Ph.Fonte Silvia Meo

Rinascite quotidiane

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Disattenzione” di Wislawa Szymborska:

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Propongo un pensiero sulle possibilità di rinascita quotidiana, minima solo apparentemente, sistematica, profonda e silenziosa. Le rinascite quotidiane, spesso le chiamiamo crisi, prevedono l’accettazione e la coscienza della morte e della speranza. Maestra di viaggio, fra molte altre, è Maria Zambrano, nel testo Verso un sapere dell’anima: Sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana. Dover morire e risuscitare, senza uscire da questo mondo.

La vita è zoe, ci è data, è esistenza biologica, un mero dato fattuale. Ma è anche bios, scelta consapevole, processo continuo che ci porta a ripensare e ad agire il senso del nostro stare al mondo. Dalle dinamiche di rinascita allontaniamo la finta retorica dell’eroe e dell’eroina sacrificale perché chi sceglie di rinascere, ogni volta, non vince, non si dichiara vittima e non salva nessuno: la persona che sta accudendo la propria rinascita può essere stanca e avvilita, registra il dolore, rimane nell’abbandono e vede la morte del seme sepolto nella terra. È terribile registrare la realtà di un quaderno finito, di una cella frigorifera, con un foglio osceno, a ridurre l’identità complessa, a chiudere le idee, i desideri e i progetti. La speranza viene a trovarci proprio lì: risentiamo la forza della vita che spinge e fa ancora male, la necessità di ritornare ad abitare le relazioni e i contesti sociali, la gioia faticosa, a capovolgere lo sguardo, a infastidirci, impegnandoci a mettere a fuoco quello che avevamo considerato come l’invisibile e l’inconcepibile. La cura è nel rimanere a vigilare i segnali inviati, talvolta silenziosi, talvolta urlati, dal nostro corpo, dalla mente e dall’anima.

La rinascita è una conversione che comporta passaggi in discontinuità, comporta vertigini, spaesamento, paura. Perciò è fondamentale prepararci a farci incontrare dalle crisi, imparando a chiedere aiuto e a fidarci, per non rimanere sorpresi e paralizzati, e per accogliere bene, con amore, il cambiamento, come un momento di svolta e di verifica, come una nuova occasione per essere felici. La speranza è una scelta emotiva e cognitiva; significa che, lontane/i dai facili ottimismi e dalle pericolose attese magiche, misuriamo la realtà e ci consegniamo ad essa, accompagnando gli avvenimenti senza opposizione, senza sfida, senza rancore. Gli eventi che ci capitano, la morte, la mancanza, la perdita ci stordiscono, ci fanno precipitare nel buio e nell’impotenza, e rappresentano l’inverno che ci tocca verso la nuova luce. Non esistono dèi malevoli che appendono gli umani alle croci; invece, ciascuna persona, con i suoi tempi e con le sue modalità, rivela la liberazione dalla fissità patologica e la libertà di esprimere il Sé.

Dice bene ancora Maria Zambrano: … il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza…la speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi in modo solo abbozzato. In questo senso, la speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo; grazie ad essa siamo figli dei nostri sogni, di ciò che non vediamo e non possiamo verificare. Affidiamo così il compito della nostra vita a un qualcosa che non è ancora, a un’incertezza. Per questo abbiamo tempo, siamo nel tempo: se fossimo formati già del tutto, se fossimo già nati interamente e completamente non avrebbe senso consumarci in esso.

Le nascite successive inverano la prima nascita, fanno diventare autentica la nascita storica, quella scritta sulla carta d’identità, offrendole un senso ampio, un copione risolto, in autonomia: questa è la speranza. Rinasciamo quando impariamo a scegliere e a decidere, quando combaciamo con noi stessi/e e con l’esistenza che ci attraversa. Rinascere non è ritornare al sé stesso di prima, con variazioni in superficie, non è ripetere lo stesso modello, ma è costruire un orientamento alla differenza che matura in noi stesse/i e che va sorvegliato con benevolenza e nutrito con lo studio, con la ricerca e la condivisione in comunità flessibili e includenti. Quando ci toccherà, moriremo vive e vivi, e saremo polvere benedetta e luminosa, a ritrovarci nei percorsi segnati, nelle parole fatte circolare, in ogni Natale che tornerà a significarci il senso dell’essere in relazione.

Ringrazio la Rivista Correlazioni Universali, la direttora editoriale Angela De Leo, il responsabile Peppino Piacente per aver accolto la collaborazione

 

TedxBt

Il viaggio umano e i cammini personali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ogni viaggio è una scuola di resistenza,

una scuola di stupefazione, quasi un’ascesi,

 un mezzo per perdere i propri pregiudizi,

 mettendoli in contatto con quelli degli altri

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

Il viaggio è la metafora della vita umana e ogni persona compie la sua esperienza esistenziale attraverso cammini diversi e complessi. In questo incontro, utilizzo la metafora del viaggio anche come viaggio interiore, come divenire: è il viaggio che inquina di meno.

Viaggiare non significa soltanto arrivare alla mèta, raggiungere il risultato previsto; d’altronde, a noi umani, il finale è noto, è la morte. In ogni percorso, il successo finale è importante ma, ancor più, valutiamo le modalità che abbiamo scelto per vivere, le visioni che abbiamo coltivato, le relazioni che abbiamo incrociato. Rimanendo nella metafora, se è vero che non scegliamo inizialmente di incamminarci, ad un certo punto, dopo essere venuti al mondo, registriamo la nostra presenza e, più o meno consapevolmente, decidiamo come jouer il nostro spartito, come jouer la nostra partita. Mi piace il verbo jouer che nella lingua francese ha, fra molti, il significato di giocare, di suonare e, anche, di raggirare qualcuno e di recitare un ruolo.

Il viaggio si svela, si scopre fra la conoscenza e la coscienza; Jung, uno psichiatra del Novecento, parla di processo di individuazione: Il processo di individuazione è un fenomeno limite della psiche, e richiede condizioni particolarissime per diventare cosciente. Si tratta forse della fase iniziale di uno sviluppo di cui un’umanità futura imboccherà la via, ma che come deviazione patologica ha portato intanto l’Europa alla catastrofe. Sembrerà forse superfluo, a chi conosce la psicologia complessa, illustrare una volta ancora la differenza — chiarita ormai da tempo — tra il divenire cosciente e la realizzazione del Sé (individuazione). Continuo a vedere però che il processo di individuazione è confuso con il divenire cosciente dell’io, e quindi l’Io viene identificato col Sé, con l’ovvia conseguenza di una irrimediabile confusione. Perché in tal modo l’individuazione diventa semplice egocentrismo e autoerotismo. Invece il Sé racchiude infinitamente di più che un Io soltanto, come dimostra da tempo immemorabile la simbologia: esso è l’altro o gli altri esattamente come l’Io. L’individuazione non esclude, ma include il mondo. (C.G. Jung, Considerazioni sull’essenza della psiche, in Opere, VIII, pp. 242-243.)

L’individuazione è un percorso difficile, lungo e doloroso che porta alla realizzazione della personalità individuale, in un contesto storico e sociale. Apprendiamo a vederci e a vederci con gli altri e le altre, in un mondo che ci ospita, che ci nutre e che noi stesse/i collaboriamo a modificare. Iniziamo il percorso guidato di consapevolezza quando avvertiamo una mancanza, una spinta di turbamento, di inquietudine. Nessuno può essere forzato se non è arrivato il suo momento di apprendimento, in lingua greca è il kairos, il momento giusto per metterci in viaggio.

Molti anni fa, pensavo che ogni essere umano dovesse scegliere se compiere il suo cammino come turista, come viandante o come pellegrino; incamminandomi ho capito che in alcuni periodi di vita sono stata una turista, in altri una viandante e in altri ancora, una pellegrina. Adesso, più rallenta il mio passo, più vivo, assieme, da turista, da pellegrina e da viandante. E riscopro i valori diversi di ogni esperienza, in ogni situazione.

Da turista sono veloce, viaggio leggera, voglio vedere più cose possibili, nel più breve tempo possibile, voglio accumulare le foto, costruire i ricordi, postare sui social perché tutti sappiano. Sono contenta, sono in buona salute, posso dormire o mangiare male e poco, posso camminare tanto, ma sono forte e tengo il passo. Sono interessata, vivace, lavoro, prendo appunti che rileggerò. Sono soggetto, sono parte attiva, decido io e risolvo i problemi.

Come viandante mi organizzo, da sola o in compagnia, scelgo l’abbigliamento adeguato, preparo lo zaino, studio le mappe, conosco le tappe, i tempi, e il tempo che farà. Sono consapevole, sono decisa nell’impresa, convinta che ce la faccio, perseguo gli obiettivi e riconosco le relazioni. Rimango di più in qualche luogo, aspetto volentieri che mi raggiungano le compagne e i compagni. La natura dà sollievo, incanta, guida amorevolmente i pensieri, suggerisce mète antiche.

E poi scopro il cammino da pellegrina. Da indifesa, è il viaggio che ammala e che cura; diviene lentissimo, si arresta, poi riprende; ho l’impressione di tornare indietro, di avere sbagliato strada, di avere inutilmente allungato il percorso, di non aver goduto il panorama. Non arrivo in orario da pellegrina, non ho nulla da raggiungere e sento la fatica e il dolore e poi la gioia della nomade. Da pellegrina cammino scalza, mi sento fuori luogo e mi perdo; magari faccio incontri sgradevoli, neanche immaginati. Mi accorgo che è il cammino che mi fa, è la strada che mi sceglie; accolgo l’oscurità, l’indecisione, il mistero della via e degli incontri casuali. Talvolta, il viaggio da pellegrina è virtuale, è a stare, a farmi attraversare da un testo, dalla parola di una persona sconosciuta, da una pièce teatrale, da una musica, dalle scene di un film, da una ricerca su internet che inizia con una parola digitata e finisce chi sa dove.

Nessun cammino è giudicabile perché è proprio da lì che dobbiamo passare, è proprio quella la strada che ci tocca e le relazioni che accadono. Anche negare il viaggio o negarsi significa che ci stiamo muovendo, che scegliamo o che sappiamo farci incontrare, paradossalmente, da ferme. Il divenire dell’essere umano è in ogni modo e non ha mai fine. Diventare grandi significa capire che siamo lì dove dovremmo essere, non c’è un altro luogo e un altro tempo e che andare avanti significa andare indietro, in profondità, significa combaciare sempre di più con se stessi, con il personale nucleo esistenziale.

