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Memento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1979, a 72 anni, Laudomia Bonanni pubblica Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile rimanendo, per più di quarant’anni, un’autrice incompresa e dimenticata, nonostante la convinzione espressa, nel 1949, da Eugenio Montale: questa Laudomia merita veramente di essere tolta dall’ombra. Forse, lentamente, come capita ai profeti, iniziamo a credergli.

Dopo una laurea in lettere e un lavoro nell’editoria, Bonanni insegna nelle scuole elementari e, seguendo le indicazioni del Ministero di Grazia e Giustizia, nell’ ottobre del 1938, assume l’incarico di rappresentare, presso il Tribunale per i minorenni, l’organizzazione delle donne fasciste, in cui attivamente milita. La sensibilità e la competenza verso i temi delle donne, dell’adolescenza, della giovinezza e della maternità rimangono il filo conduttore di tutte le sue opere.

Alla domanda di un giornalista del perché questo libro, Bonanni risponde: È una domanda un po’ strana da fare ad un autore. Evidentemente ho sentito il bisogno di scriverlo. Non è un libro autobiografico come si è creduto un po’ troppo. È autobiografico nella misura in cui lo è un qualsiasi libro di qualsiasi autore. L’ho scritto perché è stato un argomento che mi si è imposto. La protagonista donna è un po’ la protagonista di tutto quello che ho scritto.

La donna del romanzo ha 47 anni e viene invitata dal suo psicanalista a utilizzare la scrittura, in prima persona, come strumento di indagine e di approfondimento. La consultazione clinica, i tranquillanti e gli psicofarmaci vengono sostituiti dallo psichiatra illuminato con un invito paradossale: prova a scrivere. Il lavoro non è l’autoanalisi per mostrarne i risultati, ma predispone all’accoglienza della paura e della paura di esistere per quello che siamo. Solo chi è totalmente privo di fantasia e gl’incoscienti, da una certa età in poi, non hanno paura della vita. (p.20)

Negli eventi narrati, riconosciamo i recessi della mente e i legami con il femminismo storico degli anni ’70. Il bambino di pietra riprende il vissuto e l’esperienza di una generazione di donne vissute in contesti patriarcali, ribellatesi ai ruoli stereotipati, con i corpi che chiedono il piacere, chiamato prima peccato e che ridiscutono la scelta, il caso, l’istinto di non aver messo al mondo almeno un figlio. La scrittura rinomina e ridefinisce i moti dell’anima, rispondendo con la disubbidienza alla punizione e alla sopraffazione. Attraverso il personaggio letterario di Cassandra, riflettiamo sul sesso, sulla maternità, sull’obbedienza, sulla riduzione di sé. Diventiamo donne sapienti, di sapor, perché, ci ricorda l’autrice, dire intellettuali è troppo.

L’irreducibile paura della maternità? Rimozione? Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra? (p.127)

Il controllo che il patriarcato rivendica ancora per consuetudine e, fino a pochi anni fa, anche per legge, è sempre sulla carne, sul movimento, sullo spazio. Il dominio punisce il desiderio di indipendenza, appropriandosi delle libertà dei corpi. Sandrina, la cassandra che porta nel nome il suo copione, è profeta per se stessa e può indicare la strada a tutte noi; la sua voce è significante nel tempo e, rivolgendosi a sé per prima, può giungere fino a noi.

In tutte le epoche storiche, diversamente nominato, è comune, per tutte le donne, lo stress da intossicazione emotiva. Sentirsi devitalizzata, avvertire il sonno incompleto, il risveglio mal lunato, il dubbio di un vizio cardiaco, il senso di derelizione e il mancato desiderio perfino di viaggiare sono, insieme, gli effetti e le cause della pazzia, intesa in senso liberatorio, come l’assentarsi da se stesse. Riconosciamo con la protagonista del romanzo che spesso, il dolore è alla testa ma il male alla psiche (p.16) e che la stanchezza può uccidere (p.74).

Temevo l’indagine dello psicanalista sull’attività sessuale. Il sesso all’origine di ogni nevrosi. Anche la santità un prodotto erotico, figurarsi… magari ti domandano ex abrupto se hai l’orgasmo. Freud almeno dichiarava che la vita amorosa della donna è (era?) avvolta in un’oscurità impenetrabile. Per quanto me ne rimane di letture fatte, per così dire, con un occhio solo: paura di scoprire chissacché. E non mi si parli di rimozione, lì per lì confondo con soppressione (p.16)

Il bambino di pietra è la scultura raffigurante un neonato che dorme, realizzata da un marmista di lapidi e posata nel cimitero. Talvolta, siamo come bambine di pietra introverse, a covare le rivendicazioni e le rinascite. Così, le battute d’arresto, le resistenze, le delusioni, diventano l’occasione di un corpo a corpo con la nevrosi, alterando il confine netto fra lo stato di salute e il disturbo psichico. Franco Basaglia diceva che la follia è una domanda; talvolta, io aggiungo, il malessere psichico è una richiesta che potrebbe essere diversamente formulata. E la ragione della guida psicologica è nella ricerca della domanda adeguata che ogni persona custodisce dentro di sé e rivela un po’ per volta.

Ha ragione Sandra: La felicità non è allegra come la gioia, la gioia è uno stato chiaro leggero, la felicità ha subito un peso (p.73). La nevrosi, è vero, si cura, ma si scrive e si legge perché divenga un transito obbligato di comprensione, una lente di ingrandimento, uno specchio che non combacia con l’immagine che ciascuna ha costruito di sé.

Nell’opera di archeologia del proprio passato, seguendo l’io ansioso che si va riacciambellando nella tana (p.107), è meglio essere sole che in compagnia. È meglio ricordare non esponendoci in trincea, in prima linea, ma attraverso i personaggi letterari ritrovati o inventati. Il disturbo e il dolore psicologico, inizialmente ci escludono e ci isolano perché possiamo, in seguito, includere e prevedere voci plurali.

Il tema della liberazione della donna, in un itinerario di sradicamento dalle convenzioni borghesi, ci intrattiene ancora oggi. La madre di Sandra diviene la figura simbolo del potere e, a chiusura del romanzo, la nipote della protagonista, Amina, rivela la capacità di raccogliere il testimone con il coraggio di tagliare il proprio cordone ombelicale, con atti dimostrativi di nuovi rapporti con l’altro sesso.

Molte scelte politiche riportano le donne a una condizione d’inferiorità legale e culturale e, però, riconosciamo la voce del cambiamento, in ogni periodo storico, attraverso la scrittura liberatoria che consente di rifiutare le virtù donnesche ornamentali, per un conveniente matrimonio, come scrive Sandra.

La scrittura è necessariamente legata alla lettura come la narrazione di sé è direttamente legata all’analisi, all’indagine più o meno profonda, seguendo i tempi di apprendimento di ogni persona. Le riflessioni sul copione personale e sui meccanismi di difesa, sui giochi psicologici prevedono il ricordo e il racconto verbale e/o scritto. Sono d’accordo con Bonanni: in fondo, quando l’equilibrio personale è incrollabile, rivela la staticità, non prevedendo né trasformazioni, né visioni nuove.

L’accoglienza della propria parte periodale nevrotica si esprime nella ricerca tormentata, ben oltre il pudore rispetto alla scostumatezza, termine riportato dall’autrice e che arriva direttamente dalla mia infanzia. E la sessualità, le relazioni, la stessa vita umana gira intorno alla scoperta adolescenziale della possibilità della morte. Sandra ricorda il suo pensiero più crudele di bambina: le persone che sono morte non le amo più, hanno fatto una cosa orribile (p.56)

La costruzione di sé è come un’opera d’arte: Forse l’arte consiste proprio nel non sapere ciò che si riuscirà a fare, ma tentarlo, essere spinti a fare (p.49). Risorgere, in fondo, ogni volta, non è diventare un’altra, ma è rimanere se stesse apprendendo a registrare la realtà e a sintonizzarsi con essa, in modo che gli eventi, i fatti giungano, ormai risolti, a noi.

Considero le parole nell’ultima pagina del libro, la vera benedizione, la forza ritrovata per continuare, come un’opera di protezione, di perdono e di permesso: (E non ho scritto tutto, non si confessa di sé proprio tutto nemmeno a sé stessi.)

Apprezzo lo sforzo che il testo rimanda rispetto all’opera di autocoscienza e ripenso ad un’altra storia, raccontata da Foa e Scaraffia, su due donne, anime nere nella Roma nazista. La promessa che ci scambiamo è di continuare a leggere e a condividere i cammini lunghi, nascosti e ripidi della liberazione delle donne e degli uomini dal potere patriarcale.

Ph.Fonte Silvia Meo

La valle oscura e il cane nero

 

 

Pensare intorno al lavoro incrocia molti argomenti, politici, economici, sociologici. Mi occupo di rispondere alla domanda sempre più frequente di sollievo rispetto a manifestazioni fisiche e fisiologiche varie e uguali, più o meno persistenti: sudorazione, tremore, vertigini, nausea, cefalea, formicolii, tensioni muscolari, secchezza della bocca.

