro continuo di indagine interiore.

Da due mesi, non esco più dallo studio per tornare a casa, rimango nello stesso ambiente identitario. Non avere luoghi interni ed esterni, personali e lavorativi, mi permette di godermi i disallineamenti, i progetti, le delusioni, il dolore, senza infingimenti, senza soluzioni forzate, senza diluizioni: tutto qui dentro, a contagiarsi. Non posso uscire dallo studio per riprendere fiato altrove, a casa, oppure il contrario, come prima. Rimango nella sindrome di accerchiamento, nella casa-bottega.

Dal 1984 sono entrata e uscita, dallo studio, da casa dei miei, dalla casa con mio marito; i viaggi per lavoro, per vacanza, un movimento continuo per quarant’anni, anzi, quarantacinque, contando gli anni dell’Università a Roma. Di tutte le viandanze è qui che registro la restanza, di salvezza e di alleanza. Sono dove sono sempre tornata. Certo “la potatura necessaria dei rami non deve diventare amputazione del disegno vocazionale” (Luigino Bruni, I colori del cigno, Città Nuova Ed., 2020, p.24)

Il periodo sciagurato del covid evidenziò quanto fossi consumata dai traffici e dalle mancanze, come le mie cartilagini. Come non mai, raggiungo un punto di indistinzione e il mio posto nel mondo coincide con il posto in cui vivo e lavoro. L’inadeguatezza, l’inconcludenza, l’attesa sono le condizioni, la cifra dell’abitare questo luogo. Il successo, il raggiungimento dell’obiettivo non sono gli indicatori del senso e del valore che ha, in ogni caso, l’opera incompiuta, complicata e faticosa. “Camminare nello spirito è chinarsi verso la terra, non ascendere verso il cielo. È diventare più umani, non più divini, più uomini non più angeli” (op.cit.L.Bruni, p.53)

C’è sempre un luogo a rendere possibile i legami d’anima e le guarigioni, un luogo a ridisegnare il confine, inteso come separazione e come protezione ed esperienza dell’altra persona, di là, che è diversa. Giungo alla mia dimora, prossima al mio nucleo esistenziale, sbilenca, sgualcita, determinata e felice. E ha senso sentirmi smarrita in un luogo pur familiare. Mi consegno a questo posto di lama e di ricordi, come una residenza e un rifugio, come un dormitorio e una cella, come un laboratorio, uno studio professionale e uno spazio riservato. Abito la casa dei libri che ad uno ad uno, ogni giorno, mi vengono incontro.

Le parole che ispirano questa riflessione sono dello psichiatra Vittorio Lingiardi, sulla rivista online Snaporaz, pubblicate il 26 marzo 2023: i mindscapes sono luoghi sospesi tra mondo interno e mondo esterno. Sono i luoghi della nostra soggettività: abitano la memoria e lo sguardo, esprimono la nostra connessione con la storia familiare e collettiva, fondano la nostra dimensione estetica. Se landscape è il paesaggio come scena naturale, mindscape è il paesaggio come scena psichica: lo guardiamo perché ci ri-guarda.

Nel romanzo Babilonia, Yesmina Reza scrive una frase…: «Non si può capire chi sono le persone fuori dal paesaggio. Il paesaggio è fondamentale. La vera filiazione sta nel paesaggio. La stanza e la pietra non meno che il taglio del cielo». Per salvare l’ambiente, psichico e naturale, apprendiamo a guardarlo, a raccontarlo, a dipingerlo.

Qualunque racconto parte dall’analisi personale: è il materiale della narrazione, il dialogo continuo fra la realtà, la memoria e l’immaginazione. L’essere umano è onomaturgo, è creatore di parole, è coniatore di parole, dice il linguista Bruno Migliorini, menzionato da Vera Gheno in Grammamanti.

Le percezioni visive che diventano visioni mentali, dialogo genetico-culturale, primo incontro con il volto di chi ci ha guardato. O ha distolto lo sguardo. Ogni viso nasconde un paesaggio e ogni paesaggio è abitato dall’enigma di un viso amato. I filosofi Deleuze e Guattari coniano l’espressione paysage-visage. «Tua madre», ci domandano, «è un paesaggio o un viso?».

Stamattina per tre ore ho scelto di stordirmi con il rumore degli insetti e dei gatti e con il loro odore acre, sgradevole. Nel silenzio dell’alba, la terra è differente e l’acqua intona versi stonati. I luoghi santi hanno pazienza, attendono il tempo dei giri lunghi dell’amore e della comprensione. Durano, i luoghi santi, e trasudano storie e spirito. La cura di sé prevede necessariamente un luogo di comunità antica. L’autocoscienza è un atto, l’atto di devozione verso la vita che matura uno sguardo vigile su di sé e sul contesto.

A certe comprensioni si arriva solo rallentando e arrestando il movimento e la lama è come un corpo vivo fra me e il mondo, a separare ciò che non può più confondersi. Il luogo che rivela i pensieri e i desideri rinnovati attraverso lo scavo interiore, risentendo le presenze che mancano, le presenze sentite nutrendo l’ombra, non attraverso le azioni meccaniche.

E La Comunità di Ricerca  è costituita da chi rimane e passa, anche casualmente, da chi si allontana e poi ritorna, a sperimentare un’idea diversa di società fra i libri, gli agrumi, gli ulivi e l’orto minimo, fra le pezze antiche e i pensieri silenziosi, le conversazioni e le scritture condivise fra dispari.

Convinta che la psicologia e l’architettura hanno una prospettiva ampia in comune, condivido alcuni brani della profonda riflessione di João Nunes, architetto e paesaggista portoghese, dall’articolo Paesaggi, passaggi, pubblicato in Lettera Internazionale, una rivista che non c’è più e che ha contribuito alla mia formazione:

… Il paesaggio ha modificato nel corso degli anni il suo significato fino a tradursi, al giorno d’oggi, nell’insieme delle impronte lasciate sul territorio dalle diverse comunità e dai diversi individui che lo condividono, sovrapponendosi a quelle della genesi fisica del territorio stesso e a quelle corrispondenti alle trasformazioni a cui è estranea la comunità vivente. Si tratta insomma di un insieme di impronte codificato dal sistema di significati; il paesaggio sarà, dunque, il complesso di relazioni a cui tali impronte corrispondono come manifestazioni percettibili della vita: relazioni che si sviluppano tra individui della stessa comunità, tra individui di comunità differenti, tra comunità differenti, collettivamente, e tra tutti loro e il territorio; relazioni che implicano uno sforzo di sopravvivenza, un meccanismo per assicurare la sopravvivenza della comunità, un gesto di protezione delle generazioni precedenti verso quelle successive. Le impronte, in sé, sono banali (corrispondono ai marchi causati da gesti semplici, quotidiani, spesso automatici e involontari); le ragioni che stanno dietro a tali gesti sono altrettanto banali (sopravvivere, vivere, appropriarsi dello spazio, proteggere i figli, calpestare, correre, saltare, accoppiarsi). E tali impronte si imprimono su uno strato precedente fatto di altre impronte di altri individui, della stessa o di altre comunità, o su impronte di erosione, di degradazione materiale del territorio stesso, anch’esse banali, causate da pioggia, vento, sole. Sono impronte elementari, in tutti i sensi, che costituiscono la manifestazione di processi legati ai fatti basilari della vita. Allo stesso tempo, sia a causa della sovrapposizione che si attua nel corso del tempo, sia per la complessa rete di relazioni che si esplicano in un paesaggio considerando tutti gli individui, tutte le comunità, tutte le ragioni, tutti i fenomeni geologici fondamentali della geomorfologia di un luogo e tutti i processi entropici legati ai processi di trasformazione per erosione, per degradazione, per alterazione dell’ordine iniziale di formazione di tali territori, il testo che si va così costruendo si rivela complesso e difficile da decodificare. Ciò significa che il paesaggio dovrebbe essere considerato una rappresentazione complessa dei processi in atto su un territorio e della sintesi storica dei processi passati che può essere descritta oggettivamente attraverso lo studio delle caratteristiche del territorio, delle comunità e delle loro relazioni.

