luglio '23

Barbie, per sempre!?

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonlla Aresta

Bel film, ben progettato e ben veicolato, un’operazione commerciale ineccepibile ed è stato bellobello rilassarmi in un mare di rosa, con le persone di ogni età sedute in sala, tanto da rimpiangere il foulard rosa che avrei potuto sfoggiare, giusto per sentirmi adeguata, moderna, anzi, contemporanea, almeno al buio, al fresco di un’omologazione serena e meritata; dài, dopo più di sessant’anni a ostacolare fluidità ovvie. Riappacificarmi con la parte rosa di me era la promessa e riappacificarmi con le Barbie di sempre, anime bionde, che forse avevano ragione su tutto e che, invece di contrastare, avrei dovuto imitare. La visione di un film come riscatto, ecco, come la personale operazione di pinkwashing, su di me, riducendo i toni amari, spocchiosi, di idee e di scritture passate: https://www.liziadagostino.it/25-novembre-memoria-patriarcale-di-stato/

“Avete mai pensato di morire?”, esordisce Barbie rivolgendosi alle infinite copie di sé, in un rigurgito greve di perplessità umana. È la frase che divide la visione in due, il prima e il dopo. E, nel clima creato, l’incantesimo finisce in una chiave di lettura daimoniaca e irrimediabile: è la domanda sulla morte a rivelare la vita, a distinguere gli umani fra i viventi? È sentire l’angoscia di morte a fare la differenza fra Real World e Barbie Land? È la spinta segreta del daimon interiore, è la ferita, è la domanda filosofica di senso, a dare sostanza e sapore all’umano?

Mi rendo conto del possibile inganno della “carezza di plastica”, intuisco l’ombra di tanta luminosità e riprendo l’idea che l’appello femminista troppo vincente è perdente. È stancante non poter ricevere nulla senza pormi domande, specie in estate, senza distrarmi dall’allenamento all’analisi, prevedendo un recupero ancora più faticoso.

Nella teoria e nella pratica analitico-transazionale, meglio una carezza di plastica che nessun riconoscimento. Però, “Sei bellissima” può essere una carezza scivolosa, data e ritirata, formale e di circostanza, insomma, un riconoscimento che dice quanto il mittente sia paraculo e il ricevente sia ingenuo. L’autenticità della relazione e l’onestà delle persone comunicanti non sono affatto elementi scontati e fanno la differenza. Nel film queste parole risultano vincenti, includenti e avviano le liberazioni da ogni tipo di bigottismo reiterato.  Fra le persone reali, inconsapevoli, le due battute scambiate: “Sei bellissima”, “Lo so”, possono rappresentare il lancio di un tiro alla fune, di una sfida che porta all’incomunicabilità, non all’intimità relazionale. Nella quotidianità, può essere l’inizio di un gioco psicologico a “Sei bellissima, ma…” oppure, “Bravissima, Interessantissima, peccato, però che non fai come noi e non sei ripiegabile/riducibile/addomesticabile…”

Utilizzo e propongo la visione del film di Greta Gerwig, assieme ad alcune riflessioni basiche. Diremo, in seguito, che la post ondata femminista l’abbiamo vista clamorosamente arrivare. La divisione fra una cultura di massa e una cultura alta ha prodotto elenchi e piramidi impenetrabili e dannose: per tutte/i siano possibili visioni trasversali e differenti. Considero l’impegno di segnalare prospettive plurime come una buona prevenzione dinanzi al rischio della visuale ristretta e monocolore. Ma se in ballo è la conoscenza dei processi patriarcali, non sono certa serva addolcire, alleggerire, sveltire o compiere, appunto, operazioni in rosa che appartengono al maschilismo, anche femminile, coperto di ossequi e di precauzioni. La comprensione e la testimonianza, partendo da sé, non rimandano a intenzioni e a risultati eccitanti e divertenti!

A certi apprendimenti, di qualunque orientamento femminista, arriviamo con il sangue e con le lacrime. Siamo capaci di ironia, ma non abbiamo voglia di allinearci con simpatiche battute e con slogan cool ed elementari. E i Ken purtroppo ci fagocitano e autoproducono, come uròbori tecnologizzati, le mentalità aggressive e rassegnate, un po’ vigliacche, usando le colorate e morbide rappresentazioni di un potere che divora e rigenera se stesso, un potere che appare immobile, ma è in movimento pro domo sua, a favore degli adepti. La giustizia americana, in questi giorni, ha assolto un uomo innocente: è già scattato l’automatismo dell’assoluzione da transitare verso tutti gli altri.

Barbie può essere solo un sintomo, una passata di aspirina senza ipotizzare alcuna diagnosi grave di paranoia come malattia sociale. È complicato riconoscere la violenza, è difficile decidere di denunciare, ingannate dal volto sornione di compiacimento. Ogni Estia chiede di rilassarsi e arriva per sfinimento a desiderare forme di suicidio, pur di non rimanere, pesante e antipatica, a presenziare i crocicchi, le situazioni e le svolte sociali e politiche. Crediamo nel valore dell’aiuto collettivo, nella copresenza vigile dinanzi all’apertura delle porte e nello scambio della guardianìa spirituale, durante i momenti di riposo legittimo.

Attraverso quale bagaglio di studio e di pratiche abbiamo guardato o guarderemo il film? Studiare l’ombra, e sapere che c’è sempre un’ombra, toglie l’innocenza allo sguardo, talvolta, ci rende spaventate, tristi e arrabbiate, ma può evitare cadute in pseudo-femminismi dal sapore capitalistico. Negli ultimi mesi, in un’azienda, mi hanno giudicata sessantottina, io che gli anni ‘70 li ho vissuti anestetizzata! Perché propongo un’analisi della cultura aziendale oltre che psicologica anche politica? Per evitare che i lavoratori e le lavoratrici, in ogni ruolo, rimangano sotto le macerie di regimi personalizzati e coinvolgenti, legali, ma né leciti, né opportuni. Offrire una lettura relazionale politica del contesto organizzativo, in ogni situazione, ci fa ritrovare sbalzati duramente nella realtà e non sollevati in un mondo estraneo pop-femminista, post-consumistico, facile, ludico, leggero, disponibile, attraente, veloce. Un mondo che si  accontenta di modificare le parole e lascia intonsi i copioni maledetti.

Capisco, dunque, come gli interventi formativi siano improponibili, perché lo sguardo psicologico dubita, impegna, pesa, allunga, approfondisce, rompe con i percorsi scontati. È tentativo consolatorio e pacifico rimanere in superficie ed evitare di prevedere come ogni azione decisa può andare a finire, e a scapito di chi. Il ventennio ultimo iniziò con grandi applausi e convinti successi e risate crasse e sdoganamenti. Il pericolo della pressione bassa, non è mostruoso e la rilassatezza tenta come una gommosa colorata. La bassa e placida marea è confortante rispetto alle onde agitate e persecutorie.

Possiamo, certo, spettacolarizzare il femminismo, assumendone la responsabilità e spiegandone le ragioni che non rimandino solo alla convinzione che va tutto bene, purché se ne parli e aumentino gli incassi. Non ritengo ci sia un femminismo obsoleto da dimenticare e abbandonare, piuttosto credo nello studio del femminismo e dei suoi numerosi rivoli di ideazione e di attuazione. Al di là dei venditori di fumo, disposti a sostenere qualunque argomento pur di vendere un prodotto, il marketing, è una professione seria, uccisa dalla dittatura dei numeri che hanno rimpiazzato le visioni e le idee, lontana dal delirio della persuasione occulta e dalla superficialità colpevole. La capacità di generare, di comunicare e di trasferire il valore del film è la via riuscita della regista Greta Gerwig e della sua numerosa equipe di lavoro. Rimane il dubbio dell’effetto lavatrice di cui l’azienda Mattel, produttrice della bambola più famosa al mondo, pare avesse assolutamente bisogno.