Le tre modalità di viaggio segnalate possono, in realtà, essere molte di più, si incrociano e i non-luoghi, come li chiama l’antropologo Marc Augé, diventano luoghi abitati da volti e da respiri diversi di cui diveniamo faticosamente consapevoli. E, nello stesso tempo, sono turista, viandante e pellegrina. Eccomi, mi accorgo di esserci, con altri e con altre, in leggerezza e in pesantezza, vicina e lontana, presente per assenza. La differenza ognuno/a la fa per se stesso/a. Ci tocca solo di vivere e di consegnarci all’esperienza e di leggerla, di condividerla e poi rileggerla ancora, con sguardi nuovi, da prospettive diverse. L’esperienza del corpo passa attraverso i cinque sensi, e cammin facendo scopriamo che anche l’anima e il pensiero hanno i loro innumerevoli sensi. I pensieri, i sentimenti, i comportamenti custodiscono odori, sapori, visioni, suoni e contatti.

Abbiamo qualcos’altro da fare se non incamminarci e apprendere, incamminarci per apprendere? Quali parole caratterizzano i nostri percorsi?

 

Convegno Officine

La comunità di pratica: l’esperienza della “scuola di educazione Alla persona”®. Passaggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

Sono grata per questo invito; ho la possibilità di fare sintesi in quarant’anni di vita professionale, di vedere la realtà quotidiana, di rivedere i passaggi fondamentali, di prevederne le trasformazioni. E poi di fare silenzio perché la vita possa accadere, anche a prescindere da me, da noi.

Nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza nei confronti delle donne, ancora ci interroghiamo sul vecchio copione maschile, omofobo, razzista e misogino. Lavoriamo per il cambiamento dei modelli virili, soprattutto perché ogni violenza sulle donne, ogni femminicidio racconta la difficoltà, l’impossibilità di registrare la presenza femminile nel mondo e di costruire qualunque relazione con il pensiero libero, con la scelta in autonomia di ogni donna. Compiamo la nostra opera lì dove siamo, accanto alle persone dalle quali ci facciamo incontrare e che decidono di vederci.

Colgo l’occasione del convegno per recuperare le ragioni di avvicinamento ai movimenti femministi e, in particolare, ad alcune pensatrici femministe: loro offrono una prospettiva diversa, capovolta rispetto all’omologazione intorno alle relazioni, al riconoscimento e alla trasformazione dell’esperienza umana. Il lemma femminismo ancora oggi è tanto fastidioso quanto incompreso, fino a divenire, nei casi più malevoli, uno stigma.  Nel mio percorso formativo la teoria analitico transazionale incontra il femminismo negli assiomi fondamentali: la pratica relazionale diviene esercizio di autenticità. La filosofia dell’Analisi Transazionale, l’idea e la pratica di autonomia mi sono state trasferite da Maria Teresa Romanini, mia analista. Ancora confido nel diritto, nella responsabilità e nella capacità individuale a riconoscere e a governare la propria vita

In un primo momento,  il movimento pubblico negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, è maggiormente focalizzato, non esclusivamente, sull’emancipazione e sulla parità. Io, solo negli anni ’90, incontro il femminismo della differenza, il pensiero della differenza, fra Roma, presso la Casa Internazionale delle Donne e Milano, presso la Libreria delle donne. A Carla Lonzi arrivo in modo naturale e non intenzionale: lei e le altre esprimono e organizzano in modo ordinato i pensieri miei, in quel tempo ancora più confusi e solitari. E, appunto, da Carla Lonzi a Luisa Muraro, a Lia Cigarini, ad Annarosa Buttarelli, la pratica dell’autocoscienza facilita il pensiero di donna rispetto a se stessa, agli altri, alle altre e al mondo.

Incrocio i testi delle pensatrici e, pur frequentando per un decennio la scuola per diventare psicoterapeuta, da essa mi allontano, scegliendo la formazione come centrale nella mia professione, più somigliante alla persona che andavo diventando. La rabbia avvertita nutre la rivolta, l’impotenza si trasforma in energia, in azione. L’emancipazione diviene non tanto una via per ottenere il potere al posto dei maschi, con la testa del vecchio trombone patriarca, ma una modalità per aprire, per perdermi e ritrovarmi su altri percorsi, con l’intuizione e con l’umiltà che la ricerca impone.

Mi nutro del pensiero e della ricerca di donne che mi aiutano a riconoscere e a risolvere la trista pratica psicologica nei casi in cui preveda unicamente, come unica cifra di felicità, l’autosufficienza, il benessere individuale, l’autostima, la forza personale, l’empowerment.

Riprendo le parole di Muraro, nell’articolo Tutto comincia da dentro, del 2017: “ … l’allegoria di donne che sfidano l’uomo per rompere il regime d’irrealtà che si è creato con la subordinazione del femminile al maschile. In parole storiche, io ci vedo un’allegoria del femminismo della differenza, quello che ha fatto della differenza sessuale il varco per la presa di coscienza che tutto comincia da dentro (come dicono in architettura), un dentro che racchiude il segreto della soggettività libera. Subordinare gli altri a sé, a cominciare dalle donne, ha fatto credere alla più parte degli uomini di essere entità autosufficienti e di poter controllare e cambiare il mondo mettendolo in un’esteriorità oggettiva.”

L’esperienza della scuola di educazione Alla persona®, nei primi anni duemila, origina dalla proposta di accompagnare le persone che mi si rivolgono, in presenza nuda e patita, per leggere la realtà e per trasformare noi stesse, partendo dai vissuti e dai desideri che divengono modalità di abitare ogni situazione. Il contratto psicologico fra di noi propone, attraverso fasi diverse, la lettura dei testi, soprattutto, delle autrici citate; le riletture possibili del copione e la liberazione del copione sotto forma di ridecisioni. In questa sede non approfondisco, ma sottolineo la diversità fra il lavoro di rilettura del copione e la scelta di liberazione dal copione.

La visione, la struttura mentale, la presa in carico del copione personale non sono cose astratte; la pratica delle relazioni anche conflittuali fra le donne, e fra le donne e il mondo è una forma di amore politico che ci permette di non valere solo come singolarità, ma anche di affinare, di approfondire la noità. Non rivendichiamo diritti come fossero concessioni generose, avviamo il processo delle tre C, in ordine, processo di Comprensione, di Coinvolgimento e di Compromissione.

Oggi penso che la parità non sia tutto, e che valga poco l’affermazione di donne che possono dire o agire come gli uomini. La parità è un passaggio, non è la fine del patriarcato, soprattutto non è l’autonomia dalla rappresentazione maschile della vita e dai modelli interiorizzati. Su questo il femminismo ha fondato l’allontanamento dal sessismo e da tutte le forme di dominio con esso imparentate.

La posizione post-critica attiva la decostruzione in una società in cui prevale ancora pericolosamente l’immaginario e il potere patriarcale, da parte degli uomini e delle donne. Sempre ci tocca riconoscere e disinnescare i dispositivi culturali che appaiono spontanei e innocenti, non intenzionali e che, però, continuano a ignorare il pensiero delle donne e i movimenti femministi.

La costruzione è la parte utopica: la critica alla società fallologocentrica e la pratica, nella quotidianità, agendo in ogni relazione le idee di libertà e di giustizia. Il corpo di ognuna diviene testimonianza viva di una liberazione, anche sessuale, che non è più in funzione del modello maschile. Prendiamo così le distanze dalla competizione e dalle manipolazioni più o meno visibili, dai dati escludenti delle prestazioni, dalle compagnie strumentali rimaste a disposizione di un mercato in cui contano soltanto i soldi e il potere. Siamo lontane anche dal patriarcato di donne che propongono una al posto di tutte, una sola che parli in mio nome.

Abbiamo appreso a fare attenzione alle parole che non sono mai vergini; il passo avanti, oltre il linguaggio, è fare attenzione al contesto nel quale usiamo quella parola, la visione ampia di riferimento e la ricaduta fra la semina e la crescita, rispetto alle parole scelte. Non ci sono parole indicibili, da cancellare. Scelgo parole non vergini, ma caste, castus, da carere, esenti da colpe. Le parole colpevoli sono quelle dette senza pensarci e che si sono sempre usate in una unica accezione escludente.

La capacità argomentativa non è naturale, arriva apprendendo a contestualizzare e a problematizzare, a raccontare del disagio avvertito, registrando l’inquietudine e il sentirci mancanti. Non è snobismo, sine nobilitate, è invece la possibilità di ridare dignità e contezza alla nostra esperienza, quindi, di nobilitare, nella condivisione, i sentimenti e i pensieri. Ci avviamo verso una forma di fedeltà alle differenti e più profonde parti di noi stesse. Senza conformarci a dottrine, ideali, criteri costruiti dagli uomini, dai padri, dai padroni.

Il lavoro della psicologa è il lavoro dell’ostetrica: assiste, vigila, accompagna, talvolta, è solo presente, non fa necessariamente qualcosa, ipotizza, segue l’intuizione, non indottrina e non interpreta a caso.

Quella che chiamo Comunità di Ricerca si è espressa, nel tempo, con la formula della viandanza e della restanza. In una sorta di ampia cittadinanza virale, le relazioni accadono in modalità, in tempi e in luoghi diversi e lasciano ferite come passaggi, come feritoie che accolgono il conflitto, la contraddizione, il dubbio verso le trasformazioni, innanzitutto, di noi stesse/i.

In spazi adeguati, con altre e altri, predispongo il luogo e il tempo a disposizione del pensiero e della condivisione, studiando la formula dell’eremo interiore, come nel beghinaggio e nella pustinìa. Questa è un’anticipazione della vita futura, personale e professionale, come una promessa, un invito. Come una carezza psicologica. È davvero un altro discorso, sarà la storia dell’età più adulta, della mia vecchiaia.

Grazie. Per l’invito. Per l’ascolto.

