Ph. Antonella Aresta

Se ci vediamo arrivare e se decidiamo di proseguire

Ph. Antonella Aresta

Ph. Antonella Aresta

 

 

 

 

 

 

 

 

Un errore nel sistema caratterizza il sistema con più chiarezza che non il suo normale funzionamento.

La creatura vivente più vecchia del pianeta – 507 anni – è una vongola, chiamata Ming che muore quando gli scienziati l’aprono per apprenderne l’età.

                                          Jana Bukova, poeta bulgara, nata 1968

Accorgerci di noi stesse/i, vederci arrivare è un invito alla mitezza e alla determinazione, una promessa di parole pensate e profonde, una presenza di vigilanza e di ricerca. Non è rispondere a tono, dimostrare di farcela più o meno, non è mettersi alla prova, fare il dispetto a qualcuno, pretendere di imporsi, non è autoincensarsi.

Spesso, la pretesa di trasformare uno svantaggio in un vantaggio è soltanto una sfida, una rivendicazione, una dimostrazione di forza in atto. Nella realtà, uno svantaggio è uno svantaggio e tale rimane. Per il nostro bene, il movimento lento o l’arresto che ogni tanto ritorna o, ancora, l’impazienza legata all’inutile e faticosa onnipotenza, è meglio che restino un disturbo e una inaccettabile performance.

Gli altri ci sentono e ci vedono arrivare perché noi stesse/i ci percepiamo viandanti, in arrivo e in ripartenza: talvolta, sentiamo imbarazzo, inadeguatezza, talaltra, avvertiamo una gioiosa impertinenza, chè ci aspettino, andiamo arrivando. Ritroviamo il nostro spazio e il nostro tempo nel mondo, senza avvilimenti e salvazioni, affinando il pensiero critico, astratto e complesso.

“Senza perdersi e senza mettersi in salvo”, è questo il messaggio di Carla Lonzi. (Carla Lonzi, “Itinerario di riflessioni”, in È già politica, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1977, p. 13)

Il teatrino delle parole e delle immagini non ci incanta, l’autenticità traspare, se c’è, e non è imitabile perché è la conseguenza di un lavoro profondo di autocoscienza, anche solo incominciato. Studiare e condividere le visioni sulla ipseità, sull’alterità, sulla vita consente la strutturazione di una comunità oppure, come mi piace dire, la creazione di bande di gatti e di gatte randagi/ie. Temi complessi e delicati come la prostituzione, l’utero in affitto, l’identità di genere, la laicità, il femminicidio, le violenze: nella relazione psicologica, che è sempre anche politica, ci sarà da confliggere su molte scelte, ma il messaggio da trasmettere è che se ne può parlare, si può discutere, riconoscendoci, però, in una visione di base comune riguardo alla giustizia sociale, ai volti trasparenti, alle prospettive ariose, alle metodologie democratiche.

È cosa buona, continuando a prendere le distanze dal potere patriarcale delle donne e degli uomini, fiutandone l’afrore da lontano, incontrare le persone, sulla via intrapresa, con le quali continuare a capire intorno alle idee e ai modelli praticati. Impegnandoci ad ascoltare e a contestualizzare le parole utilizzate. Ogni interazione intercorsa, rimanda a un modello preesistente e manifesta un copione di vita.

Non serve schierarci o dichiararci più o meno d’accordo con questa o quella dichiarazione senza prima contemplare la realtà e registrare il copione personale, la visione globale di qualunque persona affermi un pensiero. Chi lo dice? Interagisce in quale storia personale e sociale, in quale contesto, muovendo da quale esperienza formativa e da quali convinzioni? Il pensiero prevede la comprensione a più voci delle ragioni, senza vincitori e vinti e punteggi e audience. Anche l’insulto, il sarcasmo, l’offesa, la svalutazione, la seduzione, il negazionismo, il revisionismo, anche le pezze peggio del buco sono strumenti di potere.

Facciamo in modo che il pragmatismo e l’utopia non diventino come l’innovazione e la tradizione, un binomio farlocco, ormai svuotato della profondità e della potenza. Più che le fantasie e il calcolo dei risultati, è fondamentale rilevare l’orientamento psichico, la predisposizione mentale, il corpo onesto e congruente. L’esaltazione e l’esposizione consumano il personaggio e non svelano né la persona né il suo messaggio.

Accogliamo una psicologia che mantenga le aree di sospensione, di mistero e di silenzio, una psicologia che non pretenda di aprire e di spiegare a tutti i costi l’umano. La rivelazione totale è mortifera, oltre che insostenibile. Consolidare l’identità personale e professionale porta a custodire, a proteggere, a sussurrare. Essere vincenti significa rimanere silenziosamente consapevoli e stancamente, ancora, alla ricerca.

Incuriosiscono e appassionano le prospettive diverse che, però, abbiano come base una stessa visione di mondo e di persona. Talvolta, abbiamo difficoltà ad accogliere un pensiero diverso, intuendo una modalità di esistenza virile, da padroni. Una cosa sono le idee che originano da storie personali e da libertà di pensiero differente; altra cosa è il circo mediatico di chi spara la foto o la parola più sensazionale, da terrapiattista di turno. Ipotizziamo, in tal caso, comportamenti paranoici. Il cambiamento autentico rischia di essere invisibile perché è minimo ed è lento e viene incoraggiato dai dialoghi con le persone.

Ormai, il privato etico, solidale e caritatevole sostituisce la solidarietà dovuta dallo stato e dalla politica che ancora, senza decenza, privatizza. Il campo è libero per la bontà e la disponibilità del singolo cittadino e delle ong, delle coop, pure segnalate come l’origine di ogni male.

La formazione, l’indignazione anche attraverso i social, l’attivismo, la testimonianza nelle piazze non smuovono il potere ad agire. E le espressioni di solidarietà, senza l’autorità statale rischiano di rimanere forme isolate senza connessione, più simboliche che concrete. Sulla terra, gli esseri viventi hanno pari dignità e valore. I fantasmi nemici sono nelle teste e nelle pance nostre. Per gli esseri umani, le trasformazioni sono sempre possibili.  Su questi punti abbiamo il bisogno di concordare.

Difendere una scelta radicata significa indicare solo una via; prevedendo solo una risoluzione, ci ritroviamo incastrate/i, spalle al muro. Al contrario della solita scelta copionale, è possibile pensare più opzioni di comportamento. L’attività psicologica benedice la prospettiva preesistente e allarga lo sguardo su altre visioni possibili, diversificando il pensiero e l’azione. Mi sono sempre comportata così, da oggi, invece, avverto una spinta debole e persistente, posso e scelgo di modificare: questo è il processo di cambiamento. I comportamenti inadeguati e/o malati, prima di essere colpevoli, sono inconsapevoli e inconsci, originano in un sistema ampio.

Nel volume collettivo Duemilaeuna, donne che cambiano l’Italia (Pratiche editrice, 2000), la filosofa Luisa Muraro sottolinea come i filosofi da Platone a Marx a Nietzsche, hanno tentato di oltrepassare i limiti della condizione umana mirando alla autosufficienza del singolo. Propone, invece, l’idea che nella relazione “il passaggio diretto lo apre l’intelligenza dell’amore, l’amore che vuole essere all’altezza ma non teme di essere trovato mancante, e converte il piombo di una insopportabile dipendenza nell’oro di una mancanza accettata che apre la porta ad altro” (pag. 155).

È un pensiero che consideriamo fondante: la relazione fra gli umani è una condizione ineludibile. E perché la relazione sia utile e gioiosa è indispensabile registrare le differenze in se stesse/i e accoglierci nel divenire continuo. Siamo sole/i, mancanti, fragili e mortali, condizioni che abbiamo bisogno di perdonare in noi stesse/i, mentre registriamo l’altra persona nella realtà, non come proiezione di sé. L’amore si esprime facendoci carico della distanza e della mancanza, non subendo e/o imponendo l’illusione della fusione, pericolosa non solo per il singolo, ma per la società intera.

L’apprendimento segna tempi, modi e risultati imprevedibili e personali. La prevenzione, e non la punizione, sarà seria e costante, nell’alternarsi delle generazioni. Il lavoro psicologico sulle basi non prevede ritmi ansiosi e rimane sottotraccia, sottovoce, eh sì, rimane anche sottovalutato, ma è il lavoro che dura tutta la vita.

Facebook

 

individuazione

Come una madeleine, il gusto dell’educazione di sé

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

Ogni persona che richieda la mia consulenza vuole rimettersi al più presto, vuole ritornare velocemente come prima. Dichiara l’esigenza, magari durante il nostro primo incontro, di poter sollevare e lasciare lì i sintomi con tutto il loro carico di mancanza, di dolore, di fallimento, di ansia. Almeno per godersi la vacanza. Questa richiesta aggancia il mio furor sanandi, la fretta di curare, di accontentare la/il cliente, mostrando l’efficacia e l’efficienza del metodo psicologico. Sessualità, sonno, alimentazione, tutti gli equilibri saltati con i pensieri fissi e le angosce ricorrenti e il compito di raggiungere l’obiettivo della perfetta salute ad ogni costo.