La formazione stabile e costante non rimane la cornice entro cui far girare alcune idee: è, invece, la struttura portante di qualunque cambiamento personale e sociale (una volta dicevo lotta) che passa attraverso la propria carne e va riscelta continuamente. Le lotte femministe e i movimenti lgbtq+ prevedono l’istruzione, i saperi condivisi, le intuizioni e la preveggenza. Il rischio è essere opportunisticamente manipolati, stravolti, ridotti a contenitori insipienti. Le trovate furbe si trasformano in un danno, più grave, quanto più inaspettato. Le rivoluzioni, a causa del patriarcato interiorizzato da tutte/i, sono complicate e prevedono secoli di trasformazioni a tappe, a spirali, in cui abbiamo l’impressione di retrocedere; al contrario, ogni fermata ci fa compiere il giro che rilancia la rinascita.

Sul mio tavolo c’è una copertina rosa indispensabile, da studiare, un testo che pare non finisca mai di chiarire le idee, i processi, le pratiche. Segnalo il libro come una guida affidabile e indispensabile:

Lia Cigarini, La politica del desiderio, Orthotes, 1995/2022

Poi vale la visione del film, di qualunque film ben pensato e venduto, e Barbie lo è.

 

 

ANTO1920

La libertà attraverso la liberazione

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph. Antonella Aresta

La storia

Icona e musa franco-britannica, Jane Birkin è stata trovata senza vita nella sua casa a Parigi. Aveva 76 anni. Ex compagna di Serge Gainsbourg (non si può dimenticare il loro duetto in Je t’aime, moi non plus), Birkin era diventata una figura così importante nella cultura popolare da dare il suo nome a una delle borse più celebri della moda, la Birkin di Hermès. «Quando si è così belle, così fresche, così spontanee, con una voce da bambina, non si ha il diritto di morire. Jane resta eterna nei nostri cuori», ha scritto Brigitte Bardot, sua amica e rivale.

Birkin può rappresentare un modello della rivoluzione sessuale in Europa? Quali esempi proponiamo? E, anzi, cosa intendiamo per rivoluzione sessuale?

La riflessione

Nel 1969, quando avevo dieci anni, l’attrice britannica Jane Birkin e il musicista francese Serge Gainsbourg, compagno sentimentale e professionale, incisero Je t’aime, moi non plus. L’ascolto divenne consapevole negli anni ’80, mentre i respiri ansimanti riecheggiavano ancora al primo posto nel juke-box: la fruizione musicale era agevole e alla portata di tutti/e anche senza l’mp3. Brigitte Bardot aveva rifiutato l’offerta, intuendo il possibile scandalo e preoccupata per la sua immagine associata a una canzone che simulava i gemiti di un rapporto sessuale. Il testo in italiano fu pubblicato sull’Osservatore Romano e il disco fu sequestrato in tutto il territorio nazionale. La diffusione fu automaticamente facilitata proprio dai divieti delle radio e del Vaticano.

Le riflessioni sono sempre parziali rispetto alla vita complessa dell’artista. Nelle canzoni, nelle diverse attività artistiche, Jane non mima, e non mima in tutta la sua vita, scegliendo di affondare nel piacere, nel successo, nella solitudine e nel dolore, di più, dopo la morte dell’ex compagno Doillon e di sua figlia Kate, suicida. Oltre il romantico richiamo alla natura di Woodstock, capiamo che la leggerezza è viaggiare nella nudità, con profondità di intenti, da “Blow up”, a “Daddy nostalgie”, da Sarajevo a Grozny. La leggerezza è cantare, ballare e recitare ed è schierarsi fra i duecento firmatari dell’appello contro il riscaldamento globale, è manifestare per la liberazione della leader birmana Aung San Suu Kyi, è testimoniare come ambasciatrice di Amnesty International, è affrontare l’ictus.

È per tutto questo che il genio di Hermès oggettivò in una borsa l’esperienza esistenziale di Jane: non è solo moda, è desiderio, de-sidera, e tutte avvertiamo la mancanza delle stelle; è utopia, u-topos, ci basta sperare per continuare a camminare.

Negli anni ’70, nella premessa a Sputiamo su Hegel, l’attivista e saggista Carla Lonzi scriveva: “Quando né rivoluzione, né filosofia, né arte, né religione godevano più della nostra incondizionata fiducia, abbiamo affrontato il punto centrale della nostra inferiorizzazione, quello sessuale”. Ancora oggi, nel territorio sessuale, la parola degli uomini ha credito e detta le condizioni. Il fantasma della prepotenza virile che giudica le donne in base alla loro condotta sessuale, continua a minacciare l’amore e la felicità. Certo, le vittime delle violenze sono più ascoltate, il riconoscimento della necessità del consenso restituisce la dignità e ferma la giustificazione della sopraffazione di un corpo sull’altro. Per molte donne, la presa di coscienza è da completare e quelle che registrano l’inadeguatezza maschile lo devono al femminismo più che alla rivoluzione sessuale.

Per quei film e quelle canzoni lo sguardo è di tenerezza: riavviando il nastro delle scelte personali e professionali di Birkin, rimane un modello umano di trasgressione ironica, intelligente e invincibile. La disubbidienza, lo strappo, il tradimento delle regole sociali e morali, la contestazione dell’ortodossia fanno parte della maturazione psichica. Per quanto mi riguarda, l’eccedenza, la provocazione e la rivoluzione simbolica hanno caratterizzato lungamente la mia esperienza, protetta dalla libera viandanza e da un costante lavoro di autocoscienza, in presenza degli ordini genitoriali sempiterni: sii seria e pensa alla famiglia!

A trent’anni o a settanta, la sessualità esprime il carattere e il fenomeno assieme, il sesso e il sentimento, il corpo e la coscienza, il godimento e il pensiero, la gioia e il dolore. Siamo in cammino e in salita rispetto a una visione aperta e liberante. Una parte della psicologia e della cultura arrancano e vogliono “curare” le esagerazioni, tendono a rimanere giudicanti, a normalizzare, tendono a indottrinare, a controllare i corpi per stigmatizzare e comandare le persone.

L’istinto e l’istinto sessuale sono stati legittimati da Freud nei primi del Novecento e ancora oggi rileviamo la necessità, non tanto di liberalizzare, quanto di ripensare, studiare, riconoscere in sè la sapienza dei costumi intimi. La sessualità diviene un disturbo quando sono assenti la conoscenza e la coscienza del comportamento trasgressivo, quando non governiamo noi stessi, quando veniamo sbranati dai risultati e dagli eventi che non abbiamo voluto e saputo prevedere, sepolti nell’istinto, ridotti come salme, senza conoscere la pensosità di quell’istinto. Senza il godimento della ragione, come i giocatori d’azzardo, ossessivi compulsivi, rimaniamo tristi e perdenti, a ripetere l’osceno, contrario non del pudore, ma della bellezza.

Riprendo un saggio fondamentale dello psicoanalista Luigi Zoja, Il declino del desiderio, edito nel 2022 da Einaudi. Ci ammaliamo se gli esseri umani sono ridotti a fenomeni commerciali, se siamo tutti/e ricattabili e se tutto ha un prezzo. La conoscenza della sessualità attraverso le immagini pornografiche di facile accesso non rende più felici le persone, ma ne favorisce l’allontanamento dalla realtà. Nell’immaginario illusorio, gli uomini potenti sono in erezione continua e le donne sono sottomesse e compiacenti verso l’imperatore. La comunicazione rimane solo virtuale, favorisce il rifiuto di sé e l’incoscienza rispetto al corpo e alla psiche.