IA

… finché continuiamo a tormentarci e a impazzire

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

L’intelligenza umana si esprime attraverso il corpo, la mente e l’anima, il soffio vitale, in un insieme che comprendiamo parzialmente,  per le molteplici variabili, diversamente interagenti. Gli sviluppatori di programmi di intelligenza artificiale (IA) lavorano per riprodurre alcune o tutte le funzionalità della mente umana. Mi chiedo quanto sia possibile, ottimizzando gli algoritmi, insegnare il tormento, produrre il conflitto, sperimentare la follia che attraversano la carne, lo spirito e la mente in modo diverso per ciascun essere umano. E ancora mi appassiona la ricerca nelle relazioni umane di amore e di morte, di mancanza e di desiderio, di presenza e di incomprensione. L’IA, come ogni rivoluzione tecnologica, risponde a input precisi e può garantire una più alta qualità della vita nella misura in cui siamo capaci di sapere chi siamo, di governare i processi e di valutarne gli aspetti etici.

L’ingegnere Giorgio Metta afferma che per apprendere realmente a ragionare come noi essere umani, le magnifiche reti neurali artificiali di recente costruzione debbano essere dotate anche di un corpo simile al nostro.

La capacità umana di apprendimento non è soggetta agli automatismi, non impara soltanto dall’analisi di dati. Nella fenomenologia dei processi di apprendimento e di possibile cambiamento sono coinvolti lo Stato dell’Io Genitore, lo Stato dell’Io Bambino, lo Stato dell’Io Adulto. Gli Stati dell’Io custodiscono la Natura mentale, l’essere costituiti da elementi psichici e non solo biologici; la Fluidità biologica, il cambiamento nel tempo per fattori evolutivi ed esperienziali; l’Adattabilità, le reazioni originali agli stimoli interni ed esterni.

In modo diverso, attraverso ogni condizione psicofisica, conserviamo la capacità di valutare in modo critico e/o affettivo, positivo e/o negativo, di registrare i dati di realtà, immerse/i nella storia personale, nel proprio contesto di corpi, di emozioni e di pensieri. Di ciascuna persona, mi confortano le aree maggiori o minori di possibilità del disturbo psichico, della contaminazione, dell’esclusione, patologie degli Stati dell’Io. Mi conforta sapere della disfunzione perché quell’ombra specularmente rimanda all’autonomia nelle relazioni umane, alla possibilità di consapevolezza, di intimità, di autenticità di cui siamo capaci.

ChatGPT è uno dei software di intelligenza artificiale al centro di una nuova rivoluzione tecnologica, nei lavori di scrittura e di programmazione. Il processo matematico e statistico intervistato, risponde senza l’influenza delle abitudini, dei sentimenti, dei pensieri contrastanti. L’apprendimento supervisionato aggiusta l’algoritmo utilizzando gli errori, in modo che non si ripetano in futuro. Invece io, a 64 anni, non solo sono capace di continuare a ripetere gli stessi errori, ma trovo anche straordinaria e potente questa possibilità di apprendimento seguendo i tempi, gli spazi, le relazioni, la crescita evolutiva solo mia.

Lo scrittore Nicola La Gioia ricorda che imparare dai vecchi errori ha a che fare più con la grazia che con la buona volontà. Possiamo capire cosa avremmo dovuto fare nel passato, non nel presente, poiché il contesto in cui ci muoviamo ora ci espone a insidie sconosciute, mettendoci alla prova in modo inedito. La piena comprensione delle cose arriva insomma quando è tardi.

E gli scrittori Hanif e Sachin Kureishi: Molti temono di essere soppiantati dall’intelligenza artificiale, ma dovrebbero invece impiegare tutte le loro energie per padroneggiare la tecnologia, usandola per lavorare di più e meglio… Un testo senza autore è come una bella automobile senza motore: non avrà mai alcun significato culturale né storico. L’autenticità è soggettività, e la soggettività è la linfa vitale di una storia.

La psicologia sperimentale e l’ingegneria interagiscono e ci rassicurano con la difficoltà di spiegare totalmente il mistero del funzionamento del cervello umano. La tecnica e il mondo digitale del cyberspazio ci aiutano a vivere e a curarci meglio. Continueremo a impazzire, a essere mortali, a un certo punto, fragili, incurabili e questa è la garanzia dell’umanità felice, perché porosa e dolorante. La coscienza e l’incoscienza, il desiderio e l’intuizione; il male indipendente e Dio onnipotente rappresentano la costituzione dell’essere umano, non sono solo variabili emozionali mancanti all’IA.

Sulla terra, siamo dove e come dovremmo essere, nessuno e nessuna cosa può, nel bene e nel male, sostituirsi a ognuna/o di noi. Siamo libere/i e per qualcuno può non essere una bella notizia perché la libertà rimanda alla responsabilità, alla fatica di capire e di trasformare, sapendo che ogni scelta vale in un tempo e in uno spazio e non per sempre. Finché continuiamo a sperimentare le relazioni conflittuali, a sospendere il comando e a perdere il controllo, insomma, finché potenzialmente possiamo impazzire, siamo salvi e rimaniamo umani.

The Creator, il film di Gareth Edwards scritto insieme a Chris Weitz, mi lascia perplessa per ingenuità, affogato in un mare di effetti speciali. La resistenza nell’accogliere l’ibrido uomo macchina non è da addebitare alla forza spiazzante della mente, di Nirmata, in nepalese Creatore, quanto alla mancanza di umiltà dei padroni del mondo, alla passione sfrenata e ostinata per la guerra e per la vittoria come spegnimento dell’altrui esistenza. La creatura umana perde quando non accetta di perdere e di perdersi, quando manca la ricerca di sé e dell’alterità. L’aspetto umano non è l’opposto del tecnologico, e la persona non è in conflitto con l’IA: è la sua anima, è l’energia che può mantenere in vita l’artificio, governandolo per la collettività. L’arma/bambina, l’entità artificiale, può essere un’opportunità, oppure è la lotta con un’entità inafferrabile, è la proiezione e la costruzione di un fantasma nemico interno.

Rimane determinante la ricerca interiore, quel di più nelle riflessioni della filosofa Luisa Muraro, riprendendo una frase della beghina e mistica Margherita Porete: Mon manque est mon mieux, Ciò che mi manca è il mio meglio.  La consulenza e la prevenzione, parlando di educazione Alla persona, trovano ispirazione dalla ricerca pratica, dalla rivelazione e dal ragionamento, come una teologia in lingua materna che Muraro restituisce:

«… ho cercato quello di cui non sono all’altezza, ho imparato che l’impreparazione è il modo per far essere l’essere, dar vita alla vita: che cosa vuol dire? Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso, questa è l’intelligenza dell’amore… È la scoperta della radicalità ontologica del desiderio nell’essere umano, desiderio di “niente”, sconfinato, senza appagamento… Quello che mi manca è il mio meglio, perché significa la possibilità di un di più di cui io non ho idea, ma di cui sento la mancanza al presente e tanto basta a rendere grande questo presente, ben più grande di un futuro concepito da me con le mie limitate risorse.»

(Il futuro è aperto, a cura di Elvira Roncalli, Prospero ed., 2023, pagg.130/194)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Articoli Ma(n)chine Learning:

Ph.A.Aresta

Il capodanno in fondo è a settembre: cambiamenti nella ricerca psicologica

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

Luglio e gennaio sono mesi facili da decifrare. Potrebbero essere piccoli assaggi di eternità, per quanto sono definiti e immutabili, eguali a se stessi dall’inizio alla fine. Settembre no, dal primo giorno all’ultimo il mondo intorno a noi prende a cambiare. Settembre è il campo di una battaglia malinconica. L’esito è scontato e l’autunno prevarrà, ma la battaglia è comunque vera. Un giorno la pioggia può prenderti a schiaffi finché non trovi una tettoia per ripararti, la mattina dopo ti svegli e il sole ti morde la pelle.

G.Simi, Senza dirci addio, ed.Sellerio, 2022, Ed.del kindle, p.236

L’Ordine nazionale degli psicologi italiani ha votato la modifica del proprio codice deontologico, con 9.034 voti favorevoli e 7.617 contrari.

L’articolo 32 della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Le modifiche del codice deontologico degli/lle psicologi/ghe riguardano l’articolo 24, sul consenso informato sanitario dinanzi a persone adulte capaci, e l’articolo 31, sul consenso informato sanitario nei casi di persone minorenni o incapaci.

La modifica del codice prevede la maggiore libertà delle/gli psicologhe/i che potranno segnalare direttamente all’autorità giudiziaria la necessità di un trattamento sanitario obbligatorio (Tso), anche senza il consenso informato.

Ricordo che l’attivazione del Tso prevede oggi tre variabili: 1. la persona si trova in una situazione di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici; 2. gli interventi proposti vengono rifiutati; 3. non è possibile adottare tempestive e idonee misure extraospedaliere.

E oggi capita spesso che il provvedimento di ricovero forzato venga mantenuto, nonostante il paziente accetti la terapia.

Con l’aggiunta prevista nel codice, non saranno più necessari due pareri medici, l’ordinanza del sindaco, convalidata dall’autorità giudiziaria entro 48 ore; infatti: «Nei casi di assenza in tutto o in parte del consenso informato, ove la psicologa e lo psicologo ritengano invece che il trattamento sanitario sia necessario, la decisione è rimessa all’autorità giudiziaria».

Ricordo la storia. Nel 1978, la legge 180 sostituisce la legge Giolitti sulla custodia e la cura degli alienati. Nello stesso anno, Franco Basaglia, intervistato dal giornalista Giliberto del quotidiano La Stampa, commentava perplesso:  

“E’ una legge transitoria, fatta per evitare il referendum, e perciò non immune da compromessi politici. Ora bisognerà lottare perché nella discussione sulla riforma sanitaria tanti aspetti farraginosi, ambigui, contraddittori di questa legge siano portati alla ribalta e cambiati… Ma attenzione alle facili euforie. Non si deve credere d’aver trovato la panacea a tutti i problemi dell’ammalato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano con il corpo. È come se volessimo omologare i cani con le banane. Facciamo l’esempio di chi ha un tumore o una febbrona o il verme solitario. Se va a finire all’ospedale, c’è la ricerca della causa del suo male, e in certi casi il ricovero s’impone (malattie molto contagiose). Ma se ricoveri – cioè togli la libertà – a una persona perché ha pensieri bizzarri o disturbi psichici, perché lo fai? A che cosa si riferisce quel ricovero? Che cosa può voler dire grave alterazione psichica? Negli ospedali ci sarà sempre il pericolo dei reparti speciali, del perpetuarsi di una visione segregante ed emarginante.”

