st.5

Disperata

La ricerca della speranza è sempre personale

M.Nussbaum, p.173

 

La speranza rimane prigioniera sul fondo del vaso che Pandora apre incautamente: dopo il gesto audace di Prometeo, il vaso custodisce i mali con i quali gli dèi decidono di castigare i mortali. È così che siamo, nello stesso tempo, condannati alla speranza e in essa salvati. La speranza è costitutiva dell’essere umano, l’unico fra i viventi a sapere di dover morire. Per scegliere la speranza, paradossalmente, bisogna che affondiamo nella disperazione, che la misuriamo come, per godere della luce, è necessario essere attraversati/e, talvolta con violenza, dalla notte.

In questa riflessione, rimango nella prospettiva psicologica, non varcando la soglia della teologia e della filosofia. È una condizione umana, la speranza, né positiva, neanche negativa, come la passione triste leggendo Spinoza, come il peggiore dei mali, studiando Nietzsche o come la spinta propositiva d’amore, seguendo san Paolo. Le parole costruiscono le modalità con cui decidiamo di stare al mondo, creano i pensieri. La radice indoeuropea –spe significa espansione, tensione al futuro, attesa di un esito felice; psyché in greco è il nome dell’anima, e la ricerca psicologica non può che proporsi speranzosa.

E questa costante tensione, questa crescita sembra essere governata da una delle realtà basilari originali della metafora, l’aria espirata con forza, dunque dallo sp-irito, che forse è questo soltanto: tensione, espansione e crescita costante – come lo sp-azio stesso. Come la sp-eranza. (Ivonne Bordelois, p.123)

Agire la speranza significa offrire una testimonianza onesta della propria storia, al lordo di tutta la disperazione che comporta; è un cammino faticoso da percorrere, non un obiettivo da raggiungere. Non è solo una predisposizione emozionale, è una scelta di comportamento, è un’azione che non consente di rimanere nello status quo. Credo in una abitudine di speranza pratica, non oziosa. La speranza attende di essere liberata con l’opera di autocoscienza, di consapevolezza personale, in una comunità, in un contesto storico. È un progetto di vita, i giapponesi direbbero che è il nostro personale ikigai.

Rileggendo la filosofa Martha Nussbaum, come posso staccare la spina, oggi domenica 7 aprile, ai pensieri oscuri di guerre e decadenza civica, e collegarla alle prospettive di pace, speranza e progresso? Non abbiamo ragioni per sperare, se non partendo dai nostri sentimenti, pensieri e azioni nel quotidiano. La mia speranza è che possiamo sentirci mancanti di speranza, sentirci abbastanza disperati da decidere di trasformare il copione personale che tende a rimanere fisso, ingovernabile, prigioniero delle abitudini.

Ogni giorno misuriamo la disperazione dei fatti anche attraverso i social media che incoraggiano analisi in superficie. Sperare è una gran fatica e si esprime nel pensiero critico che esige l’elaborazione di una posizione complessa, esige una ricerca ampia attraverso le contraddizioni, le opposizioni, le contaminazioni.

Come psicologa, occupandomi di selezione e di valutazione delle persone sono meno attenta, dinanzi a ogni candidato/a, alla variabile “controllo delle tensioni”: significa assicurare in azienda, la continuità e la stabilità a livello di prestazioni in condizioni di stress e di conflitto. Ecco, è possibile apprendere il controllo delle tensioni proponendo percorsi formativi adeguati e sistematici. Invece, mi preoccupo quando rilevo nel/lla candidato/a un mancato orientamento alla speranza, sempre legato a una bassa stabilità emotiva, a una incapacità di adeguare alle situazioni diverse, i giudizi, i sentimenti, i comportamenti.

Gli esseri umani irrisolti, infelici, non manifestano alcuna speranza, se non come condizione naturale del delirio, seguendo le riflessioni del filosofo e saggista rumeno Emil Cioran. In fondo, chi evita il confronto con se stesso e con la realtà fa comodo al dominio. Il condizionamento sociale, le scelte repressive con chi dissente e permissive con i sodali, lo screditamento, la negazione, sono meccanismi efficienti per zittire le persone, per ridurle nell’ordine psicologico Compiaci.

La paura è collegata al desiderio monarchico di controllare gli altri, all’incapacità di fidarsi che rimangano indipendenti e fedeli a sé stessi. Allo stesso modo una persona che rifiuta di sperare nel futuro è probabilmente un tipo accentratore, quella che ho chiamato una persona monarchica: nulla va bene a meno che non collimi perfettamente con i miei desideri, senza aree di incertezza e vulnerabilità. Non c’è nessuna speranza, perché non ho tutto ciò che voglio… lo spirito di speranza, quindi, è implicitamente collegato a uno spirito di rispetto per l’indipendenza degli altri, a una rinuncia all’ambizione monarchica, a una sorta di rilassamento ed espansione del cuore. (M.Nussbaum, p.184)

Il contrario della speranza è la paura che ricatta noi stessi/e e il prossimo; farci carico della paura, nominarla, raccontarla, misurare i fatti, ci riconsegna alla realtà. La speranza è accogliere con fiducia quello che deve accadere perché accada; non credo all’effetto placebo di un aleatorio sguardo sui bicchieri pieni o vuoti. Apprendiamo l’accoglienza, l’arte della resa che non è la rassegnazione. Apprendiamo la consegna al divenire, la lettura diversa e molteplice dei dati, delle situazioni. La speranza è la qualità della vita complessa, vissuta in movimento, in espansione e in profondità, nel luogo e nella comunità in cui siamo.

Riferimenti bibliografici

  • Martha C. Nussbaum, La monarchia della paura, il Mulino, 2020
  • Ivonne Bordelois, Etimologia delle passioni, Apogeo, 2007
  • Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai, Einaudi, 2018

2023

Le libere composizioni di Lavinia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Novecento è il secolo del talento e della letteratura femminile, l’epoca in cui le voci di donna si sperimentano oltre il silenzio e la riflessione interiore, ridando valore politico al corpo.

Anna Banti, nome de plume della scrittrice, giornalista e saggista Lucia Leopresti, fondatrice, assieme al marito Roberto Longhi, della rivista Paragone, nasce alla fine dell’Ottocento e viene allevata nei valori della borghesia da cui parzialmente si emancipa. Nei suoi scritti, con ironia e compassione, mantiene costante la tensione al mondo femminile, in un contesto severo di subordinazione alla legge del padre. Il racconto si chiama Lavinia fuggita ed è inserito nella raccolta Le donne muoiono pubblicata nel 1951, vincitore del Premio Viareggio nel 1952: per Cesare Garboli è il racconto più bello di tutto il Novecento.

Immagino Anna Banti mentre veglia Corrado Alvaro morente, mentre si innamora non ricambiata di Mario Luzi, mentre vive una storia d’amore con Elémire Zolla: la presenza e gli scambi di idee con questi uomini non rendono più felice l’Autrice, sicuramente più significativa ed intensa la sua scrittura.

E rileggo la storia di Lavinia, agli inizi del Settecento, di Apollonia, Giuditta, Angelica, Ignazia, Chiara, Lucetta, Orsola, Zanetta, figlie, tutte, della fortuna, bastardelle, pronte per protettori vecchi e salvifici, a ribellarsi silenziosamente e a creare per sé destinazioni e destini impensabili, a precorrere i tempi.

Vi fanno pietà le orfanelle, le trovatelle, e non sapete che questo titolo si fa, là dentro, (n.d.r. nell’Istituto della Pietà) favola, mistero, e, alla fine, motivo di elezione. Sapersi universalmente compatite, diverse dalle altre ragazze, segnate dai casi bizzarri e tenebrosi: che delizia per chi ha fantasia! (p.480)

Lavinia è maestra di coro ma, a differenza delle sue amiche, è scossa da un irresistibile istinto per la composizione, spinta da una scellerata, invincibile, quasi dolorosa forza creatrice che la porta a sostituire con le sue invenzioni musicali, le partiture da ricopiare del maestro Vivaldi, precettore presso l’Istituto. Scoperto il fatto e il quaderno che contiene tutte le sue composizioni, Lavinia viene pesantemente punita e umiliata, convocata dalla Priora alla presenza del Doge e del maestro Antonio Vivaldi. Nessuno sa mai che cosa accade durante l’incontro: Zanetta e Orsola vedono uscire dal padiglione Lavinia piangente con in mano il suo libro di musica. La sera stessa Lavinia scompare e di lei non si avranno più notizie.