Lo stachanovismo, come modalità di lavoro e di vita, nasce nell’ex Unione Sovietica, durante la dittatura stalinista; Aleksey Stachanov, in una sola notte, estrasse una quantità di carbone superiore di quattordici volte alla normalità dei colleghi. Il termine workaholism viene introdotto da Wayne Oates nel 1971, unendo la parola work e la parola alcoholism per descrivere la dipendenza dall’attività lavorativa. Infatti, il workaolismo è il disturbo delle persone che lavorano da matti, che si ubriacano di lavoro. Mi confidano che non possono smettere o diminuire e che la tendenza a lavorare eccessivamente, in modo compulsivo, è diventata un’autocura, come il sesso, l’alcol e le droghe considerate leggere.

Molti rivendicano il diritto all’ansia, il diritto a rimanere come sono e pretendono di risolvere i sintomi per risorgere alla vita di prima, vittoriosa e fortissima, ricca di fatturato e movimentata.  Con loro, rifletto sull’eccesso di attività come sintomo, come effetto e non come causa dei malesseri fisici e psichici. Tutte le tipologie di lavoro possono diventare altamente stressanti, se scambiamo l’amore per l’attività lavorativa con il possesso ricattatorio che la mentalità legata al lavoro esercita su di noi.

L’efficienza e la prestazione sono ormai diventati il metro per misurare la persona intera. Ma avere una vita precaria, in periodi anche lunghi, lo dico a me per prima, non significa essere una precaria dell’esistenza. La dimensione lavorativa è importante, ma non è l’unico accesso alla felicità possibile.

Churchill parlava del suo cane nero interiore e penso che fosse un disturbo bipolare a consentirgli, durante la fase maniacale, l’abbondante produzione di attività e di opere. Capisco che per molte persone il superlavoro sia un tentativo di ridurre l’ansia e la depressione preesistenti. Buttarci nel lavoro, apparentemente dà sollievo, come una dipendenza qualunque; nel tempo, però, diventiamo fautori e complici di una sintomatologia dolorosa e preoccupante. Sostenendo la tesi della casualità inversa, le dipendenze persistenti, talvolta, anche di pornografia, di alcol e di droghe non sono cause, ma segnali di una strutturazione patologica dell’intera esistenza.

L’attività lavorativa compulsiva che si impossessa totalmente della quotidianità è l’effetto di un disturbo culturale e mentale. Il workaholismo prevede una visione virile della vita. Bisogna che guariamo non dalla eventuale perdita mortificante, ma dalla fragile onnipotenza che pretende di vederci vincere con forza, sempre. Bisogna che guariamo dal potere che è la nostra valle oscura. Giudicarci inadeguati a vivere la quotidianità è segnale preciso che è arrivato il momento di trasformare la visione intera del lavoro, del successo e dell’esistenza.

La cultura capitalista ci spinge a essere produttivi per sentirci vivi, a essere consumatori per acquisire sicurezza, a moltiplicare la quantità di lavoro per dirci capaci e forti. Il superlavoratore appare sempre indaffaratissimo e viene guardato con ammirazione, invidia, compiacimento. E le aziende promuovono e premiano i comportamenti iperadattivi e dipendenti. Molti corsi di burnout rimangono in superficie, invitando all’automedicazione che non risolve, all’origine, la paura, la rabbia e la tristezza.

Il patriarcato fa male agli uomini e alle donne, e insegna loro a manifestare la virilità vincendo la paura con l’aggressività. Il patriarcato come forma di dominio sul corpo e sulla terra non è affatto risolto e, raramente, viene riconosciuto. L’uomo forte e duro o la donna che non chiede mai e non ha bisogno e non dipende da nessuno sono proiezioni favorite dal culto dell’individualismo e dell’unica persona sola al comando. Il machismo utilizza l’esaltazione, il superlativo, l’eccesso e il ruolo minore di qualche essere vivente.

L’omologazione e l’assorbimento in una visione globale rivendicano le identità personali eccellenti e superiori. Ci viene promesso il successo in una società ingiusta senza volerla trasformare, senza incoraggiare una azione radicale di umanizzazione della quotidianità. Riconosciamo le cause delle malattie mentali, certamente, attraverso l’indagine e la guida psicologica, in noi stessi, ma anche nel contesto politico, economico e sociale.

L’ampliamento degli ii, le opzioni, i colori che ogni essere umano possiede, ci consentono di rifiutare i modelli esterni e di risolvere l’ansia da prestazione e la paura di snaturalizzarci. Il lavoro di ripensamento rispetto alle relazioni, al benessere richiede tempo e siamo, invece, abituati a chiamare perdita di tempo qualunque attività che nutra la crescita interiore, non immediatamente utile, vendibile e traducibile in denaro. Il tempo destrutturato non è necessariamente tempo morto e, in alcune situazioni, non fare nulla significa consentirci di essere concavi, riceventi.

Mi conforta leggere La valle oscura, la storia di Anna Wiener, oggi corrispondente del New Yorker, la quale riconosce, dopo anni di malessere, la megalomania adulatoria del settore tecnologico. In molte aziende, ciò che conta è centralizzare il potere e sono pochissimi a sapere, a decidere, a guadagnare, con l’aggravante che le loro esperienze personali diventano verità universali. I lavoratori, sì tutti con sguardo maschile, seguono protocolli severi e ambiziosi, e con l’eccellenza delle comunicazioni, evitano le relazioni. Accade, infatti, mi raccontano, che due persone in posizioni adiacenti, si inviino mail per parlarsi.

L’aggressività passiva è il sintomo di chi deve documentare in modo ossessivo compulsivo la propria attività lavorativa. La retorica dell’esclusione, le luci da pop star per pontificare, le molestie sessuali in agguato, rendono tutti espansivi e stucchevoli, spumeggianti e dotati per natura di competenze, anche tecnologiche, indispensabili e all’avanguardia. Li vedo abbattuti sul divano del mio studio come la caricatura di se stessi. Sono figure presuntuose ed esasperanti che vivono sotto pressione, obbedienti e coperti da un’arroganza nevrotica.

Il lavoro si era incuneato nella nostra identità. Noi eravamo l’azienda, e l’azienda era noi. Piccoli fallimenti e grandi successi riflettevano in egual modo le nostre inadeguatezze personali o il talento individuale. Quella frenesia era inebriante, come lo era la sensazione che tutti fossimo indispensabili. p.79

Il linguaggio dell’acquisizione di fasce di mercato pretende la scaltrezza, la  velocità, la furbizia e richiede dipendenti moribondi davanti a video luminosi; prevede le capsule di vitamina per la concentrazione, le bevande energetiche e l’uso medico di marijuana. Sono persuasivi, concreti, accelerati e accattivanti, a costruire un mondo di determinati al successo e al controllo di alcuni gruppi su altri.  I am data driven, sono guidato dai dati, rappresenta il nuovo diktat da poltrona ergonomica dondolante. Ma l’ottimizzazione e il potenziamento della produttività si risolvono presto in numerosi disturbi del corpo.

Eravamo fortunati e succubi, e poi, senza accorgercene, eravamo diventati burocrati… forse non eravamo mai stati una famiglia. Sapevamo di non esserlo mai stati. Ma forse lo facevamo davvero solo per soldi. No, lo facevamo per il potere. Il potere sembrava ok… p.127

Il focus della consulenza e della formazione non è sulla motivazione del dipendente, ma sulla struttura culturale aziendale. Sono d’accordo con chi afferma che situare la riuscita della vita dentro il lavoratore prevede che sia appassionato e grato anche nel sacrificio e nello sfruttamento: è il perfetto soggetto neoliberale, è la forma contemporanea di accumulazione del capitale. La cooperazione richiesta punta alla produttività e pretende che ogni persona sia sana, senza sintomi e felice; invece, la solidarietà e la responsabilità problematizzano in modo circolare la persona lavoratrice, quella imprenditrice e, assieme, il contesto lavorativo.

Sono grata alle persone che si fidano, si affidano non tanto a me, ma alle nuove vie di ricerca e di trasformazione che ci vengono incontro e che, assieme, approfondiamo.

In quella visione del futuro non c’era nessuna crisi. C’erano solo opportunità. p.32

A guardar loro, sembrava così facile sapere cosa volevi e ottenerlo. Ero stata pronta a credere in loro, impaziente di organizzare la mia vita intorno ai loro princìpi. Avevo confidato che fossero loro a dirmi chi ero, cosa contava, come vivere. Avevo confidato che avessero un piano, e che fosse il piano migliore per me. Pensavo sapessero qualcosa che io non sapevo. p.172

Mi consideravo una femminista, ma il mio lavoro mi aveva messa in una posizione di incessante e professionalizzata deferenza verso l’ego maschile. p.129

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Una miserabile questione psicologica

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

Le riflessioni che propongo non hanno il tono solenne della certezza e conservano il tono mesto dei dubbi in confidenza. In questo tempo complicato, esiste una questione psicologica, spesso, sopravalutata o ipovalutata, derisa, strumentalizzata e sottomessa alle mode e alle leggi del mercato. Le malattie mentali sono reali e le cause sono molteplici. Indago e mi impegno nello spazio di prevenzione di ogni persona fra la eventuale sovradiagnosi e lo scetticismo rispetto all’esistenza del disturbo psichico. Non è utile il negazionismo, né l’etichetta medica a tutti i costi.