Mi preoccupa l’ipotesi della consegna del potere alle/i colleghe/i che potranno imporre qualsiasi trattamento psicologico, nei tribunali e nelle scuole soprattutto, rischiando di farle diventare, “istituzioni dell’emarginazione”. (Ceccarello e De Franceschi, redattori degli atti del convegno di seguito citato)

La tentazione è di medicalizzare i malesseri sociali e i fenomeni dolorosi che originano nella storia culturale e nelle politiche sociali degli ultimi quarant’anni.

In origine, due erano le sedi della facoltà di Psicologia, a Roma e a Padova, e mi laureai nell’Università romana, dopo un percorso quadriennale che ne anticipò un altro quinquennale, di specializzazione. Rimasi otto/dieci anni, nei corridoi della scuola privata, fra l’analisi personale, gli esami anche con docenti americani, gli studi e le ricerche, le prime attività riportate in supervisione.

Mi convincevano e seguivo i movimenti non autoritari degli anni ’70 e ’80 e conoscevo le tre S del potere che ricattano e manipolano gli esseri viventi: il sesso, i soldi, il sapere; e io ne avevo aggiunta una quarta, la salute. Ancora oggi, nella società patriarcale, vince, ha successo, può contare ed essere felice chi ha più soldi, più salute, più virtù virili e più sapere.

La conoscenza può essere uno strumento di potere aggressivo se non viene trasformata da un orientamento che benedica e agevoli il sapere comunitario. La conoscenza condivisa prevede la responsabilità pedagogica, la reciprocità costitutiva di ogni essere umano. E, come psicologa, l’impegno più faticoso è riconoscere e assumerne al cinquanta per cento, la responsabilità dei tempi, delle modalità e degli strumenti differenti di apprendimento, mio e altrui. La psicologia accompagna verso un sapere comune e non può proporsi con modelli patriarcali, interpretando, suggerendo, risolvendo e detenendo il potere della competenza; deresponsabilizzando, di fatto, l’altro. Ritorno alla lettura del testo illuminante di Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose.

Dico, la cultura della psicologia patriarcale mi spiega come sto combinata e mi guarisce; se non collaboro, mi isola.  E considero una involuzione pericolosa pensare che i comportamenti violenti sempre più diffusi possano essere ricondotti alla patologia e ridotti a malattie da controllare e da curare.

Il ruolo della/o psicologa/o non può essere strumentalizzato da parte di una politica in cerca di capri espiatori, di vittime sacrificali; non può essere utilizzato come una copertura di controllo, di ordine e di sicurezza. Psicologhe e psicologi dappertutto, certo, vigilando sulle derive possibili derivanti dal potere ricevuto come un dono, come una concessione che, nella realtà, rivela l’inganno della delega e della deresponsabilizzazione del sistema.  Nel contesto di quali modelli culturali lavoriamo? E con quanti anni di analisi personale come garanzia minima di individuazione e di resistenza dinanzi alle manipolazioni di un sistema corrotto e che corrompe?

Attenzione a noi psicologhe e psicologi e ai peccati di ingenuità che divengono abusi: il rischio è fare un favore al modello patriarcale, è ripristinare i manicomi, stipare più persone in carcere, compresi i minori che delinquono, controllare in modo autoritario e repressivo, intervenire per irregimentare, isolare con la scusa della cura. Spesso il disagio psichico è l’iceberg di una causa originaria che riporta ad una più ampia visione antropologica da studiare e da trasformare.

Il fallimento di quella psicologia che propone di curare e di normalizzare è la ragione ed è il segno che rimandano al suo significato più profondo. Una volta discesi nella relazione, rimaniamo con l’altro nella zona oscura che permette lo sguardo luminoso per entrambi, ritrovando l’habitus della trascendenza. Lo spazio in negativo, che la psicologia offre, esprime la sua potenza quando spezza il rumore, quando confida nel silenzio e nella durata, quando motiva le idee trasformative. Le forze deboli sono tenaci e potenti rispetto alle influenze da social network e ai grandi canali di persuasione collettiva. La forza, anche espressiva, ci raggiunge nella significatività, non nei numeri di successo. Nella relazione psicologica, la fragilità, lo spazio angusto, l’irrisoluzione, il tempo sospeso, sono segnali di irriducibile capacità di comprensione. Fuori dalle regole del regime dominante, lo spazio e il tempo si restringono, ma acquistano valore. L’essenziale è cosa silenziosa e minuscola, favorisce i pensieri e le azioni alternative, liberando l’intuizione e operando in favore della collettività.

La psicologia è politica occupandosi di relazioni, riconoscendo e opponendosi alle situazioni simbiotiche, manipolative, parassitate. Quando interagiamo con coscienza e consapevolezza, non perseguiamo l’autosufficienza del singolo, partecipiamo al cambiamento del mondo, creiamo storie nuove individuali e collettive, organizziamo i ricordi e le esperienze e ridecidiamo, assieme. Ogni persona è l’oggetto e il soggetto nelle interazioni di reciprocità e non è la proiezione della fantasia narcisistica altrui. Penso alla necessità di una seria politica culturale di contestazione e di critica al sistema dell’emarginazione sociale postcapitalistica.

Negli anni della mia primaria formazione mi ero allontanata, piccata dagli interventi che avevo letto, dieci anni più tardi, di Luisa Muraro e di Lea Melandri, nella raccolta degli atti del Convegno di psicologia, tenutosi a Padova nel maggio 1973. Leggevo in quegli scritti i tentativi di sabotare la mia figura di giovane psicologa, che già vivevo come subalterna, indefinita, ambigua. Ma oggi, ritorno con sgomento, al pericolo che sottolineavano, cinquanta anni fa, soprattutto, le due studiose.

Le modifiche dell’ordinamento sono legittime, e la loro utilità per la giustizia sociale dipendono dagli equilibri, dai limiti, dalla formazione professionale, dall’analisi e dall’autoanalisi personale continua di ogni psicologa/o.

La psicologia non può diventare “una specie di superverità che libera tutti dalla responsabilità di decidere su ciò che è giusto e ciò che non lo è: lo psicologo, in quanto si limita ad enunciare la verità, gli altri perché non possono che prenderne atto. È la conferma più palese della deresponsabilizzazione generale.” Lea Melandri, pp.91/92

E Luisa Muraro, a pag.33:

“Di una cosa sono certa: è vero che il sapere psicologico è elaborato, trasmesso e usato contro di noi, contro quelli tra noi che non si conformano a modelli sociali, per sistemarci e classificarci a seconda: in ospedale, in manicomio, oppure per recuperarci per la famiglia e la fabbrica; questo riesce e funziona non tanto a partire da certe idee, ma a partire da una divisione tra competenti e incompetenti…  è questa divisione che lascia sprovveduti e disarmati di fronte alla decisione sociale di emarginare, di fronte alla interpretazione delle differenze di comportamento come deviazioni pericolose da curare (il bambino che non sta fermo a scuola è malato, la donna che non sopporta i figli è malata, ecc.) (…)  Non basta riconoscere che la “devianza” è una obiezione politica e umana contro questa società. Bisogna anche vedere attraverso quale meccanismo i reali problemi dei rapporti umani, le reali sofferenze di molti individui, le situazioni oppressive che ci fanno dare di matto o semplicemente i comportamenti singolari insoliti, per quale meccanismo tutto questo ci separa…  Io voglio capire quel che mi succede, e quello che succede a quelli che mi sono vicini, questo sapere non può stare in mano ad altri.”

 

Ph. Antonella Aresta

Se ci vediamo arrivare e se decidiamo di proseguire

Ph. Antonella Aresta

Ph. Antonella Aresta

 

 

 

 

 

 

 

 

Un errore nel sistema caratterizza il sistema con più chiarezza che non il suo normale funzionamento.

La creatura vivente più vecchia del pianeta – 507 anni – è una vongola, chiamata Ming che muore quando gli scienziati l’aprono per apprenderne l’età.

                                          Jana Bukova, poeta bulgara, nata 1968

Accorgerci di noi stesse/i, vederci arrivare è un invito alla mitezza e alla determinazione, una promessa di parole pensate e profonde, una presenza di vigilanza e di ricerca. Non è rispondere a tono, dimostrare di farcela più o meno, non è mettersi alla prova, fare il dispetto a qualcuno, pretendere di imporsi, non è autoincensarsi.

Spesso, la pretesa di trasformare uno svantaggio in un vantaggio è soltanto una sfida, una rivendicazione, una dimostrazione di forza in atto. Nella realtà, uno svantaggio è uno svantaggio e tale rimane. Per il nostro bene, il movimento lento o l’arresto che ogni tanto ritorna o, ancora, l’impazienza legata all’inutile e faticosa onnipotenza, è meglio che restino un disturbo e una inaccettabile performance.

Gli altri ci sentono e ci vedono arrivare perché noi stesse/i ci percepiamo viandanti, in arrivo e in ripartenza: talvolta, sentiamo imbarazzo, inadeguatezza, talaltra, avvertiamo una gioiosa impertinenza, chè ci aspettino, andiamo arrivando. Ritroviamo il nostro spazio e il nostro tempo nel mondo, senza avvilimenti e salvazioni, affinando il pensiero critico, astratto e complesso.

“Senza perdersi e senza mettersi in salvo”, è questo il messaggio di Carla Lonzi. (Carla Lonzi, “Itinerario di riflessioni”, in È già politica, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1977, p. 13)

Il teatrino delle parole e delle immagini non ci incanta, l’autenticità traspare, se c’è, e non è imitabile perché è la conseguenza di un lavoro profondo di autocoscienza, anche solo incominciato. Studiare e condividere le visioni sulla ipseità, sull’alterità, sulla vita consente la strutturazione di una comunità oppure, come mi piace dire, la creazione di bande di gatti e di gatte randagi/ie. Temi complessi e delicati come la prostituzione, l’utero in affitto, l’identità di genere, la laicità, il femminicidio, le violenze: nella relazione psicologica, che è sempre anche politica, ci sarà da confliggere su molte scelte, ma il messaggio da trasmettere è che se ne può parlare, si può discutere, riconoscendoci, però, in una visione di base comune riguardo alla giustizia sociale, ai volti trasparenti, alle prospettive ariose, alle metodologie democratiche.

È cosa buona, continuando a prendere le distanze dal potere patriarcale delle donne e degli uomini, fiutandone l’afrore da lontano, incontrare le persone, sulla via intrapresa, con le quali continuare a capire intorno alle idee e ai modelli praticati. Impegnandoci ad ascoltare e a contestualizzare le parole utilizzate. Ogni interazione intercorsa, rimanda a un modello preesistente e manifesta un copione di vita.