Afferma Zoja: “… oggi, di fronte a tanta libertà conquistata, non si approfitta più della libertà, perché ogni cosa raggiunge la sua soglia di saturazione. Come anche il cibo che ci piace di più, oltre una certa quantità ci nausea, è plausibile che anche la sessualità abbia una soglia di saturazione.”

Nel film Daddy Nostalgie, con Dirk Bogarde e Jane Birkin, Daddy dice a Caroline che bisogna guardare la bellezza come se fosse l’ultima volta: forse, stiamo inseguendo una bellezza capace di reiterarsi come copia all’infinito. Invece, una e ultima, proprio la bellezza che ogni persona sa per se stessa, può bastare tutta la vita. Intuendo che anche la nostalgia può diventare un inganno.

Ringrazio il giornalista Luca Ciciriello perché, ogni volta, risceglie di condividere i pensieri che non ricercano conclusioni o certezze, ma avviano verso ulteriori domande.

Ph. Antonella Aresta

Curare il male significa modificare le relazioni

 

Ph. Antonella Aresta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

Le dichiarazioni
Ignazio La Russa, presidente del Senato: “Dopo averlo a lungo interrogato, ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio”.
Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia: “Non entro nei casi individuali e nelle reazioni di una persona che ha un rapporto affettivo, è il padre dell’eventuale indagato. Quello che posso dire è che La Russa è quello che per la prima volta ha proposto una manifestazione di soli uomini contro la violenza sulle donne, perché questo non è un problema solo delle donne ma anche degli uomini. Mi sembra questa già una risposta”.
Filippo Facci, attualmente giornalista di Libero, probabile conduttore Rai nella prossima stagione televisiva: “Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa”.
Tutte dichiarazioni, quelle riportate, che in questi giorni hanno provocato contestazioni in diverse occasioni e da più fronti. Messaggi che si riferiscono a quanto accaduto lo scorso 18 maggio.

I fatti
Il 18 maggio, appunto, il 19enne Leonardo Apache La Russa, figlio di Ignazio presidente del Senato, rivede una ex compagna di scuola in discoteca.
Il mattino dopo la ragazza si sveglia a casa La Russa: lei dice di non ricordare nulla, lui le dice che hanno avuto un rapporto sessuale.
Il 29 giugno la 22enne presenta una denuncia per violenza sessuale contro La Russa su cui indaga la Procura di Milano. I referti medici della clinica “Mangiagalli”, dove si è recata giorno stesso, dicono che tre lesioni sarebbero compatibili con una violenza.

 La riflessione

Generarsi come persona richiede un tempo lungo quanto tutta la vita; per chiunque, la mappa mentale rispetto al territorio della relazione può rimanere ristretta e mortificante. Molti sono scolarizzati, famosi, però sono cresciuti nel contesto di persistenza di un regime sociale gerarchico, con le forze politiche che hanno interesse a mantenerlo in vita e che difendono alcuni uomini al di sopra di altri e tutti gli uomini al di sopra delle donne.

Di conseguenza, le dichiarazioni non stupiscono, sono in linea con la mentalità scelta e difesa dai politici che abbiamo votato, anche se in numero sempre più esiguo di votanti rispetto alla popolazione avente diritto. Le considerazioni proposte sono condivise fra chi nutre una visione di umanità senza schifarsene, fra chi ode, sente e guarda un certo rumore, un certo odore e le innumerevoli sfumature di colore. Nella prospettiva che consideriamo, le parole non vogliono e non possono convincere nè obbligare, perché il cambiamento richiede la responsabilità di ogni singolo/a lettore/trice. Non è ricevibile una qualunque rilettura da parte di chi non nutre dubbi e non la richiede.

Scegliere e agire lo sguardo psicologico significa riconoscere il sistema di dominio istituzionalizzato e reiterato, significa registrare la violenza nelle gerarchie, il sessismo interiorizzato e lo sfruttamento sessista: i giovani hanno paura e sono confusi e i padri non vogliono rinunciare ai benefici di denaro e di potere che dal sistema virilista derivano.

La formazione personale non può diventare un altro luogo in cui perpetuare l’ennesima forma di dominio, per risarcire le donne vittime, per incriminare gli uomini porci e per cacciare le donne difenditrici del patriarca, forse anche a loro insaputa. Ogni persona evolva, durante il suo cammino formativo, nelle differenze, verso l’individuazione di sé, verso il senso di una comunità libera e pacificata, senza il dominio e la prevaricazione, convinta che smettere di manipolare, di sottomettere e di svalutare attraverso il sesso, la classe, la razza, la religione è un dono per se stessa prima che per gli altri.

Ricadiamo, altrimenti, nel gioco psicologico “T’ho Beccato, Brutto Figlio di Puttana!”. Non vogliamo cercare il pretesto e approfittare della caduta. La situazione in cui precipitiamo come umanità è molto più grave dell’umiliazione sui social del ricco e del potente di turno. La mentalità del ratto e dello stupro è radicata in tutti/e noi, miserabilmente, ed è il modo in cui abitiamo la terra. Nelle relazioni, il binomio maledetto “rubare e fottere” rimanda alla scelta furba, difesa e quasi invidiata.

In questo tempo torrido, i fatti considerati diventano un’occasione di indagine fenomenologica, psicologica, non tanto per punire, ma per capire e modificare. Il guaio non è fuori, non è Roccella e La Russa o Facci che sicuramente utilizzano parole e azioni inadeguate, ma che diventano, poveretti, il termometro di una struttura mentale introiettata, originaria e incallita.

Curare il male significa modificare le relazioni fra gli umani, educarci al godimento dei corpi e al desiderio, anche sessuale. A favore della riflessione, condividiamo interamente un racconto breve di Franz Kafka, Il Silenzio delle Sirene, ritrovate in Quaderni in ottavo, scritti tra il 1917 e il 1919.

Questa lettura ci aiuta a rivedere, da Omero a Joyce a Dante, il mito smisurato e senza confini di Ulisse. Osiamo una rilettura psicologica archetipica di un ulisse quotidiano, eroe indiscusso e celebrato, obbligato, adesso, a mettere in dubbio le proprie certezze, il copione personale, finora vissuto come vincente. Forse ci tocca fare i conti proprio con questo modello custodito, ci tocca di modificare il copione durissimo, a sfidare il destino di umano, a rivendicare l’ego solitario e vittorioso, l’intelligenza, la forza, l’impertinenza, la nostalgia, la furbizia e la viandanza inarrestabile.

Ulisse, in fondo, gode nel copione, non trascende, non trasforma, genera adolescenti fissati nell’ora presente. Senza la lettura psicologica, necessariamente relazionale, il potere della conoscenza e del ruolo sociale si trasformano in una irrimediabile sconfitta. Affermando di sentirci vincitori e felici, possiamo decidere di mentire, sapendo di mentire, ma ci salviamo solo se quella menzogna agevola la costruzione di una comunità, solo se è a servizio di una comprensione più intima e profonda della vita umana.

Per noi, la luce, forse, è nelle ombre di Penelope, nelle sue finzioni ragionate, nelle attese, nelle fatiche delle tele sfilate e ricominciate, nella paura della mancanza, nella resistenza, nella tristezza del disamore, nella rabbia dei pensieri lenti e profondi. La conoscenza può essere un inganno se non prevede la coscienza di quell’inganno.