Ci assoggettiamo, più o meno consapevolmente, all’inganno della logica capitalista che crea il problema, il malessere psichico, e ha pronta la soluzione da vendere, la risposta dello psicologo di turno che rimanda ad una personale incapacità di vincere del/lla cliente. Ma quello che eravamo prima, e a cui chiediamo di ritornare, è proprio la causa dell’impoverimento avvertito. La soluzione cercata a qualunque costo è ritornare come prima, tutti/e dicono. A qualunque costo è il dramma di chi perde il senso della propria vita, volendo pagare un prodotto da banco.

Ecco, la lettura e la cura psicologica, insistono sul cammino incontro alle ombre considerate una risorsa e non un guaio capitato a caso. Il disturbo psicologico ci tocca come un privilegio, per capire, per trasformare, per custodire i vecchi modelli che ci hanno consentito di arrivare dove siamo e per aggiungere nuove possibilità, scelte differenti a goderci la vita.

Ho imparato a dubitare del sistema che vuole difendermi dandomi della pazza. La richiesta di stare bene, per alcune persone, significa essere reintegrate nelle strutture, omologate al coniuge patriarca, asservite e consenzienti a un modo di intendere il lavoro che, in cambio del salario, offre la sopravvivenza negli acquisti compulsivi. Prima dei malesseri psicologici, eravamo morti in vita; attraverso il lavoro di coscienza e di conoscenza, conveniamo che la luce è da cercare nella nube oscura.

L’ansia va ascoltata e ha molto da dire intorno alla persona che stiamo diventando. La crisi dell’esistenza non è una malattia da guarire; segnala, invece, con tutta la sintomatologia fastidiosa, un periodo più o meno lungo di riflessione, di cambiamento, di analisi di sé, nel contesto in cui viviamo. Siamo perdute/i senza il programma di gloria, di ricchezza, di potere e di visibilità, viatico di vittoria riconosciuta. Dichiariamo guerra alla frustrazione, alla fragilità, alla tristezza, alla paura, all’inadeguatezza. La materia di studio e di indagine è l’ombra che non vogliamo e che non vogliamo abbia voce. Non perseguiamo un risultato, apprendiamo a valutare un processo di cambiamento che impegnerà tutta la vita e che continueremo a seguire da soli, alla fine degli incontri di consulenza. La tentazione è rimanere abbarbicati negli obsoleti territori mentali, è confermare il copione, è dimostrare che la soluzione arriva da fuori, da un’altra parte, dagli altri.

L’orientamento umano naturale alla felicità, invece, riconosce lo scarto e apprezza lo slancio che da esso può trarre. I ragionamenti formativi funzionano quando offrono un sollievo nell’immediato, ma fanno anche intravedere vie lunghe da percorre. Il discorso psicologico non può essere straordinario né normalizzante; accompagna durante un tratto di via offrendo le letture, il senso, segnalando i respiri di resistenza e i perimetri di realtà.

L’obiettivo, se fosse, negli incontri seguenti è inaugurare un cammino di comprensione nella quotidianità. Ed è già un cambiamento, una militanza nuova: il pensiero psicologico come una madeleine, a recuperare l’essenza. La madeleine proustiana* sottolinea l’importanza della memoria involontaria, spontanea e non cercata, evocata da un sapore. I sintomi sono come stimoli che riaffiorano quando meno ce lo aspettiamo e proprio assumendoli come opportunità non cercate, possiamo iniziare un percorso di rilettura dell’esistenza trascorsa. Intendiamo il tempo perduto a causa dei malesseri come un tempo ritrovato per avviare, imparando a vedere la realtà, la trasformazione di sé. Il lavoro psicologico parte da sé ma non ritorna al sé, prevede il benessere della persona e, necessariamente, costruisce la consapevolezza e l’autorità onesta per influire sulle relazioni con il prossimo, con la collettività più ampia, con il territorio di riferimento, con la cultura dei luoghi. È ciascuno/a di noi a fare la differenza, lì dove compie la sua opera di vivere.

Facciamoci coraggio e capiamo cosa vuol dire il lavoro di individuazione per Jung, un processo di elevazione anche spirituale per sviluppare la personalità individuale, sulla base della predisposizione naturale di ciascuno/a. Dal testo Tipi psicologici, riprendo le pp. 463-465:

L’individuazione è in generale il processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui, e in particolare lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva. L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale. La necessità dell’individuazione è una necessità naturale, in quanto che, impedire l’individuazione, mercé il tentativo di stabilire delle norme ispirate prevalentemente o addirittura esclusivamente a criteri collettivi, significa pregiudicare l’attività vitale dell’individuo. L’individualità è però già data fisicamente e fisiologicamente e si esprime analogamente anche nel suo aspetto psicologico. Ostacolare in modo sostanziale l’individualità comporta perciò una deformazione artificiosa.

 È senz’altro chiaro che un gruppo sociale il quale sia costituito da individui deformi non può essere un’istituzione sana e, a lungo andare, vitale, giacché soltanto la società che è in grado di serbare la propria coesione interna e i propri valori collettivi assieme alla massima possibile libertà del singolo può contare su di una vitalità duratura. Per il fatto stesso che l’individuo non è soltanto un essere singolo, ma presuppone anche dei rapporti collettivi per poter esistere, il processo di individuazione non porta all’isolamento, bensì a una coesione collettiva più intensa e più generale.

 Il processo psicologico dell’individuazione è strettamente connesso con la cosiddetta funzione trascendente, in quanto mediante questa funzione vengono date quelle linee di sviluppo individuali che non potrebbero mai essere raggiunte per la via già tracciata da norme collettive. L’individuazione non può essere in alcun caso l’unico obiettivo dell’educazione psicologica. Prima di potersi proporre come scopo l’individuazione, occorre raggiungere la meta educativa dell’adattamento al minimo di norme collettive necessario per l’esistenza: una pianta che debba essere portata alla massima possibile fioritura delle sue peculiarità deve anzitutto poter crescere nel terreno in cui è piantata.

 L’individuazione è sempre più o meno in contrasto con le norme collettive, giacché essa è separazione e differenziazione dalla generalità e sviluppo del particolare; non però di una particolarità cercata, bensì di una particolarità già a priori fondata nella disposizione naturale. L’opposizione alle norme collettive è però soltanto apparente, in quanto, a ben guardare, il punto di vista individuale non è orientato in senso opposto alle norme collettive, ma solo in senso diverso. La via individuale può anche non essere affatto in contrasto con la norma collettiva giacché l’antitesi di quest’ultima non potrebbe essere altro che una norma opposta. Ma la via individuale non è appunto mai una norma. Una norma nasce dall’insieme delle vie individuali e ha ragione di esistere e possiede una sua efficacia animatrice solo quando genericamente sussistono vie individuali che di tanto in tanto vogliano seguire il suo orientamento. Una norma che abbia validità assoluta non serve a nulla. Un vero conflitto con le norme collettive si ha solo quando una via individuale viene elevata a norma, il che è poi la vera intenzione dell’individualismo estremo.

 Questa intenzione è naturalmente patologica e del tutto avversa alla vita. Pertanto essa non ha nulla a che fare con l’individuazione, la quale, deviando dalla via consueta per imboccare una individuale, ha bisogno proprio per questo della norma per orientarsi di fronte alla società e per effettuare la coesione fra gli individui entro la società, coesione che è una necessità vitale. L’individuazione porta perciò a un apprezzamento spontaneo delle norme collettive; invece la norma diventa sempre più superflua in un orientamento esclusivamente collettivo della vita, e con ciò la vera moralità va in rovina. Quanto più l’uomo è sottoposto a norme collettive, tanto maggiore è la sua immoralità individuale. L’individuazione coincide con l’evoluzione della coscienza dall’originario stato d’identità; l’individuazione rappresenta quindi un ampliamento della sfera della coscienza e della vita psicologica cosciente.

 

*Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Ritroviamo la “Madeleine de Proust”, conosciuta anche come sindrome di Proust, ne “Dalla parte di Swann”, il primo volume del romanzo più lungo del mondo.

 

suicidi

Contro lo statuto di vittime

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

Si sono suicidate in carcere, Susan Jhon, in sciopero della fame, e Azzurra Campari impiccandosi, come due mesi fa Graziana Orlarey e le altre e gli altri, 43 persone, dall’inizio dell’anno.