Capisci, non avevo altro mezzo, mai mi prenderebbero sul serio, mai mi permetteranno di comporre. La musica degli altri è come un discorso rivolto a me, io devo rispondere e sentire il suono della mia voce: più ne ascolto e più so che il mio canto e il mio suono sono diversi. Non è uno scherzo: potresti star zitta quando ti senti chiamata da chi ti vuol bene? Pensa dunque, qui dentro c’è tutto il mio bisogno, strumenti, voci, chi ascolta: ma senza inganni, per me, è come un tesoro sepolto, nessuno suonerebbe una nota sola di quel che invento. (p.486)

Le relazioni fra donne rappresentano il limite da opporre al patriarcato. Lavinia ha l’amarezza di essere donna e di non poter comporre armonie, in un mondo non fatto a misura propria e, nello stesso tempo, sente l’irriducibile e orgoglioso coraggio che diviene un gesto risolutivo fondato sull’inespugnabilità dell’essere femminile fedele a sé stesso.

Non deroghiamo alla capacità delle donne di lavorare assieme, evitando di rinchiuderci in gruppi ristretti di appartenenza. È una nuova ondata di autonomia, per ribadire reciprocamente l’autorità femminile che non coincide né con il potere, né con il dominio, ma con l’alleanza e l’accoglienza, scelta e non imposta, con la capacità creativa e trasformativa di ogni persona.

Lavinia è vincente, perdendo la possibilità di rimanere, è libera nei suoi quaderni di note e di armonie musicali differenti. Vince perché perde, fugge da un contesto in cui tutti riconoscono una sola nota, un’unica possibilità di esistenza: l’allontanamento diventa un’opportunità per continuare a comporre melodie. Lavinia avverte una spinta che produce libertà, non si pone in rapporto dialettico con il mondo maschile; decide, invece, di escludersi, di andare altrove. Fugge dalle traiettorie del potere, non si fa trovare sulla traiettoria di chi può schiacciarla.

(Lavinia) non aveva malizie e intrighi come quest’altre del coro ma, purtroppo, non c’era modo di cavarle di testa la smania di alterare le partiture da eseguirsi, d’introdurvi certe sue invenzioni e mutar la distribuzione delle parti, a volte sostituiva addirittura i motivi delle arie. Una pazzia, una maledizione… (p.485)

La malinconia, l’irrequietudine di una giovane ventiquattrenne considerata, come tutte le donne, incapace di comporre musica si trasformano in un desidero di rinascita, nella fuga come un riscatto, come una promessa, una scintilla di desiderio. Lavinia sceglie il movimento, fugge da… e si incammina verso…: è la tecnica della schivata di Iris Murdoch, ripresa dalla filosofa Luisa Muraro, ritrovata anche nel film Women Talking di Sarah Polley.

A questo salto nella libertà che è del pensiero come dell’agire ho dato il nome di schivata. Si chiama schivata la mossa a lato, detta anche scarto, che fa l’animale, bestia o uomo, quando è inseguito da un predatore (o da proiettili) per uscire bruscamente dalla traiettoria della fuga-inseguimento ed evitare così di essere preso… oggi il salto nella libertà di fare mondo a partire da sé, che in passato era di una minoranza eletta, grandi artisti o grandi politici, sta diventando affare di tutti e ciascuno. (L.Muraro)

La scrittura magistrale di Banti racconta una storia sulla condizione del genere femminile quando si fa artista; sulla voluttà e la potenza di una forza creatrice che impone a chiunque di rompere le regole, di forzare l’ordine delle cose, di superare il limite. Lavinia scompare ma, per molte compagne d’istituto, tutto è cambiato: la forza creatrice consente a ciascuna di immaginare il futuro oltre il muro. La condivisione del sapere e la testimonianza di Lavinia, liberano la musica di ognuna dal controllo del potere.

La creazione artistica, il talento musicale, la promozione di sé sono inaccettabili, sono atti di scelleratezza che Lavinia paga con l’umiliazione e la punizione: non rimane altra scelta che allontanarsi, sparire allo sguardo patriarcale e seppellire le segrete armonie. Cosa le abbiamo fatto? Cosa le avranno fatto?: la fuga di Lavinia indica la responsabilità di una società che divide le  ubbidienti al sistema dalle ammalate di ribellione; è la morale pubblica che omologa e cancella l’unicità, l’originalità di ogni persona.

Oggi, il protagonismo femminile è ancora nel territorio paternalista e patriarcale, spesso, riconosciamo solo l’emancipazionismo. Come Lavinia, riscopriamo cammini diversi, lontani dalla competizione sfidante e dal virile braccio di ferro. Non siamo in antitesi, scegliamo un altro livello, una mossa alternativa, inaspettata e fuori dai canoni noti. Accogliendo la complessità, evitiamo di banalizzare le forme insinuanti e manipolative del dominio che si esprimono nelle regole dettate e da rispettare se non si vuole essere additate ed escluse. L’azione che sembra un evitamento è, in realtà, la risposta. L’atto della separazione, dell’allontanamento svela nuove vie.

Riferimenti bibliografici:

  • Anna Banti, Romanzi e racconti, Mondadori, 2013
  • Luisa Muraro, La schivata, in Immaginazione e politica, Liguori, 2009

Numero 20 Archivi – La Stanza di Virginia

 

st.5

La povertà psichica

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

L’utopia è uno strumento sociale per generare gli sforzi sovrumani senza i quali è impossibile mettere in atto una grande rivoluzione.

Eric Hobsbawn

La povertà è la condizione in cui abbiamo ridotto gran parte dell’umanità, attraverso i processi di molteplici versioni delle politiche neoliberiste. E si evidenzia anche come una povertà economica, sociale, personale. Invece, quando la povertà diviene una scelta, riconosciamo il godimento dell’essenziale, scopriamo il bene per l’essere vivente. L’essenzialità prevede un percorso di conoscenza e di coscienza, le azioni del trattenere e del vedere dentro di sé; diviene, così, un atto di resistenza rispetto al dominio che si ostina a ridurre, a denutrire, a sottomettere.

È sempre faticoso scegliere di combaciare con l’essenza, con il proprio nucleo, in un contesto che stigmatizza e punisce come incapaci gli esseri umani che non si limitano a sviluppare, a consumare, a indebitarsi. L’esistenza di chi non produce e non è felice pare una minaccia per l’ordine sociale. Il capitalismo vecchio e nuovo dichiara guerra in nome del profitto e chi non ha un lavoro o guadagna poco denaro è colpevole, visto che non si è dato da fare abbastanza. Da Michel Foucault a Elettra Stimilli l’invito è a renderci conto di quanto la storia della moralizzazione della povertà tutt’ora rallenti il processo adulto di una umanità ancora alla ricerca di consensi personali, una umanità dallo sguardo miope che non è capace di ristrutturarsi in autonomia, in giustizia e in libertà.

La formazione degli adulti di cui mi occupo sembra un orpello inutile sempre più in disuso, uno strumento per aggiudicarsi finanziamenti occasionali che non incidono sul sistema strutturale, sulla visione d’insieme della comunità vivente. La povertà educativa è un’abitudine copionale a reiterare le stesse esclusioni, con i linguaggi, con le azioni ripetitive e non richiama soltanto il diritto all’istruzione, la difesa della scuola pubblica e l’opposizione all’alternanza scuola-lavoro.

Le persone adulte svolgono sempre la funzione pedagogica e, dunque, invece che per caso, la proposta è divenire educatrici consapevoli, per progetto. Gli ultimi nella scala sociale  non vengano solo assistiti, compatiti e mantenuti come poveri, ma diventino soggetti attivi e coinvolti nel cambiamento sociale.

Le tante facce della povertà e della ricchezza miserabile e armata (sempre di ricchezza povera si tratta) rimandano, tutte, alla povertà del degrado psichico che non si riferisce solo ai mezzi materiali, ma coinvolge la dimensione relazionale, affettiva, politica, richiama le categorie morali e i valori simbolici, denuncia la privazione di esperienze culturali, di crescita interiore, di apertura di opzioni pensabili. In un certo mondo del lavoro, posso attraversare periodi in cui più che una libera professionista mi vedo una precaria ma, certo, non sono una precaria dell’esistenza.

La povertà psicologica, in particolare, si esprime nella malattia della carriera verticale, della competitività ritenuta necessaria e che, al contrario, offre più opportunità a chi ha il denaro per scegliere. Ripenso alla povertà psicologica del dominio di alcuni capi sui lavoratori e sulle lavoratrici, di alcuni genitori sui figli e sulle figlie, dell’individuo, irrimediabilmente, a comandare e a controllare sull’altro. Le diverse dimensioni della povertà sono riprodotte e cristallizzate nei modelli di comportamento manipolativo e abusante.

Riconosco la malattia del potere di sé su se stessi/e che inchioda al dovere della perfezione, della forza, della velocità, della riuscita, sempre, dell’approvazione compiacente, dello sforzo perpetuo verso chissà quale conquista. Il pudore e il desiderio della educazione profonda si coniugano nel lavoro di interiorità. Il pensiero interiore è nominato come intimo, oscuro, perturbante, oppure, è animus e anima, è pneuma o psyche.