… Possiamo, così, pensare al paesaggio come a un concetto a cui corrisponde non una situazione che è dato riconoscere e percepire, profondamente associata alla percezione visiva – ricordiamo che la definizione corrente del dizionario per il termine “paesaggio” è: “parte di spazio che la vista abbraccia con uno sguardo” –, quanto piuttosto a una situazione associata a un funzionamento di cui percepiamo l’unica manifestazione in grado di farci capire ciò che accade quando si interferisce con quel funzionamento. Il concetto di paesaggio, in quanto direttamente associato alle impronte di ciascun momento, di ogni generazione e di ogni cultura che si sovrappongono nello stesso luogo, è profondamente legato alla trasformazione. Il paesaggio è qualcosa in continua evoluzione ed è funzionale alle convinzioni che in ogni momento portano a gesti diversi a cui corrispondono impronte diverse per la soluzione di problemi di sopravvivenza delle comunità, diversi in ogni momento.

 … trasmettere paesaggi vuol dire anche responsabilità nel suscitare presso il potere, democraticamente istituito o meno, i modelli e i valori fondamentali per una costruzione del paesaggio equilibrata e valida per le popolazioni. Così, “comunicare paesaggio” si trasforma necessariamente e implicitamente in uno strumento di costruzione del paesaggio, dal momento che “comunicare paesaggio” costruisce la possibilità di sostituire lo stato di coesione culturale di altri tempi, ma permette anche di spiegare la portata e la perfezione di alcuni processi di costruzione del paesaggio di epoche passate che costituiscono oggi punti di riferimento universali. D’altra parte, trasmettere paesaggio in modo completo e profondo, anziché attraverso la ripetizione di modelli di comunicazione superficiali e mediocri, potrà essere un modo di divulgare e discutere modelli di trasformazione includendo la dimensione economica della trasformazione, suscitando nelle persone a cui arriva la comunicazione la coscienza dei processi che stanno dietro la formattazione delle piattaforme fisiche necessarie allo svolgimento delle loro vite, e ancora permettendo loro di venire a conoscenza sia dei processi che, in passato, hanno finito con l’essere responsabili del mondo così come oggi lo vediamo, sia delle logiche di trasformazione inerenti alle opzioni di vita e alle decisioni che, prese oggi, prefigurano gli scenari del futuro. Perché, infine, trasmettere paesaggi è anche un’altra cosa: è creare le condizioni di costruzione dei paesaggi del futuro, dei paesaggi in cui i nostri figli e nipoti vivranno, è trasmettere loro, fisicamente, i paesaggi che abbiamo saputo creare.

 

 

 

Cristallizzazione

Un periodo di Cristallizzazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

La Cristallizzazione è l’ottava operazione segnalata da Eric Berne, analista transazionale di riferimento. In questa nuova fase di vita, pienamente nello Sato dell’Io Adulto, dopo l‘Interpretazione che ha definito l’ipotesi di origine copio­nale di certi comportamenti, riconosco nella mappa nuove opzioni e prendo la decisione di cambiare ancora, continuando a darmi nuovi permessi che riguardano il tempo lento e lo spazio differente. Insomma, come Berne scrive, posso usare la rinnovata licenza di pesca.

Vivo sulla carne le contraddizioni studiando e nutrendo le relazioni possibili, simmetriche e dispari. Dico che educare Alla persona, si può. Nei luoghi di lavoro, credo nel Governo Umano delle Risorse ripensando, nell’idea fondamentale e nelle metodologie, la funzione della Gestione Risorse Umane comunemente nominata.

Fondare nuove cittadinanze, si può. Non seguendo la logica buonista e caritatevole che butta l’osso al cane per non pensarci più. Come psicologa intervengo in azienda per svelare e risolvere l’ordine patriarcale che si dà per scontato, voluto dalla natura o da un dio. Non metto a tacere l’indignazione e non ignoro il significato oppositivo del malessere nei confronti di una sottocultura politica ingiusta e vessatoria per tutte le persone.

Considero nocivo il metodo manageriale quando pretende di trasformare le piccole e medie aziende, anche quelle di servizi, e le botteghe artigiane, con la mentalità da multinazionale, con un orientamento basato sul profitto e sulla carriera competitiva e verticale.

L’economia è anche economia della cura, è governo dell’ambiente domestico e aziendale. Intendo il mondo, quindi, come casa, senza dichiarare guerra per ribaltare i rapporti di potere, trasformandoli, invece, in relazione di éros, di energia circolare.

Ho capito di non potere entrare nel gioco psicologico dell’altro e romperlo dal di dentro: rimango invischiata e ferita a morte. Il gioco del vecchio, pur giovane di età, patriarca capitalista, femmina o maschio, è al rialzo, è immorale e illegale; è un gioco che aumenta l’ingiustizia sociale attraverso comunicazioni disoneste e manipolative.

Negli ultimi anni il concetto di intersezionalità si è ampiamente diffuso nel dibattito accademico e politico. La teoria femminista della intersezionalità si basa sul termine coniato dalla studiosa nera Kimberlé Crenshaw nel 1989 e sviluppata negli anni Novanta da Patricia Hill Collins e bell hooks. Esiste una correlazione fra i vari sistemi di privilegio e oppressione fra cui il sessismo, il razzismo, il classismo, l’omofobia e l’abilismo. La prospettiva intersezionale tiene conto delle interconnessioni che ci sono tra i divari sociali e i fenomeni sociali complessi a cui si riferiscono, chiamati in modi diversi: interrelazioni delle oppressioni, divari sociali multipli, determinazione reciproca, ibridazioni, oppressioni multiple, molteplicità.

Qualunque programma di consulenza e di formazione è radicale e coinvolge ogni persona, trasmettendo le visioni di pensiero intorno all’umano, prima ancora delle strutture e delle tecniche aziendali. Non c’è rivoluzione che tenga, sciopero che funzioni, parità che accontenti, quote rosa che coprano le ombre e non c’è merito valutato con le piramidi e le scale gerarchiche. Il riconoscimento di ogni persona in sé stessa non è scontato e niente garantisce la libertà di pensiero o l’ampliamento della riflessione.

Senza modificare il sistema di pensiero, le categorie mentali, le visioni di vita e di mondo, la distribuzione di cariche e di ruoli rivela sempre un gioco di potere iniquo. Promuovo la mobilitazione per pensare e agire nuove modalità di interazione, non solo per essere rintegrata o per vincere una diatriba antica, e mai a rivendicare e a ricattare. L’attività lavorativa non può proporsi come totalizzante e le persone non vogliono rischiare di ritrovarsi inglobate, agglomerate in un sistema per cui vale solo l’interesse del singolo, l’espressione performante, la convenienza privilegiata.

La vita aziendale, per i più rozzi, si manifesta come la famigghia e per i più evoluti è come la rete: in nessun caso è prevista l’idea e lo sviluppo della comunità e della cura.  L’ispirazione imprenditoriale, invece, partecipa alla creazione di una nuova modalità di mondo e di esistenza. L’esperienza lavorativa si evolve in una modalità di introspezione, di ricerca di identità professionale e produce visioni ecologiche e trasversali.

 Chi sono i clienti e le clienti della scuola di educazione Alla persona®?

Le persone ricercano il senso e il valore della vita e della vita lavorativa perché non possiamo interessarci al capitale umano redditizio, solo in relazione a quanto produce e consuma. La visione ecologica, intersezionale è fondamentale. Per gli imprenditori e le imprenditrici che richiedono la consulenza psicologica in azienda, vale ancora di più l’avvio di un ragionamento che coinvolga ogni persona a partire da sé. Cosa significa lavorare, fra diritto e privilegio? Chi sono andato/a diventando in questi anni? Cosa è il successo? Che relazione ho con il guadagno e con il denaro? Chi sono i lavoratori e le lavoratrici dell’azienda e come stanno?

La consulenza non può funzionare come il distributore meccanico di bibite: in emergenza serve e mi si chiede una presentazione scritta, una narrazione per i social, due parole in un convegno, un ascolto veloce per ricucire e rattoppare. In malafede e in mistificazione. Riconosco un circuito paesano di amici degli amici che diviene sistema generale senza possibilità di valutare il profilo professionale e psicologico adeguato ad ogni situazione.