Beffando anche la più stretta sorveglianza, chi ha deciso di uccidersi, lo farà. L’esperienza carceraria, per il solo fatto di esistere, fa fuori le persone. Ritengo fondamentale che le detenute costruiscano una visione lucida della situazione e della pena da scontare. Se una donna organizza la cella come una casa e le compagne come una famiglia e le poliziotte penitenziarie come i genitori affettivi e critici positivi e negativi, si convince che è quella la normalità e psicologicamente non ne esce più.

Il suicidio ci invita a cambiare lo sguardo su una persona che, con l’ultimo gesto, riprende su di sé l’onere di una soggettività attiva e non passiva. Oltre le logiche riformiste da una parte o abolizioniste dall’altra, con cui inutilmente ci schieriamo, non vogliamo perdere l’opportunità di continuare a ragionare intorno all’ombra, alla spazzatura che l’umanità produce, proprio perché luminosa.

Promossa da responsabili pensanti, ho condiviso, negli anni della formazione con la polizia penitenziaria, tentativi, conversazioni timide e trattenute sul rischio suicidale, considerazioni che ora desidero riavviare in modo esplicito e diretto. Sono convinta che se siamo libere possiamo assumere la responsabilità del cambiamento. Neghiamo, per onore di realtà e di verità, il modello repressivo e l’idea conservatrice che condannano la presunta lassità. Non siamo mai riuscite/i, nei casi che ricordo, a trasformare l’esperienza individuale in promozione comunitaria e in valore collettivo, voglio dire, in sapere politico.

L’impegno è perlomeno continuare a parlarne e a riconoscere le differenti strade: la depenalizzazione di alcuni reati incarcerando meno persone; l’introduzione di misure diverse dalla carcerazione, l’educazione sociale nelle scuole. L’impegno è di prevenzione e di formazione, meno dentro, e di più fuori dall’istituto penitenziario, rispetto a una impopolare rivoluzione di mentalità che curi l’idea comune di uno Stato che debba punire e segregare.

Per controllare tutto e sempre, l’organizzazione carceraria tende a mantenere l’individualismo delle persone recluse, a contrastare la capacità di interazione collettiva, anche attraverso la deprivazione sensoriale, mortificando le possibilità di autogestione e di indipendenza. La mancanza di lavoro e la difficoltà a comunicare con l’esterno, isolano e favoriscono la denutrizione psicologica di ogni detenuta. Il luogo comune recita le ragioni della sicurezza e la generica convinzione che non ci si può fidare delle detenute, manipolatrici che per ottenere qualcosa agiscono in maniera strumentale e opportunistica. In molti casi, sono convinta che sia così, ma le proposte per cambiare il sistema devono andare avanti, conoscendo i rischi e i pericoli. Il dovere di reclusione delle donne ha una doppia valenza morale: la punizione per il reato commesso si aggiunge alla punizione sotterranea e durissima di aver mancato i valori di genere, le retoriche per cui le donne, specie quelle poco scolarizzate e ai margini, debbano naturalmente essere sensibili, materne, infine ragionevoli, un po’ matte, un po’ puttane.

E, allora, i diritti diventano concessioni previste dalle regole del carcere, in strutture mentali che rilanciano il binomio premio-punizione. Fra l’immagine della donna-vittima e quella della donna-reagente, uniche identità di detenute, guardiamo al modello di un cambiamento atteso, fra l’adattamento e la ribellione, che è possibile, considerando l’esperienza detentiva come un passaggio, attraverso la formazione individuale e in gruppo, nominando i sensi di colpa che sono devastanti, coltivando la presenza e la resistenza, costruendo la coscienza di sé e dell’azione compiuta.

Sono contraria alla vittimizzazione della donna in carcere e credo all’assunzione della responsabilità rispetto al reato. Però, il contesto sociale, dentro e fuori dall’istituto penitenziario, ha l’obbligo di offrire la libertà e la possibilità di cambiamento, con l’istruzione e con il lavoro. Costruire la libertà significa apprenderne la perdita. La dis-culturazione delle donne, la subcultura carceraria, le allontana da ogni illusione di reinserimento nel tessuto sociale. E, soprattutto, viene liquidato il lavoro doloroso, profondo e lungo di coscienza di sé, di presa in carico dei sentimenti, dei pensieri, delle azioni commesse.

Loro dentro e noi, nelle gabbie di fuori, nell’illusione di una cittadinanza in cui le persone perbene e permale rimangano in due schieramenti fissi e distanti. Psicologicamente, “lo statuto di vittima” è ambito da ogni essere umano, in ogni situazione, dentro e fuori dal carcere: così evitiamo l’apprendimento faticoso del pensiero ampio e comunitario, iniziando da sé. Conviene all’umanità intera smettere di voler difendere i buoni dai cattivi, le vittime “vere” dai predatori “veri”: per una migliore qualità di vita l’educazione e le trasformazioni sono costitutive e non prevedono soltanto la guerra al male, la guerra perduta, in fondo, contro se stessa.

In una certa prospettiva, il carcere è percepito come un microcosmo a parte, regolato da dinamiche interne, in cui detenute e agenti vengono assorbiti/e dalla prison culture. Con la legge del 1975 e la legge Gozzini del 1986, dal carcere chiuso e punitivo si è, nella visione, passati al carcere aperto, il carcere della speranza, volto alla riabilitazione e al trattamento individualizzato. Ma il mondo esterno, anche dove è possibile ed è realizzato lo scambio virtuoso e osmotico, c’entra poco e non è preparato ad accogliere come parte di sé chi sconta una pena. Dentro, le funzioni rieducative sono spesso minime, le attività trattamentali sono occasionali e, fuori, mancano le possibilità lavorative certe e dignitose. E manca la cultura dell’appartenenza rispetto a un corpo unico sociale che si può ammalare e guarire. Lo stigma e la ghettizzazione rimangono per tutti coloro che hanno scontato la pena; per le donne, di più: per molte, il carcere come prodotto sociale può rimanere il luogo-casa protetto perché almeno conosciuto, certo più accogliente della società esterna, basta sottomettersi alle regole.

Per noi, il numero, minimo rispetto agli altri, dei grandi criminali costruisce la giustificazione e la fortificazione della convinzione salvifica e risolutiva dell’istituto penitenziario. Abbiamo la percezione di sentirci più al sicuro – ascolto ancora chi dice: “per garantire l’ordine pubblico” – perché qualcuno, dentro, sconta la pena: anzi, auguriamo fine pena mai, tolleranza zero per i reati e pure per le infrazioni, mentre pretendiamo di sperimentare il mondo, fra noi disciplinati, eternamente sicuro e ordinato. E le persone di povertà e inconsapevoli psicologicamente – straniere irregolari, tossicodipendenti, senza fissa dimora, malate mentali, giovani violente, mendicanti, prostitute, alcolizzate – si cristallizzano nel processo di dipendenza e di infantilizzazione rispetto alla struttura carceraria.

Le questioni sono molto complesse e bisogna, intanto, continuare a riflettere e a condividere. Dal 2022, anno della pubblicazione, c’è un testo che considero fondamentale per i miei studi, perché ogni persona esca dallo statuto di vittima: onorare i territori della psicologica nei quali rimango nella mia attività professionale, significa non ridurmi a essi, allargando il campo della ricerca. Tamar Pitch, docente di filosofia del diritto e di sociologia del diritto nell’Università di Perugia, studia la questione criminale, i diritti fondamentali, il genere del e nel diritto.

Per chi legge, ricopio qualche pensiero, sapendo che torneremo a riconsiderare il libro, in altre sue parti, intorno a molte questioni, per l’impostazione generale offerta.

“Negli ultimi trent’anni o giù di lì la giustizia penale, classista e razzista, è invocata come la soluzione per tutti i problemi sociali e politici… succede che anche movimenti collettivi nati per ampliare la dotazione di diritti di ciascuna e ciascuno, per combattere discriminazioni e disuguaglianze, assumano lo statuto di «vittime» e finiscano per condividere la retorica punitivista dominante.”