Il giornalista e scrittore Lucien Descave nel 1914 sfida la demagogia comune capovolgendo il Sermone della Montagna nel suo librino Barabbas. Paroles dans la vallée. Cinico, sgradevole, grottesco e crudele, ecco il vilain homme, a profanare i grandi precetti della vittoria, della ricchezza, del successo, fra la mendicità e la rivolta, fra il senso di giustizia e la provocazione sociale. La disobbedienza e il rifiuto all’omologazione richiedono una disciplina dell’intelligenza e un ampliamento del carattere: Beati i ribelli perché non entreranno in alcun regno (p.57)

Ero entrato in una chiesa e, per mezzo di una bacchetta rivestita di vischio, pescavo monete in una cassetta agganciata e chiusa a chiave. Arrivò un sacerdote, che mi fece arrestare. «Ma è la cassetta per i poveri, dissi; dunque, di conseguenza, è la mia cassetta». Al che il prete rispose: «Ne siete sicuro? Siete sicuro che questa cassetta non fosse là semplicemente per vostra tentazione? In ogni caso, siete colpevole di avere anticipato la distribuzione che avrei giudicato conveniente. Aspettate da secoli, potevate ben aspettare ancora. Ma i poveri sono sempre gli stessi: hanno fretta di gioire!» (pp.31-32). La mia gioia spaventa. (p.52)

 Riferimenti bibliografici

  • Jacobin Italia, Rivista trimestrale, n.18 – primavera 2023
  • Lucien Descaves, Il vangelo degli straccioni, Ortica editrice, 2021
Mancanza

Un altare per la madre

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

 

 

 

“L’unica, definitiva eccezione è la morte: la morte che entra in casa tua ti impedisce di guidare la vita, di indirizzarla contro chi vuoi, ti obbliga a fermarti. Se è entrata in casa tua la morte, può entrare anche il tuo nemico, sicuro che non sarà offeso. C’è qualcosa di strano in questo pensiero, qualcosa di poco chiaro. È come se …come se la verità vera fosse l’esatto contrario della verità apparente. Si crede che la morte sia uccisione e lotta. Invece la morte è una tregua in quella lotta a sangue che è la vita: in quella tregua uno può guardarsi intorno, e finalmente capisce.”p.87

Continuare a leggere è una strada di libertà femminile, è un pellegrinaggio continuo che apre possibilità di esistenza. Smettendo di essere figlia, appartengo alla generazione che progetta paradossalmente a lunga scadenza, intuendo che tanto futuro non potrà esserci e decidendo di “starci lo stesso” (Luisa Muraro), di sentire, di pensare e di scegliere attraverso e non nonostante l’esperienza di morte che tocca a ogni vivente.

 Un altare per la madre di Ferdinando Camon è, in assoluto, il libro di formazione all’autonomia e alla libertà della vita umana. E, dunque, ci invita a ragionare intorno alla finitudine. È umano sentire la morte come un’ingiustizia, come un affronto, come un “segreto vergognoso” (Simone de Beauvoir, lo dice anche della vecchiaia). La morte è un evento irreparabile della vita.

Non elaboriamo la mancanza, non la curiamo come una malattia, “quel che manca non si può contare” (Qoelet). Apprendere e godere l’assenza significa che “è tempo di trovare tempo” (Qoelet), per riconoscere le origini della vita, nel desiderio di amore e di libertà. Rimanendo nella mancanza, riaffiorano parole, battute, cipigli, gesti: “… è che per cucinare serve amore e pazienza…”; “sei diventata senza Christ”; “sei cocciuta, senza sentimenti”; “sei forte, certe cose capitano a chi le può sopportare”; “tieni un brutto carattere”.

Accolgo, così, la bienveillance verso me stessa, parola che mi suggerisce una persona cara. La bienveillance non è solo la benevolenza generica per sé; è sorvegliarsi nel contesto, è assistere la propria crescita in relazione, provvedere alla custodia e alla risoluzione del copione psicologico personale nelle parti che non ci servono più e ci rendono infelici.

La mancanza ci nutre divenendo parte della vita e offrendo una ragione per cui valga la pena faticare, gioire, pensare. La mancanza rimane e diviene occasione per lavorare sul limite che valuto come la causa maggiore della tendenza al dominio, nel modello sociale e politico diffuso, insinuoso e manipolativo.

I processi di invecchiamento sono molteplici e diversi, per ogni essere umano. Ricordare in ebraico è zakhòr, verbo che chiede la fatica della profondità, la coscienza del sottosuolo. L’umano si costruisce nella mancanza e nella memoria: zakhòr è l’imperativo del ricordo, rimanda al lavoro di autocoscienza, perché siamo piante con le radici e siamo creature perdute, quando vengono meno, come nell’alzheimer.

Nella tradizione simbolica di madre in figlia, oltre l’ordine patriarcale, rimangono le parole di lealtà e di cultura dell’anima, in una genealogia di provenienza prevalentemente femminile e non più marginale. Il conflitto non è risolto né risolvibile, ma non è paralizzante, anzi, diviene quotidianità femminile di ragioni guadagnate in prima persona, a trasformare la tradizione copionale, non più come semplice stratificazione. Intendo il conflitto come trasformazione e non opposizione, come molteplicità e non dualismo.

Quando con la morte tutto è perduto, ciò che rimane è la vita, luminosa nella periferia, nello scarto, nell’avanzo minimo che non è detto sia senza valore. Dalla decomposizione della morte ricomponiamo il progetto di vita, la trasmissione, di madre in figlia, del senso dell’abitare il mondo, in fedeltà al proprio essere donna. Ci interessa il processo avviato, e non si torna indietro; quella energia e quella sapienza non andranno perdute: per le madri, non ci sono altri altari.

 “La morte è tante cose: silenzio di una voce, separazione per sempre, distanza senza fine. L’altare è una voce, è un ponte, è una vicinanza. Ci sono dei modi per vincere la morte, ogni specie vivente ne ha uno, dalla cicala all’uomo. L’uomo ha il mezzo più semplice: non uccidere. Chi non uccide non morirà. La morte è una scelta: basta non sceglierla. È un atto di volontà: basta non volerla. Un uomo è appoggiato al muro, altri uomini gli sparano. Questi hanno scelto la morte e stanno morendo, quello vivrà in eterno. Come è chiaro tutto ciò, e come è strano che occorra la morte per pensarci. Si dice che la morte rovini la vita: al contrario, la salva… Solo la vita che non ignori la morte non si rinnegherà.”p.8

  • Ferdinando Camon, Un altare per la madre, Garzanti, 1978
  • Rivista Approfittare dell’assenza, Ed.Liguori, 2002

 

Ph.Antonella Aresta

Il sesso utile

Proseguo le riflessioni con una significativa maestra di lettura, nata nel 1929 e scomparsa nel 2006, scrittrice, giornalista e attivista. Avevo quarantadue anni quando il giornalista Tiziano Terzani confrontò duramente Oriana Fallaci per la sua brillante lezione di intolleranza(1), e io gli diedi ragione. Mi parve, allora, che Fallaci, in seguito agli attentati dell’11 settembre, fosse caduta miseramente difendendosi dalla paura e dalla tristezza, coprendole con la rabbia e l’orgoglio contro l’Islam(2). Cadendo, a mia volta, continuai ad acquistare i suoi libri, anche quelli minimi e precedenti, senza leggerli.

Da Il sesso inutile, pubblicato nel 1961, riprendo gli scritti di Oriana Fallaci con la coscienza odierna che il dolore, la fatica, la malattia, la solitudine modificano, di un essere umano, lo sguardo, il comportamento e le parole sul mondo. Rimango, altresì, convinta che possiamo apprendere a combattere senza odiare e senza cedere alla frustrazione impotente, come suggerisce la filosofa Luisa Muraro(3).

Il direttore de L’Europeo propone a Oriana Fallaci, allora trentenne, un’inchiesta sulla condizione della donna. Per lei, scrivere sulle donne, come se fossero una fauna speciale, appare ridicolo e sta per rifiutare. L’incontro con una signora affranta e sfiduciata che, però, ha tutto dalla vita, la convince a partire, alla ricerca delle condizioni possibili perché ogni donna possa essere felice. Il libro risente delle attività iniziali in ambito cronachistico, è il resoconto di un lungo percorso, affiancata dal fotografo Duilio Pallottelli. Il viaggio tocca principalmente mete orientali, il Pakistan, l’India, l’Indonesia, la Cina (Hong Kong), il Giappone e le Hawaii. Fino alla grande America: eravamo a New York, la metropoli dove le donne comandano come in nessun’altra parte del mondo.