Gli incontri formativi proposti dalla scuola di educazione Alla persona®, sono utili a ipotizzare e a orientare. Più che prevedere e calcolare i risultati di eventuali interventi medici e psicoterapeutici, mi occupo dell’orientamento psicologico, della predisposizione mentale, del corpo onesto e congruente dinanzi all’altro e alla situazione lavorativa.

Riprendo il pensiero di Roberta De Monticelli, mia filosofa di riferimento in questa ricerca: …“soggettività” ha finito per significare, perfino nella mentalità comune, “non oggettività”. Questione di soggettività, cioè questione “di pancia”, dicono alcuni, “di cuore”, dicono altri – ma sempre, allora, questione di sentimento. E il sentire resta soggettivo e relativo, il sentire non ha accesso a evidenze universalmente condivisibili, il sentire parla di noi e non della realtà, il sentire non ha alcuna apertura alla verità. Lo scetticismo pratico sembra ancora universalmente diffuso, per così dire: dall’estrema destra all’estrema sinistra. (pag.23)

Se il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali diviene un best seller, mi chiedo quante sono le autodiagnosi che alcuni utilizzano come strumento per boicottarsi e per offrire alibi. E mi rifiuto di utilizzare la professione di psicologa per classificare e ridurre in elenco le condizioni umane. Rilevo molte cattive abitudini sociali e aziendali, dall’assimilazione della persona, all’imposizione di sistemi per correggerla, alla segregazione perché, appunto, ritenuta disturbante e inguaribile. Rilevo che, talvolta, i sintomi manifestati sono periodali e possono non diventare un disturbo. La psicologia preventiva svolge il ruolo di guida e di sostegno, favorendo la lettura adeguata della realtà plurale. In alcuni periodi tutti rischiamo di ammalarci, ma non tutti, di fatto, ci strutturiamo nella malattia.

La vignetta dello spagnolo El Roto su Internazionale n.1499 recita: No necesitamos ayuda psicologica, lo que necesitamos es que no nos vuelvan locos! Non abbiamo bisogno di aiuto psicologico, abbiamo bisogno che non ci facciano diventare matti.

La psicologia formativa come prevenzione, quindi, è la possibilità di governare se stesse/i, di sentire, di pensare e di agire in libertà e in autorità. Ritengo ideologicamente offensiva la pretesa che le nostre vite debbano essere amministrate e rimesse in condizioni performative, senza registrare lo scenario complessivo in cui si manifestano le fragilità.

La diagnosi può diventare uno stigma, una copertura o una copertina che proteggono dalla presa in carico della realtà, indubbiamente complessa, e dalla fatica di affinare una mentalità ampia e includente. Le etichette escludono alcuni, mettendo al riparo tutti gli altri dalla responsabilità nell’apprendere il pensiero critico e il discernimento. Se tutti siamo matti, nessuno è matto e nessuno si interroga sulla cultura dominante che, evidentemente, continua a intossicarci. Invece, tutti e tutte c’entriamo con i malesseri psichici, con le fragilità umane, sviluppate maggiormente in alcuni contesti di ingiustizia sociale. Le psicoterapie di diversa scuola e la psichiatria non possono utilizzare il micropotere della diagnosi e della cura e ingenuamente schierarsi dalla parte del capitale e favorirlo, pur inconsapevolmente.

Rimango favorevole e disponibile a indagare, accogliere e accompagnare la conoscenza delle differenze emotive e cognitive di ogni percorso esistenziale di umana evoluzione. Più che la certezza di una diagnosi, serve recuperare come stile di vita, il lavoro interiore di coscienza e di conoscenza del proprio copione. Sono convinta che il senso dell’esistenza sia l’apprendimento, la curiosità, la scoperta di virtute e canoscenza. In mancanza, sopravviviamo nella brutalità dell’emergenza e del fanatismo.

La prevenzione psicologica significa promuovere interamente diverse possibilità di vita ecologica. La violenza e la corruzione, prima di diventare stili di comportamento e malattie gravi, sono visioni di vita rispetto a se stessi, alla relazione, al mondo.

Sono d’accordo con un pensiero di Rebecca Solnit, saggista statunitense, ascoltato in un’intervista: il nostro potere più grande non è nel nostro ruolo di consumatori (io dico consumatori anche di cure psicoterapeutiche e mediche), ma in quello di cittadini, grazie al quale possiamo unirci per cambiare collettivamente il modo in cui funziona il nostro mondo. Solo in questa ampia e globale prospettiva, la psicologia può partecipare alla cura.

In molti casi, che piaccia o meno, è solo (?!) la miserabile questione psicologica e sociale a rendere le persone infelici e ricattabili da parte del potere. Siamo fatti di corpo, di mente, di spirito e di cultura. E di cultura possiamo ammalarci. Culturale significa: ricercare il senso, ridarci le ragioni, costruire i pensieri complessi, guardare le prospettive diverse e opposte, sostenere i dubbi in agguato, i tempi lunghi, la solitudine, le relazioni di sano conflitto. Non ricordo dove ho letto che la cultura è legata al coraggio che in origine fa pace con il cuore, cor, prima che sia temerarietà e cambiamento.

Roberta De Monticelli afferma, riprendendo il pensiero del filosofo Nicola Chiaromonte che nessun individuo può essere giusto in una società ingiusta e che nessuna società può essere giusta se gli individui non sono giusti. La psicologia di rinnovamento si occupa di relazione, di scambio, di restituzione, di giustizia, di gratitudine.

Il possibile ostacolo che avverto nello svolgimento della professione è di natura politica. La filosofa lo scrive chiaramente: non ci vediamo più. Presi dal nostro stesso star male, non vediamo più come sta male il mondo, privo di valore, appiattito nell’indifferenza. Due fenomeni sono connessi, anche, alla condizione depressiva in cui molte persone vivono: la banalizzazione del mondo e la completa dissociazione della politica dall’etica, e perfino dalla logica. (pag.15)

Non è una diagnosi, più o meno certa, a dare senso all’assente o parziale lavoro di individuazione del sé, in un determinato contesto sociale. E non possiamo insistere nelle guarigioni magiche, nell’aspettativa illusoria di una vittoria improvvisa, di una soluzione unica del problema. Tutte le variabili sono interconnesse: psicologica, economica, sociale, politica, filosofica, ambientale.

Non assistiamo più a una crisi momentanea, come un malessere che ha un inizio e avrà una fine. Siamo in una vera e propria mutazione culturale.  E abbiamo bisogno di un altro modo di guardare le cose e gli abitanti della terra. Cos’è la normalità e la salute mentale? E attraverso quale processo definiamo – gli psichiatri definiscono – i criteri di diagnosi? Esistono davvero le devianze e i devianti? La dimensione psicologica e sociale, lo affermo da tempo, può essere fastidiosa o apparire banale, ma è il momento storico di considerarla nel peso e nel valore.

Nelle persone non esiste un interruttore da girare così di botto, perchè alcune convinzioni e comportamenti copionali continuano a svolgere un ruolo di protezione e solo lentamente possono essere affiancati e sostituiti da nuovi pensieri e atteggiamenti. E tutto il contesto deve partecipare alla trasformazione. Non modifico solo la narrazione, lo stile letterario, la strategia retorica o la tradizione dominante. Mi impegno a considerare l’interiorità, i contenuti, i sentimenti semplicemente umani, sciogliendo il dogmatismo valoriale, perché ci sono verità senza fine da scoprire. Senza depotenziare il disturbo psicologico e la fatica psichica, evitando interventi medicamentosi e riparatori al singolo, e aprendo a letture plurime dei sintomi che coinvolgono non solo chi se ne lamenta, ma tutta la società.

Al di là della retorica patriarcale della responsabilità personale che spinge le persone all’azione guaritrice e che le fa sentire sbagliate e matte, tenendole continuamente sottopressione, invito a iniziare un percorso di coscienza personale e di conoscenza psicologica, non certo come espressione di una virtù individuale, ma come un’azione collettiva; non perché pensiamo di essere speciali, anche nello stato di malessere, ma per una differente cultura acquisita.

Il mondo non viene salvato da individui eccezionali e solitari ma da comunità in trasformazione. Abbiamo bisogno di condividere sguardi filosofici, psicologici, artistici. Ed è attraverso la consapevolezza personale per scegliere, la capacità critica per riconoscere, il ragionamento per cambiare che possiamo affrancarci dai danni della cultura dominante e dai proclami del fondamentalismo e del pensiero libertario.