Non serve schierarci o dichiararci più o meno d’accordo con questa o quella dichiarazione senza prima contemplare la realtà e registrare il copione personale, la visione globale di qualunque persona affermi un pensiero. Chi lo dice? Interagisce in quale storia personale e sociale, in quale contesto, muovendo da quale esperienza formativa e da quali convinzioni? Il pensiero prevede la comprensione a più voci delle ragioni, senza vincitori e vinti e punteggi e audience. Anche l’insulto, il sarcasmo, l’offesa, la svalutazione, la seduzione, il negazionismo, il revisionismo, anche le pezze peggio del buco sono strumenti di potere.

Facciamo in modo che il pragmatismo e l’utopia non diventino come l’innovazione e la tradizione, un binomio farlocco, ormai svuotato della profondità e della potenza. Più che le fantasie e il calcolo dei risultati, è fondamentale rilevare l’orientamento psichico, la predisposizione mentale, il corpo onesto e congruente. L’esaltazione e l’esposizione consumano il personaggio e non svelano né la persona né il suo messaggio.

Accogliamo una psicologia che mantenga le aree di sospensione, di mistero e di silenzio, una psicologia che non pretenda di aprire e di spiegare a tutti i costi l’umano. La rivelazione totale è mortifera, oltre che insostenibile. Consolidare l’identità personale e professionale porta a custodire, a proteggere, a sussurrare. Essere vincenti significa rimanere silenziosamente consapevoli e stancamente, ancora, alla ricerca.

Incuriosiscono e appassionano le prospettive diverse che, però, abbiano come base una stessa visione di mondo e di persona. Talvolta, abbiamo difficoltà ad accogliere un pensiero diverso, intuendo una modalità di esistenza virile, da padroni. Una cosa sono le idee che originano da storie personali e da libertà di pensiero differente; altra cosa è il circo mediatico di chi spara la foto o la parola più sensazionale, da terrapiattista di turno. Ipotizziamo, in tal caso, comportamenti paranoici. Il cambiamento autentico rischia di essere invisibile perché è minimo ed è lento e viene incoraggiato dai dialoghi con le persone.

Ormai, il privato etico, solidale e caritatevole sostituisce la solidarietà dovuta dallo stato e dalla politica che ancora, senza decenza, privatizza. Il campo è libero per la bontà e la disponibilità del singolo cittadino e delle ong, delle coop, pure segnalate come l’origine di ogni male.

La formazione, l’indignazione anche attraverso i social, l’attivismo, la testimonianza nelle piazze non smuovono il potere ad agire. E le espressioni di solidarietà, senza l’autorità statale rischiano di rimanere forme isolate senza connessione, più simboliche che concrete. Sulla terra, gli esseri viventi hanno pari dignità e valore. I fantasmi nemici sono nelle teste e nelle pance nostre. Per gli esseri umani, le trasformazioni sono sempre possibili.  Su questi punti abbiamo il bisogno di concordare.

Difendere una scelta radicata significa indicare solo una via; prevedendo solo una risoluzione, ci ritroviamo incastrate/i, spalle al muro. Al contrario della solita scelta copionale, è possibile pensare più opzioni di comportamento. L’attività psicologica benedice la prospettiva preesistente e allarga lo sguardo su altre visioni possibili, diversificando il pensiero e l’azione. Mi sono sempre comportata così, da oggi, invece, avverto una spinta debole e persistente, posso e scelgo di modificare: questo è il processo di cambiamento. I comportamenti inadeguati e/o malati, prima di essere colpevoli, sono inconsapevoli e inconsci, originano in un sistema ampio.

Nel volume collettivo Duemilaeuna, donne che cambiano l’Italia (Pratiche editrice, 2000), la filosofa Luisa Muraro sottolinea come i filosofi da Platone a Marx a Nietzsche, hanno tentato di oltrepassare i limiti della condizione umana mirando alla autosufficienza del singolo. Propone, invece, l’idea che nella relazione “il passaggio diretto lo apre l’intelligenza dell’amore, l’amore che vuole essere all’altezza ma non teme di essere trovato mancante, e converte il piombo di una insopportabile dipendenza nell’oro di una mancanza accettata che apre la porta ad altro” (pag. 155).

È un pensiero che consideriamo fondante: la relazione fra gli umani è una condizione ineludibile. E perché la relazione sia utile e gioiosa è indispensabile registrare le differenze in se stesse/i e accoglierci nel divenire continuo. Siamo sole/i, mancanti, fragili e mortali, condizioni che abbiamo bisogno di perdonare in noi stesse/i, mentre registriamo l’altra persona nella realtà, non come proiezione di sé. L’amore si esprime facendoci carico della distanza e della mancanza, non subendo e/o imponendo l’illusione della fusione, pericolosa non solo per il singolo, ma per la società intera.

L’apprendimento segna tempi, modi e risultati imprevedibili e personali. La prevenzione, e non la punizione, sarà seria e costante, nell’alternarsi delle generazioni. Il lavoro psicologico sulle basi non prevede ritmi ansiosi e rimane sottotraccia, sottovoce, eh sì, rimane anche sottovalutato, ma è il lavoro che dura tutta la vita.

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individuazione

Come una madeleine, il gusto dell’educazione di sé

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

Ogni persona che richieda la mia consulenza vuole rimettersi al più presto, vuole ritornare velocemente come prima. Dichiara l’esigenza, magari durante il nostro primo incontro, di poter sollevare e lasciare lì i sintomi con tutto il loro carico di mancanza, di dolore, di fallimento, di ansia. Almeno per godersi la vacanza. Questa richiesta aggancia il mio furor sanandi, la fretta di curare, di accontentare la/il cliente, mostrando l’efficacia e l’efficienza del metodo psicologico. Sessualità, sonno, alimentazione, tutti gli equilibri saltati con i pensieri fissi e le angosce ricorrenti e il compito di raggiungere l’obiettivo della perfetta salute ad ogni costo.

Ci assoggettiamo, più o meno consapevolmente, all’inganno della logica capitalista che crea il problema, il malessere psichico, e ha pronta la soluzione da vendere, la risposta dello psicologo di turno che rimanda ad una personale incapacità di vincere del/lla cliente. Ma quello che eravamo prima, e a cui chiediamo di ritornare, è proprio la causa dell’impoverimento avvertito. La soluzione cercata a qualunque costo è ritornare come prima, tutti/e dicono. A qualunque costo è il dramma di chi perde il senso della propria vita, volendo pagare un prodotto da banco.

Ecco, la lettura e la cura psicologica, insistono sul cammino incontro alle ombre considerate una risorsa e non un guaio capitato a caso. Il disturbo psicologico ci tocca come un privilegio, per capire, per trasformare, per custodire i vecchi modelli che ci hanno consentito di arrivare dove siamo e per aggiungere nuove possibilità, scelte differenti a goderci la vita.

Ho imparato a dubitare del sistema che vuole difendermi dandomi della pazza. La richiesta di stare bene, per alcune persone, significa essere reintegrate nelle strutture, omologate al coniuge patriarca, asservite e consenzienti a un modo di intendere il lavoro che, in cambio del salario, offre la sopravvivenza negli acquisti compulsivi. Prima dei malesseri psicologici, eravamo morti in vita; attraverso il lavoro di coscienza e di conoscenza, conveniamo che la luce è da cercare nella nube oscura.

L’ansia va ascoltata e ha molto da dire intorno alla persona che stiamo diventando. La crisi dell’esistenza non è una malattia da guarire; segnala, invece, con tutta la sintomatologia fastidiosa, un periodo più o meno lungo di riflessione, di cambiamento, di analisi di sé, nel contesto in cui viviamo. Siamo perdute/i senza il programma di gloria, di ricchezza, di potere e di visibilità, viatico di vittoria riconosciuta. Dichiariamo guerra alla frustrazione, alla fragilità, alla tristezza, alla paura, all’inadeguatezza. La materia di studio e di indagine è l’ombra che non vogliamo e che non vogliamo abbia voce. Non perseguiamo un risultato, apprendiamo a valutare un processo di cambiamento che impegnerà tutta la vita e che continueremo a seguire da soli, alla fine degli incontri di consulenza. La tentazione è rimanere abbarbicati negli obsoleti territori mentali, è confermare il copione, è dimostrare che la soluzione arriva da fuori, da un’altra parte, dagli altri.

L’orientamento umano naturale alla felicità, invece, riconosce lo scarto e apprezza lo slancio che da esso può trarre. I ragionamenti formativi funzionano quando offrono un sollievo nell’immediato, ma fanno anche intravedere vie lunghe da percorre. Il discorso psicologico non può essere straordinario né normalizzante; accompagna durante un tratto di via offrendo le letture, il senso, segnalando i respiri di resistenza e i perimetri di realtà.

L’obiettivo, se fosse, negli incontri seguenti è inaugurare un cammino di comprensione nella quotidianità. Ed è già un cambiamento, una militanza nuova: il pensiero psicologico come una madeleine, a recuperare l’essenza. La madeleine proustiana* sottolinea l’importanza della memoria involontaria, spontanea e non cercata, evocata da un sapore. I sintomi sono come stimoli che riaffiorano quando meno ce lo aspettiamo e proprio assumendoli come opportunità non cercate, possiamo iniziare un percorso di rilettura dell’esistenza trascorsa. Intendiamo il tempo perduto a causa dei malesseri come un tempo ritrovato per avviare, imparando a vedere la realtà, la trasformazione di sé. Il lavoro psicologico parte da sé ma non ritorna al sé, prevede il benessere della persona e, necessariamente, costruisce la consapevolezza e l’autorità onesta per influire sulle relazioni con il prossimo, con la collettività più ampia, con il territorio di riferimento, con la cultura dei luoghi. È ciascuno/a di noi a fare la differenza, lì dove compie la sua opera di vivere.

Facciamoci coraggio e capiamo cosa vuol dire il lavoro di individuazione per Jung, un processo di elevazione anche spirituale per sviluppare la personalità individuale, sulla base della predisposizione naturale di ciascuno/a. Dal testo Tipi psicologici, riprendo le pp. 463-465:

L’individuazione è in generale il processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui, e in particolare lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva. L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale. La necessità dell’individuazione è una necessità naturale, in quanto che, impedire l’individuazione, mercé il tentativo di stabilire delle norme ispirate prevalentemente o addirittura esclusivamente a criteri collettivi, significa pregiudicare l’attività vitale dell’individuo. L’individualità è però già data fisicamente e fisiologicamente e si esprime analogamente anche nel suo aspetto psicologico. Ostacolare in modo sostanziale l’individualità comporta perciò una deformazione artificiosa.