Il racconto di Kafka è una guida per innumerevoli ripensamenti:

“Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza. Per difendersi dalle sirene Ulisse si tappò le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene. Senonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva. E, in effetti, all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene. Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, le vide respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, ma reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, non seppe più niente di loro. Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse. Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare. La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi – benché non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in un certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.”

Ringrazio il giornalista Luca Ciciriello per la collaborazione

prim (1)

Omicidio a Primavalle e incidente a Casal Palocco. Cosa apprendiamo dai giovani?

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I fatti, due

A Primavalle, un quartiere di Roma, Michelle Maria Causo, 17 anni è stata uccisa con sei coltellate. Il suo corpo, avvolto in un sacco nero, è stato trovato in un carrello per la spesa, vicino a un cassonetto. Per l’omicidio è stato arrestato un 17enne: ha confessato di aver ucciso la coetanea dopo un litigio legato alla droga.

A Casal Palocco, sempre Roma, un suv Lamborghini guidato da Matteo Di Pietro, uno YouTuber ventenne, ha travolto una Smart a bordo della quale c’era anche un bimbo di 5 anni, Manuel, deceduto.

Un pensiero

I fatti accaduti turbano ed è comprensibile il biasimo istintivo per la giovinezza perduta, brutta e cattiva. Oltre ai risentimenti, alle rivendicazioni e alle attribuzioni di colpe, è necessario parallelamente riflettere sul modello antropologico che abbiamo contribuito a creare e a cristallizzare negli ultimi vent’anni, pur non essendo d’accordo, pur contrastandolo con tutte le forze. Spendiamo la vita in un mondo, il nostro, in cui tutti sono ricattabili, in cui il denaro e il potere sono i valori riconosciuti e mediatici. Accanto alla frustrazione, possiamo avviare riflessioni sulla parte autodistruttiva di tutti gli esseri umani, su quali adulti noi stessi/e diventiamo e su come ci proponiamo, sulla testimonianza che offriamo, lì dove viviamo e lavoriamo.

Il/la giovane può deviare, può perdersi: le persone adulte svolgono, in ogni ruolo, una funzione pedagogica e sono una garanzia per avviare scambi di pensieri su ipotesi differenti di comportamenti adeguati, dinanzi al male che è dentro ogni vivente, non fuori.

Siamo figure genitoriali e costruirci come persone sane e felici è il dono che possiamo offrire interagendo con i/le giovani. Sane e felici significa che, in ogni situazione, abbiamo acquisito non tanto il governo definitivo – ché, ogni tanto, ci scappa, insieme al tempo, anche la pazienza – ma un orientamento alla consapevolezza rispetto al sentimento, al ragionamento e alla scelta di azione che ne consegue. Siamo persone sane e felici maturando una visione chiara di noi stessi/e, degli altri e delle altre, del lavoro, del successo, del divertimento, dell’esistenza.

La prevenzione è fondamentale e coinvolge tutta la società, dalle istituzioni ai singoli individui. In alcune situazioni, il danno è fatto e può, invece, essere reversibile la scelta di vita. Dinanzi all’evento irreparabile, è indispensabile essere pronti/e ad avviare un processo di conoscenza e di consapevolezza sul senso della colpa, oltre il peccato e la punizione, oltre il finto esame di coscienza, suggerito dagli/lle avvocati/e scaltri/e.

Vorremmo, per noi e i nostri piccoli, diventare adulti senza dolore, senza pagare prezzi alti in prima linea, senza disciplina intellettiva ed emotiva. La presa in carico di sé e l’autocoscienza, al contrario, ci conducono attraverso passaggi più o meno pericolosi, difficili, talvolta tragici, e rappresentano la sostanza del cammino esistenziale. Infatti, veniamo al mondo eletti alla comunione e alla gioia e ugualmente condannati al dubbio, alla ferita, alla contraddizione.

Ci tocca accogliere la fatica di sentire il sentimento anche sgradevole, di attivare il pensiero critico, il discernimento e di compiere una scelta che sicuramente appare risolutiva nel presente, ma che dovrà essere riformulata nel futuro anche prossimo.

No, non ci sono consigli, soluzioni e formule per educare e che assicurino la riuscita dell’essere perfetto e forte e vincente a tutti i costi. Il male ci appartiene e accade. Pensiamo assieme, studiamo le situazioni, interroghiamoci personalmente.

Vent’anni fa, Domenico Starnone vinse il premio Strega. Il romanzo Via Gemito, edito da Einaudi, inaugurò un modo nuovo di ripensare e di valutare la figura del padre forte, un maschio che abbozza sorrisi e ripete battute sconce, solo e presuntuoso, furbo e abusante: un modello, raccontò l’autore, che ha compromesso la serenità di una generazione di figli e di figlie ancora impegnata a modificare, a trasformare, a rileggere, a ristrutturare. Un processo sano di autoanalisi, di autorigenerazione da cui ci auguriamo di ripartire.

Ringrazio il giornalista Luca Ciciriello per la collaborazione

Woolf, maestra di letture

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Considero un buon segno ritrovare le persone percorrendo cammini di conoscenza: è la benedizione della vita. Con questa predisposizione psichica all’incontro e allo svelamento, accolgo l’invito di Francesca Pacini a offrire un contributo nella nuova pubblicazione de La stanza di Virginia. Mi impegno a riprendere parti di opere, inizialmente di Woolf e, in seguito, di altre maestre di lettura, per offrire uno sguardo psicologico minimo e differente, preservando il contesto, personale e storico, dell’espressione autorale.

I social bruciano la riflessione lenta, abituandoci a numerose citazioni a caso, legittimate dalla velocità di lettura. Se manca il contesto, ogni affermazione è più o meno accettabile, sospesa fra l’opportunismo e l’adattamento. Invece, è l’analisi nella realtà, dell’autrice o dell’autore e nostra, che diviene la guida per capire e per approfondire il messaggio dell’opera, di volta in volta, considerata.

A 39 anni, Adeline Virginia Stephen Woolf scrive gli otto racconti racchiusi nella raccolta Lunedì o Martedì. Riprendo il secondo, Una società, nella traduzione di Cristina Colla che preferisco o in quella di Mario Fortunato per Bompiani, che nomina L’associazione. Perché la comunione delle donne, il partire dall’esperienza personale, lo scambio nell’allegria chiacchierona e la leggerezza consapevole possono diventare, come in uno specchio, il riflesso, appunto, di una società che ogni essere umano desidera.

Un gruppo di sei o sette donne, senza darsi appuntamento, dopo il tè, iniziano a “tessere le lodi degli uomini… quanto erano forti, nobili, brillanti, coraggiosi, belli… quanto invidiavamo quelle donne che con le buone o con le cattive erano riuscite ad accalappiarsene uno per la vita…” (p. 15).

“Siamo andate avanti per tutti questi anni con la convinzione che gli uomini fossero tutti ugualmente operosi, e che le loro opere fossero tutte ugualmente meritevoli. Eravamo convinte che, mentre noi allevavamo i bambini, loro potessero creare meravigliosi libri e dipinti. Noi abbiamo popolato il mondo. Loro l’hanno civilizzato. Ma ora che siamo in grado di valutarli, cosa ci impedisce di giudicare i risultati? Prima di mettere al mondo un altro bambino, dobbiamo giurare che scopriremo come davvero stanno le cose.” (pag. 18).

La scrittura può essere taumaturgica e divenire atto terapeutico quando origina dalla conoscenza di sé condivisa, dal dolore esistenziale sofferto come un transito per capire e per approfondire. L’intuizione, se affinata e nutrita, non diviene pregiudizio e idea fissa ma, affondando nella prova di realtà, ci viene riconsegnata come preveggenza, protezione e saggezza.