Rinnovamento è in definitiva l’aspetto assiologico della vita umana. Perciò dal punto di vista teologico quello che si chiamava “Spirito” è nella nostra tradizione fonte di renovatio mentis, è donum vitae. Per questo nessuna stagione è cantata quanto la primavera, e ogni sommovimento creduto positivo nella storia prende il nome di “primavera”. Il rinnovamento è una delle corde dei Salmi e l’anima stessa dei Profeti. La Pasqua cristiana porta questo tema al paradosso estremo. (pag.100)

Riferimenti per approfondire:

  • L’attenzione degli adulti, di Sophie McBain su Internazionale n.1496/2023
  • De Monticelli, Sull’idea di rinnovamento, Raff.Cortina, 2013

 

 

 

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L’apprendimento all’amore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Miriam Toews, la scrittrice e Sarah Polley, la regista rimangono fedeli ai fatti; il libro e il film registrano in trasparenza le vicende; i dialoghi e la scenografia rimandano alla gioia del testo. È la storia, accaduta tra il 2005 e il 2009, della comunità di donne, più di trecento, nella remota colonia mennonita, che si confidano un segreto drammatico: gli uomini per anni le hanno drogate e violentate con uno spray anestetico veterinario, ricavato dalla pianta di belladonna. Nel 2011, questi uomini, fratelli, cugini, zii e nipoti, vengono condannati a lunghe pene da un tribunale boliviano. Nel 2013, mentre i colpevoli sono ancora in carcere, viene reso noto che gli abusi sessuali continuano a verificarsi. Le donne decidono se restare e combattere oppure andare via. Il giovane August Epp, introverso, affidabile, fragile e tenero, stende i verbali delle riunioni, essendo le donne analfabete.

La dottrina mennonita pretende il ritorno alle origini della chiesa cristiana che giudica rovinata dal potere; rifiuta il battesimo e gli scritti dei padri della chiesa; pretende il pacifismo che, in realtà, è solo obbedienza e pretende di crescere santi che accolgano sacrifici e sottomissioni; combatte il lusso con l’esclusione sociale, accettando, in fondo, l’etica sociale calvinista.

Ogni partecipante, figlia, sorella, nipote, convivente, a modo suo, non esaurisce né le parole, né i gesti, pur dolorante, si racconta in gruppo, tenendo in conto anche le assenti, stanche e provate dalla fatica. Le donne che hanno votato favorevolmente per compiere il sacrificio di rimanere contano come le altre, hanno ragioni che tutte devono considerare, perché non è sempre vero che le bestie scappano dai loro aggressori. La violenza fisica e morale è l’espressione di un potere complesso nella sua fenomenologia. Le donne, in fondo, hanno tutto quello che vogliono, devono solo convincersi di volere pochissimo.

Spesso l’ordine delle cose è una costruzione mentale e la visione fallocratica può appartenere agli uomini quanto alle donne. La visione virile e predatoria del mondo è interiorizzata da molte persone e viene riproposta all’esterno come fisiologica. Non è mai semplice e scontato che una donna capisca il sistema reiterato del ratto e dello stupro e se ne allontani in tempo per non perdere la testa, il corpo e il cuore. Ci vuole il tempo, lo spazio e la compagnia accogliente.

Predate come bestie, ferite, non rinunciano a partire da sé e a confidarsi nelle emozioni, nei pensieri e nelle azioni. Il pensiero critico, l’ascolto, il ragionamento astratto e complesso non appaiono legati alla scolarizzazione, ma all’età psicologica e all’esperienza. Nel dolore, queste donne rimangono capaci di discernere, di argomentare, di trasferire e di condividere l’angoscia di morte, i desideri e i sogni frequenti. Nominano la vita quotidiana, creano il pensiero, attraverso le parole, attraverso la realtà e l’esperienza. Le donne del film non sanno di agire una pratica politica. Infatti, il pensiero della differenza parla della “politica del simbolico” e prevede, anche, la cura delle parole scambiate per dire di noi, del prossimo, della vita, del mondo. Se le donne apprendono il diritto alla parola, possono scegliere.

Le giovani e le anziane mennonite sono libere ancora prima di decidere l’allontanamento dalla colonia perché si riconoscono, si vedono, si ascoltano e scambiano sentimenti e riflessioni. Devastate nei corpi e nelle anime, ricominciano dal corpo e dall’anima a immaginare e ad organizzare la speranza. Non sanno se perdoneranno gli uomini per gli abusi ripetutamente subiti. Capiscono bene, però, la necessità di costruire la distanza definitiva dai luoghi e dalle situazioni manipolative. Dopo, potranno liberare le menti dei bambini, di tutti i figli piccoli, colonizzate dall’ideologia patriarcale dominante. Liberano se stesse per liberare anche gli uomini. Dobbiamo proprio sbrigarci… Ma non stiamo scappando… Non siamo ratti in fuga da un edificio in fiamme.

Luisa Muraro parla della tecnica della schivata: se una montagna sta per caderti addosso, scansati. Maria Teresa Romanini diceva di apprendere la Protezione di sé, in primis. Se le donne si proteggono, se si offrono il Permesso di allontanarsi, di schivare la violenza, possono considerare il Perdono, per sé e per gli altri. Non dimenticano, ma donano a se stesse la pace e una diversa possibile comunione con le altre e con il mondo. Ci vuole la Potenza, è così che le donne riprendono la forza, l’energia vitale, ricordando e raccontando, confliggendo e dubitando. Assieme. Niente è scontato: gli assiomi religiosi, filosofici, legislativi, sociali possono essere ripensati e riletti da prospettive nuove e molteplici. Sento fra queste donne che hanno arte e parte, l’élan vital di Henri Bergson, contro il positivismo e l’evoluzionismo darwiniano.

Possono, assieme, riscrivere e trasformare il copione di violenza e di morte. Primitive e lucide, sanguinanti e decise; piangendo, idratano gli occhi e vedono meglio, con amore per sé, per le figlie e i figli. Le une con le altre non utilizzano la persuasione che, spesso, sconfina nell’utilitarismo della comunicazione manipolativa. Si mostrano nell’autonomia dell’io e, di conseguenza, offrono l’autonomia dall’io, verso una dimensione relazionale collettiva. Nessuna dice di avere la coscienza a posto, mettono in dubbio il dubbio stesso, vivendo in se stesse la contraddizione dei sentimenti e dei pensieri. Non si schierano e non si adulano ipocritamente: la lusinga, l’ossequio, l’invidia sono forme di vanità sociale ed è la richiesta infinita rilanciata attraverso i social. Quando ci saremo emancipate, dovremo chiederci chi siamo… È esatto dire che ora come ora noi donne ci stiamo chiedendo qual è la nostra priorità, e cos’è giusto – proteggere le nostre figlie o perdonare ed entrare nel regno dei cieli?

 

Le donne, nel romanzo e nel film, si vogliono bene e desiderano il bene, accolgono l’altra per come è, anche in assenza; chi c’è, nella riunione parla e costruisce l’intimità e lo scambio simbolico e generativo anche per le altre, bisognose di tempi diversi di apprendimento. E le vedo, ci vedo, oltre le lacrime, i denti finti ingombranti, i vestiti logori e sciatti, le scarpe sfondate e scomode, oltre le leggi del patriarcato, della sottomissione e dell’esaurimento mentale. Noi donne siamo artiste… Agata prende la mano di Ona che prende la mano di Salomè che prende la mano di Mejal che prende la mano di Neitje che prende la mano di Autje che prende la mano di Mariche che prende la mano di Greta che prende la mano di Agata.

L’apprendimento all’amore è faticoso perché chi ama assume il carico, leggero e pesante, della diversità e della storia altrui. La relazione sana non serve a guadagnare rapporti di potere personali e non è una proiezione narcisistica di sé. Nel libro e nel film, gli abusanti non compaiono, otto sono già in carcere, ritengono di sentirsi offesi e alle donne viene richiesto di perdonarli.

Il narcisismo è una patologia, i maschi costruiscono mostri sulla base delle proprie frustrazioni e credono davvero di aver subito, loro, un terribile affronto. Torneranno nella congregazione e la cauzione verrà pagata perché gli uomini si coalizzano e si salvano fra di loro e non si accorgono, basici, ignoranti, bugiardi, malati, di essere già morti. Da soli. Qualcuno si suiciderà.

La vita era l’unica cosa. Migrazione, movimento, libertà. Vogliamo proteggere i nostri figli e vogliamo pensare. Vogliamo conservare la nostra fede. Vogliamo il mondo. Vogliamo il mondo? Se sono fuori dal mondo, se la mia vita è fuori dal mondo, fuori dalla mia vita, se la mia vita non è nel mondo, allora che senso ha? Insegnare? Ma insegnare cosa, se non il mondo?

Le donne nel fienile mi hanno insegnato che la coscienza è resistenza, che la fede è azione, che il tempo stringe. Ma la fede può anche essere tornare, restare, servire? Ma ai campi è di grande aiuto anche chi, volgendo in obliquo l’aratro, frantuma di nuovo le zolle sollevate con la prima aratura. 