“Lo statuto di vittima richiama la logica e il linguaggio del penale: ci si definisce vittime o si viene definiti vittime sulla base di qualche torto o danno subito (e, in seguito, potenzialmente da subire) da parte di attori individuati o individuabili cui si imputa l’esclusiva responsabilità dei danni o torti. è evidente la differenza con il termine «oppressi»: quest’ultimo infatti richiama una situazione complessa che coinvolge l’intera biografia dell’individuo e lo accomuna ad altri individui nella stessa situazione, diciamo così, strutturale. «Vittima», viceversa, evoca un’azione singola da parte di singoli, sulla base della quale ci si può associare ad altri individui che hanno subito, o potrebbero subire, la stessa azione… Se lo statuto di vittima diventa uno statuto ambito, ne deriva che vi sarà conflitto su chi sia la vittima più vittima, la vittima davvero meritevole. Ciò che è stato chiamato il paradigma vittimario…”

“Le vittime «vere», dunque, sono soltanto quelle che hanno fatto di tutto per non diventarlo: hanno preso precauzioni, non si sono andate a ficcare nei guai, non hanno corso rischi reputati non necessari. Ma, soprattutto, corrispondono allo stereotipo della buona vittima condiviso da media, giustizia penale e forze dell’ordine. Rivolgersi alla logica e al linguaggio del penale per vedere riconosciute le proprie ragioni o addirittura la propria soggettività politica, tuttavia, eleva precisamente la giustizia penale, nazionale e internazionale, a soluzione principe di tutti i problemi, a scapito della politica… Ciò che si rischia è non solo un panpenalismo, ma anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima, laddove il processo penale non può che produrre delusione rispetto alla propria aspettativa di risarcimento narcisistico assoluto…”

“Definisco femminismo punitivo le mobilitazioni che, richiamandosi al femminismo e alla difesa delle donne, si fanno protagoniste di richieste di criminalizzazione (introduzione di nuovi reati negli ordinamenti giuridici) e/o di aumento delle pene per reati già esistenti… è ormai l’autoassunzione dello status di «vittima» che pare essere il modo principe di garantirsi la possibilità di emergere e venire riconosciuti come attori di conflitto…”

Riferimento bibliografico:

Tamar Pitch, Il malinteso della vittima: una lettura femminista della cultura punitiva, Ed. Gruppo Abele, 2022. Edizione del Kindle.

 

 

Ph. Antonella Aresta

Le stanze sono tante

Ph. Antonella Aresta

A pochi giorni dalla cancellazione del reddito di cittadinanza, leggo la notizia, apparentemente minima: dal 31 luglio viene promossa e inaugurata la «stanza dell’ascolto» nell’Ospedale Sant’Anna di Torino, attraverso una convenzione firmata dalla Città della Salute e dalla Federazione Movimento per la vita. È uno spazio per «fornire supporto a donne gestanti che ne abbiano necessità, nell’ambito di un più generale percorso di sostegno durante e dopo la gravidanza alle donne che vivono il momento con difficoltà e che potrebbero quindi prendere in considerazione la scelta dell’interruzione di gravidanza o che addirittura si sentono costrette a ricorrervi per mancanza di aiuti».

Data la genitorialità del progetto, ho buone ragioni per pensare che i volontari, in una struttura finanziata con soldi pubblici, possano utilizzare tecniche manipolatorie per intimidire e soggiogare le donne, alcune confuse, in una situazione di perplessità, fornendo informazioni parziali e alterate sull’aborto. Le riflessioni che propongo riguardano per ogni donna il processo decisionale e di libera valutazione di sé, allontanando le decisioni preconfezionate, moralistiche e ideologiche. Il progetto svaluta e umilia il servizio pubblico dei Consultori, luoghi ad accesso libero e diretto, e rivendica soprattutto un valore simbolico. Infatti, l’Ospedale torinese è il primo presidio sanitario in Italia per numero di parti e in cui si effettua il maggior numero di aborti.

Un po’ per volta, mansuete e distratte, veniamo abituate a rinunciare ai diritti acquisiti, come la rana che solo quando l’acqua è in ebollizione capisce che muore. Quando siamo senza forze, ci rendiamo conto dell’impatto e delle restrizioni sulla nostra pelle. Il modo di agire subdolo ci logora e cancella i limiti del possesso sui nostri corpi e sul diritto di scelta.

L’indignazione rende queste strategie di condizionamento e di sottomissione, perdenti a breve temine. Considero le manipolazioni come passi falsi che si ritorcono prima o poi su chi spudoratamente osa ridurre le libertà conseguite. L’attivismo per i diritti umani degli anni novanta si è dimostrato fragile perché era isolato: anche se molti elettori e politici erano favorevoli ai diritti lgbtq+, ai diritti riproduttivi e alla giustizia razziale, per ciascuno di questi temi venivano costruite campagne separate, senza spiegare che in realtà erano battaglie con molti punti in comune.

Richiamo le parole della saggista statunitense Rebecca Solnit che qualche anno fa scriveva sulla sua pagina facebook, difendendo il diritto all’aborto: “… parafrasando le parole scritte sul Monumento all’olocausto di Boston: Prima vennero a prendere i diritti riproduttivi (Roe contro Wade, 1973) e non importava se non avevate un utero, perché poi sarebbe stata la volta dei matrimoni omosessuali (Obergefell contro Hodges, 2015), del diritto degli adulti consenzienti ad avere rapporti omosessuali tra loro (Lawrence contro Texas, 2003), e poi del diritto al controllo delle nascite (Griswold contro Connecticut, 1965). Non importa se non ce l’hanno con voi, ce l’hanno con tutti noi. Noi significa praticamente chiunque non sia un uomo bianco, cristiano, etero e di destra. Parti politiche alimentano la nascita di un’ampia opposizione e spetta a noi trasformarla nel suo errore fatale.”

Rifletto sul numero delle stanze e, secondo me, meglio che siano almeno dodici: in ognuna, una riflessione, un limite e una spinta, un’ombra e una luce. Mi preoccupo che ogni donna permanga in ognuna delle dodici stanze/orientamenti oppure seduta su ciascuna di dodici sedie/prospettive. Secondo gli insegnamenti analitico-transazionali, per ogni persona, sono attivi i tre Stati dell’Io (l’analisi strutturale si occupa dei contenuti) e sono attive dodici diverse funzioni operative degli Stati dell’Io. Ogni funzione ha ugualmente diritto di parola e di azione ed è un bene che ogni donna giunga al livello di consapevolezza basica. Nella valutazione complessiva che la persona compie in un momento della propria vita, le categorie dell’errore e della colpa, del peccato e della punizione, sono inutili e dannose. I contesti sociali, economici, psicologici fanno la loro parte e fanno la differenza per la scelta finale. Fino all’ultimo vale il ripensamento. E ogni scelta è la scelta in un particolare momento, da registrare e da ripensare, in futuro, senza ingannarci, senza ricattarci, senza boicottarci.

L’orientamento al diritto rispetto all’interruzione volontaria della gravidanza esiste per legge, lo difendiamo e lo intravedo nelle percezioni di sé delle donne più o meno giovani che incontro nella mia professione. Nel viaggio della liberazione, facciamo passi indietro e in avanti, ma la via è scelta rispetto alla volontà legittima di ricorrere all’aborto. La garanzia è la capacità di prevenire la divisione netta fra l’azione giusta e ingiusta, con una formazione personale alla libertà, imparando a custodire la contraddizione, facendo pace con il bene e il male coesistenti.

 

Il lavoro su di sé è raccontato in due testi che mi stanno a cuore più di altri, di due donne diverse e lontane nei linguaggi e nelle esperienze esistenziali: Oriana Fallaci e Annie Ernaux. Il lavoro di autoanalisi, talvolta guidato, è commovente, può essere facilitato in gruppo e segna il percorso di giustizia e di individuazione per ciascuna donna. L’ascolto di sé ha bisogno di tempo per entrare in confidenza con i suoni, gli odori, le visioni, i sapori interiori, avvicinandoci al nucleo esistenziale. Ernaux rilegge la scelta di abortire come una prova e come un sacrificio: perché il desiderio sia onesto deve attraversare la violenza del corpo che, di conseguenza, diviene un luogo di libertà e di passaggio delle generazioni.

 

A pagina 52, il premio Nobel per la letteratura scrive: Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo.

E a pagina101: Non mi sentivo diversa dalle donne dell’altra sala. Mi sembrava anzi di sapere più di loro proprio per via di quell’assenza. Nei bagni dello studentato avevo partorito allo stesso tempo una vita e una morte. Per la prima volta mi sentivo in una catena di donne attraverso cui passavano le generazioni.

A pagina 104: Ero ebbra di un’intelligenza senza parole.

Nel mondo molto perbenino, Oriana Fallaci pubblicava nel 1975 Lettera a un bambino mai nato e Miriam Mafai ricordò come il testo venne giudicato scandaloso, esibizionista, sgradevole. Solo nel 1993 l’antropologa messicana Marcela Lagarde utilizzò il termine feminicidio. Fallaci parlava invece di donnicidio per identificare le relazioni parassitarie in cui la donna soccombe, in cui viene descritta e trattata come pazza, puttana, come nemica e vittima. Donnicidio segnala anche l’atteggiamento di una sorella verso un’altra sorella, mentre decide forzatamente che c’è il torto da una parte e la ragione dall’altra e non, invece, prospettive e contesti diversi.