Non tutti possono collaborare con tutti. Se non si è in sintonia su una visione di base, ogni gruppo procede faticosamente e manifestando continuamente incomprensioni. Conoscere molta gente, non significa creare comunità. Meno che mai è possibile condividere una visione lavorativa ampia rimanendo abbarbicati a gruppalità specifiche.

Nel Governo Umano delle Risorse come psicologa di teoria e di militanza, mi occupo di studiare e di curare il maschilismo, sapendo che oggi non è solo una questione di lotta di classe, di capitalismo e neanche solo di politiche femministe. Se mancano le visioni, le letture sintoniche sulle fondamenta di essere umano e di mondo, non litigo e non persuado: ogni persona ha una storia che si esprime attraverso la struttura di mentalità, di modelli e di linguaggi. Per ogni creatura umana, i tempi degli apprendimenti sono diversi. Mi oriento all’attesa interiore: se nella situazione taccio, forse, in qualche tempo futuro, in qualche luogo diverso, ci rincontreremo e potremo riparlarne.

Solo dinanzi al volto dubbioso, tormentato, interrogante, a prescindere dall’età storica, io mi intrattengo, nel ragionamento, tutta intera, con i sentimenti, gradevoli e sgradevoli, e con le riflessioni sempre contrastanti, godendo delle opposizioni ed evitando la frettolosa scelta binaria. Nella relazione di noità, riservo alla fase di interdipendenza, alla intimità, la possibilità di argomentare e di problematizzare. Invece, decido di tacere, di andare o lasciare andare via, per la mia pace interiore e per rispettare i tempi di comprensione e di trasformazione dell’altro/a.

Sì, a questo punto della vita, ritengo di non potere e di non volere essere una psicologa, un’interlocutrice o una collega per chiunque. Rifletto su come proseguire, dopo il primo e il secondo numero dei taccuini scuola di educazione Alla persona, nutrendo la scrittura del terzo volume, La storia guidata di sé.

Continuerò a condividere il percorso.

 

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Joyce Lussu, scrittura e politica

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

Per molti anni, ho guidato percorsi formativi negli istituti bancari e nel 2012, fra Porto San Giorgio e Fermo, incontrai Alessandra (non ricordo il cognome), una dirigente disallineata, vestita di terra e d’aria, di fuoco e di acqua. In un periodo per me di mortale silenzio, mi ospitò nella sua casa, nella campagna marchigiana fra l’Adriatico e i monti Sibillini. Mi consegnò un libro, come un segno di comprensione, come una promessa di intesa. Con il vecchio libro mi donò una conoscenza: Joyce Lussu. Con Alessandra non ci siamo più riviste. Ho letto, invece, tutto di Joyce Lussu. È forte la loro presenza nella mia vita.

Riprendo il vecchio testo, Il libro Perogno, pubblicato nel 1982 e ormai introvabile, avendo terminato di leggere la storia raccontata, nel 2022, da Silvia Ballestra, La Sibilla, per la casa editrice Laterza. Il libro Perogno seculu secloru trasferisce con voce dialettale sarda un memento per omnia saecula saeculorum.

Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Lussu in seconde nozze, antifascista, poeta e traduttrice, lei, la sibilla del Novecento, ha pensato e parlato, ha scritto e ha testimoniato come trasformare le relazioni, esercitando l’energia femminile nello studio e nel movimento.

Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale, in pieno regime fascista, con le continue e violente manifestazioni delle bande di squadristi. La famiglia Salvadori, una tribù, la chiama Joyce, vive da principio a Firenze, città socialista e democratica, ma presto emigra in Svizzera, militando nei gruppi di Giustizia e Libertà. In un contesto di guerra e di sopravvivenza precaria, Joyce consegna la sua storia di resistenza “proletarizzata dalla lotta”, come lei stessa dichiara, evitando ogni matricentrismo. Si definisce “una donna per…” e costruisce un rapporto di coppia libero, un amore misurato con la distanza e l’autonomia, “se fossi rimasta in casa ad aspettarlo, lo avrei annoiato”.

Joyce Lussu, attivista politica e poeta, dedica la sua intensa vita alla lotta, unendo un instancabile lavoro d’azione alla ricerca teorica. I suoi testi rientrano nella memorialistica partigiana antiretorica e antiaccademica. Coltiva lo sguardo di genere come istitutrice a Bengasi, da clandestina in Francia, da insegnante e da guerrigliera, viaggiando e traducendo intellettuali e personaggi storici come Ho Chi Minh, Castro, Mandela, Hikmet, Neto. Intuisce come la poesia possa essere una via privilegiata per intervenire politicamente a servizio dei popoli sofferenti.

Come moglie del ministro Emilio Lussu, Joyce prende le distanze dal mondo romano dei ministeri e dei salotti, un mondo che integra gli individui in strutture già date, distribuendo cariche e poteri per accrescere i diritti dei singoli. La riduzione della parola delle donne è sempre stata, anche nella cultura della sinistra (partiti, deputati, organizzazioni, intellettuali), la questione femminile, il problema di una categoria sociale colpita da determinate ingiustizie.

Joyce Lussu si ferma ad ascoltare, non ha fretta di sistemare forzatamente la complessità. Con la sua presenza non strumentalizza gli incontri per accrescere i rapporti di forza, ma agisce democraticamente, sganciandosi dai dispositivi del potere, radicandosi nella realtà umana e vivendola in prima persona. Si accompagna a donne e a uomini in carne e ossa, non dipendenti da rappresentanti né da apparati, dotati, invece, singolarmente, di parola e di coscienza critica. Incontra persone patite, lavoratori e lavoratrici che, allora e tutt’oggi, servono come giustificazione ideologica per una pratica di dominio improntata sulla falsa e ipocrita coscienza lavorativa.

Il suo pionieristico studio sulle sibille incrocia alcuni aspetti del pensiero della differenza, nella ricerca di una linea di trasmissione del sapere matrilineare, ispirata per Joyce alle antiche comunanze picene e alla figura mitica della vergara, della strega che conosce le erbe, erede delle medichesse antiche, delle erboriste e delle mammane, a partire dalla grande Metrodora. Nell’arcaica Sardegna della Barbagia, uno dei nomi della femminilità oscura, come per Michela Murgia l’accabadora, fra violenza e sapienza è, per Lussu, la sibilla barbaricina, figure necessarie a situazioni di sussistenza in comunità periferiche e abbandonate.

Per Joyce Lussu, il percorso di liberazione delle donne e degli uomini non è mai per sé stessi/e, coinvolge la comunità; il suo attivismo è nella testimonianza del servizio come variabile strutturale nella visione sociale, come un sistema di pratica politica, non come una concessione peregrina, un atto di bontà e gentilezza solitario. Anche quando sale sul palco predisposto, dà la parola al prossimo intervenuto, si trasforma in un megafono di carne. Una vita così avventurosa, è faticosa e non si può imporre a nessuno. Le battute d’arresto, le resistenze, la frustrazione non sono perdite o rese definitive, ma ribadiscono con determinazione un orientamento verso la giustizia sociale.

Joyce termina spesso i suoi interventi (e anche un suo libro) con la formula “larga la foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia”: è l’invito al passaparola, al diritto di tutti/e, a confrontarci, a discutere, a ricercare. L’autorità si costruisce con le relazioni, con l’esperienza e lo studio, non con il dominio e con l’oppressione del denaro. Le sibille scompaiono e si manifestano, in ogni tempo, lasciando segni, cammini, incontri e progetti; non sono solo appassionate di politica, ma agiscono nella vita pubblica per facilitare la qualità di rapporti fra gli esseri umani. Essi smettono di essere numeri, strumenti, variabili, categorie, e acquistano quella che i linguisti chiamano la competenza simbolica: l’autorità di dire con il racconto personale l’esperienza di vita e di lavoro. Così, Joyce Lussu intende la libertà, per sé e per gli altri.