Note:

  • Le parole in corsivo sono tratte dal libro: Toews, Miriam. Donne che parlano (Gli alianti) (Italian Edition). Marcos y Marcos. Edizione del Kindle.
  • Luisa Muraro è una filosofa, docente all’Università di Verona, studiosa del pensiero femminista, è stata tra le fondatrici di Diotima e della Libreria delle donne di Milano.
  • Maria Teresa Romanini è stata medica, neuropsichiatra infantile, fondatrice della Scuola Superiore “Seminari romani di Analisi Transazionale” e mia analista.

 

 

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Nel nome musicale di Idrusa. A ricominciare.

 

Sono affezionata a questa ultima pubblicazione di Camminamenti, Di bellezza non si pecca, eppure. E come ogni lettura perturbante, nel panorama omogeneo dei testi che non danno alcun disturbo, ho custodito per mesi i pensieri che si vanno ancora componendo.

Non posso che ricominciare dall’arte, come via di liberazione e di approfondimento, nel segno di Idrusa, la donna ribelle otrantina per antonomasia che rifiuta le convenzioni della sua comunità. I linguaggi della poesia e della musica liberano e favoriscono l’esperienza psichica profonda. E rimango in ascolto protetto, assorta in solitudine, nella marginalità riflessiva, con le parole, con le note del maestro Claudio Fabi e i versi di Marthia Carrozzo che tormentano e che pacificano.

E penso che in ogni incontro formativo ogni partecipante accetti l’incontro casuale, trasformandolo in una benedizione di crescita personale e di comunità. La relazione di scambio sana, paritaria nella dignità delle due o più persone interlocutrici, evita i salvatori da banco, pronti a presenziare e a mostrarsi utili. Torno spesso sulla figura del salvatore psicologico, subdola e socialmente accettabile, più della vittima e del persecutore che rimangono identificabili facilmente.  In qualunque situazione, il salvatore è l’ingombro funesto, pronto a infilarsi per aiutare come dice lui, per fare, fare, fare qualcosa, rivolgendo le luminarie pacchiane verso di sé.

Così la relazione fra la poeta e il musicista esprime il bene per sé, per il prossimo in assenza o in presenza, per l’intero contesto. Lui è maestro, lei è maestra e non cercano adepti, favoriscono la parte luminosa di chi c’è, di chi sceglie di creare sintonie. Come negli incontri formativi, le parole, i suoni, i gesti sono sempre musicali,  riuscendo a vedersi e a vedersi con gli altri e le altre, evitando gli assolo.

Se non c’è la richiesta non c’è coscienza di sé e non è il tempo di offrire qualsivoglia aiuto e nota poetica e musicale. Le parole, i versi, la musica rimangono pronti dinanzi ad un cenno che dichiari l’intenzione anche minima di introspezione. Fra i suoni segreti e i ritmi poetici riscopriamo l’armonia del vivere. Nutro una personale avversione verso i salvatori, artisti virili anche quando sono donne, per la particolare attrazione pericolosa verso l’illusione di salvare il mondo. Richiamo il pudore dei silenzi: la contemplazione è frustrante per l’onnipotente. Sono convinta che il fine dell’incontro artistico o formativo rimane la relazione.

Lontani da leggende, bufale e rumors che fanno soffrire un’arte moderna che stenta a essere visibile e riconosciuta dalla maggioranza omologata, mi predispongo all’incontro nel silenzio- Con Marthia Carrozzo e Claudio Fabi ascoltiamo la musica, leggiamo le interazioni in confidenza, gli scambi di prospettive, i versi che affondano, che non ci lasciano in pace, di due artisti non trasformati in gadget e in santini da tv. Incamminarci su certe vie presume l’incontro solo di certe persone. Ascolto le riflessioni, le note e i versi che rimandano all’origine dell’autocoscienza. Il dialogo e l’intervista, assieme, rivelano, in fondo, l’arte del ragionamento, dando potenza l’uno all’esperire dell’altra. La reciprocità si apprende dal lavoro sistematico con se stessi e dalla relazione.

La musica accompagna le parole e le ricrea con luce nuova; assieme smascherano gli imbrogli, demistificano l’ideologia e non possono essere addomesticate da qualunque potere. L’energia trasmessa dalla relazione artistica spinge il cambiamento verso la comunione. La poesia e la musica, dunque, non come un gioco estetico, ma come un percorso di risonanza che narra e cura, come i gesti psichici che incontrano le trasformazioni profonde.

Ogni essere umano custodisce e manifesta Idrusa come parte di sé scalza, in vite movimentate, minime e velate. La leggiadria del corpo è comprensione attraversata dalla lettura psicologica e filosofica e persiste nello sguardo di meraviglia e di curiosità, sguardo poetico e musicale, sguardo d’arte. Il respiro dell’intervista è internazionale perché le voci partecipanti collaborano alla visione di una umanità che riporta a se stessa e che ritrova le ragioni nell’intesa fra umani. A differenza delle contaminazioni psicologiche dannose, le contaminazioni artistiche possono essere sane aprendo così prospettive e scenari molteplici. Condivido con Marthia, la convinzione che l’arte è politica, incontrando ogni persona nel suo nucleo intimo e nel suo fondamento comunitario. Durante il percorso esistenziale partiamo dall’attenzione al corpo per allontanarcene e ad esso ritornare con sempre maggiore accuratezza e profondità. Non di solo cura si tratta, ma di responsabilità nell’assumere ciò che siamo e che diventiamo, oltre le categorie, abusate dal sempre vecchio capitalismo, di utilità, di prestanza, di virilità armata. La poeta e il musicista nominano e si fanno nominare l’un l’altra.

Ogni apprendimento, emotivo e cognitivo, passa attraverso il corpo, necessariamente. Ce ne accorgiamo di più, con l’età che avanza. Il discorso formativo è così, si costruisce naturalmente e pensosamente, in uno scambio in cui la differenza è ampliamento e generatività. L’opera è questa dinamica fra due con altre presenze umane, originali e l’evento manifesta l’armonia del sentire, del riflettere, dell’agire assieme. Può accadere, la chiamo noità, la riconosco nel risveglio, nella forza interiore che risento. È la presenza che continuiamo a sentire, senza darci appuntamento, se c’è stata anche per un attimo la scintilla di intimità e se abbiamo voluto riconoscerla, trattenerla, nutrirla. Oppure, niente, dopo ore di aula o di palcoscenico, a comunicare cose, nomi, luoghi, assiomi, fatti. In aula, ogni volta, non conosco alcuno ed è la magia d’intesa, non conosco e so chi sono e chi sei.

“Sembra venire da fuori, ma che deve venire da te, deve avvenire dentro di te”, afferma il maestro Fabi ed è questa la cifra della universalità della musica, di un verso, di un incontro. Riconoscerci autocentrati per sciogliere l’inganno dell’io autocentrico, l’io narcisista che, pur tecnicamente e metodologicamente ineccepibile, non fa la differenza, non crea. Rimane la retorica di una gestualità inadeguata, tronfia e ampollosa, ridicola, sul palco e in aula. La formazione può essere classica o jazz o rap, punk, rock, pop, non per il look, ma per la fatica del processo di individuazione di sé il quale nasce dal basso, nasce dal proprio corpo e dal corpo sociale.

La poesia e la musica come forme d’arte hanno un significato se ce ne lasciamo pervadere così come è accaduto all’artista quando, dice Jung, “egli ha toccato quella profondità psichica salutare e liberatrice nella quale ancora nessuna coscienza singola si è isolata, per seguire la via degli errori e del dolore, dove tutti ancora sono presi dallo stesso ritmo, dove l’agire e il sentire del singolo si ripercuotono ancora sull’umanità intera”. (C.G. Jung, “Psicologia e poesia”, tr. it. in Opere, vol. x, Boringhieri, Torino 1985, pp. 377-378).

 

Ph. Fonte Silvia Meo

La consolazione di rinascere

Ph. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente.

Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, 2021, pag.18

 

In questo periodo, l’invito è a recuperare la propria nascita, a ritrovare l’umano nei pensieri, nei gesti rituali, nei sentimenti affinati con la riflessione. Smetto di oggettivare la persona e di soggettivare la patria, smetto la voglia mortifera della testa mozzata del nemico piantata sul palo. Nelle parole, scelgo di risparmiare il sangue, a favore dell’autorità di ognuno/a, riconosciuta nella relazione di scambio. Desidero la testimonianza come pedagogia, la ricerca come incontro, la divisa come antidoto alla vanità.

Non possiamo nascere di nuovo, nascere da zero; l’augurio è di nascere presso di sé, più intimi a sé. Il lavoro è riappartenerci, con la memoria, con la lettura diversa dei ricordi, con la scoperta della forza interiore, con il riconoscimento della realtà come guida.

Stig Dagerman, scrittore svedese che apprezzo, è convinto che il bisogno di consolazione dell’essere umano non possa mai essere soddisfatto. È vero, aggiungo che la coscienza della malattia e della morte possono aprire e illuminare la quotidianità, se riconosciamo la potenza dell’alterità. Voglio dire che provvedere alla creazione di me come servizio e come comunità è la cura all’insopportabile, è il sollievo alla ferita, è la risoluzione.  La disperazione esistenziale di Dagerman e nostra, la disillusione, la precarietà, la violenza strutturale esistono e costituiscono la realtà. Ci conviene curare l’ossessione più che di vincere, di veder perdere, «perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà».