Nell’intervista rilasciata a Marina Buttafava, il 6 ottobre 1975, Fallaci ancor più chiarisce: È sofferenza, sì. Lo è dai tempi remoti in cui si formò questa società dove quasi ogni diritto spetta agli uomini e quasi ogni dovere alle donne. Le femministe hanno ragione. Gli uomini, quando parlano di libertà e di giustizia, perfino quando muoiono in nome della libertà e della giustizia, non si rendono conto di riferirsi a una libertà e a una giustizia che riguarda solo in parte le donne. Però, affermando che essere donne è una sofferenza, non intendo dire che è sofferenza e basta. O sofferenza senza scampo. Se sei consapevole di una sofferenza e pronto a batterti per porvi fine, la via d’uscita esiste sempre. Noi donne la intravediamo già, nel buio. Ben per questo essere donne, oggi, è un’avventura esaltante. Ben per questo la protagonista del libro dice al bambino-embrione: «Vorrei che tu fossi una donna… Battersi è molto più bello che vincere».

luglio '23

Barbie, per sempre!?

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonlla Aresta

Bel film, ben progettato e ben veicolato, un’operazione commerciale ineccepibile ed è stato bellobello rilassarmi in un mare di rosa, con le persone di ogni età sedute in sala, tanto da rimpiangere il foulard rosa che avrei potuto sfoggiare, giusto per sentirmi adeguata, moderna, anzi, contemporanea, almeno al buio, al fresco di un’omologazione serena e meritata; dài, dopo più di sessant’anni a ostacolare fluidità ovvie. Riappacificarmi con la parte rosa di me era la promessa e riappacificarmi con le Barbie di sempre, anime bionde, che forse avevano ragione su tutto e che, invece di contrastare, avrei dovuto imitare. La visione di un film come riscatto, ecco, come la personale operazione di pinkwashing, su di me, riducendo i toni amari, spocchiosi, di idee e di scritture passate: https://www.liziadagostino.it/25-novembre-memoria-patriarcale-di-stato/

“Avete mai pensato di morire?”, esordisce Barbie rivolgendosi alle infinite copie di sé, in un rigurgito greve di perplessità umana. È la frase che divide la visione in due, il prima e il dopo. E, nel clima creato, l’incantesimo finisce in una chiave di lettura daimoniaca e irrimediabile: è la domanda sulla morte a rivelare la vita, a distinguere gli umani fra i viventi? È sentire l’angoscia di morte a fare la differenza fra Real World e Barbie Land? È la spinta segreta del daimon interiore, è la ferita, è la domanda filosofica di senso, a dare sostanza e sapore all’umano?

Mi rendo conto del possibile inganno della “carezza di plastica”, intuisco l’ombra di tanta luminosità e riprendo l’idea che l’appello femminista troppo vincente è perdente. È stancante non poter ricevere nulla senza pormi domande, specie in estate, senza distrarmi dall’allenamento all’analisi, prevedendo un recupero ancora più faticoso.

Nella teoria e nella pratica analitico-transazionale, meglio una carezza di plastica che nessun riconoscimento. Però, “Sei bellissima” può essere una carezza scivolosa, data e ritirata, formale e di circostanza, insomma, un riconoscimento che dice quanto il mittente sia paraculo e il ricevente sia ingenuo. L’autenticità della relazione e l’onestà delle persone comunicanti non sono affatto elementi scontati e fanno la differenza. Nel film queste parole risultano vincenti, includenti e avviano le liberazioni da ogni tipo di bigottismo reiterato.  Fra le persone reali, inconsapevoli, le due battute scambiate: “Sei bellissima”, “Lo so”, possono rappresentare il lancio di un tiro alla fune, di una sfida che porta all’incomunicabilità, non all’intimità relazionale. Nella quotidianità, può essere l’inizio di un gioco psicologico a “Sei bellissima, ma…” oppure, “Bravissima, Interessantissima, peccato, però che non fai come noi e non sei ripiegabile/riducibile/addomesticabile…”

Utilizzo e propongo la visione del film di Greta Gerwig, assieme ad alcune riflessioni basiche. Diremo, in seguito, che la post ondata femminista l’abbiamo vista clamorosamente arrivare. La divisione fra una cultura di massa e una cultura alta ha prodotto elenchi e piramidi impenetrabili e dannose: per tutte/i siano possibili visioni trasversali e differenti. Considero l’impegno di segnalare prospettive plurime come una buona prevenzione dinanzi al rischio della visuale ristretta e monocolore. Ma se in ballo è la conoscenza dei processi patriarcali, non sono certa serva addolcire, alleggerire, sveltire o compiere, appunto, operazioni in rosa che appartengono al maschilismo, anche femminile, coperto di ossequi e di precauzioni. La comprensione e la testimonianza, partendo da sé, non rimandano a intenzioni e a risultati eccitanti e divertenti!

A certi apprendimenti, di qualunque orientamento femminista, arriviamo con il sangue e con le lacrime. Siamo capaci di ironia, ma non abbiamo voglia di allinearci con simpatiche battute e con slogan cool ed elementari. E i Ken purtroppo ci fagocitano e autoproducono, come uròbori tecnologizzati, le mentalità aggressive e rassegnate, un po’ vigliacche, usando le colorate e morbide rappresentazioni di un potere che divora e rigenera se stesso, un potere che appare immobile, ma è in movimento pro domo sua, a favore degli adepti. La giustizia americana, in questi giorni, ha assolto un uomo innocente: è già scattato l’automatismo dell’assoluzione da transitare verso tutti gli altri.

Barbie può essere solo un sintomo, una passata di aspirina senza ipotizzare alcuna diagnosi grave di paranoia come malattia sociale. È complicato riconoscere la violenza, è difficile decidere di denunciare, ingannate dal volto sornione di compiacimento. Ogni Estia chiede di rilassarsi e arriva per sfinimento a desiderare forme di suicidio, pur di non rimanere, pesante e antipatica, a presenziare i crocicchi, le situazioni e le svolte sociali e politiche. Crediamo nel valore dell’aiuto collettivo, nella copresenza vigile dinanzi all’apertura delle porte e nello scambio della guardianìa spirituale, durante i momenti di riposo legittimo.

Attraverso quale bagaglio di studio e di pratiche abbiamo guardato o guarderemo il film? Studiare l’ombra, e sapere che c’è sempre un’ombra, toglie l’innocenza allo sguardo, talvolta, ci rende spaventate, tristi e arrabbiate, ma può evitare cadute in pseudo-femminismi dal sapore capitalistico. Negli ultimi mesi, in un’azienda, mi hanno giudicata sessantottina, io che gli anni ‘70 li ho vissuti anestetizzata! Perché propongo un’analisi della cultura aziendale oltre che psicologica anche politica? Per evitare che i lavoratori e le lavoratrici, in ogni ruolo, rimangano sotto le macerie di regimi personalizzati e coinvolgenti, legali, ma né leciti, né opportuni. Offrire una lettura relazionale politica del contesto organizzativo, in ogni situazione, ci fa ritrovare sbalzati duramente nella realtà e non sollevati in un mondo estraneo pop-femminista, post-consumistico, facile, ludico, leggero, disponibile, attraente, veloce. Un mondo che si  accontenta di modificare le parole e lascia intonsi i copioni maledetti.

Capisco, dunque, come gli interventi formativi siano improponibili, perché lo sguardo psicologico dubita, impegna, pesa, allunga, approfondisce, rompe con i percorsi scontati. È tentativo consolatorio e pacifico rimanere in superficie ed evitare di prevedere come ogni azione decisa può andare a finire, e a scapito di chi. Il ventennio ultimo iniziò con grandi applausi e convinti successi e risate crasse e sdoganamenti. Il pericolo della pressione bassa, non è mostruoso e la rilassatezza tenta come una gommosa colorata. La bassa e placida marea è confortante rispetto alle onde agitate e persecutorie.

Possiamo, certo, spettacolarizzare il femminismo, assumendone la responsabilità e spiegandone le ragioni che non rimandino solo alla convinzione che va tutto bene, purché se ne parli e aumentino gli incassi. Non ritengo ci sia un femminismo obsoleto da dimenticare e abbandonare, piuttosto credo nello studio del femminismo e dei suoi numerosi rivoli di ideazione e di attuazione. Al di là dei venditori di fumo, disposti a sostenere qualunque argomento pur di vendere un prodotto, il marketing, è una professione seria, uccisa dalla dittatura dei numeri che hanno rimpiazzato le visioni e le idee, lontana dal delirio della persuasione occulta e dalla superficialità colpevole. La capacità di generare, di comunicare e di trasferire il valore del film è la via riuscita della regista Greta Gerwig e della sua numerosa equipe di lavoro. Rimane il dubbio dell’effetto lavatrice di cui l’azienda Mattel, produttrice della bambola più famosa al mondo, pare avesse assolutamente bisogno.