 È senz’altro chiaro che un gruppo sociale il quale sia costituito da individui deformi non può essere un’istituzione sana e, a lungo andare, vitale, giacché soltanto la società che è in grado di serbare la propria coesione interna e i propri valori collettivi assieme alla massima possibile libertà del singolo può contare su di una vitalità duratura. Per il fatto stesso che l’individuo non è soltanto un essere singolo, ma presuppone anche dei rapporti collettivi per poter esistere, il processo di individuazione non porta all’isolamento, bensì a una coesione collettiva più intensa e più generale.

 Il processo psicologico dell’individuazione è strettamente connesso con la cosiddetta funzione trascendente, in quanto mediante questa funzione vengono date quelle linee di sviluppo individuali che non potrebbero mai essere raggiunte per la via già tracciata da norme collettive. L’individuazione non può essere in alcun caso l’unico obiettivo dell’educazione psicologica. Prima di potersi proporre come scopo l’individuazione, occorre raggiungere la meta educativa dell’adattamento al minimo di norme collettive necessario per l’esistenza: una pianta che debba essere portata alla massima possibile fioritura delle sue peculiarità deve anzitutto poter crescere nel terreno in cui è piantata.

 L’individuazione è sempre più o meno in contrasto con le norme collettive, giacché essa è separazione e differenziazione dalla generalità e sviluppo del particolare; non però di una particolarità cercata, bensì di una particolarità già a priori fondata nella disposizione naturale. L’opposizione alle norme collettive è però soltanto apparente, in quanto, a ben guardare, il punto di vista individuale non è orientato in senso opposto alle norme collettive, ma solo in senso diverso. La via individuale può anche non essere affatto in contrasto con la norma collettiva giacché l’antitesi di quest’ultima non potrebbe essere altro che una norma opposta. Ma la via individuale non è appunto mai una norma. Una norma nasce dall’insieme delle vie individuali e ha ragione di esistere e possiede una sua efficacia animatrice solo quando genericamente sussistono vie individuali che di tanto in tanto vogliano seguire il suo orientamento. Una norma che abbia validità assoluta non serve a nulla. Un vero conflitto con le norme collettive si ha solo quando una via individuale viene elevata a norma, il che è poi la vera intenzione dell’individualismo estremo.

 Questa intenzione è naturalmente patologica e del tutto avversa alla vita. Pertanto essa non ha nulla a che fare con l’individuazione, la quale, deviando dalla via consueta per imboccare una individuale, ha bisogno proprio per questo della norma per orientarsi di fronte alla società e per effettuare la coesione fra gli individui entro la società, coesione che è una necessità vitale. L’individuazione porta perciò a un apprezzamento spontaneo delle norme collettive; invece la norma diventa sempre più superflua in un orientamento esclusivamente collettivo della vita, e con ciò la vera moralità va in rovina. Quanto più l’uomo è sottoposto a norme collettive, tanto maggiore è la sua immoralità individuale. L’individuazione coincide con l’evoluzione della coscienza dall’originario stato d’identità; l’individuazione rappresenta quindi un ampliamento della sfera della coscienza e della vita psicologica cosciente.

 

*Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Ritroviamo la “Madeleine de Proust”, conosciuta anche come sindrome di Proust, ne “Dalla parte di Swann”, il primo volume del romanzo più lungo del mondo.

 

suicidi

Contro lo statuto di vittime

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

Si sono suicidate in carcere, Susan Jhon, in sciopero della fame, e Azzurra Campari impiccandosi, come due mesi fa Graziana Orlarey e le altre e gli altri, 43 persone, dall’inizio dell’anno.

Beffando anche la più stretta sorveglianza, chi ha deciso di uccidersi, lo farà. L’esperienza carceraria, per il solo fatto di esistere, fa fuori le persone. Ritengo fondamentale che le detenute costruiscano una visione lucida della situazione e della pena da scontare. Se una donna organizza la cella come una casa e le compagne come una famiglia e le poliziotte penitenziarie come i genitori affettivi e critici positivi e negativi, si convince che è quella la normalità e psicologicamente non ne esce più.

Il suicidio ci invita a cambiare lo sguardo su una persona che, con l’ultimo gesto, riprende su di sé l’onere di una soggettività attiva e non passiva. Oltre le logiche riformiste da una parte o abolizioniste dall’altra, con cui inutilmente ci schieriamo, non vogliamo perdere l’opportunità di continuare a ragionare intorno all’ombra, alla spazzatura che l’umanità produce, proprio perché luminosa.

Promossa da responsabili pensanti, ho condiviso, negli anni della formazione con la polizia penitenziaria, tentativi, conversazioni timide e trattenute sul rischio suicidale, considerazioni che ora desidero riavviare in modo esplicito e diretto. Sono convinta che se siamo libere possiamo assumere la responsabilità del cambiamento. Neghiamo, per onore di realtà e di verità, il modello repressivo e l’idea conservatrice che condannano la presunta lassità. Non siamo mai riuscite/i, nei casi che ricordo, a trasformare l’esperienza individuale in promozione comunitaria e in valore collettivo, voglio dire, in sapere politico.

L’impegno è perlomeno continuare a parlarne e a riconoscere le differenti strade: la depenalizzazione di alcuni reati incarcerando meno persone; l’introduzione di misure diverse dalla carcerazione, l’educazione sociale nelle scuole. L’impegno è di prevenzione e di formazione, meno dentro, e di più fuori dall’istituto penitenziario, rispetto a una impopolare rivoluzione di mentalità che curi l’idea comune di uno Stato che debba punire e segregare.

Per controllare tutto e sempre, l’organizzazione carceraria tende a mantenere l’individualismo delle persone recluse, a contrastare la capacità di interazione collettiva, anche attraverso la deprivazione sensoriale, mortificando le possibilità di autogestione e di indipendenza. La mancanza di lavoro e la difficoltà a comunicare con l’esterno, isolano e favoriscono la denutrizione psicologica di ogni detenuta. Il luogo comune recita le ragioni della sicurezza e la generica convinzione che non ci si può fidare delle detenute, manipolatrici che per ottenere qualcosa agiscono in maniera strumentale e opportunistica. In molti casi, sono convinta che sia così, ma le proposte per cambiare il sistema devono andare avanti, conoscendo i rischi e i pericoli. Il dovere di reclusione delle donne ha una doppia valenza morale: la punizione per il reato commesso si aggiunge alla punizione sotterranea e durissima di aver mancato i valori di genere, le retoriche per cui le donne, specie quelle poco scolarizzate e ai margini, debbano naturalmente essere sensibili, materne, infine ragionevoli, un po’ matte, un po’ puttane.

E, allora, i diritti diventano concessioni previste dalle regole del carcere, in strutture mentali che rilanciano il binomio premio-punizione. Fra l’immagine della donna-vittima e quella della donna-reagente, uniche identità di detenute, guardiamo al modello di un cambiamento atteso, fra l’adattamento e la ribellione, che è possibile, considerando l’esperienza detentiva come un passaggio, attraverso la formazione individuale e in gruppo, nominando i sensi di colpa che sono devastanti, coltivando la presenza e la resistenza, costruendo la coscienza di sé e dell’azione compiuta.

Sono contraria alla vittimizzazione della donna in carcere e credo all’assunzione della responsabilità rispetto al reato. Però, il contesto sociale, dentro e fuori dall’istituto penitenziario, ha l’obbligo di offrire la libertà e la possibilità di cambiamento, con l’istruzione e con il lavoro. Costruire la libertà significa apprenderne la perdita. La dis-culturazione delle donne, la subcultura carceraria, le allontana da ogni illusione di reinserimento nel tessuto sociale. E, soprattutto, viene liquidato il lavoro doloroso, profondo e lungo di coscienza di sé, di presa in carico dei sentimenti, dei pensieri, delle azioni commesse.

Loro dentro e noi, nelle gabbie di fuori, nell’illusione di una cittadinanza in cui le persone perbene e permale rimangano in due schieramenti fissi e distanti. Psicologicamente, “lo statuto di vittima” è ambito da ogni essere umano, in ogni situazione, dentro e fuori dal carcere: così evitiamo l’apprendimento faticoso del pensiero ampio e comunitario, iniziando da sé. Conviene all’umanità intera smettere di voler difendere i buoni dai cattivi, le vittime “vere” dai predatori “veri”: per una migliore qualità di vita l’educazione e le trasformazioni sono costitutive e non prevedono soltanto la guerra al male, la guerra perduta, in fondo, contro se stessa.

In una certa prospettiva, il carcere è percepito come un microcosmo a parte, regolato da dinamiche interne, in cui detenute e agenti vengono assorbiti/e dalla prison culture. Con la legge del 1975 e la legge Gozzini del 1986, dal carcere chiuso e punitivo si è, nella visione, passati al carcere aperto, il carcere della speranza, volto alla riabilitazione e al trattamento individualizzato. Ma il mondo esterno, anche dove è possibile ed è realizzato lo scambio virtuoso e osmotico, c’entra poco e non è preparato ad accogliere come parte di sé chi sconta una pena. Dentro, le funzioni rieducative sono spesso minime, le attività trattamentali sono occasionali e, fuori, mancano le possibilità lavorative certe e dignitose. E manca la cultura dell’appartenenza rispetto a un corpo unico sociale che si può ammalare e guarire. Lo stigma e la ghettizzazione rimangono per tutti coloro che hanno scontato la pena; per le donne, di più: per molte, il carcere come prodotto sociale può rimanere il luogo-casa protetto perché almeno conosciuto, certo più accogliente della società esterna, basta sottomettersi alle regole.

Per noi, il numero, minimo rispetto agli altri, dei grandi criminali costruisce la giustificazione e la fortificazione della convinzione salvifica e risolutiva dell’istituto penitenziario. Abbiamo la percezione di sentirci più al sicuro – ascolto ancora chi dice: “per garantire l’ordine pubblico” – perché qualcuno, dentro, sconta la pena: anzi, auguriamo fine pena mai, tolleranza zero per i reati e pure per le infrazioni, mentre pretendiamo di sperimentare il mondo, fra noi disciplinati, eternamente sicuro e ordinato. E le persone di povertà e inconsapevoli psicologicamente – straniere irregolari, tossicodipendenti, senza fissa dimora, malate mentali, giovani violente, mendicanti, prostitute, alcolizzate – si cristallizzano nel processo di dipendenza e di infantilizzazione rispetto alla struttura carceraria.