La consolazione è imparentata con il solstizio, con il calore e con la luce del sole; dies natalis solis invicti, è la festa di rinascita del sole, è il privilegio di un Dio che sceglie di rinascere umano. L’evento è astronomico, religioso e psicologico: la notte, proprio nella sua massima oscurità, cede alla luce.

Il testamento spirituale, scritto nel 1952, del nostro giovane autore suicida, svela che la libertà e la felicità anelate non si misurano a partire dalle prestazioni e dallo sguardo esterno di un giudizio intransigente che, necessariamente, prevede una storia altrui, differente. Benedire ciò che siamo, senza essere violati/e, nel contesto in cui viviamo, che è raggiungibile e può essere sottratto al dominio, attraverso le sciagure e le beatitudini. Il desiderio sotterraneo espresso nel testo di Dagerman è la bellezza di una comunità di viventi, nell’amarezza e nel disgusto di incomprensioni profonde.

Non considero il Natale solo una data, ma un processo di cambiamento, anno dopo anno, di letture nuove, di formazione in clandestinità, come un eremitaggio, lontana dai funzionari dominanti, dai parassiti e dai cortigiani. Mi impegno a recuperare le ragioni della nascita e il respiro dei corpi liberati assieme. Ad avvertire sempre l’impatto simbolico poco rassicurante dell’uno/a al comando che non preveda benefici per tutte e per tutti. A riconoscere la volontà potente unicamente come responsabilità verso la comunità. A essere pacificata con me stessa più che a trionfare nella competizione fallica. La consolazione della nascita è, in fondo, il bene degli sguardi, delle voci, dei doni.

A me non basta sapere che ogni cosa può essere scusata in nome del servo arbitrio. Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione. Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione. (pag.13)

Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente di umano può essere perenne? E che consolazione miserabile, da arricchire solo gli svizzeri! Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso, sentire la morte che mi accerchia. È nel fuoco, in tutti gli oggetti taglienti che mi stanno intorno, nel peso del tetto e nella massa delle pareti, è nell’acqua, nella neve, nel calore e nel mio sangue. Cos’è allora la sicurezza dell’uomo se non una consolazione, che riesce solo a ricordarci ciò che vorrebbe farci dimenticare! (pag.14)

 

ph. Fonte Silvia Meo

L’avventura umana

 

 

 

 

 

 

 

PH. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

Raccoglimento e meditazione, in una domenica di Avvento, per l’avventura umana di Gesù, attraverso il racconto di uno scrittore amato, Giosuè Calaciura. La fascinazione collettiva verso la figura dei Vangeli diviene causa e origine di una ricerca psicologica, dalla preadolescenza all’adultità. Sono diciassette anni, di luoghi e di esperienze, inesistenti nelle Scritture, e di questo vuoto l’autore approfitta per creare e rappresentare una benevola e nuova antropologia dell’essere umano, di Gesù. Attraverso i deserti, le guerre, la fame e la sete, attraverso il carro di improbabili saltimbanchi, l’avventura umana si dipana, nella coscienza della solitudine e dell’abbandono.

Ricordo i ragazzini di Elsa Morante, disubbidienti e bugiardi, i minori visionari che rischiano diagnosi psichiatriche, animati dall’immaginazione, dalla percezione trasparente della realtà e da una mentalità rivoluzionaria. Sono rivoluzionari perché credono nella umanità degna di relazioni. Felici pochi e infelici molti, come il Gesù quattordicenne, un ragazzo brigante, solo, tradito, derubato, picchiato, a capire il senso dell’esistenza, con la fatica, con le lacrime, con il sangue, con l’amore. Ritrovo la sensibilità di un giovane uomo differente. Non incontro il Gesù virile, mitico e miracolante, ma un giovane che si incammina verso la propria individuazione, un figlio qualsiasi che avverte la genitorialità, come deve essere, assente, lontana, silente. Nel racconto di Calaciura, Giovanni, Barabba, Lazzaro, Marta e Maria sono incontri, sono persone che partecipano alla formazione di Gesù, verso il mondo, come i nostri ragazzi, con libertà, con responsabilità.

Goffredo Fofi, nella prefazione al libro di Morante dice che l’esercizio del potere è un vizio degradante, un vizio che rende ciechi alla realtà: questa è la persuasione che avrebbe dovuto fare della rivolta dei ragazzini una svolta. E ritrovo questa idea nel respiro ampio della scrittura di Calaciura che decide di far credito all’adolescente, decide di fidarsi, di far prevalere il suo volere.

La storia di Gesù adolescente è commovente perché rimanda ai volti, ai silenzi, ai dubbi, ai desideri e alle rabbie giovanili. È questa l’idea trasformativa di preadolescenza, di adolescenza e di postadolescenza in cui maturo le mie riflessioni. E di questa idea mi preoccupo nella consulenza che molti genitori richiedono. Tutti e tutte abbiamo il privilegio di accompagnare i minori, come figure diverse genitoriali, ad allargare la possibilità di divenire quello che noi stessi/e siamo, accompagnando la natura, assistendo e coltivando, generando e custodendo, tacendo e soffrendo, per cautelare e assicurare la crescita libera dell’altro, con i suoi tempi e nei suoi spazi. Senza lo stigma di una diagnosi esterna che non rassicura nessuno. Ogni giovane è questo Gesù che Calaciura racconta, “estremo e imprevedibile”, “selvaggio e incoercibile”, “ribelle e impertinente”, “un ragazzino smarrito, smanioso di autonomia e già consunto dalla fatica della libertà”.

Dunque, l’Avvento si manifesta nella ricerca e nello svelamento dell’avventura umana, nella meraviglia e nell’accoglienza della diversità, nel viaggio di liberazione.  Giungere a salvamento non prevede alcun personaggio salvatore, ma è la pratica quotidiana di comprensione di sé, in una realtà. Maria è la madre silenziosa, che accarezza con lo sguardo e capisce oltre la superficie del quotidiano doloroso: “Il solo nemico è lui stesso”. È questo lo sguardo di liberazione sull’essere umano in crescita, è lo sguardo di chi smette di fare la madre, l’insegnante, il prete e di chi, innanzitutto, sceglie la cura, in assenza e in presenza, della propria idea di mondo e di relazione.  L’adventus può diventare la preparazione, l’attesa, l’arrivo di molte nascite, non una volta per tutte, semmai, nascite in continuo rinascere. E la Parola di Dio – suggerisce la teologa di mio gradimento Adriana Zarri – detta dall’essere umano, è anche la parola dell’essere umano e di questi ne assume i condizionamenti. L’Avvento è una predisposizione psicologica, a consentire che accada, è un cedimento, è un impoverimento dell’azione. Dinanzi ai figli e alle figlie, prima del nostro fare, c’è il nostro attendere.

Sono loro a intuire il futuro, i ragazzi ostili e teneri che non pregano e non credono. “Paura, fatica e perplessità su un piatto della mia bilancia. Sull’altro, solo faticosa speranza”, dice il ragazzo Gesù. In ogni percorso esistenziale esiste un’armonia da riconoscere e da rispettare; non è il destino, è il senso della vita di ogni persona, è il percorso da compiere ognuno/a per sé, a svelare un po’ per volta la forza e la profezia.

Il giovane Gesù del romanzo ci insegna che “tradimento è gettare via i sogni e la fantasia, la scommessa naturale lanciata da ogni madre mentre accarezza il volto neonato della sua creatura”. E ci confida: “Ma in realtà, se devo interrogarmi, nel fondo del mio animo avvertivo il senso di liberazione, una leggerezza di uccello, la certezza che si viene al mondo solo per abbandonarlo.”

E riprendo, in conclusione, da Morante: “A quanto pare, d’anno in anno / i Felici Pochi diventano sempre più pochi/e sempre più infelici. / E si capisce: / gli Infelici Molti sono troppo affaccendati / a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare propagandare / la loro enorme indispensabile felicità / per darsi pena dell’infelicità superflua / minoritaria / dei Felici Pochi.”

 

 

Riferimenti:

Ph. Fonte Silvia Meo

a lettere minuscole

 

Qualche giorno fa, il 17 novembre, ho onorato i 40 anni di laurea, donandomi la partecipazione alle lezioni, Le donne pensano: Nuove ghinee, condotte dalla filosofa Annarosa Buttarelli, presso la storica Libreria delle Donne di Milano. Mi offrirò tutto il tempo che servirà per ritornare sulle tematiche e sulle argomentazioni complesse, sui riferimenti numerosi a testi e idee, sull’esperimento di pensiero che l’Accademia propone attraverso la sua Direttrice scientifica.