La formazione stabile e costante non rimane la cornice entro cui far girare alcune idee: è, invece, la struttura portante di qualunque cambiamento personale e sociale (una volta dicevo lotta) che passa attraverso la propria carne e va riscelta continuamente. Le lotte femministe e i movimenti lgbtq+ prevedono l’istruzione, i saperi condivisi, le intuizioni e la preveggenza. Il rischio è essere opportunisticamente manipolati, stravolti, ridotti a contenitori insipienti. Le trovate furbe si trasformano in un danno, più grave, quanto più inaspettato. Le rivoluzioni, a causa del patriarcato interiorizzato da tutte/i, sono complicate e prevedono secoli di trasformazioni a tappe, a spirali, in cui abbiamo l’impressione di retrocedere; al contrario, ogni fermata ci fa compiere il giro che rilancia la rinascita.

Sul mio tavolo c’è una copertina rosa indispensabile, da studiare, un testo che pare non finisca mai di chiarire le idee, i processi, le pratiche. Segnalo il libro come una guida affidabile e indispensabile:

Lia Cigarini, La politica del desiderio, Orthotes, 1995/2022

Poi vale la visione del film, di qualunque film ben pensato e venduto, e Barbie lo è.

 

 

ANTO1920

La libertà attraverso la liberazione

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph. Antonella Aresta

La storia

Icona e musa franco-britannica, Jane Birkin è stata trovata senza vita nella sua casa a Parigi. Aveva 76 anni. Ex compagna di Serge Gainsbourg (non si può dimenticare il loro duetto in Je t’aime, moi non plus), Birkin era diventata una figura così importante nella cultura popolare da dare il suo nome a una delle borse più celebri della moda, la Birkin di Hermès. «Quando si è così belle, così fresche, così spontanee, con una voce da bambina, non si ha il diritto di morire. Jane resta eterna nei nostri cuori», ha scritto Brigitte Bardot, sua amica e rivale.

Birkin può rappresentare un modello della rivoluzione sessuale in Europa? Quali esempi proponiamo? E, anzi, cosa intendiamo per rivoluzione sessuale?

La riflessione

Nel 1969, quando avevo dieci anni, l’attrice britannica Jane Birkin e il musicista francese Serge Gainsbourg, compagno sentimentale e professionale, incisero Je t’aime, moi non plus. L’ascolto divenne consapevole negli anni ’80, mentre i respiri ansimanti riecheggiavano ancora al primo posto nel juke-box: la fruizione musicale era agevole e alla portata di tutti/e anche senza l’mp3. Brigitte Bardot aveva rifiutato l’offerta, intuendo il possibile scandalo e preoccupata per la sua immagine associata a una canzone che simulava i gemiti di un rapporto sessuale. Il testo in italiano fu pubblicato sull’Osservatore Romano e il disco fu sequestrato in tutto il territorio nazionale. La diffusione fu automaticamente facilitata proprio dai divieti delle radio e del Vaticano.

Le riflessioni sono sempre parziali rispetto alla vita complessa dell’artista. Nelle canzoni, nelle diverse attività artistiche, Jane non mima, e non mima in tutta la sua vita, scegliendo di affondare nel piacere, nel successo, nella solitudine e nel dolore, di più, dopo la morte dell’ex compagno Doillon e di sua figlia Kate, suicida. Oltre il romantico richiamo alla natura di Woodstock, capiamo che la leggerezza è viaggiare nella nudità, con profondità di intenti, da “Blow up”, a “Daddy nostalgie”, da Sarajevo a Grozny. La leggerezza è cantare, ballare e recitare ed è schierarsi fra i duecento firmatari dell’appello contro il riscaldamento globale, è manifestare per la liberazione della leader birmana Aung San Suu Kyi, è testimoniare come ambasciatrice di Amnesty International, è affrontare l’ictus.

È per tutto questo che il genio di Hermès oggettivò in una borsa l’esperienza esistenziale di Jane: non è solo moda, è desiderio, de-sidera, e tutte avvertiamo la mancanza delle stelle; è utopia, u-topos, ci basta sperare per continuare a camminare.

Negli anni ’70, nella premessa a Sputiamo su Hegel, l’attivista e saggista Carla Lonzi scriveva: “Quando né rivoluzione, né filosofia, né arte, né religione godevano più della nostra incondizionata fiducia, abbiamo affrontato il punto centrale della nostra inferiorizzazione, quello sessuale”. Ancora oggi, nel territorio sessuale, la parola degli uomini ha credito e detta le condizioni. Il fantasma della prepotenza virile che giudica le donne in base alla loro condotta sessuale, continua a minacciare l’amore e la felicità. Certo, le vittime delle violenze sono più ascoltate, il riconoscimento della necessità del consenso restituisce la dignità e ferma la giustificazione della sopraffazione di un corpo sull’altro. Per molte donne, la presa di coscienza è da completare e quelle che registrano l’inadeguatezza maschile lo devono al femminismo più che alla rivoluzione sessuale.

Per quei film e quelle canzoni lo sguardo è di tenerezza: riavviando il nastro delle scelte personali e professionali di Birkin, rimane un modello umano di trasgressione ironica, intelligente e invincibile. La disubbidienza, lo strappo, il tradimento delle regole sociali e morali, la contestazione dell’ortodossia fanno parte della maturazione psichica. Per quanto mi riguarda, l’eccedenza, la provocazione e la rivoluzione simbolica hanno caratterizzato lungamente la mia esperienza, protetta dalla libera viandanza e da un costante lavoro di autocoscienza, in presenza degli ordini genitoriali sempiterni: sii seria e pensa alla famiglia!

A trent’anni o a settanta, la sessualità esprime il carattere e il fenomeno assieme, il sesso e il sentimento, il corpo e la coscienza, il godimento e il pensiero, la gioia e il dolore. Siamo in cammino e in salita rispetto a una visione aperta e liberante. Una parte della psicologia e della cultura arrancano e vogliono “curare” le esagerazioni, tendono a rimanere giudicanti, a normalizzare, tendono a indottrinare, a controllare i corpi per stigmatizzare e comandare le persone.

L’istinto e l’istinto sessuale sono stati legittimati da Freud nei primi del Novecento e ancora oggi rileviamo la necessità, non tanto di liberalizzare, quanto di ripensare, studiare, riconoscere in sè la sapienza dei costumi intimi. La sessualità diviene un disturbo quando sono assenti la conoscenza e la coscienza del comportamento trasgressivo, quando non governiamo noi stessi, quando veniamo sbranati dai risultati e dagli eventi che non abbiamo voluto e saputo prevedere, sepolti nell’istinto, ridotti come salme, senza conoscere la pensosità di quell’istinto. Senza il godimento della ragione, come i giocatori d’azzardo, ossessivi compulsivi, rimaniamo tristi e perdenti, a ripetere l’osceno, contrario non del pudore, ma della bellezza.

Riprendo un saggio fondamentale dello psicoanalista Luigi Zoja, Il declino del desiderio, edito nel 2022 da Einaudi. Ci ammaliamo se gli esseri umani sono ridotti a fenomeni commerciali, se siamo tutti/e ricattabili e se tutto ha un prezzo. La conoscenza della sessualità attraverso le immagini pornografiche di facile accesso non rende più felici le persone, ma ne favorisce l’allontanamento dalla realtà. Nell’immaginario illusorio, gli uomini potenti sono in erezione continua e le donne sono sottomesse e compiacenti verso l’imperatore. La comunicazione rimane solo virtuale, favorisce il rifiuto di sé e l’incoscienza rispetto al corpo e alla psiche.

Afferma Zoja: “… oggi, di fronte a tanta libertà conquistata, non si approfitta più della libertà, perché ogni cosa raggiunge la sua soglia di saturazione. Come anche il cibo che ci piace di più, oltre una certa quantità ci nausea, è plausibile che anche la sessualità abbia una soglia di saturazione.”

Nel film Daddy Nostalgie, con Dirk Bogarde e Jane Birkin, Daddy dice a Caroline che bisogna guardare la bellezza come se fosse l’ultima volta: forse, stiamo inseguendo una bellezza capace di reiterarsi come copia all’infinito. Invece, una e ultima, proprio la bellezza che ogni persona sa per se stessa, può bastare tutta la vita. Intuendo che anche la nostalgia può diventare un inganno.

Ringrazio il giornalista Luca Ciciriello perché, ogni volta, risceglie di condividere i pensieri che non ricercano conclusioni o certezze, ma avviano verso ulteriori domande.