Ovunque, le donne possono essere ritenute e viversi come inutili e sbagliate. Contare tutto o contare niente è la stessa cosa: gli estremi condannano le donne alla patologia bipolare.

Il sesso inutile è un paradosso, una boutade, ribadisce Fallaci, nell’intervista rilasciata al giornalista Ugo Zatterin, nel 1961, durante la trasmissione Controfagotto(4). E apprendiamo che la categoria dell’utilità non si incrocia con le riflessioni sulla sessualità e che non può esistere un sesso utile o inutile. E che il sesso è diverso dal genere. La storia negata delle donne e delle loro opere è una cicatrice, è un dolore sempre più complicato che tutte portiamo addosso. L’emancipazione e il progresso, slogan acquistati e venduti in società ingiuste, possono diventare un inganno, se la donna non ha la possibilità di vivere indipendente economicamente, autonoma psicologicamente e libera socialmente, assieme a tutte le altre.

Da un capo all’altro della terra le donne vivono in un modo sbagliato: o segregate come bestie in uno zoo, guardando il cielo e la gente da un lenzuolo che le avvolge come il sudario avvolge il cadavere, o scatenate come guerrieri ambiziosi, guadagnando medaglie nelle gare di tiro coi maschi.

Tutte, risposi a Laureen, erano più o meno consapevolmente lanciate verso qualcosa che non può provocar che dolore, un dolore sempre più complicato. Il grande ritornello che scuote le donne dell’intero globo terrestre si chiama Emancipazione e Progresso: ogni volta che sbarcavo in un nuovo paese mi trovavo dinanzi queste due parolone e le donne se ne riempivan la bocca quasi si fosse trattato di chewin gum. Gliele abbiamo insegnate noi donne evolute, come a masticare chewin gum, ma non gli abbiamo detto che il chewin gum può far male allo stomaco.

Ne Il sesso inutile è interessante la via intrapresa dall’autrice, via di conoscenza e di comprensione della realtà. Gli incontri e le interviste trasmettono la disponibilità al servizio e all’ascolto, la cura del tempo e dello spazio nelle interazioni, la gentilezza tenace, lo studio. Senza ipocriti moralismi, Fallaci ricorda a ogni donna come l’essere vera e laica significa registrare ciò che vede e ascolta con onestà e rigore. Onestà, ci insegna, è non fare sconti a noi stesse, è combaciare con la propria nudità, con le contraddizioni e i dispiaceri. Onestà è impegnarci a proteggere, grazie al viaggio che è sempre anche psichico, il diritto di parola.

Nelle righe bianche del testo rivedo Oriana in ogni età vissuta, a dieci anni, a coinvolgersi con il padre antifascista in piccole e pericolose attività e poi, giovane e innamorata, a decidere l’interruzione volontaria di gravidanza, a rinascere affrontando la depressione e a scegliere di inviare, per ripicca, la corrispondenza amorosa alla moglie del meschino amante. Oriana, in ogni tempo, risceglie ancora e ancora l’amore come un atto eroico, fino al sacrificio della scrittura sublime e dolorante nel romanzo Un uomo. Con le parole scava, curiosa e intransigente, senza perdere la forza, combattente con la tenerezza, unita e in perenne conflitto interiore.

Femminismo non è una brutta parola e anche se Fallaci non si è mai dichiarata femminista, ritrovo nel linguaggio e nella sua stessa esperienza le origini di un desiderio diventato un movimento per gruppi numerosi e diversi, le origini di una trasformazione della storia ancora in corso, dispersa in mille rivoli che non ci trovano in accordo, non sempre, non tutte, non per forza.

Contano il corpo, la testa, il cuore, le parole delle donne, matte tutte, sì. Contano, se le donne rimangono libere a generare una cultura nuova dell’umano. Condivido dal testo:

… Tanto, il nostro, è un sesso inutile. Il discorso mi turbò un poco. È come un tale che non si ricorda di avere le orecchie perché ogni mattina se le ritrova al suo posto, e solo quando gli viene l’otite si accorge che esistono, mi venne in mente che i problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto d’essere donne. Non alludo solo a una certa differenza anatomica. Alludo ai tabù che accompagnano quella differenza anatomica e condizionano la vita delle donne nel mondo. Nei paesi mussulmani, ad esempio, nessun uomo ha mai nascosto la faccia sotto un lenzuolo per uscir nelle strade. In Cina nessun uomo ha mai avuto i piedi fasciati e ridotti a sette centimetri di muscoli atrofizzati e di ossa rotte. In Giappone nessun uomo è mai stato lapidato perché la moglie ha scoperto che non era vergine.

Note

  1. https://volerelaluna.it/cultura/2021/08/21/terzani-il-sultano-e-san-francesco-lettera-a-oriana-fallaci/
  2. https://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/09_Settembre/15/rabbia1.shtml
  3. https://www.libreriadelledonne.it/_oldsite/news/articoli/contrib041012_muraro.htm
  4. https://www.youtube.com/watch?v=i0AYO-3teCU

Numero 19 Archivi – La Stanza di Virginia

Ph.Fonte Silvia Meo

Rinascite quotidiane

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Disattenzione” di Wislawa Szymborska:

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Propongo un pensiero sulle possibilità di rinascita quotidiana, minima solo apparentemente, sistematica, profonda e silenziosa. Le rinascite quotidiane, spesso le chiamiamo crisi, prevedono l’accettazione e la coscienza della morte e della speranza. Maestra di viaggio, fra molte altre, è Maria Zambrano, nel testo Verso un sapere dell’anima: Sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana. Dover morire e risuscitare, senza uscire da questo mondo.

La vita è zoe, ci è data, è esistenza biologica, un mero dato fattuale. Ma è anche bios, scelta consapevole, processo continuo che ci porta a ripensare e ad agire il senso del nostro stare al mondo. Dalle dinamiche di rinascita allontaniamo la finta retorica dell’eroe e dell’eroina sacrificale perché chi sceglie di rinascere, ogni volta, non vince, non si dichiara vittima e non salva nessuno: la persona che sta accudendo la propria rinascita può essere stanca e avvilita, registra il dolore, rimane nell’abbandono e vede la morte del seme sepolto nella terra. È terribile registrare la realtà di un quaderno finito, di una cella frigorifera, con un foglio osceno, a ridurre l’identità complessa, a chiudere le idee, i desideri e i progetti. La speranza viene a trovarci proprio lì: risentiamo la forza della vita che spinge e fa ancora male, la necessità di ritornare ad abitare le relazioni e i contesti sociali, la gioia faticosa, a capovolgere lo sguardo, a infastidirci, impegnandoci a mettere a fuoco quello che avevamo considerato come l’invisibile e l’inconcepibile. La cura è nel rimanere a vigilare i segnali inviati, talvolta silenziosi, talvolta urlati, dal nostro corpo, dalla mente e dall’anima.

La rinascita è una conversione che comporta passaggi in discontinuità, comporta vertigini, spaesamento, paura. Perciò è fondamentale prepararci a farci incontrare dalle crisi, imparando a chiedere aiuto e a fidarci, per non rimanere sorpresi e paralizzati, e per accogliere bene, con amore, il cambiamento, come un momento di svolta e di verifica, come una nuova occasione per essere felici. La speranza è una scelta emotiva e cognitiva; significa che, lontane/i dai facili ottimismi e dalle pericolose attese magiche, misuriamo la realtà e ci consegniamo ad essa, accompagnando gli avvenimenti senza opposizione, senza sfida, senza rancore. Gli eventi che ci capitano, la morte, la mancanza, la perdita ci stordiscono, ci fanno precipitare nel buio e nell’impotenza, e rappresentano l’inverno che ci tocca verso la nuova luce. Non esistono dèi malevoli che appendono gli umani alle croci; invece, ciascuna persona, con i suoi tempi e con le sue modalità, rivela la liberazione dalla fissità patologica e la libertà di esprimere il Sé.

Dice bene ancora Maria Zambrano: … il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza…la speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi in modo solo abbozzato. In questo senso, la speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo; grazie ad essa siamo figli dei nostri sogni, di ciò che non vediamo e non possiamo verificare. Affidiamo così il compito della nostra vita a un qualcosa che non è ancora, a un’incertezza. Per questo abbiamo tempo, siamo nel tempo: se fossimo formati già del tutto, se fossimo già nati interamente e completamente non avrebbe senso consumarci in esso.