Adesso, appena spenti il microfono e il video, ricordo un particolare, un appunto sulle lettere minuscole delle parole. Buttarelli, seguendo il quarto volume dei Quaterni di Simone Weil e oltre la tradizione metafisica, come da Nietzsche in poi, ragiona sul Bene e gli toglie la maiuscola, per evitare, anche, le definizioni consolidate e ipocrite della morale. Dunque, rimane il bene, al di fuori di ogni morale, anche per i credenti, il bene nella relazione o niente, il bene concepito come atto comune e in comune, come gesto scelto e dimenticato, “senza lasciarti trattenere da colui che hai salvato” (Françoise Dolto)

La questione segnala aspetti fondamentali di una psicologia con la lettera minuscola, senza alcun potere sulla persona, senza le forzature interpretative, senza la richiesta di una rivoluzione obbligatoria, anche in un contesto aziendale. Minuscola risulta l’azione quotidiana e minuscolo è il movimento che testimonia la coscienza, lo spirito di servizio, il lavoro di ricerca e di comprensione del copione.

Confermo la lettera minuscola ogni volta che nomino la donna, il bene, l’amore, lo studio, la comunità, la vita. La lettera minuscola offende, come deve essere, il modello del vero Amore, dell’Uomo vero o, peggio, della Madre vera, del Bene assoluto, della Laurea in Psicologia. Credo in una psicologia con la lettera minuscola che rimandi all’analisi personale, allo scarto, alle periferie, all’intimità e alla fatica del ragionamento. Assumo il rischio di una parola psicologica che risulti una banale traduzione degli assunti filosofici a cui rimanda. Indago le espressioni di una psicologia e, quindi, di me psicologa, che proponga bene, il bene e che assuma il male non come nemico esterno, ma come una possibilità in ciascun essere umano.

Ripenso all’idea stessa di cura, di risoluzione del malessere psicologico e del corto circuito relazionale. Non lavoro per riportare la marginalità al centro, ma per viverla lì, dov’è e com’è. Non perché l’io ritrovi la sua appagante soggettività, ma perché io stessa ne apprezzi la fallibilità, in ogni colloquio. Non perché l’altro guarisca, funzionale al sistema, ma perché sia libero in un mondo che contenga anche la sua differenza. Continuo a proporre incontri psicologici attraversati dal pensiero artigiano. Chiamo così, pensiero artigiano, l’energia relazionale liberata dalle prove di virilità, l’energia della gioia e della sofferenza, della leggerezza e della profondità vissute assieme, senza lo sforzo che una delle due prevalga, combattendo, sull’altra.

Nelle relazioni di coppia, aziendali, familiari, nella stanza della psicologa, il minuscolo della parola spegne le luminarie appariscenti, predispone al silenzio, al vuoto, alla distanza, alla mancanza che non sono il nulla e non dichiarano il fallimento. Indicano la semina avvenuta più che il successo raggiunto e segnalano la predisposizione, l’orientamento continuo al cambiamento e non il successo conquistato una volta per tutte.

Minuscolo è il battito d’ali della farfalla che esprime la possibilità dell’uragano dall’altra parte del mondo. Minimo è il movimento che può risultare trasformativo. Invece, il contratto patriarcale, sociale e privato, valuta come perdente, inefficiente, tardivo, qualunque risultato che rallenti la sconfitta dell’altro, che si tratti di mercato, di prossimo, di passo. Nel mondo del lavoro, l’efficienza e l’efficacia sono considerati il binomio valutativo originario, confermando i codici di dominazione e di sottomissione sottintesi, infondo, come indispensabili, per comandare e  per vincere.

E ritorna la scuola di educazione Alla persona®: in ultimo, ho scelto di cambiare le lettere da maiuscole in minuscole, a risignificare il lavoro oscuro, lento, minuto, trascurabile, impercettibile intorno alle relazioni e alle persone che non sono categorie intellettuali, ma esprimono la realtà sociale, fra la carne e il potere. La preposizione Alla rimane in maiuscolo, indicando con la luminosità della lettera grande, la via e il verso. Dico meglio: Alla è la preposizione che indica una causa e uno scopo, un tempo e una direzione precisa: ogni azione è scelta verso la persona, a causa della sua esistenza, a favore della sua crescita, incontro al suo tempo di evoluzione, nel modo in cui sa e può apprendere. La preposizione Alla indica la strada da compiere verso la consapevolezza, rappresenta il senso sociale della propria presenza nella comunità e della presenza dell’altro.

L’attività psicologica si realizza intorno al bene e al buono, da indagare nelle proiezioni personali e nelle strutture mentali e sociali. Dopo 40 anni, ritorno alle domande fondamentali. Rifletto spesso su un testo di Annarosa Buttarelli, Maledire, pregare, non domandare, in La magica forza del negativo/Diotima, Liguori Editore, 2005, pp.35-51:

“Per tornare al punto: non è dunque possibile, a mio giudizio, identificare il lavoro del negativo con il male. Di fronte a questa consapevolezza per me c’è sempre stata inquietudine, ma anche curiosità, perché quando il male mi raggiunge, quando qualcuno o qualcuna ci fa del male, quando qualcosa fa male fuori della nostra portata trasformatrice, cosa accade? E ora soprattutto la domanda è: cosa faccio, come hanno fatto le molte donne che non si sono regolate costruendo etiche e non si sono fatte proteggere dalla consolazione delle buone azioni a tutti i costi? Il problema, abbiamo visto, consiste nel saper ritirare la volontà di pensare alle cause ultime e di correggere, di dominare il male contingente ritenendolo un errore da trasformare con la nostra benevolenza. Inoltre, in mancanza di morali e di prescrizioni etiche, si mostra anche l’altro lato dello stesso problema: come evitare di rendersi complici del male contingente, e anche come evitare di aggiungere male al male, come sarebbero ad esempio la risposta suicidaria o omicida? Cosa ci resta?  Ci resta il lavoro del negativo – una forma di passività – che può fare  molto di più dell’ingombrante volontà positiva.”

 

Sprucida

Sprucida

Ph.Fonte Silvia Meo

Ph.Fonte Silvia Meo

“Ebbe un attimo di paura: paura di lui, paura di se stessa; subito però si scosse sdegnosa, pensando ancora una volta che era padrona di sé e della sua sorte, che era stata abbastanza serva degli altri e non doveva rendere conto di nulla a nessuno.”

Sono le parole di Marianna Sirca a sottolineare come la struttura, la visione del mondo, sempre, è quella degli uomini. Le norme, le narrazioni, le punizioni, sono concepite dal potere virile, oggi come nel 1915, anno di pubblicazione del romanzo, ambientato nella Sardegna barbaricina. Grazia Deledda dà conto della famiglia disfunzionale, il più delle volte patriarcale, del sistema autocratico e profondamente regolamentato, in cui il desiderio delle giovani donne viene soffocato precocemente.

All’inizio, nessuna, come Deledda, può comparire con il nome, con il volto, con il pensiero libero: Ilia di Saint’Ismail fu lo pseudonimo della scrittrice. I temi della narrativa deleddiana sottolineano l’importanza dell’autocoscienza e della trasformazione psicologica ed esistenziale. I tempi e i luoghi della protezione di sé sono numerosi e imprevedibili: registriamo che, ad un certo punto, fra la sofferenza e il contesto reale, fra la colpa e l’amore, le donne decidono di prendere la parola e così inizia la trasformazione per se stesse e per i/le loro compagni/e, mariti, sorelle, fratelli, figli/e, amanti.

Nel romanzo, il triangolo padrone/servo/bandito, oltre che indicare i ruoli sociali, diviene caratteristica psicologica e modalità di esistenza. Le donne come Marianna, sono escluse dal contratto sociale e sono ridotte al contratto matrimoniale, vivono da serva, da padrona e da briganta, vivono da latitanti, nella solitudine esistenziale, come uno spaesamento nell’universo. Sola, dice di sé Marianna, come la fiera nel bosco. «Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci».

Da psicologa artigiana registro, in quarant’anni di attività, come lo sguardo della psicologia favorisca il patriarcato, spesso con il volto femminile, spesso inconsapevolmente. Senza le donne e gli uomini maschiliste/i, il dominio patriarcale non durerebbe così a lungo. Riconosco la forza e la profondità del sentire dolce e disruttivo di molte donne che, scegliendo di raccontarsi, rileggono la storia di tutti gli esseri umani. Donne e uomini che si offrono il permesso di divenire ciò che sono e di opporsi alla riduzione di sè.

È sempre tempo per attivare il pensiero e per trasformare le azioni minime quotidiane. “Sei pazza” o “sei una cattiva madre/lavoratrice/moglie”: non serve metterci a discutere quanto sia più o meno falso e non serve difenderci rilanciando le interazioni. Molte donne tacciono dinanzi alla calunnia, alla diffamazione, alla voce sfidante, per proteggersi, perché non interessa la scelta bellica. Sprucide appaiono, arroganti e, io stessa, in età adulta, anche a causa della claudicanza, rischio ancor più lo stigma dell’acidità e della scontrosità.