Gli sbalzi d’umore, le crisi depressive, le fobie, il suicidio, l’ipotesi odierna di un possibile disturbo bipolare: registro tutti i malesseri psichici di Virginia, all’origine del patimento, anche come causa o possibilità di espressione, come strumenti nella sua scrittura, innovatrice nelle ombre dell’idea espressa, oltre che nello stile e nella lingua. L’autrice manifesta il suo sguardo critico, lucido e onesto, pungente, non nonostante, ma proprio attraverso il dolore dei suoi folli crolli.

“… Non li abbiamo forse allevati e nutriti e fatti crescere circondati da tutte le comodità, fin dall’inizio dei tempi, in modo che potessero essere più intelligenti, anche senza essere nient’altro che quello?” (pag. 38).

“… Una volta che una donna avrà imparato a leggere, c’è una sola cosa in cui dovrai insegnarle a credere… in se stessa.” (pag. 39).

Il talento e l’esercizio di risignificazione del linguaggio e delle situazioni vissute è nella modalità del pensiero critico sistematico, del logos che scorre nelle viscere, come afferma Maria Zambrano. Ritrovo in Virginia Woolf il pensare veramente della filosofa Zambrano: “(…) Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. Per questo, pensare è cosa tanto grave. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero… come se l’atto più puro, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella “materia” preziosa tra tutte, essenza della vita, o vita stessa che scorre nascosta”.

Virginia è vicina al movimento politico delle suffragette, per l’emancipazione e il diritto di voto delle donne e, nel racconto considerato, appare chiara l’idea che ogni libertà, se reale, debba coinvolgere il contesto e tutti gli esseri umani. Nessuna persona può considerarsi libera per sé soltanto. La libertà non è una conquista immediata e solitaria; essa prevede le stanze, i cammini, le riflessioni, i tempi, le relazioni di liberazione. È il lavoro delle “piccole cose”, così Virginia parla dei suoi racconti, con un’attenzione maniacale al gesto quotidiano, alle percezioni, ai brevi atti mancati.

Nel racconto, oltre ai contenuti, sono interessanti e curiose le modalità delle interazioni; infatti, ogni frattura, ogni scissione, ogni fantasia, apre mondi di comprensione ampia, utilizzando il pensiero divergente e ironico: “… inventiamo un metodo perché gli uomini possano fare figli! È la nostra unica via di salvezza. Se non riusciamo a fornire agli uomini qualche innocente occupazione non ci saranno mai né buoni uomini né buoni libri, e soccomberemo tutti sotto i frutti della loro frenetica attività, e nessun essere umano sopravviverà per sapere che una volta è esistito Shakespeare!” (pag. 39).

Woolf è trasgressiva, piena di difetti e di asperità, certo, anche a causa della prematura morte della madre e degli abusi sessuali forse perpetrati dai fratellastri, termine e abitudine ancora in uso nel Novecento. L’artista rinasce ogni giorno in modo geniale e, paradossalmente, rinasce anche scegliendo di riempirsi le tasche di sassi e rinasce dirigendosi, con il suo amore delirante per la vita, verso il fiume Ouse. Virginia affonda, in una metafora grave e ineludibile per tutti gli esseri umani in ricerca che, ad un certo punto, necessariamente, accolgono il fondo, l’ombra, la ferita.

Diviene un archetipo, forma e matrice primitiva e, come il mito, anche abusato, a rappresentare l’archetipo, Virginia Woolf è parte fondativa di ogni percorso esistenziale. Ogni donna, – aggiungo, ogni persona – sconosciuta e irriducibile, custodisce Virginia, come un passaggio obbligato nel percorso di emancipazione da se stessa e dalle sclerotizzate strutture sociali.

Numero 18 – La Stanza di Virginia

st.2

Memento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1979, a 72 anni, Laudomia Bonanni pubblica Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile rimanendo, per più di quarant’anni, un’autrice incompresa e dimenticata, nonostante la convinzione espressa, nel 1949, da Eugenio Montale: questa Laudomia merita veramente di essere tolta dall’ombra. Forse, lentamente, come capita ai profeti, iniziamo a credergli.

Dopo una laurea in lettere e un lavoro nell’editoria, Bonanni insegna nelle scuole elementari e, seguendo le indicazioni del Ministero di Grazia e Giustizia, nell’ ottobre del 1938, assume l’incarico di rappresentare, presso il Tribunale per i minorenni, l’organizzazione delle donne fasciste, in cui attivamente milita. La sensibilità e la competenza verso i temi delle donne, dell’adolescenza, della giovinezza e della maternità rimangono il filo conduttore di tutte le sue opere.

Alla domanda di un giornalista del perché questo libro, Bonanni risponde: È una domanda un po’ strana da fare ad un autore. Evidentemente ho sentito il bisogno di scriverlo. Non è un libro autobiografico come si è creduto un po’ troppo. È autobiografico nella misura in cui lo è un qualsiasi libro di qualsiasi autore. L’ho scritto perché è stato un argomento che mi si è imposto. La protagonista donna è un po’ la protagonista di tutto quello che ho scritto.

La donna del romanzo ha 47 anni e viene invitata dal suo psicanalista a utilizzare la scrittura, in prima persona, come strumento di indagine e di approfondimento. La consultazione clinica, i tranquillanti e gli psicofarmaci vengono sostituiti dallo psichiatra illuminato con un invito paradossale: prova a scrivere. Il lavoro non è l’autoanalisi per mostrarne i risultati, ma predispone all’accoglienza della paura e della paura di esistere per quello che siamo. Solo chi è totalmente privo di fantasia e gl’incoscienti, da una certa età in poi, non hanno paura della vita. (p.20)

Negli eventi narrati, riconosciamo i recessi della mente e i legami con il femminismo storico degli anni ’70. Il bambino di pietra riprende il vissuto e l’esperienza di una generazione di donne vissute in contesti patriarcali, ribellatesi ai ruoli stereotipati, con i corpi che chiedono il piacere, chiamato prima peccato e che ridiscutono la scelta, il caso, l’istinto di non aver messo al mondo almeno un figlio. La scrittura rinomina e ridefinisce i moti dell’anima, rispondendo con la disubbidienza alla punizione e alla sopraffazione. Attraverso il personaggio letterario di Cassandra, riflettiamo sul sesso, sulla maternità, sull’obbedienza, sulla riduzione di sé. Diventiamo donne sapienti, di sapor, perché, ci ricorda l’autrice, dire intellettuali è troppo.

L’irreducibile paura della maternità? Rimozione? Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra? (p.127)

Il controllo che il patriarcato rivendica ancora per consuetudine e, fino a pochi anni fa, anche per legge, è sempre sulla carne, sul movimento, sullo spazio. Il dominio punisce il desiderio di indipendenza, appropriandosi delle libertà dei corpi. Sandrina, la cassandra che porta nel nome il suo copione, è profeta per se stessa e può indicare la strada a tutte noi; la sua voce è significante nel tempo e, rivolgendosi a sé per prima, può giungere fino a noi.

In tutte le epoche storiche, diversamente nominato, è comune, per tutte le donne, lo stress da intossicazione emotiva. Sentirsi devitalizzata, avvertire il sonno incompleto, il risveglio mal lunato, il dubbio di un vizio cardiaco, il senso di derelizione e il mancato desiderio perfino di viaggiare sono, insieme, gli effetti e le cause della pazzia, intesa in senso liberatorio, come l’assentarsi da se stesse. Riconosciamo con la protagonista del romanzo che spesso, il dolore è alla testa ma il male alla psiche (p.16) e che la stanchezza può uccidere (p.74).