Le sibille, donne intere, indipendenti e autonome, evitano i legami disfunzionali perché questi tendono a normalizzare la patologia, a clinicizzare il disaccordo e il disallineamento, a trasformare le proteste in colpe e in pene. Condividono un modo di essere e proporre la politica, il diritto, il lavoro, partendo dalla propria storia, senza delega, alla ricerca di linguaggi, di mediazione e di pratiche sapienti e creative, spostandosi su territori diversi dal denaro, dal dominio, dalla competizione e dalle dinamiche della prestazione, sempre, a disposizione del mercato. I dispositivi di omologazione riducono la capacità e la possibilità di essere chi siamo, e questo pericolo, le sibille, lo avvertono.

Oggi diciamo patriarcato, primitivo e selvaggio, riferendoci a stratificazioni culturali di epoche storiche che rimandano ad accumuli di elementi sociali, economici, giuridici, religiosi. Ci riferiamo a strutture sociali orientate sistematicamente a imporre condizioni di minorità e di passività. Una vittima è tale non solo per copione personale, ma perché sottoposta al contesto dominante che tende a deresponsabilizzare ogni persona, clinicizzandola e assumendone, un po’ per volta, il comando e il controllo sul corpo e sul pensiero. Le sibille lo sanno, e vigilano.

Talvolta, le conquiste legali e culturali, sono impercettibili. Ancora esistono la violenza, la disuguaglianza, le intersezioni fra la razza e il genere, ma registriamo sempre più la consapevolezza rispetto ai diritti, all’istruzione, al lavoro. Essere una sibilla vuol dire essere orientata alla conoscenza, oltre le abitudini mentali, i pregiudizi e i luoghi comuni, vuol dire andare libera nel mondo per trasformarlo e non per omologarsi. Lentamente, sta funzionando, abbiamo idee più chiare, abbiamo più fiducia nel diritto ad avere diritti, anche se mai dati per acquisiti definitivamente.

La storia è storia di esseri umani e di minoranze, non solo di uomini ricchi, bianchi e potenti, e Joyce chiede, attraverso i suoi scritti, che le donne si organizzino autonomamente, per produrre storie locali. Nelle comunità sibilline, la conservazione collettiva delle storie, la democrazia comunitaria, il rapporto corretto con l’ambiente naturale, la custodia della sapienza antica, la distribuzione equa del lavoro, la responsabilità etico-sociale condivisa, sostituiscono il governo guerriero e la cultura di morte.

Joyce Lussu, scrittura e politica – La Stanza di Virginia

Chiara, Lizia

Siamo meravigliose pozzanghere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La novella scritta da Chiara Cannito e illustrata da Elisa Cesari, La pozzanghera illusa d’essere cielo, narra di una pozza d’acqua piovana, rinominata come cielo da una bambina, fotografata da un reporter, dipinta e decantata in versi dagli artisti. Insomma, una incosciente pozzanghera, riconosciuta come un riflesso di cielo, finisce per credere alla propria unicità e bellezza. E a desiderarsi immortale. E come dea immortale, pretende di essere intoccabile, lontana dal vecchio viandante, dall’uccellino sporco e assetato, dalla pioggia grigia.

Ma la bellezza autentica è disordinata, è alterata dalle interazioni con lo spazio, con il tempo, con il prossimo. La pozzanghera, attraverso lo sguardo e il riconoscimento altrui, può difendere la castità, scegliendo come ricomporsi dopo ogni scambio, ma non può pretendere di rimanere vergine e di non essere attraversata.

Agli esseri umani piace illudersi. Il rimanere in-ludo, nel gioco della vanità e nelle sviste del desiderio e dei sensi, è un passaggio obbligato di crescita. Ad ogni età, rinforziamo un’illusione e la difendiamo con onnipotenza e spocchia. E, ogni volta, ci tocca prendere nota di ciò che accade, misurare il limite, ripensare a ciò che avremmo voluto e non è, e riscegliere per quello che la realtà consente.

Ogni intervento psicologico si occupa della percezione di sé, della possibilità e necessità di registrare la realtà per quella che è e non per quella che desidereremmo. L’illusione è importante per coltivare il sentimento dell’attesa e il pensiero rispetto a una nuova progettualità e l’azione del primo passo verso il cambiamento.

Naturalmente, il sole asciuga ogni bellezza neutra. Invece, è in quelle rughe, in quella assenza brutta e rabbiosa che ritroviamo il senso dell’esserci sporcati, contaminati in ogni incontro. In fondo, nella fine, nella dissolvenza è custodita la bellezza dell’esistenza, oltre ogni illusione.

Nel cammino psicologico di conoscenza del carattere umano, considero un buon inizio la presa in carico delle proprie illusioni con la lettura della graphic novel di Chiara Cannito. E il lavoro di riflessione sull’illusione e sulla vanità umana, potrebbe continuare, negli anni, con la Storia della bruttezza e la Storia della bellezza del grande Eco. E sono altre storie e altre consapevolezze.

 

Ph.Fonte Silvia Meo

Wonder: il paradosso della meraviglia e dello sconcerto

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

… Non finirei, ero un bambino vecchio allora, invecchiato dalla vita e dai libri, ma sempre bambino. Quanto può esserlo chi sulle cose spalanca, appena si sveglia, due pupille grandi che si sorprendono…

Gesualdo Bufalino, Argo il cieco

 

Meraviglia e meraviglioso sono parole mancanti nel mio vocabolario ed è il momento di porvi rimedio, riconoscendone la presenza nella quotidianità. E penso a quelle indomabili rivoluzionarie che occupano il mio tempo in mood estivo, Rachel Carson e Patricia Highsmith, due meravigliose scrittrici tormentate e considerate nevrotiche dagli oppositori. Studiose schive e meditative, attraverso la scrittura, condividono l’amore delirante per gli esseri umani e per la vita sana sulla terra.

Highsmith, morta nel 1995, è una crime novelist e i suoi libri hanno ispirato registi famosi come Alfred Hitchcock, Liliana Cavani, René Clément. In particolare, rifletto su una raccolta di racconti, Urla d’amore, in cui Miss Highsmith crea un mondo di personaggi pericolosi per sé stessi e per il prossimo, affondati nelle ombre di una psiche turbata dalla realtà inumana che tende a stigmatizzare come matto chi è lontano dai commerci e dai denari, attardandosi, invece, sulle piccole cose, ritrovando il sentimento di creaturalità verso la natura, selvaggia e innocente. Un mondo senza conclusioni morali, come afferma, nella prefazione, Graham Greene, claustrofobico e irrazionale nel quale ogni volta entriamo con una sensazione di pericolo personale.

Avvertendo quel pericolo personale, ci consegniamo definitivamente e con onestà alla comprensione della coscienza.

Nei racconti incontriamo persone ingenue, autentiche, non addomesticate, crudeli e intransigenti, germogli meravigliosi di una umanità che non ha il bisogno di inseguire la vittoria a tutti i costi, ostentata in ogni occasione. Persone che pensano a non-pensare, perché nel non-pensare c’era qualcosa di importante e di eccitante.

La meraviglia confina con l’orrido e si nutre del piacere crudele della scoperta solitaria.

Carson, biologa morta nel 1964, preoccupata per l’abuso dell’insetticida DDT, studia le connessioni ambientali: nonostante un biocida sia finalizzato all’eliminazione di un organismo, i suoi effetti si risentono attraverso la catena alimentare. I prodotti utilizzati per rendere innocuo un insetto finiscono per avvelenare esseri umani e animali. Il saggio, ristampato con la prefazione interessante di Paolo Giordano, è Primavera silenziosa. La manomissione dell’atomo nella costruzione della bomba atomica e la produzione di insetticidi esprimono il massimo ingegno e la massima distruttività della potenza umana.

Scrive la scienziata, a favore di una educazione ambientalista: … parallelamente all’eventualità della totale estinzione del genere umano in una guerra atomica, l’altro fondamentale problema della nostra epoca consiste, dunque, nella contaminazione dell’ambiente in cui viviamo a opera di sostanze con un incredibile potenziale di devastazione.

La concatenazione è il modello attraverso il quale Carson registra il problema di partenza degli agricoltori, la piaga degli insetti, ma ne sposta l’origine nella pratica sbagliata delle monocolture intensive. Il merito di Rachel Carson è considerare l’ecosistema: suolo, acqua, aria, vegetazione, micro e macrofauna, tutto è collegato e ci coinvolge. Il rigore scientifico e lo sguardo poetico diventano strumenti di sopravvivenza sulla terra. La pratica psicologica e formativa le è grata.