Ph. Antonella Aresta

Curare il male significa modificare le relazioni

 

Ph. Antonella Aresta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

Le dichiarazioni
Ignazio La Russa, presidente del Senato: “Dopo averlo a lungo interrogato, ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio”.
Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia: “Non entro nei casi individuali e nelle reazioni di una persona che ha un rapporto affettivo, è il padre dell’eventuale indagato. Quello che posso dire è che La Russa è quello che per la prima volta ha proposto una manifestazione di soli uomini contro la violenza sulle donne, perché questo non è un problema solo delle donne ma anche degli uomini. Mi sembra questa già una risposta”.
Filippo Facci, attualmente giornalista di Libero, probabile conduttore Rai nella prossima stagione televisiva: “Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa”.
Tutte dichiarazioni, quelle riportate, che in questi giorni hanno provocato contestazioni in diverse occasioni e da più fronti. Messaggi che si riferiscono a quanto accaduto lo scorso 18 maggio.

I fatti
Il 18 maggio, appunto, il 19enne Leonardo Apache La Russa, figlio di Ignazio presidente del Senato, rivede una ex compagna di scuola in discoteca.
Il mattino dopo la ragazza si sveglia a casa La Russa: lei dice di non ricordare nulla, lui le dice che hanno avuto un rapporto sessuale.
Il 29 giugno la 22enne presenta una denuncia per violenza sessuale contro La Russa su cui indaga la Procura di Milano. I referti medici della clinica “Mangiagalli”, dove si è recata giorno stesso, dicono che tre lesioni sarebbero compatibili con una violenza.

 La riflessione

Generarsi come persona richiede un tempo lungo quanto tutta la vita; per chiunque, la mappa mentale rispetto al territorio della relazione può rimanere ristretta e mortificante. Molti sono scolarizzati, famosi, però sono cresciuti nel contesto di persistenza di un regime sociale gerarchico, con le forze politiche che hanno interesse a mantenerlo in vita e che difendono alcuni uomini al di sopra di altri e tutti gli uomini al di sopra delle donne.

Di conseguenza, le dichiarazioni non stupiscono, sono in linea con la mentalità scelta e difesa dai politici che abbiamo votato, anche se in numero sempre più esiguo di votanti rispetto alla popolazione avente diritto. Le considerazioni proposte sono condivise fra chi nutre una visione di umanità senza schifarsene, fra chi ode, sente e guarda un certo rumore, un certo odore e le innumerevoli sfumature di colore. Nella prospettiva che consideriamo, le parole non vogliono e non possono convincere nè obbligare, perché il cambiamento richiede la responsabilità di ogni singolo/a lettore/trice. Non è ricevibile una qualunque rilettura da parte di chi non nutre dubbi e non la richiede.

Scegliere e agire lo sguardo psicologico significa riconoscere il sistema di dominio istituzionalizzato e reiterato, significa registrare la violenza nelle gerarchie, il sessismo interiorizzato e lo sfruttamento sessista: i giovani hanno paura e sono confusi e i padri non vogliono rinunciare ai benefici di denaro e di potere che dal sistema virilista derivano.

La formazione personale non può diventare un altro luogo in cui perpetuare l’ennesima forma di dominio, per risarcire le donne vittime, per incriminare gli uomini porci e per cacciare le donne difenditrici del patriarca, forse anche a loro insaputa. Ogni persona evolva, durante il suo cammino formativo, nelle differenze, verso l’individuazione di sé, verso il senso di una comunità libera e pacificata, senza il dominio e la prevaricazione, convinta che smettere di manipolare, di sottomettere e di svalutare attraverso il sesso, la classe, la razza, la religione è un dono per se stessa prima che per gli altri.

Ricadiamo, altrimenti, nel gioco psicologico “T’ho Beccato, Brutto Figlio di Puttana!”. Non vogliamo cercare il pretesto e approfittare della caduta. La situazione in cui precipitiamo come umanità è molto più grave dell’umiliazione sui social del ricco e del potente di turno. La mentalità del ratto e dello stupro è radicata in tutti/e noi, miserabilmente, ed è il modo in cui abitiamo la terra. Nelle relazioni, il binomio maledetto “rubare e fottere” rimanda alla scelta furba, difesa e quasi invidiata.

In questo tempo torrido, i fatti considerati diventano un’occasione di indagine fenomenologica, psicologica, non tanto per punire, ma per capire e modificare. Il guaio non è fuori, non è Roccella e La Russa o Facci che sicuramente utilizzano parole e azioni inadeguate, ma che diventano, poveretti, il termometro di una struttura mentale introiettata, originaria e incallita.

Curare il male significa modificare le relazioni fra gli umani, educarci al godimento dei corpi e al desiderio, anche sessuale. A favore della riflessione, condividiamo interamente un racconto breve di Franz Kafka, Il Silenzio delle Sirene, ritrovate in Quaderni in ottavo, scritti tra il 1917 e il 1919.

Questa lettura ci aiuta a rivedere, da Omero a Joyce a Dante, il mito smisurato e senza confini di Ulisse. Osiamo una rilettura psicologica archetipica di un ulisse quotidiano, eroe indiscusso e celebrato, obbligato, adesso, a mettere in dubbio le proprie certezze, il copione personale, finora vissuto come vincente. Forse ci tocca fare i conti proprio con questo modello custodito, ci tocca di modificare il copione durissimo, a sfidare il destino di umano, a rivendicare l’ego solitario e vittorioso, l’intelligenza, la forza, l’impertinenza, la nostalgia, la furbizia e la viandanza inarrestabile.

Ulisse, in fondo, gode nel copione, non trascende, non trasforma, genera adolescenti fissati nell’ora presente. Senza la lettura psicologica, necessariamente relazionale, il potere della conoscenza e del ruolo sociale si trasformano in una irrimediabile sconfitta. Affermando di sentirci vincitori e felici, possiamo decidere di mentire, sapendo di mentire, ma ci salviamo solo se quella menzogna agevola la costruzione di una comunità, solo se è a servizio di una comprensione più intima e profonda della vita umana.

Per noi, la luce, forse, è nelle ombre di Penelope, nelle sue finzioni ragionate, nelle attese, nelle fatiche delle tele sfilate e ricominciate, nella paura della mancanza, nella resistenza, nella tristezza del disamore, nella rabbia dei pensieri lenti e profondi. La conoscenza può essere un inganno se non prevede la coscienza di quell’inganno.

Il racconto di Kafka è una guida per innumerevoli ripensamenti:

“Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza. Per difendersi dalle sirene Ulisse si tappò le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene. Senonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva. E, in effetti, all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene. Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, le vide respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, ma reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, non seppe più niente di loro. Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse. Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare. La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi – benché non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in un certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.”

Ringrazio il giornalista Luca Ciciriello per la collaborazione

prim (1)

Omicidio a Primavalle e incidente a Casal Palocco. Cosa apprendiamo dai giovani?

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I fatti, due

A Primavalle, un quartiere di Roma, Michelle Maria Causo, 17 anni è stata uccisa con sei coltellate. Il suo corpo, avvolto in un sacco nero, è stato trovato in un carrello per la spesa, vicino a un cassonetto. Per l’omicidio è stato arrestato un 17enne: ha confessato di aver ucciso la coetanea dopo un litigio legato alla droga.

A Casal Palocco, sempre Roma, un suv Lamborghini guidato da Matteo Di Pietro, uno YouTuber ventenne, ha travolto una Smart a bordo della quale c’era anche un bimbo di 5 anni, Manuel, deceduto.

Un pensiero

I fatti accaduti turbano ed è comprensibile il biasimo istintivo per la giovinezza perduta, brutta e cattiva. Oltre ai risentimenti, alle rivendicazioni e alle attribuzioni di colpe, è necessario parallelamente riflettere sul modello antropologico che abbiamo contribuito a creare e a cristallizzare negli ultimi vent’anni, pur non essendo d’accordo, pur contrastandolo con tutte le forze. Spendiamo la vita in un mondo, il nostro, in cui tutti sono ricattabili, in cui il denaro e il potere sono i valori riconosciuti e mediatici. Accanto alla frustrazione, possiamo avviare riflessioni sulla parte autodistruttiva di tutti gli esseri umani, su quali adulti noi stessi/e diventiamo e su come ci proponiamo, sulla testimonianza che offriamo, lì dove viviamo e lavoriamo.

Il/la giovane può deviare, può perdersi: le persone adulte svolgono, in ogni ruolo, una funzione pedagogica e sono una garanzia per avviare scambi di pensieri su ipotesi differenti di comportamenti adeguati, dinanzi al male che è dentro ogni vivente, non fuori.

Siamo figure genitoriali e costruirci come persone sane e felici è il dono che possiamo offrire interagendo con i/le giovani. Sane e felici significa che, in ogni situazione, abbiamo acquisito non tanto il governo definitivo – ché, ogni tanto, ci scappa, insieme al tempo, anche la pazienza – ma un orientamento alla consapevolezza rispetto al sentimento, al ragionamento e alla scelta di azione che ne consegue. Siamo persone sane e felici maturando una visione chiara di noi stessi/e, degli altri e delle altre, del lavoro, del successo, del divertimento, dell’esistenza.