Le questioni sono molto complesse e bisogna, intanto, continuare a riflettere e a condividere. Dal 2022, anno della pubblicazione, c’è un testo che considero fondamentale per i miei studi, perché ogni persona esca dallo statuto di vittima: onorare i territori della psicologica nei quali rimango nella mia attività professionale, significa non ridurmi a essi, allargando il campo della ricerca. Tamar Pitch, docente di filosofia del diritto e di sociologia del diritto nell’Università di Perugia, studia la questione criminale, i diritti fondamentali, il genere del e nel diritto.

Per chi legge, ricopio qualche pensiero, sapendo che torneremo a riconsiderare il libro, in altre sue parti, intorno a molte questioni, per l’impostazione generale offerta.

“Negli ultimi trent’anni o giù di lì la giustizia penale, classista e razzista, è invocata come la soluzione per tutti i problemi sociali e politici… succede che anche movimenti collettivi nati per ampliare la dotazione di diritti di ciascuna e ciascuno, per combattere discriminazioni e disuguaglianze, assumano lo statuto di «vittime» e finiscano per condividere la retorica punitivista dominante.”

“Lo statuto di vittima richiama la logica e il linguaggio del penale: ci si definisce vittime o si viene definiti vittime sulla base di qualche torto o danno subito (e, in seguito, potenzialmente da subire) da parte di attori individuati o individuabili cui si imputa l’esclusiva responsabilità dei danni o torti. è evidente la differenza con il termine «oppressi»: quest’ultimo infatti richiama una situazione complessa che coinvolge l’intera biografia dell’individuo e lo accomuna ad altri individui nella stessa situazione, diciamo così, strutturale. «Vittima», viceversa, evoca un’azione singola da parte di singoli, sulla base della quale ci si può associare ad altri individui che hanno subito, o potrebbero subire, la stessa azione… Se lo statuto di vittima diventa uno statuto ambito, ne deriva che vi sarà conflitto su chi sia la vittima più vittima, la vittima davvero meritevole. Ciò che è stato chiamato il paradigma vittimario…”

“Le vittime «vere», dunque, sono soltanto quelle che hanno fatto di tutto per non diventarlo: hanno preso precauzioni, non si sono andate a ficcare nei guai, non hanno corso rischi reputati non necessari. Ma, soprattutto, corrispondono allo stereotipo della buona vittima condiviso da media, giustizia penale e forze dell’ordine. Rivolgersi alla logica e al linguaggio del penale per vedere riconosciute le proprie ragioni o addirittura la propria soggettività politica, tuttavia, eleva precisamente la giustizia penale, nazionale e internazionale, a soluzione principe di tutti i problemi, a scapito della politica… Ciò che si rischia è non solo un panpenalismo, ma anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima, laddove il processo penale non può che produrre delusione rispetto alla propria aspettativa di risarcimento narcisistico assoluto…”

“Definisco femminismo punitivo le mobilitazioni che, richiamandosi al femminismo e alla difesa delle donne, si fanno protagoniste di richieste di criminalizzazione (introduzione di nuovi reati negli ordinamenti giuridici) e/o di aumento delle pene per reati già esistenti… è ormai l’autoassunzione dello status di «vittima» che pare essere il modo principe di garantirsi la possibilità di emergere e venire riconosciuti come attori di conflitto…”

Riferimento bibliografico:

Tamar Pitch, Il malinteso della vittima: una lettura femminista della cultura punitiva, Ed. Gruppo Abele, 2022. Edizione del Kindle.

 

 

Ph. Antonella Aresta

Le stanze sono tante

Ph. Antonella Aresta

A pochi giorni dalla cancellazione del reddito di cittadinanza, leggo la notizia, apparentemente minima: dal 31 luglio viene promossa e inaugurata la «stanza dell’ascolto» nell’Ospedale Sant’Anna di Torino, attraverso una convenzione firmata dalla Città della Salute e dalla Federazione Movimento per la vita. È uno spazio per «fornire supporto a donne gestanti che ne abbiano necessità, nell’ambito di un più generale percorso di sostegno durante e dopo la gravidanza alle donne che vivono il momento con difficoltà e che potrebbero quindi prendere in considerazione la scelta dell’interruzione di gravidanza o che addirittura si sentono costrette a ricorrervi per mancanza di aiuti».

Data la genitorialità del progetto, ho buone ragioni per pensare che i volontari, in una struttura finanziata con soldi pubblici, possano utilizzare tecniche manipolatorie per intimidire e soggiogare le donne, alcune confuse, in una situazione di perplessità, fornendo informazioni parziali e alterate sull’aborto. Le riflessioni che propongo riguardano per ogni donna il processo decisionale e di libera valutazione di sé, allontanando le decisioni preconfezionate, moralistiche e ideologiche. Il progetto svaluta e umilia il servizio pubblico dei Consultori, luoghi ad accesso libero e diretto, e rivendica soprattutto un valore simbolico. Infatti, l’Ospedale torinese è il primo presidio sanitario in Italia per numero di parti e in cui si effettua il maggior numero di aborti.

Un po’ per volta, mansuete e distratte, veniamo abituate a rinunciare ai diritti acquisiti, come la rana che solo quando l’acqua è in ebollizione capisce che muore. Quando siamo senza forze, ci rendiamo conto dell’impatto e delle restrizioni sulla nostra pelle. Il modo di agire subdolo ci logora e cancella i limiti del possesso sui nostri corpi e sul diritto di scelta.

L’indignazione rende queste strategie di condizionamento e di sottomissione, perdenti a breve temine. Considero le manipolazioni come passi falsi che si ritorcono prima o poi su chi spudoratamente osa ridurre le libertà conseguite. L’attivismo per i diritti umani degli anni novanta si è dimostrato fragile perché era isolato: anche se molti elettori e politici erano favorevoli ai diritti lgbtq+, ai diritti riproduttivi e alla giustizia razziale, per ciascuno di questi temi venivano costruite campagne separate, senza spiegare che in realtà erano battaglie con molti punti in comune.

Richiamo le parole della saggista statunitense Rebecca Solnit che qualche anno fa scriveva sulla sua pagina facebook, difendendo il diritto all’aborto: “… parafrasando le parole scritte sul Monumento all’olocausto di Boston: Prima vennero a prendere i diritti riproduttivi (Roe contro Wade, 1973) e non importava se non avevate un utero, perché poi sarebbe stata la volta dei matrimoni omosessuali (Obergefell contro Hodges, 2015), del diritto degli adulti consenzienti ad avere rapporti omosessuali tra loro (Lawrence contro Texas, 2003), e poi del diritto al controllo delle nascite (Griswold contro Connecticut, 1965). Non importa se non ce l’hanno con voi, ce l’hanno con tutti noi. Noi significa praticamente chiunque non sia un uomo bianco, cristiano, etero e di destra. Parti politiche alimentano la nascita di un’ampia opposizione e spetta a noi trasformarla nel suo errore fatale.”

Rifletto sul numero delle stanze e, secondo me, meglio che siano almeno dodici: in ognuna, una riflessione, un limite e una spinta, un’ombra e una luce. Mi preoccupo che ogni donna permanga in ognuna delle dodici stanze/orientamenti oppure seduta su ciascuna di dodici sedie/prospettive. Secondo gli insegnamenti analitico-transazionali, per ogni persona, sono attivi i tre Stati dell’Io (l’analisi strutturale si occupa dei contenuti) e sono attive dodici diverse funzioni operative degli Stati dell’Io. Ogni funzione ha ugualmente diritto di parola e di azione ed è un bene che ogni donna giunga al livello di consapevolezza basica. Nella valutazione complessiva che la persona compie in un momento della propria vita, le categorie dell’errore e della colpa, del peccato e della punizione, sono inutili e dannose. I contesti sociali, economici, psicologici fanno la loro parte e fanno la differenza per la scelta finale. Fino all’ultimo vale il ripensamento. E ogni scelta è la scelta in un particolare momento, da registrare e da ripensare, in futuro, senza ingannarci, senza ricattarci, senza boicottarci.

L’orientamento al diritto rispetto all’interruzione volontaria della gravidanza esiste per legge, lo difendiamo e lo intravedo nelle percezioni di sé delle donne più o meno giovani che incontro nella mia professione. Nel viaggio della liberazione, facciamo passi indietro e in avanti, ma la via è scelta rispetto alla volontà legittima di ricorrere all’aborto. La garanzia è la capacità di prevenire la divisione netta fra l’azione giusta e ingiusta, con una formazione personale alla libertà, imparando a custodire la contraddizione, facendo pace con il bene e il male coesistenti.

 

Il lavoro su di sé è raccontato in due testi che mi stanno a cuore più di altri, di due donne diverse e lontane nei linguaggi e nelle esperienze esistenziali: Oriana Fallaci e Annie Ernaux. Il lavoro di autoanalisi, talvolta guidato, è commovente, può essere facilitato in gruppo e segna il percorso di giustizia e di individuazione per ciascuna donna. L’ascolto di sé ha bisogno di tempo per entrare in confidenza con i suoni, gli odori, le visioni, i sapori interiori, avvicinandoci al nucleo esistenziale. Ernaux rilegge la scelta di abortire come una prova e come un sacrificio: perché il desiderio sia onesto deve attraversare la violenza del corpo che, di conseguenza, diviene un luogo di libertà e di passaggio delle generazioni.

 

A pagina 52, il premio Nobel per la letteratura scrive: Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo.

E a pagina101: Non mi sentivo diversa dalle donne dell’altra sala. Mi sembrava anzi di sapere più di loro proprio per via di quell’assenza. Nei bagni dello studentato avevo partorito allo stesso tempo una vita e una morte. Per la prima volta mi sentivo in una catena di donne attraverso cui passavano le generazioni.

A pagina 104: Ero ebbra di un’intelligenza senza parole.