Le nascite successive inverano la prima nascita, fanno diventare autentica la nascita storica, quella scritta sulla carta d’identità, offrendole un senso ampio, un copione risolto, in autonomia: questa è la speranza. Rinasciamo quando impariamo a scegliere e a decidere, quando combaciamo con noi stessi/e e con l’esistenza che ci attraversa. Rinascere non è ritornare al sé stesso di prima, con variazioni in superficie, non è ripetere lo stesso modello, ma è costruire un orientamento alla differenza che matura in noi stesse/i e che va sorvegliato con benevolenza e nutrito con lo studio, con la ricerca e la condivisione in comunità flessibili e includenti. Quando ci toccherà, moriremo vive e vivi, e saremo polvere benedetta e luminosa, a ritrovarci nei percorsi segnati, nelle parole fatte circolare, in ogni Natale che tornerà a significarci il senso dell’essere in relazione.

Ringrazio la Rivista Correlazioni Universali, la direttora editoriale Angela De Leo, il responsabile Peppino Piacente per aver accolto la collaborazione

 

TedxBt

Il viaggio umano e i cammini personali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ogni viaggio è una scuola di resistenza,

una scuola di stupefazione, quasi un’ascesi,

 un mezzo per perdere i propri pregiudizi,

 mettendoli in contatto con quelli degli altri

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

Il viaggio è la metafora della vita umana e ogni persona compie la sua esperienza esistenziale attraverso cammini diversi e complessi. In questo incontro, utilizzo la metafora del viaggio anche come viaggio interiore, come divenire: è il viaggio che inquina di meno.

Viaggiare non significa soltanto arrivare alla mèta, raggiungere il risultato previsto; d’altronde, a noi umani, il finale è noto, è la morte. In ogni percorso, il successo finale è importante ma, ancor più, valutiamo le modalità che abbiamo scelto per vivere, le visioni che abbiamo coltivato, le relazioni che abbiamo incrociato. Rimanendo nella metafora, se è vero che non scegliamo inizialmente di incamminarci, ad un certo punto, dopo essere venuti al mondo, registriamo la nostra presenza e, più o meno consapevolmente, decidiamo come jouer il nostro spartito, come jouer la nostra partita. Mi piace il verbo jouer che nella lingua francese ha, fra molti, il significato di giocare, di suonare e, anche, di raggirare qualcuno e di recitare un ruolo.

Il viaggio si svela, si scopre fra la conoscenza e la coscienza; Jung, uno psichiatra del Novecento, parla di processo di individuazione: Il processo di individuazione è un fenomeno limite della psiche, e richiede condizioni particolarissime per diventare cosciente. Si tratta forse della fase iniziale di uno sviluppo di cui un’umanità futura imboccherà la via, ma che come deviazione patologica ha portato intanto l’Europa alla catastrofe. Sembrerà forse superfluo, a chi conosce la psicologia complessa, illustrare una volta ancora la differenza — chiarita ormai da tempo — tra il divenire cosciente e la realizzazione del Sé (individuazione). Continuo a vedere però che il processo di individuazione è confuso con il divenire cosciente dell’io, e quindi l’Io viene identificato col Sé, con l’ovvia conseguenza di una irrimediabile confusione. Perché in tal modo l’individuazione diventa semplice egocentrismo e autoerotismo. Invece il Sé racchiude infinitamente di più che un Io soltanto, come dimostra da tempo immemorabile la simbologia: esso è l’altro o gli altri esattamente come l’Io. L’individuazione non esclude, ma include il mondo. (C.G. Jung, Considerazioni sull’essenza della psiche, in Opere, VIII, pp. 242-243.)

L’individuazione è un percorso difficile, lungo e doloroso che porta alla realizzazione della personalità individuale, in un contesto storico e sociale. Apprendiamo a vederci e a vederci con gli altri e le altre, in un mondo che ci ospita, che ci nutre e che noi stesse/i collaboriamo a modificare. Iniziamo il percorso guidato di consapevolezza quando avvertiamo una mancanza, una spinta di turbamento, di inquietudine. Nessuno può essere forzato se non è arrivato il suo momento di apprendimento, in lingua greca è il kairos, il momento giusto per metterci in viaggio.

Molti anni fa, pensavo che ogni essere umano dovesse scegliere se compiere il suo cammino come turista, come viandante o come pellegrino; incamminandomi ho capito che in alcuni periodi di vita sono stata una turista, in altri una viandante e in altri ancora, una pellegrina. Adesso, più rallenta il mio passo, più vivo, assieme, da turista, da pellegrina e da viandante. E riscopro i valori diversi di ogni esperienza, in ogni situazione.

Da turista sono veloce, viaggio leggera, voglio vedere più cose possibili, nel più breve tempo possibile, voglio accumulare le foto, costruire i ricordi, postare sui social perché tutti sappiano. Sono contenta, sono in buona salute, posso dormire o mangiare male e poco, posso camminare tanto, ma sono forte e tengo il passo. Sono interessata, vivace, lavoro, prendo appunti che rileggerò. Sono soggetto, sono parte attiva, decido io e risolvo i problemi.

Come viandante mi organizzo, da sola o in compagnia, scelgo l’abbigliamento adeguato, preparo lo zaino, studio le mappe, conosco le tappe, i tempi, e il tempo che farà. Sono consapevole, sono decisa nell’impresa, convinta che ce la faccio, perseguo gli obiettivi e riconosco le relazioni. Rimango di più in qualche luogo, aspetto volentieri che mi raggiungano le compagne e i compagni. La natura dà sollievo, incanta, guida amorevolmente i pensieri, suggerisce mète antiche.

E poi scopro il cammino da pellegrina. Da indifesa, è il viaggio che ammala e che cura; diviene lentissimo, si arresta, poi riprende; ho l’impressione di tornare indietro, di avere sbagliato strada, di avere inutilmente allungato il percorso, di non aver goduto il panorama. Non arrivo in orario da pellegrina, non ho nulla da raggiungere e sento la fatica e il dolore e poi la gioia della nomade. Da pellegrina cammino scalza, mi sento fuori luogo e mi perdo; magari faccio incontri sgradevoli, neanche immaginati. Mi accorgo che è il cammino che mi fa, è la strada che mi sceglie; accolgo l’oscurità, l’indecisione, il mistero della via e degli incontri casuali. Talvolta, il viaggio da pellegrina è virtuale, è a stare, a farmi attraversare da un testo, dalla parola di una persona sconosciuta, da una pièce teatrale, da una musica, dalle scene di un film, da una ricerca su internet che inizia con una parola digitata e finisce chi sa dove.

Nessun cammino è giudicabile perché è proprio da lì che dobbiamo passare, è proprio quella la strada che ci tocca e le relazioni che accadono. Anche negare il viaggio o negarsi significa che ci stiamo muovendo, che scegliamo o che sappiamo farci incontrare, paradossalmente, da ferme. Il divenire dell’essere umano è in ogni modo e non ha mai fine. Diventare grandi significa capire che siamo lì dove dovremmo essere, non c’è un altro luogo e un altro tempo e che andare avanti significa andare indietro, in profondità, significa combaciare sempre di più con se stessi, con il personale nucleo esistenziale.

Le tre modalità di viaggio segnalate possono, in realtà, essere molte di più, si incrociano e i non-luoghi, come li chiama l’antropologo Marc Augé, diventano luoghi abitati da volti e da respiri diversi di cui diveniamo faticosamente consapevoli. E, nello stesso tempo, sono turista, viandante e pellegrina. Eccomi, mi accorgo di esserci, con altri e con altre, in leggerezza e in pesantezza, vicina e lontana, presente per assenza. La differenza ognuno/a la fa per se stesso/a. Ci tocca solo di vivere e di consegnarci all’esperienza e di leggerla, di condividerla e poi rileggerla ancora, con sguardi nuovi, da prospettive diverse. L’esperienza del corpo passa attraverso i cinque sensi, e cammin facendo scopriamo che anche l’anima e il pensiero hanno i loro innumerevoli sensi. I pensieri, i sentimenti, i comportamenti custodiscono odori, sapori, visioni, suoni e contatti.

Abbiamo qualcos’altro da fare se non incamminarci e apprendere, incamminarci per apprendere? Quali parole caratterizzano i nostri percorsi?

 

Convegno Officine

La comunità di pratica: l’esperienza della “scuola di educazione Alla persona”®. Passaggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

Sono grata per questo invito; ho la possibilità di fare sintesi in quarant’anni di vita professionale, di vedere la realtà quotidiana, di rivedere i passaggi fondamentali, di prevederne le trasformazioni. E poi di fare silenzio perché la vita possa accadere, anche a prescindere da me, da noi.

Nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza nei confronti delle donne, ancora ci interroghiamo sul vecchio copione maschile, omofobo, razzista e misogino. Lavoriamo per il cambiamento dei modelli virili, soprattutto perché ogni violenza sulle donne, ogni femminicidio racconta la difficoltà, l’impossibilità di registrare la presenza femminile nel mondo e di costruire qualunque relazione con il pensiero libero, con la scelta in autonomia di ogni donna. Compiamo la nostra opera lì dove siamo, accanto alle persone dalle quali ci facciamo incontrare e che decidono di vederci.