Temevo l’indagine dello psicanalista sull’attività sessuale. Il sesso all’origine di ogni nevrosi. Anche la santità un prodotto erotico, figurarsi… magari ti domandano ex abrupto se hai l’orgasmo. Freud almeno dichiarava che la vita amorosa della donna è (era?) avvolta in un’oscurità impenetrabile. Per quanto me ne rimane di letture fatte, per così dire, con un occhio solo: paura di scoprire chissacché. E non mi si parli di rimozione, lì per lì confondo con soppressione (p.16)

Il bambino di pietra è la scultura raffigurante un neonato che dorme, realizzata da un marmista di lapidi e posata nel cimitero. Talvolta, siamo come bambine di pietra introverse, a covare le rivendicazioni e le rinascite. Così, le battute d’arresto, le resistenze, le delusioni, diventano l’occasione di un corpo a corpo con la nevrosi, alterando il confine netto fra lo stato di salute e il disturbo psichico. Franco Basaglia diceva che la follia è una domanda; talvolta, io aggiungo, il malessere psichico è una richiesta che potrebbe essere diversamente formulata. E la ragione della guida psicologica è nella ricerca della domanda adeguata che ogni persona custodisce dentro di sé e rivela un po’ per volta.

Ha ragione Sandra: La felicità non è allegra come la gioia, la gioia è uno stato chiaro leggero, la felicità ha subito un peso (p.73). La nevrosi, è vero, si cura, ma si scrive e si legge perché divenga un transito obbligato di comprensione, una lente di ingrandimento, uno specchio che non combacia con l’immagine che ciascuna ha costruito di sé.

Nell’opera di archeologia del proprio passato, seguendo l’io ansioso che si va riacciambellando nella tana (p.107), è meglio essere sole che in compagnia. È meglio ricordare non esponendoci in trincea, in prima linea, ma attraverso i personaggi letterari ritrovati o inventati. Il disturbo e il dolore psicologico, inizialmente ci escludono e ci isolano perché possiamo, in seguito, includere e prevedere voci plurali.

Il tema della liberazione della donna, in un itinerario di sradicamento dalle convenzioni borghesi, ci intrattiene ancora oggi. La madre di Sandra diviene la figura simbolo del potere e, a chiusura del romanzo, la nipote della protagonista, Amina, rivela la capacità di raccogliere il testimone con il coraggio di tagliare il proprio cordone ombelicale, con atti dimostrativi di nuovi rapporti con l’altro sesso.

Molte scelte politiche riportano le donne a una condizione d’inferiorità legale e culturale e, però, riconosciamo la voce del cambiamento, in ogni periodo storico, attraverso la scrittura liberatoria che consente di rifiutare le virtù donnesche ornamentali, per un conveniente matrimonio, come scrive Sandra.

La scrittura è necessariamente legata alla lettura come la narrazione di sé è direttamente legata all’analisi, all’indagine più o meno profonda, seguendo i tempi di apprendimento di ogni persona. Le riflessioni sul copione personale e sui meccanismi di difesa, sui giochi psicologici prevedono il ricordo e il racconto verbale e/o scritto. Sono d’accordo con Bonanni: in fondo, quando l’equilibrio personale è incrollabile, rivela la staticità, non prevedendo né trasformazioni, né visioni nuove.

L’accoglienza della propria parte periodale nevrotica si esprime nella ricerca tormentata, ben oltre il pudore rispetto alla scostumatezza, termine riportato dall’autrice e che arriva direttamente dalla mia infanzia. E la sessualità, le relazioni, la stessa vita umana gira intorno alla scoperta adolescenziale della possibilità della morte. Sandra ricorda il suo pensiero più crudele di bambina: le persone che sono morte non le amo più, hanno fatto una cosa orribile (p.56)

La costruzione di sé è come un’opera d’arte: Forse l’arte consiste proprio nel non sapere ciò che si riuscirà a fare, ma tentarlo, essere spinti a fare (p.49). Risorgere, in fondo, ogni volta, non è diventare un’altra, ma è rimanere se stesse apprendendo a registrare la realtà e a sintonizzarsi con essa, in modo che gli eventi, i fatti giungano, ormai risolti, a noi.

Considero le parole nell’ultima pagina del libro, la vera benedizione, la forza ritrovata per continuare, come un’opera di protezione, di perdono e di permesso: (E non ho scritto tutto, non si confessa di sé proprio tutto nemmeno a sé stessi.)

Apprezzo lo sforzo che il testo rimanda rispetto all’opera di autocoscienza e ripenso ad un’altra storia, raccontata da Foa e Scaraffia, su due donne, anime nere nella Roma nazista. La promessa che ci scambiamo è di continuare a leggere e a condividere i cammini lunghi, nascosti e ripidi della liberazione delle donne e degli uomini dal potere patriarcale.

Ph.Fonte Silvia Meo

La valle oscura e il cane nero

 

 

Pensare intorno al lavoro incrocia molti argomenti, politici, economici, sociologici. Mi occupo di rispondere alla domanda sempre più frequente di sollievo rispetto a manifestazioni fisiche e fisiologiche varie e uguali, più o meno persistenti: sudorazione, tremore, vertigini, nausea, cefalea, formicolii, tensioni muscolari, secchezza della bocca.

Lo stachanovismo, come modalità di lavoro e di vita, nasce nell’ex Unione Sovietica, durante la dittatura stalinista; Aleksey Stachanov, in una sola notte, estrasse una quantità di carbone superiore di quattordici volte alla normalità dei colleghi. Il termine workaholism viene introdotto da Wayne Oates nel 1971, unendo la parola work e la parola alcoholism per descrivere la dipendenza dall’attività lavorativa. Infatti, il workaolismo è il disturbo delle persone che lavorano da matti, che si ubriacano di lavoro. Mi confidano che non possono smettere o diminuire e che la tendenza a lavorare eccessivamente, in modo compulsivo, è diventata un’autocura, come il sesso, l’alcol e le droghe considerate leggere.

Molti rivendicano il diritto all’ansia, il diritto a rimanere come sono e pretendono di risolvere i sintomi per risorgere alla vita di prima, vittoriosa e fortissima, ricca di fatturato e movimentata.  Con loro, rifletto sull’eccesso di attività come sintomo, come effetto e non come causa dei malesseri fisici e psichici. Tutte le tipologie di lavoro possono diventare altamente stressanti, se scambiamo l’amore per l’attività lavorativa con il possesso ricattatorio che la mentalità legata al lavoro esercita su di noi.

L’efficienza e la prestazione sono ormai diventati il metro per misurare la persona intera. Ma avere una vita precaria, in periodi anche lunghi, lo dico a me per prima, non significa essere una precaria dell’esistenza. La dimensione lavorativa è importante, ma non è l’unico accesso alla felicità possibile.

Churchill parlava del suo cane nero interiore e penso che fosse un disturbo bipolare a consentirgli, durante la fase maniacale, l’abbondante produzione di attività e di opere. Capisco che per molte persone il superlavoro sia un tentativo di ridurre l’ansia e la depressione preesistenti. Buttarci nel lavoro, apparentemente dà sollievo, come una dipendenza qualunque; nel tempo, però, diventiamo fautori e complici di una sintomatologia dolorosa e preoccupante. Sostenendo la tesi della casualità inversa, le dipendenze persistenti, talvolta, anche di pornografia, di alcol e di droghe non sono cause, ma segnali di una strutturazione patologica dell’intera esistenza.