Nel mondo molto perbenino, Oriana Fallaci pubblicava nel 1975 Lettera a un bambino mai nato e Miriam Mafai ricordò come il testo venne giudicato scandaloso, esibizionista, sgradevole. Solo nel 1993 l’antropologa messicana Marcela Lagarde utilizzò il termine feminicidio. Fallaci parlava invece di donnicidio per identificare le relazioni parassitarie in cui la donna soccombe, in cui viene descritta e trattata come pazza, puttana, come nemica e vittima. Donnicidio segnala anche l’atteggiamento di una sorella verso un’altra sorella, mentre decide forzatamente che c’è il torto da una parte e la ragione dall’altra e non, invece, prospettive e contesti diversi.

Nell’intervista rilasciata a Marina Buttafava, il 6 ottobre 1975, Fallaci ancor più chiarisce: È sofferenza, sì. Lo è dai tempi remoti in cui si formò questa società dove quasi ogni diritto spetta agli uomini e quasi ogni dovere alle donne. Le femministe hanno ragione. Gli uomini, quando parlano di libertà e di giustizia, perfino quando muoiono in nome della libertà e della giustizia, non si rendono conto di riferirsi a una libertà e a una giustizia che riguarda solo in parte le donne. Però, affermando che essere donne è una sofferenza, non intendo dire che è sofferenza e basta. O sofferenza senza scampo. Se sei consapevole di una sofferenza e pronto a batterti per porvi fine, la via d’uscita esiste sempre. Noi donne la intravediamo già, nel buio. Ben per questo essere donne, oggi, è un’avventura esaltante. Ben per questo la protagonista del libro dice al bambino-embrione: «Vorrei che tu fossi una donna… Battersi è molto più bello che vincere».

luglio '23

Barbie, per sempre!?

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonlla Aresta

Bel film, ben progettato e ben veicolato, un’operazione commerciale ineccepibile ed è stato bellobello rilassarmi in un mare di rosa, con le persone di ogni età sedute in sala, tanto da rimpiangere il foulard rosa che avrei potuto sfoggiare, giusto per sentirmi adeguata, moderna, anzi, contemporanea, almeno al buio, al fresco di un’omologazione serena e meritata; dài, dopo più di sessant’anni a ostacolare fluidità ovvie. Riappacificarmi con la parte rosa di me era la promessa e riappacificarmi con le Barbie di sempre, anime bionde, che forse avevano ragione su tutto e che, invece di contrastare, avrei dovuto imitare. La visione di un film come riscatto, ecco, come la personale operazione di pinkwashing, su di me, riducendo i toni amari, spocchiosi, di idee e di scritture passate: https://www.liziadagostino.it/25-novembre-memoria-patriarcale-di-stato/

“Avete mai pensato di morire?”, esordisce Barbie rivolgendosi alle infinite copie di sé, in un rigurgito greve di perplessità umana. È la frase che divide la visione in due, il prima e il dopo. E, nel clima creato, l’incantesimo finisce in una chiave di lettura daimoniaca e irrimediabile: è la domanda sulla morte a rivelare la vita, a distinguere gli umani fra i viventi? È sentire l’angoscia di morte a fare la differenza fra Real World e Barbie Land? È la spinta segreta del daimon interiore, è la ferita, è la domanda filosofica di senso, a dare sostanza e sapore all’umano?

Mi rendo conto del possibile inganno della “carezza di plastica”, intuisco l’ombra di tanta luminosità e riprendo l’idea che l’appello femminista troppo vincente è perdente. È stancante non poter ricevere nulla senza pormi domande, specie in estate, senza distrarmi dall’allenamento all’analisi, prevedendo un recupero ancora più faticoso.

Nella teoria e nella pratica analitico-transazionale, meglio una carezza di plastica che nessun riconoscimento. Però, “Sei bellissima” può essere una carezza scivolosa, data e ritirata, formale e di circostanza, insomma, un riconoscimento che dice quanto il mittente sia paraculo e il ricevente sia ingenuo. L’autenticità della relazione e l’onestà delle persone comunicanti non sono affatto elementi scontati e fanno la differenza. Nel film queste parole risultano vincenti, includenti e avviano le liberazioni da ogni tipo di bigottismo reiterato.  Fra le persone reali, inconsapevoli, le due battute scambiate: “Sei bellissima”, “Lo so”, possono rappresentare il lancio di un tiro alla fune, di una sfida che porta all’incomunicabilità, non all’intimità relazionale. Nella quotidianità, può essere l’inizio di un gioco psicologico a “Sei bellissima, ma…” oppure, “Bravissima, Interessantissima, peccato, però che non fai come noi e non sei ripiegabile/riducibile/addomesticabile…”

Utilizzo e propongo la visione del film di Greta Gerwig, assieme ad alcune riflessioni basiche. Diremo, in seguito, che la post ondata femminista l’abbiamo vista clamorosamente arrivare. La divisione fra una cultura di massa e una cultura alta ha prodotto elenchi e piramidi impenetrabili e dannose: per tutte/i siano possibili visioni trasversali e differenti. Considero l’impegno di segnalare prospettive plurime come una buona prevenzione dinanzi al rischio della visuale ristretta e monocolore. Ma se in ballo è la conoscenza dei processi patriarcali, non sono certa serva addolcire, alleggerire, sveltire o compiere, appunto, operazioni in rosa che appartengono al maschilismo, anche femminile, coperto di ossequi e di precauzioni. La comprensione e la testimonianza, partendo da sé, non rimandano a intenzioni e a risultati eccitanti e divertenti!

A certi apprendimenti, di qualunque orientamento femminista, arriviamo con il sangue e con le lacrime. Siamo capaci di ironia, ma non abbiamo voglia di allinearci con simpatiche battute e con slogan cool ed elementari. E i Ken purtroppo ci fagocitano e autoproducono, come uròbori tecnologizzati, le mentalità aggressive e rassegnate, un po’ vigliacche, usando le colorate e morbide rappresentazioni di un potere che divora e rigenera se stesso, un potere che appare immobile, ma è in movimento pro domo sua, a favore degli adepti. La giustizia americana, in questi giorni, ha assolto un uomo innocente: è già scattato l’automatismo dell’assoluzione da transitare verso tutti gli altri.

Barbie può essere solo un sintomo, una passata di aspirina senza ipotizzare alcuna diagnosi grave di paranoia come malattia sociale. È complicato riconoscere la violenza, è difficile decidere di denunciare, ingannate dal volto sornione di compiacimento. Ogni Estia chiede di rilassarsi e arriva per sfinimento a desiderare forme di suicidio, pur di non rimanere, pesante e antipatica, a presenziare i crocicchi, le situazioni e le svolte sociali e politiche. Crediamo nel valore dell’aiuto collettivo, nella copresenza vigile dinanzi all’apertura delle porte e nello scambio della guardianìa spirituale, durante i momenti di riposo legittimo.

Attraverso quale bagaglio di studio e di pratiche abbiamo guardato o guarderemo il film? Studiare l’ombra, e sapere che c’è sempre un’ombra, toglie l’innocenza allo sguardo, talvolta, ci rende spaventate, tristi e arrabbiate, ma può evitare cadute in pseudo-femminismi dal sapore capitalistico. Negli ultimi mesi, in un’azienda, mi hanno giudicata sessantottina, io che gli anni ‘70 li ho vissuti anestetizzata! Perché propongo un’analisi della cultura aziendale oltre che psicologica anche politica? Per evitare che i lavoratori e le lavoratrici, in ogni ruolo, rimangano sotto le macerie di regimi personalizzati e coinvolgenti, legali, ma né leciti, né opportuni. Offrire una lettura relazionale politica del contesto organizzativo, in ogni situazione, ci fa ritrovare sbalzati duramente nella realtà e non sollevati in un mondo estraneo pop-femminista, post-consumistico, facile, ludico, leggero, disponibile, attraente, veloce. Un mondo che si  accontenta di modificare le parole e lascia intonsi i copioni maledetti.

Capisco, dunque, come gli interventi formativi siano improponibili, perché lo sguardo psicologico dubita, impegna, pesa, allunga, approfondisce, rompe con i percorsi scontati. È tentativo consolatorio e pacifico rimanere in superficie ed evitare di prevedere come ogni azione decisa può andare a finire, e a scapito di chi. Il ventennio ultimo iniziò con grandi applausi e convinti successi e risate crasse e sdoganamenti. Il pericolo della pressione bassa, non è mostruoso e la rilassatezza tenta come una gommosa colorata. La bassa e placida marea è confortante rispetto alle onde agitate e persecutorie.

Possiamo, certo, spettacolarizzare il femminismo, assumendone la responsabilità e spiegandone le ragioni che non rimandino solo alla convinzione che va tutto bene, purché se ne parli e aumentino gli incassi. Non ritengo ci sia un femminismo obsoleto da dimenticare e abbandonare, piuttosto credo nello studio del femminismo e dei suoi numerosi rivoli di ideazione e di attuazione. Al di là dei venditori di fumo, disposti a sostenere qualunque argomento pur di vendere un prodotto, il marketing, è una professione seria, uccisa dalla dittatura dei numeri che hanno rimpiazzato le visioni e le idee, lontana dal delirio della persuasione occulta e dalla superficialità colpevole. La capacità di generare, di comunicare e di trasferire il valore del film è la via riuscita della regista Greta Gerwig e della sua numerosa equipe di lavoro. Rimane il dubbio dell’effetto lavatrice di cui l’azienda Mattel, produttrice della bambola più famosa al mondo, pare avesse assolutamente bisogno.

La formazione stabile e costante non rimane la cornice entro cui far girare alcune idee: è, invece, la struttura portante di qualunque cambiamento personale e sociale (una volta dicevo lotta) che passa attraverso la propria carne e va riscelta continuamente. Le lotte femministe e i movimenti lgbtq+ prevedono l’istruzione, i saperi condivisi, le intuizioni e la preveggenza. Il rischio è essere opportunisticamente manipolati, stravolti, ridotti a contenitori insipienti. Le trovate furbe si trasformano in un danno, più grave, quanto più inaspettato. Le rivoluzioni, a causa del patriarcato interiorizzato da tutte/i, sono complicate e prevedono secoli di trasformazioni a tappe, a spirali, in cui abbiamo l’impressione di retrocedere; al contrario, ogni fermata ci fa compiere il giro che rilancia la rinascita.

Sul mio tavolo c’è una copertina rosa indispensabile, da studiare, un testo che pare non finisca mai di chiarire le idee, i processi, le pratiche. Segnalo il libro come una guida affidabile e indispensabile:

Lia Cigarini, La politica del desiderio, Orthotes, 1995/2022

Poi vale la visione del film, di qualunque film ben pensato e venduto, e Barbie lo è.