L’importanza del contesto, dell’ambiente, la consapevolezza ecologica e psicologica avvicinano le due autrici nell’equilibrio, sempre da ridefinire, fra le soluzioni chimiche e quelle biologiche e psicologiche. Le strade dell’autodistruzione e del benessere rimangono parallele, dinanzi alla scelta di libertà degli esseri umani. Siamo impegnati a evitare di sottomettere la terra e gli esseri umani al dominio e all’arroganza di pochi.

Contraddicendo l’opinione comune e l’esperienza quotidiana di accomodamento sull’elemento noto, ritrovo le scritture dello stupore, dello stordimento seguendo le autrici sulla cattiva strada, paradossali e divertenti, nel senso di divertĕre, permettendo di rivolgere altrove l’attenzione, scoprendo prospettive sconosciute.

È meraviglioso leggere, ritrovando connessioni inattese e avendo il privilegio di darne conto, a chi vuole, attraverso questa rivista; la lettura non compie miracoli di cura, ma consente di vivere senza attendere alcun miracolo, tenendo meravigliosamente assieme i dubbi, le contraddizioni, le irresoluzioni.

Rachel Carson, Primavera silenziosa, le stelle Feltrinelli, 1962/2023

Patricia Highsmith, Urla d’amore, La nave di Teseo, 1993/2020

st.5

Disperata

La ricerca della speranza è sempre personale

M.Nussbaum, p.173

 

La speranza rimane prigioniera sul fondo del vaso che Pandora apre incautamente: dopo il gesto audace di Prometeo, il vaso custodisce i mali con i quali gli dèi decidono di castigare i mortali. È così che siamo, nello stesso tempo, condannati alla speranza e in essa salvati. La speranza è costitutiva dell’essere umano, l’unico fra i viventi a sapere di dover morire. Per scegliere la speranza, paradossalmente, bisogna che affondiamo nella disperazione, che la misuriamo come, per godere della luce, è necessario essere attraversati/e, talvolta con violenza, dalla notte.

In questa riflessione, rimango nella prospettiva psicologica, non varcando la soglia della teologia e della filosofia. È una condizione umana, la speranza, né positiva, neanche negativa, come la passione triste leggendo Spinoza, come il peggiore dei mali, studiando Nietzsche o come la spinta propositiva d’amore, seguendo san Paolo. Le parole costruiscono le modalità con cui decidiamo di stare al mondo, creano i pensieri. La radice indoeuropea –spe significa espansione, tensione al futuro, attesa di un esito felice; psyché in greco è il nome dell’anima, e la ricerca psicologica non può che proporsi speranzosa.

E questa costante tensione, questa crescita sembra essere governata da una delle realtà basilari originali della metafora, l’aria espirata con forza, dunque dallo sp-irito, che forse è questo soltanto: tensione, espansione e crescita costante – come lo sp-azio stesso. Come la sp-eranza. (Ivonne Bordelois, p.123)

Agire la speranza significa offrire una testimonianza onesta della propria storia, al lordo di tutta la disperazione che comporta; è un cammino faticoso da percorrere, non un obiettivo da raggiungere. Non è solo una predisposizione emozionale, è una scelta di comportamento, è un’azione che non consente di rimanere nello status quo. Credo in una abitudine di speranza pratica, non oziosa. La speranza attende di essere liberata con l’opera di autocoscienza, di consapevolezza personale, in una comunità, in un contesto storico. È un progetto di vita, i giapponesi direbbero che è il nostro personale ikigai.

Rileggendo la filosofa Martha Nussbaum, come posso staccare la spina, oggi domenica 7 aprile, ai pensieri oscuri di guerre e decadenza civica, e collegarla alle prospettive di pace, speranza e progresso? Non abbiamo ragioni per sperare, se non partendo dai nostri sentimenti, pensieri e azioni nel quotidiano. La mia speranza è che possiamo sentirci mancanti di speranza, sentirci abbastanza disperati da decidere di trasformare il copione personale che tende a rimanere fisso, ingovernabile, prigioniero delle abitudini.

Ogni giorno misuriamo la disperazione dei fatti anche attraverso i social media che incoraggiano analisi in superficie. Sperare è una gran fatica e si esprime nel pensiero critico che esige l’elaborazione di una posizione complessa, esige una ricerca ampia attraverso le contraddizioni, le opposizioni, le contaminazioni.

Come psicologa, occupandomi di selezione e di valutazione delle persone sono meno attenta, dinanzi a ogni candidato/a, alla variabile “controllo delle tensioni”: significa assicurare in azienda, la continuità e la stabilità a livello di prestazioni in condizioni di stress e di conflitto. Ecco, è possibile apprendere il controllo delle tensioni proponendo percorsi formativi adeguati e sistematici. Invece, mi preoccupo quando rilevo nel/lla candidato/a un mancato orientamento alla speranza, sempre legato a una bassa stabilità emotiva, a una incapacità di adeguare alle situazioni diverse, i giudizi, i sentimenti, i comportamenti.

Gli esseri umani irrisolti, infelici, non manifestano alcuna speranza, se non come condizione naturale del delirio, seguendo le riflessioni del filosofo e saggista rumeno Emil Cioran. In fondo, chi evita il confronto con se stesso e con la realtà fa comodo al dominio. Il condizionamento sociale, le scelte repressive con chi dissente e permissive con i sodali, lo screditamento, la negazione, sono meccanismi efficienti per zittire le persone, per ridurle nell’ordine psicologico Compiaci.

La paura è collegata al desiderio monarchico di controllare gli altri, all’incapacità di fidarsi che rimangano indipendenti e fedeli a sé stessi. Allo stesso modo una persona che rifiuta di sperare nel futuro è probabilmente un tipo accentratore, quella che ho chiamato una persona monarchica: nulla va bene a meno che non collimi perfettamente con i miei desideri, senza aree di incertezza e vulnerabilità. Non c’è nessuna speranza, perché non ho tutto ciò che voglio… lo spirito di speranza, quindi, è implicitamente collegato a uno spirito di rispetto per l’indipendenza degli altri, a una rinuncia all’ambizione monarchica, a una sorta di rilassamento ed espansione del cuore. (M.Nussbaum, p.184)

Il contrario della speranza è la paura che ricatta noi stessi/e e il prossimo; farci carico della paura, nominarla, raccontarla, misurare i fatti, ci riconsegna alla realtà. La speranza è accogliere con fiducia quello che deve accadere perché accada; non credo all’effetto placebo di un aleatorio sguardo sui bicchieri pieni o vuoti. Apprendiamo l’accoglienza, l’arte della resa che non è la rassegnazione. Apprendiamo la consegna al divenire, la lettura diversa e molteplice dei dati, delle situazioni. La speranza è la qualità della vita complessa, vissuta in movimento, in espansione e in profondità, nel luogo e nella comunità in cui siamo.

Riferimenti bibliografici

  • Martha C. Nussbaum, La monarchia della paura, il Mulino, 2020
  • Ivonne Bordelois, Etimologia delle passioni, Apogeo, 2007
  • Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai, Einaudi, 2018

2023

Le libere composizioni di Lavinia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Novecento è il secolo del talento e della letteratura femminile, l’epoca in cui le voci di donna si sperimentano oltre il silenzio e la riflessione interiore, ridando valore politico al corpo.

Anna Banti, nome de plume della scrittrice, giornalista e saggista Lucia Leopresti, fondatrice, assieme al marito Roberto Longhi, della rivista Paragone, nasce alla fine dell’Ottocento e viene allevata nei valori della borghesia da cui parzialmente si emancipa. Nei suoi scritti, con ironia e compassione, mantiene costante la tensione al mondo femminile, in un contesto severo di subordinazione alla legge del padre. Il racconto si chiama Lavinia fuggita ed è inserito nella raccolta Le donne muoiono pubblicata nel 1951, vincitore del Premio Viareggio nel 1952: per Cesare Garboli è il racconto più bello di tutto il Novecento.