Colgo l’occasione del convegno per recuperare le ragioni di avvicinamento ai movimenti femministi e, in particolare, ad alcune pensatrici femministe: loro offrono una prospettiva diversa, capovolta rispetto all’omologazione intorno alle relazioni, al riconoscimento e alla trasformazione dell’esperienza umana. Il lemma femminismo ancora oggi è tanto fastidioso quanto incompreso, fino a divenire, nei casi più malevoli, uno stigma.  Nel mio percorso formativo la teoria analitico transazionale incontra il femminismo negli assiomi fondamentali: la pratica relazionale diviene esercizio di autenticità. La filosofia dell’Analisi Transazionale, l’idea e la pratica di autonomia mi sono state trasferite da Maria Teresa Romanini, mia analista. Ancora confido nel diritto, nella responsabilità e nella capacità individuale a riconoscere e a governare la propria vita

In un primo momento,  il movimento pubblico negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, è maggiormente focalizzato, non esclusivamente, sull’emancipazione e sulla parità. Io, solo negli anni ’90, incontro il femminismo della differenza, il pensiero della differenza, fra Roma, presso la Casa Internazionale delle Donne e Milano, presso la Libreria delle donne. A Carla Lonzi arrivo in modo naturale e non intenzionale: lei e le altre esprimono e organizzano in modo ordinato i pensieri miei, in quel tempo ancora più confusi e solitari. E, appunto, da Carla Lonzi a Luisa Muraro, a Lia Cigarini, ad Annarosa Buttarelli, la pratica dell’autocoscienza facilita il pensiero di donna rispetto a se stessa, agli altri, alle altre e al mondo.

Incrocio i testi delle pensatrici e, pur frequentando per un decennio la scuola per diventare psicoterapeuta, da essa mi allontano, scegliendo la formazione come centrale nella mia professione, più somigliante alla persona che andavo diventando. La rabbia avvertita nutre la rivolta, l’impotenza si trasforma in energia, in azione. L’emancipazione diviene non tanto una via per ottenere il potere al posto dei maschi, con la testa del vecchio trombone patriarca, ma una modalità per aprire, per perdermi e ritrovarmi su altri percorsi, con l’intuizione e con l’umiltà che la ricerca impone.

Mi nutro del pensiero e della ricerca di donne che mi aiutano a riconoscere e a risolvere la trista pratica psicologica nei casi in cui preveda unicamente, come unica cifra di felicità, l’autosufficienza, il benessere individuale, l’autostima, la forza personale, l’empowerment.

Riprendo le parole di Muraro, nell’articolo Tutto comincia da dentro, del 2017: “ … l’allegoria di donne che sfidano l’uomo per rompere il regime d’irrealtà che si è creato con la subordinazione del femminile al maschile. In parole storiche, io ci vedo un’allegoria del femminismo della differenza, quello che ha fatto della differenza sessuale il varco per la presa di coscienza che tutto comincia da dentro (come dicono in architettura), un dentro che racchiude il segreto della soggettività libera. Subordinare gli altri a sé, a cominciare dalle donne, ha fatto credere alla più parte degli uomini di essere entità autosufficienti e di poter controllare e cambiare il mondo mettendolo in un’esteriorità oggettiva.”

L’esperienza della scuola di educazione Alla persona®, nei primi anni duemila, origina dalla proposta di accompagnare le persone che mi si rivolgono, in presenza nuda e patita, per leggere la realtà e per trasformare noi stesse, partendo dai vissuti e dai desideri che divengono modalità di abitare ogni situazione. Il contratto psicologico fra di noi propone, attraverso fasi diverse, la lettura dei testi, soprattutto, delle autrici citate; le riletture possibili del copione e la liberazione del copione sotto forma di ridecisioni. In questa sede non approfondisco, ma sottolineo la diversità fra il lavoro di rilettura del copione e la scelta di liberazione dal copione.

La visione, la struttura mentale, la presa in carico del copione personale non sono cose astratte; la pratica delle relazioni anche conflittuali fra le donne, e fra le donne e il mondo è una forma di amore politico che ci permette di non valere solo come singolarità, ma anche di affinare, di approfondire la noità. Non rivendichiamo diritti come fossero concessioni generose, avviamo il processo delle tre C, in ordine, processo di Comprensione, di Coinvolgimento e di Compromissione.

Oggi penso che la parità non sia tutto, e che valga poco l’affermazione di donne che possono dire o agire come gli uomini. La parità è un passaggio, non è la fine del patriarcato, soprattutto non è l’autonomia dalla rappresentazione maschile della vita e dai modelli interiorizzati. Su questo il femminismo ha fondato l’allontanamento dal sessismo e da tutte le forme di dominio con esso imparentate.

La posizione post-critica attiva la decostruzione in una società in cui prevale ancora pericolosamente l’immaginario e il potere patriarcale, da parte degli uomini e delle donne. Sempre ci tocca riconoscere e disinnescare i dispositivi culturali che appaiono spontanei e innocenti, non intenzionali e che, però, continuano a ignorare il pensiero delle donne e i movimenti femministi.

La costruzione è la parte utopica: la critica alla società fallologocentrica e la pratica, nella quotidianità, agendo in ogni relazione le idee di libertà e di giustizia. Il corpo di ognuna diviene testimonianza viva di una liberazione, anche sessuale, che non è più in funzione del modello maschile. Prendiamo così le distanze dalla competizione e dalle manipolazioni più o meno visibili, dai dati escludenti delle prestazioni, dalle compagnie strumentali rimaste a disposizione di un mercato in cui contano soltanto i soldi e il potere. Siamo lontane anche dal patriarcato di donne che propongono una al posto di tutte, una sola che parli in mio nome.

Abbiamo appreso a fare attenzione alle parole che non sono mai vergini; il passo avanti, oltre il linguaggio, è fare attenzione al contesto nel quale usiamo quella parola, la visione ampia di riferimento e la ricaduta fra la semina e la crescita, rispetto alle parole scelte. Non ci sono parole indicibili, da cancellare. Scelgo parole non vergini, ma caste, castus, da carere, esenti da colpe. Le parole colpevoli sono quelle dette senza pensarci e che si sono sempre usate in una unica accezione escludente.

La capacità argomentativa non è naturale, arriva apprendendo a contestualizzare e a problematizzare, a raccontare del disagio avvertito, registrando l’inquietudine e il sentirci mancanti. Non è snobismo, sine nobilitate, è invece la possibilità di ridare dignità e contezza alla nostra esperienza, quindi, di nobilitare, nella condivisione, i sentimenti e i pensieri. Ci avviamo verso una forma di fedeltà alle differenti e più profonde parti di noi stesse. Senza conformarci a dottrine, ideali, criteri costruiti dagli uomini, dai padri, dai padroni.

Il lavoro della psicologa è il lavoro dell’ostetrica: assiste, vigila, accompagna, talvolta, è solo presente, non fa necessariamente qualcosa, ipotizza, segue l’intuizione, non indottrina e non interpreta a caso.

Quella che chiamo Comunità di Ricerca si è espressa, nel tempo, con la formula della viandanza e della restanza. In una sorta di ampia cittadinanza virale, le relazioni accadono in modalità, in tempi e in luoghi diversi e lasciano ferite come passaggi, come feritoie che accolgono il conflitto, la contraddizione, il dubbio verso le trasformazioni, innanzitutto, di noi stesse/i.

In spazi adeguati, con altre e altri, predispongo il luogo e il tempo a disposizione del pensiero e della condivisione, studiando la formula dell’eremo interiore, come nel beghinaggio e nella pustinìa. Questa è un’anticipazione della vita futura, personale e professionale, come una promessa, un invito. Come una carezza psicologica. È davvero un altro discorso, sarà la storia dell’età più adulta, della mia vecchiaia.

Grazie. Per l’invito. Per l’ascolto.

IA

… finché continuiamo a tormentarci e a impazzire

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

L’intelligenza umana si esprime attraverso il corpo, la mente e l’anima, il soffio vitale, in un insieme che comprendiamo parzialmente,  per le molteplici variabili, diversamente interagenti. Gli sviluppatori di programmi di intelligenza artificiale (IA) lavorano per riprodurre alcune o tutte le funzionalità della mente umana. Mi chiedo quanto sia possibile, ottimizzando gli algoritmi, insegnare il tormento, produrre il conflitto, sperimentare la follia che attraversano la carne, lo spirito e la mente in modo diverso per ciascun essere umano. E ancora mi appassiona la ricerca nelle relazioni umane di amore e di morte, di mancanza e di desiderio, di presenza e di incomprensione. L’IA, come ogni rivoluzione tecnologica, risponde a input precisi e può garantire una più alta qualità della vita nella misura in cui siamo capaci di sapere chi siamo, di governare i processi e di valutarne gli aspetti etici.