Presso il mio studio ragiono con le persone e, assieme, con ironia, ci permettiamo, anche, di sragionare, di seguire percorsi di pensieri ignoti e ignorati. Non è snobismo e non siamo sprucide: è un ritiro patito e fisiologico nelle riflessioni e nelle prospettive differenti, nei sottosuoli, nelle trincee delle nostre vite. Gli incontri rivelano un mondo in disparte, minimo, ma conosciuto a chi acquisisce la sensibilità all’autocoscienza. Coltiviamo più pensiero critico, più forza, più discernimento. Spesso, molte persone, per amor di pace, compiacciono e rinunciano alla parola oppure, allontanando da sè l’ipocrisia, definitivamente si tacciono. La loro azione finisce per essere fraintesa dall’occhio del padrone o per essere immaginata dalla sua parte. Diveniamo complici, diciamo per amore, ed è invece assuefazione al moralismo del senso di colpa.

Sono convinta che sia il potere a decidere la memoria storica, a decretare il torto e la sconfitta, a tramandare il racconto con il modello del vincitore. Al contrario, credo che la potenza relazionale possa ritrovare le ragioni degli eventi passati e riconsiderati. La cultura dominante svilisce intenzionalmente il servizio, allo scopo di mantenere la subordinazione, e chi svolge una professione di cura, di presa in carico, viene considerata inferiore, inutile, pericolosa. Ma lo spirito di servizio non coincide con la subordinazione. La resistenza è possibile attraverso la protezione di sé che viene spesso scambiata per egoismo. Invece, è potenza autoaffermativa. Ritrovo la potenza autoaffermativa in una intervista di Antonio Gnoli a Luisa Muraro, la filosofa del pensare la differenza.

I desideri e le proposte di trasformazione sono possibili attraverso le pratiche di libertà quotidiana, attraverso la testimonianza di ogni scelta personale e lavorativa. L’indignazione, il rigore e la misurazione della realtà svolgono una funzione vitale di autoprotezione, vigilando sulla vulnerabilità del sé. In certi momenti, tutti sono tenuti lontani, funzionando come uno schermo per la coscienza ferita.

Grazia Deledda, ritirando il Nobel nel 1927, nel suo discorso, parte da sé, nomina la famiglia, “composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi”: riconosce la forza e l’autonomia nel legame con la natura, con la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria. Anche lei, giudicata come sprucida dalla cultura dominante del suo tempo, si è rimessa al mondo, si è rigenerata, partendo da sé, dai suoi studi, dai desideri.

“Nulla le mancava: eppure ripiegata su se stessa, si guardava dentro, con piena coscienza di sé, e vedeva un crepuscolo, sereno, sì, ma crepuscolo: rosso e grigio, grigio e rosso e solitario come il crepuscolo della tanca.”

Riferimenti:

Grazia Deledda, Marianna Sirca, Edizione del Kindle

https://www.fondazionefo.it/rassegna-stampa/il-discorso-saggio-e-toccante-di-grazia-deledda-quando-ritiro-il-nobel-nel-1927/

https://www.repubblica.it/cultura/2014/05/12/news/luisa_muraro_ho_lottato_con_amore_per_le_donne_ma_l_egoismo_la_mia_vera_forza-85907256/

 

Ph. Ennio Cusano

L’amore, nella realtà

 

 

 

 

Incontro libri diversi, ciascuno come un capitolo di una narrazione unica, di un pensiero sempre più scarno e più profondo. Rimango nell’attesa: potrà sempre accadere la possibilità nuova di un conflitto, nella comunione di una visione allineata. Attendere è una posizione esistenziale, una modalità di abitare i tempi e i luoghi.

A differenza dell’attesa dura, povera e patriarcale di Giovanni Drogo, nella fortezza Bastiani di Buzzati (1) e a differenza dell’attesa inconsapevole, ingenua e spontanea di Tululu, il personaggio di Mattioli (2), la figura di Génie la matta resiste, esprime la forza, piegata nella certezza della scelta cosciente e della condizione ineludibile.

Inès Cagnati, morta nel 2007, figlia di immigrati veneti e insegnante in Francia, è una scrittrice che convince. Rifiuta le luci finte dei salotti letterari che sceglie di non frequentare e, in tutta la sua opera, indaga i margini dell’esistenza. Le persone narrate sperimentano la vita senza ancore di salvezza.

… la chiamavano Génie la matta perché non parlava, ma lei non era matta, semplicemente non parlava e non rideva. (p.97)

La violenza subita, il silenzio di un dolore legittimo, l’attesa, la maternità: per una donna, talvolta, l’unica uscita possibile è fare la matta. E nelle società irrisolte e bisognose di cataloghi e di controlli, i matti sopravvivono come capri espiatori. Le matte come Génie accettano il ruolo perché la follia di tutti rimanga fuori. Se sei matta, la società può assicurarti la vita, perché sei una garanzia di normalità per tutti gli altri.

La gioia delle donne dinanzi ad una scelta è sempre un po’ triste, perché il passo dichiarato verso la liberazione di sé, tiene conto del contesto, degli altri e delle altre. La gioia della libertà e dell’autorità, nella parte dell’ombra, custodisce il senso del tradimento, della colpa e della tentazione di dover salvare l’altro dal dispiacere, a causa del proprio cambiamento. L’amore, in realtà, rivela la coscienza che ciascuna persona non può che essere quella che è, e non può che agire la trasformazione, tremenda e meravigliosa. Il limite non si può sorpassare, lo si accetta, con la protezione del silenzio e con la solidarietà fragile, per vedersi fino in fondo nella propria miseria.

Nel romanzo, le interazioni sono opportunamente ripetitive, segno non tanto di un difetto di respiro, quanto di un passo piccolo e deciso verso la comprensione profonda della vita. Se apprendiamo a proteggerci e a centrare il governo ognuna/o per sé, ci diamo il permesso di aiutare, di riconoscere e di accogliere la richiesta dell’altro/a; così, possiamo smettere la salvazione, il vittimismo e la colpa onnipotente e persecutrice.

Come afferma la stessa Cagnati nell’intervista con Laurence Paton, a chiudere il libro: sopravvive almeno il desiderio di diventare matti e di scegliere la forma della propria follia per protestare contro l’insopportabile.

Génie, con sua figlia Marie, vive ai margini della società, avendo rifiutato di sposare il suo stupratore. Le donne spesso vengono considerate matte, di fronte al diniego e al silenzio, come Génie che non rivolge più a nessuno la parola. La comunità primordiale del mondo contadino rifiuta l’accoglienza e si manifesta ancora più aberrante quando è accolta pienamente, come concezione del vivere, da quelle donne che ne assumono interamente la mentalità patriarcale. La crudele nonna di Marie, madre di Génie, è la prima a confinare figlia e nipote, a isolarle, a infliggere loro sofferenze, a disprezzarle.

Abitiamo un tipo di società in cui la figura del matto assume una doppia valenza: da una parte gli viene assegnata la responsabilità di ogni male; dall’altra, lo si considera come il garante dell’altrui normalità. Nulla può modificare l’energia scarsa, il respiro vitale che manca. Manca al nonno che pure è figura nutritiva attraverso le favole e il cibo; manca ad Antoine, il fattore che vuole riscattare Génie e manca a Pierre, l’innamorato perdente e sfortunato. Lo stigma supera le generazioni, diviene carattere e si struttura come destino. La natura, anche se matrigna, e la realtà severa, divengono un rifugio, l’unico possibile. La vacca Rose e l’anatroccolo Benoît offrono il fiato e la compagnia in una miseria emozionale che, prima ancora, è economica e sociale. La durezza della fatica quotidiana è un ricovero ed è anche l’impedimento alla pienezza e a ogni possibile felicità.

Tutte le parole si consumano e giungono al capolinea dove, infine, sono io, sei tu. “Sono Marie”, “Sono Pierre”. L’abbondanza comunicativa è sparita. Gli occhi “assumono il colore delle lacrime”. “Non starmi tra i piedi”, perché rischio di vederti e di vedermi riflessa nello sguardo altrui. “Non starmi alle calcagna”, per muovermi più in fretta possibile, per evitare il fastidio del saluto, perché anche la presenza muta è un richiamo vivo al respiro e alla carne. Nelle fattorie a sarchiare il granturco, a lavare le stalle, a uccidere il maiale, nei boschi a fare legna, senza diritti e senza privilegi, rimangono la fatica, il freddo, la fame, ad uccidere i pensieri e i desideri.

È il messaggio che colgo in molti incontri professionali: le persone, perlomeno quelle che scelgono il dialogo con me, manifestano il disagio psichico come il segnale più o meno ascoltato e visibile di un desiderio di relazione e di vita. La vita all’esterno, infatti, esposta a relazioni molteplici e pericolose, viene sostituita dal riserbo, dalla prossimità a se stesse e dall’affondo nella fatica quotidiana. È la resistenza silenziosa in un mondo interconnesso.

Prima ancora del legame fra madre e figlia, la storia di Génie rivela il desiderio d’amore, muto, stanco, brutale. Perché la relazione d’amore, nel contesto reale, può rivelarsi anche così, brutta e resistente.

(1)   https://www.liziadagostino.it/dino-buzzati-il-deserto-dei-tartari-mondadori-19452016/

(2)   https://www.liziadagostino.it/stelio-mattioni-tululu-adelphi-2002/