Immagino Anna Banti mentre veglia Corrado Alvaro morente, mentre si innamora non ricambiata di Mario Luzi, mentre vive una storia d’amore con Elémire Zolla: la presenza e gli scambi di idee con questi uomini non rendono più felice l’Autrice, sicuramente più significativa ed intensa la sua scrittura.

E rileggo la storia di Lavinia, agli inizi del Settecento, di Apollonia, Giuditta, Angelica, Ignazia, Chiara, Lucetta, Orsola, Zanetta, figlie, tutte, della fortuna, bastardelle, pronte per protettori vecchi e salvifici, a ribellarsi silenziosamente e a creare per sé destinazioni e destini impensabili, a precorrere i tempi.

Vi fanno pietà le orfanelle, le trovatelle, e non sapete che questo titolo si fa, là dentro, (n.d.r. nell’Istituto della Pietà) favola, mistero, e, alla fine, motivo di elezione. Sapersi universalmente compatite, diverse dalle altre ragazze, segnate dai casi bizzarri e tenebrosi: che delizia per chi ha fantasia! (p.480)

Lavinia è maestra di coro ma, a differenza delle sue amiche, è scossa da un irresistibile istinto per la composizione, spinta da una scellerata, invincibile, quasi dolorosa forza creatrice che la porta a sostituire con le sue invenzioni musicali, le partiture da ricopiare del maestro Vivaldi, precettore presso l’Istituto. Scoperto il fatto e il quaderno che contiene tutte le sue composizioni, Lavinia viene pesantemente punita e umiliata, convocata dalla Priora alla presenza del Doge e del maestro Antonio Vivaldi. Nessuno sa mai che cosa accade durante l’incontro: Zanetta e Orsola vedono uscire dal padiglione Lavinia piangente con in mano il suo libro di musica. La sera stessa Lavinia scompare e di lei non si avranno più notizie.

Capisci, non avevo altro mezzo, mai mi prenderebbero sul serio, mai mi permetteranno di comporre. La musica degli altri è come un discorso rivolto a me, io devo rispondere e sentire il suono della mia voce: più ne ascolto e più so che il mio canto e il mio suono sono diversi. Non è uno scherzo: potresti star zitta quando ti senti chiamata da chi ti vuol bene? Pensa dunque, qui dentro c’è tutto il mio bisogno, strumenti, voci, chi ascolta: ma senza inganni, per me, è come un tesoro sepolto, nessuno suonerebbe una nota sola di quel che invento. (p.486)

Le relazioni fra donne rappresentano il limite da opporre al patriarcato. Lavinia ha l’amarezza di essere donna e di non poter comporre armonie, in un mondo non fatto a misura propria e, nello stesso tempo, sente l’irriducibile e orgoglioso coraggio che diviene un gesto risolutivo fondato sull’inespugnabilità dell’essere femminile fedele a sé stesso.

Non deroghiamo alla capacità delle donne di lavorare assieme, evitando di rinchiuderci in gruppi ristretti di appartenenza. È una nuova ondata di autonomia, per ribadire reciprocamente l’autorità femminile che non coincide né con il potere, né con il dominio, ma con l’alleanza e l’accoglienza, scelta e non imposta, con la capacità creativa e trasformativa di ogni persona.

Lavinia è vincente, perdendo la possibilità di rimanere, è libera nei suoi quaderni di note e di armonie musicali differenti. Vince perché perde, fugge da un contesto in cui tutti riconoscono una sola nota, un’unica possibilità di esistenza: l’allontanamento diventa un’opportunità per continuare a comporre melodie. Lavinia avverte una spinta che produce libertà, non si pone in rapporto dialettico con il mondo maschile; decide, invece, di escludersi, di andare altrove. Fugge dalle traiettorie del potere, non si fa trovare sulla traiettoria di chi può schiacciarla.

(Lavinia) non aveva malizie e intrighi come quest’altre del coro ma, purtroppo, non c’era modo di cavarle di testa la smania di alterare le partiture da eseguirsi, d’introdurvi certe sue invenzioni e mutar la distribuzione delle parti, a volte sostituiva addirittura i motivi delle arie. Una pazzia, una maledizione… (p.485)

La malinconia, l’irrequietudine di una giovane ventiquattrenne considerata, come tutte le donne, incapace di comporre musica si trasformano in un desidero di rinascita, nella fuga come un riscatto, come una promessa, una scintilla di desiderio. Lavinia sceglie il movimento, fugge da… e si incammina verso…: è la tecnica della schivata di Iris Murdoch, ripresa dalla filosofa Luisa Muraro, ritrovata anche nel film Women Talking di Sarah Polley.

A questo salto nella libertà che è del pensiero come dell’agire ho dato il nome di schivata. Si chiama schivata la mossa a lato, detta anche scarto, che fa l’animale, bestia o uomo, quando è inseguito da un predatore (o da proiettili) per uscire bruscamente dalla traiettoria della fuga-inseguimento ed evitare così di essere preso… oggi il salto nella libertà di fare mondo a partire da sé, che in passato era di una minoranza eletta, grandi artisti o grandi politici, sta diventando affare di tutti e ciascuno. (L.Muraro)

La scrittura magistrale di Banti racconta una storia sulla condizione del genere femminile quando si fa artista; sulla voluttà e la potenza di una forza creatrice che impone a chiunque di rompere le regole, di forzare l’ordine delle cose, di superare il limite. Lavinia scompare ma, per molte compagne d’istituto, tutto è cambiato: la forza creatrice consente a ciascuna di immaginare il futuro oltre il muro. La condivisione del sapere e la testimonianza di Lavinia, liberano la musica di ognuna dal controllo del potere.

La creazione artistica, il talento musicale, la promozione di sé sono inaccettabili, sono atti di scelleratezza che Lavinia paga con l’umiliazione e la punizione: non rimane altra scelta che allontanarsi, sparire allo sguardo patriarcale e seppellire le segrete armonie. Cosa le abbiamo fatto? Cosa le avranno fatto?: la fuga di Lavinia indica la responsabilità di una società che divide le  ubbidienti al sistema dalle ammalate di ribellione; è la morale pubblica che omologa e cancella l’unicità, l’originalità di ogni persona.

Oggi, il protagonismo femminile è ancora nel territorio paternalista e patriarcale, spesso, riconosciamo solo l’emancipazionismo. Come Lavinia, riscopriamo cammini diversi, lontani dalla competizione sfidante e dal virile braccio di ferro. Non siamo in antitesi, scegliamo un altro livello, una mossa alternativa, inaspettata e fuori dai canoni noti. Accogliendo la complessità, evitiamo di banalizzare le forme insinuanti e manipolative del dominio che si esprimono nelle regole dettate e da rispettare se non si vuole essere additate ed escluse. L’azione che sembra un evitamento è, in realtà, la risposta. L’atto della separazione, dell’allontanamento svela nuove vie.

Riferimenti bibliografici:

  • Anna Banti, Romanzi e racconti, Mondadori, 2013
  • Luisa Muraro, La schivata, in Immaginazione e politica, Liguori, 2009

Numero 20 Archivi – La Stanza di Virginia

 

st.5

La povertà psichica

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

L’utopia è uno strumento sociale per generare gli sforzi sovrumani senza i quali è impossibile mettere in atto una grande rivoluzione.

Eric Hobsbawn

La povertà è la condizione in cui abbiamo ridotto gran parte dell’umanità, attraverso i processi di molteplici versioni delle politiche neoliberiste. E si evidenzia anche come una povertà economica, sociale, personale. Invece, quando la povertà diviene una scelta, riconosciamo il godimento dell’essenziale, scopriamo il bene per l’essere vivente. L’essenzialità prevede un percorso di conoscenza e di coscienza, le azioni del trattenere e del vedere dentro di sé; diviene, così, un atto di resistenza rispetto al dominio che si ostina a ridurre, a denutrire, a sottomettere.

È sempre faticoso scegliere di combaciare con l’essenza, con il proprio nucleo, in un contesto che stigmatizza e punisce come incapaci gli esseri umani che non si limitano a sviluppare, a consumare, a indebitarsi. L’esistenza di chi non produce e non è felice pare una minaccia per l’ordine sociale. Il capitalismo vecchio e nuovo dichiara guerra in nome del profitto e chi non ha un lavoro o guadagna poco denaro è colpevole, visto che non si è dato da fare abbastanza. Da Michel Foucault a Elettra Stimilli l’invito è a renderci conto di quanto la storia della moralizzazione della povertà tutt’ora rallenti il processo adulto di una umanità ancora alla ricerca di consensi personali, una umanità dallo sguardo miope che non è capace di ristrutturarsi in autonomia, in giustizia e in libertà.