L’attività lavorativa compulsiva che si impossessa totalmente della quotidianità è l’effetto di un disturbo culturale e mentale. Il workaholismo prevede una visione virile della vita. Bisogna che guariamo non dalla eventuale perdita mortificante, ma dalla fragile onnipotenza che pretende di vederci vincere con forza, sempre. Bisogna che guariamo dal potere che è la nostra valle oscura. Giudicarci inadeguati a vivere la quotidianità è segnale preciso che è arrivato il momento di trasformare la visione intera del lavoro, del successo e dell’esistenza.

La cultura capitalista ci spinge a essere produttivi per sentirci vivi, a essere consumatori per acquisire sicurezza, a moltiplicare la quantità di lavoro per dirci capaci e forti. Il superlavoratore appare sempre indaffaratissimo e viene guardato con ammirazione, invidia, compiacimento. E le aziende promuovono e premiano i comportamenti iperadattivi e dipendenti. Molti corsi di burnout rimangono in superficie, invitando all’automedicazione che non risolve, all’origine, la paura, la rabbia e la tristezza.

Il patriarcato fa male agli uomini e alle donne, e insegna loro a manifestare la virilità vincendo la paura con l’aggressività. Il patriarcato come forma di dominio sul corpo e sulla terra non è affatto risolto e, raramente, viene riconosciuto. L’uomo forte e duro o la donna che non chiede mai e non ha bisogno e non dipende da nessuno sono proiezioni favorite dal culto dell’individualismo e dell’unica persona sola al comando. Il machismo utilizza l’esaltazione, il superlativo, l’eccesso e il ruolo minore di qualche essere vivente.

L’omologazione e l’assorbimento in una visione globale rivendicano le identità personali eccellenti e superiori. Ci viene promesso il successo in una società ingiusta senza volerla trasformare, senza incoraggiare una azione radicale di umanizzazione della quotidianità. Riconosciamo le cause delle malattie mentali, certamente, attraverso l’indagine e la guida psicologica, in noi stessi, ma anche nel contesto politico, economico e sociale.

L’ampliamento degli ii, le opzioni, i colori che ogni essere umano possiede, ci consentono di rifiutare i modelli esterni e di risolvere l’ansia da prestazione e la paura di snaturalizzarci. Il lavoro di ripensamento rispetto alle relazioni, al benessere richiede tempo e siamo, invece, abituati a chiamare perdita di tempo qualunque attività che nutra la crescita interiore, non immediatamente utile, vendibile e traducibile in denaro. Il tempo destrutturato non è necessariamente tempo morto e, in alcune situazioni, non fare nulla significa consentirci di essere concavi, riceventi.

Mi conforta leggere La valle oscura, la storia di Anna Wiener, oggi corrispondente del New Yorker, la quale riconosce, dopo anni di malessere, la megalomania adulatoria del settore tecnologico. In molte aziende, ciò che conta è centralizzare il potere e sono pochissimi a sapere, a decidere, a guadagnare, con l’aggravante che le loro esperienze personali diventano verità universali. I lavoratori, sì tutti con sguardo maschile, seguono protocolli severi e ambiziosi, e con l’eccellenza delle comunicazioni, evitano le relazioni. Accade, infatti, mi raccontano, che due persone in posizioni adiacenti, si inviino mail per parlarsi.

L’aggressività passiva è il sintomo di chi deve documentare in modo ossessivo compulsivo la propria attività lavorativa. La retorica dell’esclusione, le luci da pop star per pontificare, le molestie sessuali in agguato, rendono tutti espansivi e stucchevoli, spumeggianti e dotati per natura di competenze, anche tecnologiche, indispensabili e all’avanguardia. Li vedo abbattuti sul divano del mio studio come la caricatura di se stessi. Sono figure presuntuose ed esasperanti che vivono sotto pressione, obbedienti e coperti da un’arroganza nevrotica.

Il lavoro si era incuneato nella nostra identità. Noi eravamo l’azienda, e l’azienda era noi. Piccoli fallimenti e grandi successi riflettevano in egual modo le nostre inadeguatezze personali o il talento individuale. Quella frenesia era inebriante, come lo era la sensazione che tutti fossimo indispensabili. p.79

Il linguaggio dell’acquisizione di fasce di mercato pretende la scaltrezza, la  velocità, la furbizia e richiede dipendenti moribondi davanti a video luminosi; prevede le capsule di vitamina per la concentrazione, le bevande energetiche e l’uso medico di marijuana. Sono persuasivi, concreti, accelerati e accattivanti, a costruire un mondo di determinati al successo e al controllo di alcuni gruppi su altri.  I am data driven, sono guidato dai dati, rappresenta il nuovo diktat da poltrona ergonomica dondolante. Ma l’ottimizzazione e il potenziamento della produttività si risolvono presto in numerosi disturbi del corpo.

Eravamo fortunati e succubi, e poi, senza accorgercene, eravamo diventati burocrati… forse non eravamo mai stati una famiglia. Sapevamo di non esserlo mai stati. Ma forse lo facevamo davvero solo per soldi. No, lo facevamo per il potere. Il potere sembrava ok… p.127

Il focus della consulenza e della formazione non è sulla motivazione del dipendente, ma sulla struttura culturale aziendale. Sono d’accordo con chi afferma che situare la riuscita della vita dentro il lavoratore prevede che sia appassionato e grato anche nel sacrificio e nello sfruttamento: è il perfetto soggetto neoliberale, è la forma contemporanea di accumulazione del capitale. La cooperazione richiesta punta alla produttività e pretende che ogni persona sia sana, senza sintomi e felice; invece, la solidarietà e la responsabilità problematizzano in modo circolare la persona lavoratrice, quella imprenditrice e, assieme, il contesto lavorativo.

Sono grata alle persone che si fidano, si affidano non tanto a me, ma alle nuove vie di ricerca e di trasformazione che ci vengono incontro e che, assieme, approfondiamo.

In quella visione del futuro non c’era nessuna crisi. C’erano solo opportunità. p.32

A guardar loro, sembrava così facile sapere cosa volevi e ottenerlo. Ero stata pronta a credere in loro, impaziente di organizzare la mia vita intorno ai loro princìpi. Avevo confidato che fossero loro a dirmi chi ero, cosa contava, come vivere. Avevo confidato che avessero un piano, e che fosse il piano migliore per me. Pensavo sapessero qualcosa che io non sapevo. p.172

Mi consideravo una femminista, ma il mio lavoro mi aveva messa in una posizione di incessante e professionalizzata deferenza verso l’ego maschile. p.129

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Una miserabile questione psicologica

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

Le riflessioni che propongo non hanno il tono solenne della certezza e conservano il tono mesto dei dubbi in confidenza. In questo tempo complicato, esiste una questione psicologica, spesso, sopravalutata o ipovalutata, derisa, strumentalizzata e sottomessa alle mode e alle leggi del mercato. Le malattie mentali sono reali e le cause sono molteplici. Indago e mi impegno nello spazio di prevenzione di ogni persona fra la eventuale sovradiagnosi e lo scetticismo rispetto all’esistenza del disturbo psichico. Non è utile il negazionismo, né l’etichetta medica a tutti i costi.

Gli incontri formativi proposti dalla scuola di educazione Alla persona®, sono utili a ipotizzare e a orientare. Più che prevedere e calcolare i risultati di eventuali interventi medici e psicoterapeutici, mi occupo dell’orientamento psicologico, della predisposizione mentale, del corpo onesto e congruente dinanzi all’altro e alla situazione lavorativa.