L’ingegnere Giorgio Metta afferma che per apprendere realmente a ragionare come noi essere umani, le magnifiche reti neurali artificiali di recente costruzione debbano essere dotate anche di un corpo simile al nostro.

La capacità umana di apprendimento non è soggetta agli automatismi, non impara soltanto dall’analisi di dati. Nella fenomenologia dei processi di apprendimento e di possibile cambiamento sono coinvolti lo Stato dell’Io Genitore, lo Stato dell’Io Bambino, lo Stato dell’Io Adulto. Gli Stati dell’Io custodiscono la Natura mentale, l’essere costituiti da elementi psichici e non solo biologici; la Fluidità biologica, il cambiamento nel tempo per fattori evolutivi ed esperienziali; l’Adattabilità, le reazioni originali agli stimoli interni ed esterni.

In modo diverso, attraverso ogni condizione psicofisica, conserviamo la capacità di valutare in modo critico e/o affettivo, positivo e/o negativo, di registrare i dati di realtà, immerse/i nella storia personale, nel proprio contesto di corpi, di emozioni e di pensieri. Di ciascuna persona, mi confortano le aree maggiori o minori di possibilità del disturbo psichico, della contaminazione, dell’esclusione, patologie degli Stati dell’Io. Mi conforta sapere della disfunzione perché quell’ombra specularmente rimanda all’autonomia nelle relazioni umane, alla possibilità di consapevolezza, di intimità, di autenticità di cui siamo capaci.

ChatGPT è uno dei software di intelligenza artificiale al centro di una nuova rivoluzione tecnologica, nei lavori di scrittura e di programmazione. Il processo matematico e statistico intervistato, risponde senza l’influenza delle abitudini, dei sentimenti, dei pensieri contrastanti. L’apprendimento supervisionato aggiusta l’algoritmo utilizzando gli errori, in modo che non si ripetano in futuro. Invece io, a 64 anni, non solo sono capace di continuare a ripetere gli stessi errori, ma trovo anche straordinaria e potente questa possibilità di apprendimento seguendo i tempi, gli spazi, le relazioni, la crescita evolutiva solo mia.

Lo scrittore Nicola La Gioia ricorda che imparare dai vecchi errori ha a che fare più con la grazia che con la buona volontà. Possiamo capire cosa avremmo dovuto fare nel passato, non nel presente, poiché il contesto in cui ci muoviamo ora ci espone a insidie sconosciute, mettendoci alla prova in modo inedito. La piena comprensione delle cose arriva insomma quando è tardi.

E gli scrittori Hanif e Sachin Kureishi: Molti temono di essere soppiantati dall’intelligenza artificiale, ma dovrebbero invece impiegare tutte le loro energie per padroneggiare la tecnologia, usandola per lavorare di più e meglio… Un testo senza autore è come una bella automobile senza motore: non avrà mai alcun significato culturale né storico. L’autenticità è soggettività, e la soggettività è la linfa vitale di una storia.

La psicologia sperimentale e l’ingegneria interagiscono e ci rassicurano con la difficoltà di spiegare totalmente il mistero del funzionamento del cervello umano. La tecnica e il mondo digitale del cyberspazio ci aiutano a vivere e a curarci meglio. Continueremo a impazzire, a essere mortali, a un certo punto, fragili, incurabili e questa è la garanzia dell’umanità felice, perché porosa e dolorante. La coscienza e l’incoscienza, il desiderio e l’intuizione; il male indipendente e Dio onnipotente rappresentano la costituzione dell’essere umano, non sono solo variabili emozionali mancanti all’IA.

Sulla terra, siamo dove e come dovremmo essere, nessuno e nessuna cosa può, nel bene e nel male, sostituirsi a ognuna/o di noi. Siamo libere/i e per qualcuno può non essere una bella notizia perché la libertà rimanda alla responsabilità, alla fatica di capire e di trasformare, sapendo che ogni scelta vale in un tempo e in uno spazio e non per sempre. Finché continuiamo a sperimentare le relazioni conflittuali, a sospendere il comando e a perdere il controllo, insomma, finché potenzialmente possiamo impazzire, siamo salvi e rimaniamo umani.

The Creator, il film di Gareth Edwards scritto insieme a Chris Weitz, mi lascia perplessa per ingenuità, affogato in un mare di effetti speciali. La resistenza nell’accogliere l’ibrido uomo macchina non è da addebitare alla forza spiazzante della mente, di Nirmata, in nepalese Creatore, quanto alla mancanza di umiltà dei padroni del mondo, alla passione sfrenata e ostinata per la guerra e per la vittoria come spegnimento dell’altrui esistenza. La creatura umana perde quando non accetta di perdere e di perdersi, quando manca la ricerca di sé e dell’alterità. L’aspetto umano non è l’opposto del tecnologico, e la persona non è in conflitto con l’IA: è la sua anima, è l’energia che può mantenere in vita l’artificio, governandolo per la collettività. L’arma/bambina, l’entità artificiale, può essere un’opportunità, oppure è la lotta con un’entità inafferrabile, è la proiezione e la costruzione di un fantasma nemico interno.

Rimane determinante la ricerca interiore, quel di più nelle riflessioni della filosofa Luisa Muraro, riprendendo una frase della beghina e mistica Margherita Porete: Mon manque est mon mieux, Ciò che mi manca è il mio meglio.  La consulenza e la prevenzione, parlando di educazione Alla persona, trovano ispirazione dalla ricerca pratica, dalla rivelazione e dal ragionamento, come una teologia in lingua materna che Muraro restituisce:

«… ho cercato quello di cui non sono all’altezza, ho imparato che l’impreparazione è il modo per far essere l’essere, dar vita alla vita: che cosa vuol dire? Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso, questa è l’intelligenza dell’amore… È la scoperta della radicalità ontologica del desiderio nell’essere umano, desiderio di “niente”, sconfinato, senza appagamento… Quello che mi manca è il mio meglio, perché significa la possibilità di un di più di cui io non ho idea, ma di cui sento la mancanza al presente e tanto basta a rendere grande questo presente, ben più grande di un futuro concepito da me con le mie limitate risorse.»

(Il futuro è aperto, a cura di Elvira Roncalli, Prospero ed., 2023, pagg.130/194)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Articoli Ma(n)chine Learning:

Ph.A.Aresta

Il capodanno in fondo è a settembre: cambiamenti nella ricerca psicologica

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

Luglio e gennaio sono mesi facili da decifrare. Potrebbero essere piccoli assaggi di eternità, per quanto sono definiti e immutabili, eguali a se stessi dall’inizio alla fine. Settembre no, dal primo giorno all’ultimo il mondo intorno a noi prende a cambiare. Settembre è il campo di una battaglia malinconica. L’esito è scontato e l’autunno prevarrà, ma la battaglia è comunque vera. Un giorno la pioggia può prenderti a schiaffi finché non trovi una tettoia per ripararti, la mattina dopo ti svegli e il sole ti morde la pelle.

G.Simi, Senza dirci addio, ed.Sellerio, 2022, Ed.del kindle, p.236

L’Ordine nazionale degli psicologi italiani ha votato la modifica del proprio codice deontologico, con 9.034 voti favorevoli e 7.617 contrari.

L’articolo 32 della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Le modifiche del codice deontologico degli/lle psicologi/ghe riguardano l’articolo 24, sul consenso informato sanitario dinanzi a persone adulte capaci, e l’articolo 31, sul consenso informato sanitario nei casi di persone minorenni o incapaci.

La modifica del codice prevede la maggiore libertà delle/gli psicologhe/i che potranno segnalare direttamente all’autorità giudiziaria la necessità di un trattamento sanitario obbligatorio (Tso), anche senza il consenso informato.

Ricordo che l’attivazione del Tso prevede oggi tre variabili: 1. la persona si trova in una situazione di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici; 2. gli interventi proposti vengono rifiutati; 3. non è possibile adottare tempestive e idonee misure extraospedaliere.

E oggi capita spesso che il provvedimento di ricovero forzato venga mantenuto, nonostante il paziente accetti la terapia.

Con l’aggiunta prevista nel codice, non saranno più necessari due pareri medici, l’ordinanza del sindaco, convalidata dall’autorità giudiziaria entro 48 ore; infatti: «Nei casi di assenza in tutto o in parte del consenso informato, ove la psicologa e lo psicologo ritengano invece che il trattamento sanitario sia necessario, la decisione è rimessa all’autorità giudiziaria».