La formazione degli adulti di cui mi occupo sembra un orpello inutile sempre più in disuso, uno strumento per aggiudicarsi finanziamenti occasionali che non incidono sul sistema strutturale, sulla visione d’insieme della comunità vivente. La povertà educativa è un’abitudine copionale a reiterare le stesse esclusioni, con i linguaggi, con le azioni ripetitive e non richiama soltanto il diritto all’istruzione, la difesa della scuola pubblica e l’opposizione all’alternanza scuola-lavoro.

Le persone adulte svolgono sempre la funzione pedagogica e, dunque, invece che per caso, la proposta è divenire educatrici consapevoli, per progetto. Gli ultimi nella scala sociale  non vengano solo assistiti, compatiti e mantenuti come poveri, ma diventino soggetti attivi e coinvolti nel cambiamento sociale.

Le tante facce della povertà e della ricchezza miserabile e armata (sempre di ricchezza povera si tratta) rimandano, tutte, alla povertà del degrado psichico che non si riferisce solo ai mezzi materiali, ma coinvolge la dimensione relazionale, affettiva, politica, richiama le categorie morali e i valori simbolici, denuncia la privazione di esperienze culturali, di crescita interiore, di apertura di opzioni pensabili. In un certo mondo del lavoro, posso attraversare periodi in cui più che una libera professionista mi vedo una precaria ma, certo, non sono una precaria dell’esistenza.

La povertà psicologica, in particolare, si esprime nella malattia della carriera verticale, della competitività ritenuta necessaria e che, al contrario, offre più opportunità a chi ha il denaro per scegliere. Ripenso alla povertà psicologica del dominio di alcuni capi sui lavoratori e sulle lavoratrici, di alcuni genitori sui figli e sulle figlie, dell’individuo, irrimediabilmente, a comandare e a controllare sull’altro. Le diverse dimensioni della povertà sono riprodotte e cristallizzate nei modelli di comportamento manipolativo e abusante.

Riconosco la malattia del potere di sé su se stessi/e che inchioda al dovere della perfezione, della forza, della velocità, della riuscita, sempre, dell’approvazione compiacente, dello sforzo perpetuo verso chissà quale conquista. Il pudore e il desiderio della educazione profonda si coniugano nel lavoro di interiorità. Il pensiero interiore è nominato come intimo, oscuro, perturbante, oppure, è animus e anima, è pneuma o psyche.

Il giornalista e scrittore Lucien Descave nel 1914 sfida la demagogia comune capovolgendo il Sermone della Montagna nel suo librino Barabbas. Paroles dans la vallée. Cinico, sgradevole, grottesco e crudele, ecco il vilain homme, a profanare i grandi precetti della vittoria, della ricchezza, del successo, fra la mendicità e la rivolta, fra il senso di giustizia e la provocazione sociale. La disobbedienza e il rifiuto all’omologazione richiedono una disciplina dell’intelligenza e un ampliamento del carattere: Beati i ribelli perché non entreranno in alcun regno (p.57)

Ero entrato in una chiesa e, per mezzo di una bacchetta rivestita di vischio, pescavo monete in una cassetta agganciata e chiusa a chiave. Arrivò un sacerdote, che mi fece arrestare. «Ma è la cassetta per i poveri, dissi; dunque, di conseguenza, è la mia cassetta». Al che il prete rispose: «Ne siete sicuro? Siete sicuro che questa cassetta non fosse là semplicemente per vostra tentazione? In ogni caso, siete colpevole di avere anticipato la distribuzione che avrei giudicato conveniente. Aspettate da secoli, potevate ben aspettare ancora. Ma i poveri sono sempre gli stessi: hanno fretta di gioire!» (pp.31-32). La mia gioia spaventa. (p.52)

 Riferimenti bibliografici

  • Jacobin Italia, Rivista trimestrale, n.18 – primavera 2023
  • Lucien Descaves, Il vangelo degli straccioni, Ortica editrice, 2021
Mancanza

Un altare per la madre

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

 

 

 

“L’unica, definitiva eccezione è la morte: la morte che entra in casa tua ti impedisce di guidare la vita, di indirizzarla contro chi vuoi, ti obbliga a fermarti. Se è entrata in casa tua la morte, può entrare anche il tuo nemico, sicuro che non sarà offeso. C’è qualcosa di strano in questo pensiero, qualcosa di poco chiaro. È come se …come se la verità vera fosse l’esatto contrario della verità apparente. Si crede che la morte sia uccisione e lotta. Invece la morte è una tregua in quella lotta a sangue che è la vita: in quella tregua uno può guardarsi intorno, e finalmente capisce.”p.87

Continuare a leggere è una strada di libertà femminile, è un pellegrinaggio continuo che apre possibilità di esistenza. Smettendo di essere figlia, appartengo alla generazione che progetta paradossalmente a lunga scadenza, intuendo che tanto futuro non potrà esserci e decidendo di “starci lo stesso” (Luisa Muraro), di sentire, di pensare e di scegliere attraverso e non nonostante l’esperienza di morte che tocca a ogni vivente.

 Un altare per la madre di Ferdinando Camon è, in assoluto, il libro di formazione all’autonomia e alla libertà della vita umana. E, dunque, ci invita a ragionare intorno alla finitudine. È umano sentire la morte come un’ingiustizia, come un affronto, come un “segreto vergognoso” (Simone de Beauvoir, lo dice anche della vecchiaia). La morte è un evento irreparabile della vita.

Non elaboriamo la mancanza, non la curiamo come una malattia, “quel che manca non si può contare” (Qoelet). Apprendere e godere l’assenza significa che “è tempo di trovare tempo” (Qoelet), per riconoscere le origini della vita, nel desiderio di amore e di libertà. Rimanendo nella mancanza, riaffiorano parole, battute, cipigli, gesti: “… è che per cucinare serve amore e pazienza…”; “sei diventata senza Christ”; “sei cocciuta, senza sentimenti”; “sei forte, certe cose capitano a chi le può sopportare”; “tieni un brutto carattere”.

Accolgo, così, la bienveillance verso me stessa, parola che mi suggerisce una persona cara. La bienveillance non è solo la benevolenza generica per sé; è sorvegliarsi nel contesto, è assistere la propria crescita in relazione, provvedere alla custodia e alla risoluzione del copione psicologico personale nelle parti che non ci servono più e ci rendono infelici.

La mancanza ci nutre divenendo parte della vita e offrendo una ragione per cui valga la pena faticare, gioire, pensare. La mancanza rimane e diviene occasione per lavorare sul limite che valuto come la causa maggiore della tendenza al dominio, nel modello sociale e politico diffuso, insinuoso e manipolativo.

I processi di invecchiamento sono molteplici e diversi, per ogni essere umano. Ricordare in ebraico è zakhòr, verbo che chiede la fatica della profondità, la coscienza del sottosuolo. L’umano si costruisce nella mancanza e nella memoria: zakhòr è l’imperativo del ricordo, rimanda al lavoro di autocoscienza, perché siamo piante con le radici e siamo creature perdute, quando vengono meno, come nell’alzheimer.

Nella tradizione simbolica di madre in figlia, oltre l’ordine patriarcale, rimangono le parole di lealtà e di cultura dell’anima, in una genealogia di provenienza prevalentemente femminile e non più marginale. Il conflitto non è risolto né risolvibile, ma non è paralizzante, anzi, diviene quotidianità femminile di ragioni guadagnate in prima persona, a trasformare la tradizione copionale, non più come semplice stratificazione. Intendo il conflitto come trasformazione e non opposizione, come molteplicità e non dualismo.

Quando con la morte tutto è perduto, ciò che rimane è la vita, luminosa nella periferia, nello scarto, nell’avanzo minimo che non è detto sia senza valore. Dalla decomposizione della morte ricomponiamo il progetto di vita, la trasmissione, di madre in figlia, del senso dell’abitare il mondo, in fedeltà al proprio essere donna. Ci interessa il processo avviato, e non si torna indietro; quella energia e quella sapienza non andranno perdute: per le madri, non ci sono altri altari.