La prevenzione è fondamentale e coinvolge tutta la società, dalle istituzioni ai singoli individui. In alcune situazioni, il danno è fatto e può, invece, essere reversibile la scelta di vita. Dinanzi all’evento irreparabile, è indispensabile essere pronti/e ad avviare un processo di conoscenza e di consapevolezza sul senso della colpa, oltre il peccato e la punizione, oltre il finto esame di coscienza, suggerito dagli/lle avvocati/e scaltri/e.

Vorremmo, per noi e i nostri piccoli, diventare adulti senza dolore, senza pagare prezzi alti in prima linea, senza disciplina intellettiva ed emotiva. La presa in carico di sé e l’autocoscienza, al contrario, ci conducono attraverso passaggi più o meno pericolosi, difficili, talvolta tragici, e rappresentano la sostanza del cammino esistenziale. Infatti, veniamo al mondo eletti alla comunione e alla gioia e ugualmente condannati al dubbio, alla ferita, alla contraddizione.

Ci tocca accogliere la fatica di sentire il sentimento anche sgradevole, di attivare il pensiero critico, il discernimento e di compiere una scelta che sicuramente appare risolutiva nel presente, ma che dovrà essere riformulata nel futuro anche prossimo.

No, non ci sono consigli, soluzioni e formule per educare e che assicurino la riuscita dell’essere perfetto e forte e vincente a tutti i costi. Il male ci appartiene e accade. Pensiamo assieme, studiamo le situazioni, interroghiamoci personalmente.

Vent’anni fa, Domenico Starnone vinse il premio Strega. Il romanzo Via Gemito, edito da Einaudi, inaugurò un modo nuovo di ripensare e di valutare la figura del padre forte, un maschio che abbozza sorrisi e ripete battute sconce, solo e presuntuoso, furbo e abusante: un modello, raccontò l’autore, che ha compromesso la serenità di una generazione di figli e di figlie ancora impegnata a modificare, a trasformare, a rileggere, a ristrutturare. Un processo sano di autoanalisi, di autorigenerazione da cui ci auguriamo di ripartire.

Ringrazio il giornalista Luca Ciciriello per la collaborazione

Woolf, maestra di letture

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Considero un buon segno ritrovare le persone percorrendo cammini di conoscenza: è la benedizione della vita. Con questa predisposizione psichica all’incontro e allo svelamento, accolgo l’invito di Francesca Pacini a offrire un contributo nella nuova pubblicazione de La stanza di Virginia. Mi impegno a riprendere parti di opere, inizialmente di Woolf e, in seguito, di altre maestre di lettura, per offrire uno sguardo psicologico minimo e differente, preservando il contesto, personale e storico, dell’espressione autorale.

I social bruciano la riflessione lenta, abituandoci a numerose citazioni a caso, legittimate dalla velocità di lettura. Se manca il contesto, ogni affermazione è più o meno accettabile, sospesa fra l’opportunismo e l’adattamento. Invece, è l’analisi nella realtà, dell’autrice o dell’autore e nostra, che diviene la guida per capire e per approfondire il messaggio dell’opera, di volta in volta, considerata.

A 39 anni, Adeline Virginia Stephen Woolf scrive gli otto racconti racchiusi nella raccolta Lunedì o Martedì. Riprendo il secondo, Una società, nella traduzione di Cristina Colla che preferisco o in quella di Mario Fortunato per Bompiani, che nomina L’associazione. Perché la comunione delle donne, il partire dall’esperienza personale, lo scambio nell’allegria chiacchierona e la leggerezza consapevole possono diventare, come in uno specchio, il riflesso, appunto, di una società che ogni essere umano desidera.

Un gruppo di sei o sette donne, senza darsi appuntamento, dopo il tè, iniziano a “tessere le lodi degli uomini… quanto erano forti, nobili, brillanti, coraggiosi, belli… quanto invidiavamo quelle donne che con le buone o con le cattive erano riuscite ad accalappiarsene uno per la vita…” (p. 15).

“Siamo andate avanti per tutti questi anni con la convinzione che gli uomini fossero tutti ugualmente operosi, e che le loro opere fossero tutte ugualmente meritevoli. Eravamo convinte che, mentre noi allevavamo i bambini, loro potessero creare meravigliosi libri e dipinti. Noi abbiamo popolato il mondo. Loro l’hanno civilizzato. Ma ora che siamo in grado di valutarli, cosa ci impedisce di giudicare i risultati? Prima di mettere al mondo un altro bambino, dobbiamo giurare che scopriremo come davvero stanno le cose.” (pag. 18).

La scrittura può essere taumaturgica e divenire atto terapeutico quando origina dalla conoscenza di sé condivisa, dal dolore esistenziale sofferto come un transito per capire e per approfondire. L’intuizione, se affinata e nutrita, non diviene pregiudizio e idea fissa ma, affondando nella prova di realtà, ci viene riconsegnata come preveggenza, protezione e saggezza.

Gli sbalzi d’umore, le crisi depressive, le fobie, il suicidio, l’ipotesi odierna di un possibile disturbo bipolare: registro tutti i malesseri psichici di Virginia, all’origine del patimento, anche come causa o possibilità di espressione, come strumenti nella sua scrittura, innovatrice nelle ombre dell’idea espressa, oltre che nello stile e nella lingua. L’autrice manifesta il suo sguardo critico, lucido e onesto, pungente, non nonostante, ma proprio attraverso il dolore dei suoi folli crolli.

“… Non li abbiamo forse allevati e nutriti e fatti crescere circondati da tutte le comodità, fin dall’inizio dei tempi, in modo che potessero essere più intelligenti, anche senza essere nient’altro che quello?” (pag. 38).

“… Una volta che una donna avrà imparato a leggere, c’è una sola cosa in cui dovrai insegnarle a credere… in se stessa.” (pag. 39).

Il talento e l’esercizio di risignificazione del linguaggio e delle situazioni vissute è nella modalità del pensiero critico sistematico, del logos che scorre nelle viscere, come afferma Maria Zambrano. Ritrovo in Virginia Woolf il pensare veramente della filosofa Zambrano: “(…) Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. Per questo, pensare è cosa tanto grave. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero… come se l’atto più puro, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella “materia” preziosa tra tutte, essenza della vita, o vita stessa che scorre nascosta”.

Virginia è vicina al movimento politico delle suffragette, per l’emancipazione e il diritto di voto delle donne e, nel racconto considerato, appare chiara l’idea che ogni libertà, se reale, debba coinvolgere il contesto e tutti gli esseri umani. Nessuna persona può considerarsi libera per sé soltanto. La libertà non è una conquista immediata e solitaria; essa prevede le stanze, i cammini, le riflessioni, i tempi, le relazioni di liberazione. È il lavoro delle “piccole cose”, così Virginia parla dei suoi racconti, con un’attenzione maniacale al gesto quotidiano, alle percezioni, ai brevi atti mancati.

Nel racconto, oltre ai contenuti, sono interessanti e curiose le modalità delle interazioni; infatti, ogni frattura, ogni scissione, ogni fantasia, apre mondi di comprensione ampia, utilizzando il pensiero divergente e ironico: “… inventiamo un metodo perché gli uomini possano fare figli! È la nostra unica via di salvezza. Se non riusciamo a fornire agli uomini qualche innocente occupazione non ci saranno mai né buoni uomini né buoni libri, e soccomberemo tutti sotto i frutti della loro frenetica attività, e nessun essere umano sopravviverà per sapere che una volta è esistito Shakespeare!” (pag. 39).

Woolf è trasgressiva, piena di difetti e di asperità, certo, anche a causa della prematura morte della madre e degli abusi sessuali forse perpetrati dai fratellastri, termine e abitudine ancora in uso nel Novecento. L’artista rinasce ogni giorno in modo geniale e, paradossalmente, rinasce anche scegliendo di riempirsi le tasche di sassi e rinasce dirigendosi, con il suo amore delirante per la vita, verso il fiume Ouse. Virginia affonda, in una metafora grave e ineludibile per tutti gli esseri umani in ricerca che, ad un certo punto, necessariamente, accolgono il fondo, l’ombra, la ferita.

Diviene un archetipo, forma e matrice primitiva e, come il mito, anche abusato, a rappresentare l’archetipo, Virginia Woolf è parte fondativa di ogni percorso esistenziale. Ogni donna, – aggiungo, ogni persona – sconosciuta e irriducibile, custodisce Virginia, come un passaggio obbligato nel percorso di emancipazione da se stessa e dalle sclerotizzate strutture sociali.

Numero 18 – La Stanza di Virginia