Ricordo la storia. Nel 1978, la legge 180 sostituisce la legge Giolitti sulla custodia e la cura degli alienati. Nello stesso anno, Franco Basaglia, intervistato dal giornalista Giliberto del quotidiano La Stampa, commentava perplesso:  

“E’ una legge transitoria, fatta per evitare il referendum, e perciò non immune da compromessi politici. Ora bisognerà lottare perché nella discussione sulla riforma sanitaria tanti aspetti farraginosi, ambigui, contraddittori di questa legge siano portati alla ribalta e cambiati… Ma attenzione alle facili euforie. Non si deve credere d’aver trovato la panacea a tutti i problemi dell’ammalato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano con il corpo. È come se volessimo omologare i cani con le banane. Facciamo l’esempio di chi ha un tumore o una febbrona o il verme solitario. Se va a finire all’ospedale, c’è la ricerca della causa del suo male, e in certi casi il ricovero s’impone (malattie molto contagiose). Ma se ricoveri – cioè togli la libertà – a una persona perché ha pensieri bizzarri o disturbi psichici, perché lo fai? A che cosa si riferisce quel ricovero? Che cosa può voler dire grave alterazione psichica? Negli ospedali ci sarà sempre il pericolo dei reparti speciali, del perpetuarsi di una visione segregante ed emarginante.”

Mi preoccupa l’ipotesi della consegna del potere alle/i colleghe/i che potranno imporre qualsiasi trattamento psicologico, nei tribunali e nelle scuole soprattutto, rischiando di farle diventare, “istituzioni dell’emarginazione”. (Ceccarello e De Franceschi, redattori degli atti del convegno di seguito citato)

La tentazione è di medicalizzare i malesseri sociali e i fenomeni dolorosi che originano nella storia culturale e nelle politiche sociali degli ultimi quarant’anni.

In origine, due erano le sedi della facoltà di Psicologia, a Roma e a Padova, e mi laureai nell’Università romana, dopo un percorso quadriennale che ne anticipò un altro quinquennale, di specializzazione. Rimasi otto/dieci anni, nei corridoi della scuola privata, fra l’analisi personale, gli esami anche con docenti americani, gli studi e le ricerche, le prime attività riportate in supervisione.

Mi convincevano e seguivo i movimenti non autoritari degli anni ’70 e ’80 e conoscevo le tre S del potere che ricattano e manipolano gli esseri viventi: il sesso, i soldi, il sapere; e io ne avevo aggiunta una quarta, la salute. Ancora oggi, nella società patriarcale, vince, ha successo, può contare ed essere felice chi ha più soldi, più salute, più virtù virili e più sapere.

La conoscenza può essere uno strumento di potere aggressivo se non viene trasformata da un orientamento che benedica e agevoli il sapere comunitario. La conoscenza condivisa prevede la responsabilità pedagogica, la reciprocità costitutiva di ogni essere umano. E, come psicologa, l’impegno più faticoso è riconoscere e assumerne al cinquanta per cento, la responsabilità dei tempi, delle modalità e degli strumenti differenti di apprendimento, mio e altrui. La psicologia accompagna verso un sapere comune e non può proporsi con modelli patriarcali, interpretando, suggerendo, risolvendo e detenendo il potere della competenza; deresponsabilizzando, di fatto, l’altro. Ritorno alla lettura del testo illuminante di Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose.

Dico, la cultura della psicologia patriarcale mi spiega come sto combinata e mi guarisce; se non collaboro, mi isola.  E considero una involuzione pericolosa pensare che i comportamenti violenti sempre più diffusi possano essere ricondotti alla patologia e ridotti a malattie da controllare e da curare.

Il ruolo della/o psicologa/o non può essere strumentalizzato da parte di una politica in cerca di capri espiatori, di vittime sacrificali; non può essere utilizzato come una copertura di controllo, di ordine e di sicurezza. Psicologhe e psicologi dappertutto, certo, vigilando sulle derive possibili derivanti dal potere ricevuto come un dono, come una concessione che, nella realtà, rivela l’inganno della delega e della deresponsabilizzazione del sistema.  Nel contesto di quali modelli culturali lavoriamo? E con quanti anni di analisi personale come garanzia minima di individuazione e di resistenza dinanzi alle manipolazioni di un sistema corrotto e che corrompe?

Attenzione a noi psicologhe e psicologi e ai peccati di ingenuità che divengono abusi: il rischio è fare un favore al modello patriarcale, è ripristinare i manicomi, stipare più persone in carcere, compresi i minori che delinquono, controllare in modo autoritario e repressivo, intervenire per irregimentare, isolare con la scusa della cura. Spesso il disagio psichico è l’iceberg di una causa originaria che riporta ad una più ampia visione antropologica da studiare e da trasformare.

Il fallimento di quella psicologia che propone di curare e di normalizzare è la ragione ed è il segno che rimandano al suo significato più profondo. Una volta discesi nella relazione, rimaniamo con l’altro nella zona oscura che permette lo sguardo luminoso per entrambi, ritrovando l’habitus della trascendenza. Lo spazio in negativo, che la psicologia offre, esprime la sua potenza quando spezza il rumore, quando confida nel silenzio e nella durata, quando motiva le idee trasformative. Le forze deboli sono tenaci e potenti rispetto alle influenze da social network e ai grandi canali di persuasione collettiva. La forza, anche espressiva, ci raggiunge nella significatività, non nei numeri di successo. Nella relazione psicologica, la fragilità, lo spazio angusto, l’irrisoluzione, il tempo sospeso, sono segnali di irriducibile capacità di comprensione. Fuori dalle regole del regime dominante, lo spazio e il tempo si restringono, ma acquistano valore. L’essenziale è cosa silenziosa e minuscola, favorisce i pensieri e le azioni alternative, liberando l’intuizione e operando in favore della collettività.

La psicologia è politica occupandosi di relazioni, riconoscendo e opponendosi alle situazioni simbiotiche, manipolative, parassitate. Quando interagiamo con coscienza e consapevolezza, non perseguiamo l’autosufficienza del singolo, partecipiamo al cambiamento del mondo, creiamo storie nuove individuali e collettive, organizziamo i ricordi e le esperienze e ridecidiamo, assieme. Ogni persona è l’oggetto e il soggetto nelle interazioni di reciprocità e non è la proiezione della fantasia narcisistica altrui. Penso alla necessità di una seria politica culturale di contestazione e di critica al sistema dell’emarginazione sociale postcapitalistica.

Negli anni della mia primaria formazione mi ero allontanata, piccata dagli interventi che avevo letto, dieci anni più tardi, di Luisa Muraro e di Lea Melandri, nella raccolta degli atti del Convegno di psicologia, tenutosi a Padova nel maggio 1973. Leggevo in quegli scritti i tentativi di sabotare la mia figura di giovane psicologa, che già vivevo come subalterna, indefinita, ambigua. Ma oggi, ritorno con sgomento, al pericolo che sottolineavano, cinquanta anni fa, soprattutto, le due studiose.

Le modifiche dell’ordinamento sono legittime, e la loro utilità per la giustizia sociale dipendono dagli equilibri, dai limiti, dalla formazione professionale, dall’analisi e dall’autoanalisi personale continua di ogni psicologa/o.

La psicologia non può diventare “una specie di superverità che libera tutti dalla responsabilità di decidere su ciò che è giusto e ciò che non lo è: lo psicologo, in quanto si limita ad enunciare la verità, gli altri perché non possono che prenderne atto. È la conferma più palese della deresponsabilizzazione generale.” Lea Melandri, pp.91/92

E Luisa Muraro, a pag.33:

“Di una cosa sono certa: è vero che il sapere psicologico è elaborato, trasmesso e usato contro di noi, contro quelli tra noi che non si conformano a modelli sociali, per sistemarci e classificarci a seconda: in ospedale, in manicomio, oppure per recuperarci per la famiglia e la fabbrica; questo riesce e funziona non tanto a partire da certe idee, ma a partire da una divisione tra competenti e incompetenti…  è questa divisione che lascia sprovveduti e disarmati di fronte alla decisione sociale di emarginare, di fronte alla interpretazione delle differenze di comportamento come deviazioni pericolose da curare (il bambino che non sta fermo a scuola è malato, la donna che non sopporta i figli è malata, ecc.) (…)  Non basta riconoscere che la “devianza” è una obiezione politica e umana contro questa società. Bisogna anche vedere attraverso quale meccanismo i reali problemi dei rapporti umani, le reali sofferenze di molti individui, le situazioni oppressive che ci fanno dare di matto o semplicemente i comportamenti singolari insoliti, per quale meccanismo tutto questo ci separa…  Io voglio capire quel che mi succede, e quello che succede a quelli che mi sono vicini, questo sapere non può stare in mano ad altri.”