 “La morte è tante cose: silenzio di una voce, separazione per sempre, distanza senza fine. L’altare è una voce, è un ponte, è una vicinanza. Ci sono dei modi per vincere la morte, ogni specie vivente ne ha uno, dalla cicala all’uomo. L’uomo ha il mezzo più semplice: non uccidere. Chi non uccide non morirà. La morte è una scelta: basta non sceglierla. È un atto di volontà: basta non volerla. Un uomo è appoggiato al muro, altri uomini gli sparano. Questi hanno scelto la morte e stanno morendo, quello vivrà in eterno. Come è chiaro tutto ciò, e come è strano che occorra la morte per pensarci. Si dice che la morte rovini la vita: al contrario, la salva… Solo la vita che non ignori la morte non si rinnegherà.”p.8

  • Ferdinando Camon, Un altare per la madre, Garzanti, 1978
  • Rivista Approfittare dell’assenza, Ed.Liguori, 2002

 

Ph.Antonella Aresta

Il sesso utile

Proseguo le riflessioni con una significativa maestra di lettura, nata nel 1929 e scomparsa nel 2006, scrittrice, giornalista e attivista. Avevo quarantadue anni quando il giornalista Tiziano Terzani confrontò duramente Oriana Fallaci per la sua brillante lezione di intolleranza(1), e io gli diedi ragione. Mi parve, allora, che Fallaci, in seguito agli attentati dell’11 settembre, fosse caduta miseramente difendendosi dalla paura e dalla tristezza, coprendole con la rabbia e l’orgoglio contro l’Islam(2). Cadendo, a mia volta, continuai ad acquistare i suoi libri, anche quelli minimi e precedenti, senza leggerli.

Da Il sesso inutile, pubblicato nel 1961, riprendo gli scritti di Oriana Fallaci con la coscienza odierna che il dolore, la fatica, la malattia, la solitudine modificano, di un essere umano, lo sguardo, il comportamento e le parole sul mondo. Rimango, altresì, convinta che possiamo apprendere a combattere senza odiare e senza cedere alla frustrazione impotente, come suggerisce la filosofa Luisa Muraro(3).

Il direttore de L’Europeo propone a Oriana Fallaci, allora trentenne, un’inchiesta sulla condizione della donna. Per lei, scrivere sulle donne, come se fossero una fauna speciale, appare ridicolo e sta per rifiutare. L’incontro con una signora affranta e sfiduciata che, però, ha tutto dalla vita, la convince a partire, alla ricerca delle condizioni possibili perché ogni donna possa essere felice. Il libro risente delle attività iniziali in ambito cronachistico, è il resoconto di un lungo percorso, affiancata dal fotografo Duilio Pallottelli. Il viaggio tocca principalmente mete orientali, il Pakistan, l’India, l’Indonesia, la Cina (Hong Kong), il Giappone e le Hawaii. Fino alla grande America: eravamo a New York, la metropoli dove le donne comandano come in nessun’altra parte del mondo.

Ovunque, le donne possono essere ritenute e viversi come inutili e sbagliate. Contare tutto o contare niente è la stessa cosa: gli estremi condannano le donne alla patologia bipolare.

Il sesso inutile è un paradosso, una boutade, ribadisce Fallaci, nell’intervista rilasciata al giornalista Ugo Zatterin, nel 1961, durante la trasmissione Controfagotto(4). E apprendiamo che la categoria dell’utilità non si incrocia con le riflessioni sulla sessualità e che non può esistere un sesso utile o inutile. E che il sesso è diverso dal genere. La storia negata delle donne e delle loro opere è una cicatrice, è un dolore sempre più complicato che tutte portiamo addosso. L’emancipazione e il progresso, slogan acquistati e venduti in società ingiuste, possono diventare un inganno, se la donna non ha la possibilità di vivere indipendente economicamente, autonoma psicologicamente e libera socialmente, assieme a tutte le altre.

Da un capo all’altro della terra le donne vivono in un modo sbagliato: o segregate come bestie in uno zoo, guardando il cielo e la gente da un lenzuolo che le avvolge come il sudario avvolge il cadavere, o scatenate come guerrieri ambiziosi, guadagnando medaglie nelle gare di tiro coi maschi.

Tutte, risposi a Laureen, erano più o meno consapevolmente lanciate verso qualcosa che non può provocar che dolore, un dolore sempre più complicato. Il grande ritornello che scuote le donne dell’intero globo terrestre si chiama Emancipazione e Progresso: ogni volta che sbarcavo in un nuovo paese mi trovavo dinanzi queste due parolone e le donne se ne riempivan la bocca quasi si fosse trattato di chewin gum. Gliele abbiamo insegnate noi donne evolute, come a masticare chewin gum, ma non gli abbiamo detto che il chewin gum può far male allo stomaco.

Ne Il sesso inutile è interessante la via intrapresa dall’autrice, via di conoscenza e di comprensione della realtà. Gli incontri e le interviste trasmettono la disponibilità al servizio e all’ascolto, la cura del tempo e dello spazio nelle interazioni, la gentilezza tenace, lo studio. Senza ipocriti moralismi, Fallaci ricorda a ogni donna come l’essere vera e laica significa registrare ciò che vede e ascolta con onestà e rigore. Onestà, ci insegna, è non fare sconti a noi stesse, è combaciare con la propria nudità, con le contraddizioni e i dispiaceri. Onestà è impegnarci a proteggere, grazie al viaggio che è sempre anche psichico, il diritto di parola.

Nelle righe bianche del testo rivedo Oriana in ogni età vissuta, a dieci anni, a coinvolgersi con il padre antifascista in piccole e pericolose attività e poi, giovane e innamorata, a decidere l’interruzione volontaria di gravidanza, a rinascere affrontando la depressione e a scegliere di inviare, per ripicca, la corrispondenza amorosa alla moglie del meschino amante. Oriana, in ogni tempo, risceglie ancora e ancora l’amore come un atto eroico, fino al sacrificio della scrittura sublime e dolorante nel romanzo Un uomo. Con le parole scava, curiosa e intransigente, senza perdere la forza, combattente con la tenerezza, unita e in perenne conflitto interiore.

Femminismo non è una brutta parola e anche se Fallaci non si è mai dichiarata femminista, ritrovo nel linguaggio e nella sua stessa esperienza le origini di un desiderio diventato un movimento per gruppi numerosi e diversi, le origini di una trasformazione della storia ancora in corso, dispersa in mille rivoli che non ci trovano in accordo, non sempre, non tutte, non per forza.

Contano il corpo, la testa, il cuore, le parole delle donne, matte tutte, sì. Contano, se le donne rimangono libere a generare una cultura nuova dell’umano. Condivido dal testo:

… Tanto, il nostro, è un sesso inutile. Il discorso mi turbò un poco. È come un tale che non si ricorda di avere le orecchie perché ogni mattina se le ritrova al suo posto, e solo quando gli viene l’otite si accorge che esistono, mi venne in mente che i problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto d’essere donne. Non alludo solo a una certa differenza anatomica. Alludo ai tabù che accompagnano quella differenza anatomica e condizionano la vita delle donne nel mondo. Nei paesi mussulmani, ad esempio, nessun uomo ha mai nascosto la faccia sotto un lenzuolo per uscir nelle strade. In Cina nessun uomo ha mai avuto i piedi fasciati e ridotti a sette centimetri di muscoli atrofizzati e di ossa rotte. In Giappone nessun uomo è mai stato lapidato perché la moglie ha scoperto che non era vergine.

Note

  1. https://volerelaluna.it/cultura/2021/08/21/terzani-il-sultano-e-san-francesco-lettera-a-oriana-fallaci/
  2. https://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/09_Settembre/15/rabbia1.shtml
  3. https://www.libreriadelledonne.it/_oldsite/news/articoli/contrib041012_muraro.htm
  4. https://www.youtube.com/watch?v=i0AYO-3teCU

Numero 19 Archivi – La Stanza di Virginia