Riprendo il pensiero di Roberta De Monticelli, mia filosofa di riferimento in questa ricerca: …“soggettività” ha finito per significare, perfino nella mentalità comune, “non oggettività”. Questione di soggettività, cioè questione “di pancia”, dicono alcuni, “di cuore”, dicono altri – ma sempre, allora, questione di sentimento. E il sentire resta soggettivo e relativo, il sentire non ha accesso a evidenze universalmente condivisibili, il sentire parla di noi e non della realtà, il sentire non ha alcuna apertura alla verità. Lo scetticismo pratico sembra ancora universalmente diffuso, per così dire: dall’estrema destra all’estrema sinistra. (pag.23)

Se il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali diviene un best seller, mi chiedo quante sono le autodiagnosi che alcuni utilizzano come strumento per boicottarsi e per offrire alibi. E mi rifiuto di utilizzare la professione di psicologa per classificare e ridurre in elenco le condizioni umane. Rilevo molte cattive abitudini sociali e aziendali, dall’assimilazione della persona, all’imposizione di sistemi per correggerla, alla segregazione perché, appunto, ritenuta disturbante e inguaribile. Rilevo che, talvolta, i sintomi manifestati sono periodali e possono non diventare un disturbo. La psicologia preventiva svolge il ruolo di guida e di sostegno, favorendo la lettura adeguata della realtà plurale. In alcuni periodi tutti rischiamo di ammalarci, ma non tutti, di fatto, ci strutturiamo nella malattia.

La vignetta dello spagnolo El Roto su Internazionale n.1499 recita: No necesitamos ayuda psicologica, lo que necesitamos es que no nos vuelvan locos! Non abbiamo bisogno di aiuto psicologico, abbiamo bisogno che non ci facciano diventare matti.

La psicologia formativa come prevenzione, quindi, è la possibilità di governare se stesse/i, di sentire, di pensare e di agire in libertà e in autorità. Ritengo ideologicamente offensiva la pretesa che le nostre vite debbano essere amministrate e rimesse in condizioni performative, senza registrare lo scenario complessivo in cui si manifestano le fragilità.

La diagnosi può diventare uno stigma, una copertura o una copertina che proteggono dalla presa in carico della realtà, indubbiamente complessa, e dalla fatica di affinare una mentalità ampia e includente. Le etichette escludono alcuni, mettendo al riparo tutti gli altri dalla responsabilità nell’apprendere il pensiero critico e il discernimento. Se tutti siamo matti, nessuno è matto e nessuno si interroga sulla cultura dominante che, evidentemente, continua a intossicarci. Invece, tutti e tutte c’entriamo con i malesseri psichici, con le fragilità umane, sviluppate maggiormente in alcuni contesti di ingiustizia sociale. Le psicoterapie di diversa scuola e la psichiatria non possono utilizzare il micropotere della diagnosi e della cura e ingenuamente schierarsi dalla parte del capitale e favorirlo, pur inconsapevolmente.

Rimango favorevole e disponibile a indagare, accogliere e accompagnare la conoscenza delle differenze emotive e cognitive di ogni percorso esistenziale di umana evoluzione. Più che la certezza di una diagnosi, serve recuperare come stile di vita, il lavoro interiore di coscienza e di conoscenza del proprio copione. Sono convinta che il senso dell’esistenza sia l’apprendimento, la curiosità, la scoperta di virtute e canoscenza. In mancanza, sopravviviamo nella brutalità dell’emergenza e del fanatismo.

La prevenzione psicologica significa promuovere interamente diverse possibilità di vita ecologica. La violenza e la corruzione, prima di diventare stili di comportamento e malattie gravi, sono visioni di vita rispetto a se stessi, alla relazione, al mondo.

Sono d’accordo con un pensiero di Rebecca Solnit, saggista statunitense, ascoltato in un’intervista: il nostro potere più grande non è nel nostro ruolo di consumatori (io dico consumatori anche di cure psicoterapeutiche e mediche), ma in quello di cittadini, grazie al quale possiamo unirci per cambiare collettivamente il modo in cui funziona il nostro mondo. Solo in questa ampia e globale prospettiva, la psicologia può partecipare alla cura.

In molti casi, che piaccia o meno, è solo (?!) la miserabile questione psicologica e sociale a rendere le persone infelici e ricattabili da parte del potere. Siamo fatti di corpo, di mente, di spirito e di cultura. E di cultura possiamo ammalarci. Culturale significa: ricercare il senso, ridarci le ragioni, costruire i pensieri complessi, guardare le prospettive diverse e opposte, sostenere i dubbi in agguato, i tempi lunghi, la solitudine, le relazioni di sano conflitto. Non ricordo dove ho letto che la cultura è legata al coraggio che in origine fa pace con il cuore, cor, prima che sia temerarietà e cambiamento.

Roberta De Monticelli afferma, riprendendo il pensiero del filosofo Nicola Chiaromonte che nessun individuo può essere giusto in una società ingiusta e che nessuna società può essere giusta se gli individui non sono giusti. La psicologia di rinnovamento si occupa di relazione, di scambio, di restituzione, di giustizia, di gratitudine.

Il possibile ostacolo che avverto nello svolgimento della professione è di natura politica. La filosofa lo scrive chiaramente: non ci vediamo più. Presi dal nostro stesso star male, non vediamo più come sta male il mondo, privo di valore, appiattito nell’indifferenza. Due fenomeni sono connessi, anche, alla condizione depressiva in cui molte persone vivono: la banalizzazione del mondo e la completa dissociazione della politica dall’etica, e perfino dalla logica. (pag.15)

Non è una diagnosi, più o meno certa, a dare senso all’assente o parziale lavoro di individuazione del sé, in un determinato contesto sociale. E non possiamo insistere nelle guarigioni magiche, nell’aspettativa illusoria di una vittoria improvvisa, di una soluzione unica del problema. Tutte le variabili sono interconnesse: psicologica, economica, sociale, politica, filosofica, ambientale.

Non assistiamo più a una crisi momentanea, come un malessere che ha un inizio e avrà una fine. Siamo in una vera e propria mutazione culturale.  E abbiamo bisogno di un altro modo di guardare le cose e gli abitanti della terra. Cos’è la normalità e la salute mentale? E attraverso quale processo definiamo – gli psichiatri definiscono – i criteri di diagnosi? Esistono davvero le devianze e i devianti? La dimensione psicologica e sociale, lo affermo da tempo, può essere fastidiosa o apparire banale, ma è il momento storico di considerarla nel peso e nel valore.

Nelle persone non esiste un interruttore da girare così di botto, perchè alcune convinzioni e comportamenti copionali continuano a svolgere un ruolo di protezione e solo lentamente possono essere affiancati e sostituiti da nuovi pensieri e atteggiamenti. E tutto il contesto deve partecipare alla trasformazione. Non modifico solo la narrazione, lo stile letterario, la strategia retorica o la tradizione dominante. Mi impegno a considerare l’interiorità, i contenuti, i sentimenti semplicemente umani, sciogliendo il dogmatismo valoriale, perché ci sono verità senza fine da scoprire. Senza depotenziare il disturbo psicologico e la fatica psichica, evitando interventi medicamentosi e riparatori al singolo, e aprendo a letture plurime dei sintomi che coinvolgono non solo chi se ne lamenta, ma tutta la società.

Al di là della retorica patriarcale della responsabilità personale che spinge le persone all’azione guaritrice e che le fa sentire sbagliate e matte, tenendole continuamente sottopressione, invito a iniziare un percorso di coscienza personale e di conoscenza psicologica, non certo come espressione di una virtù individuale, ma come un’azione collettiva; non perché pensiamo di essere speciali, anche nello stato di malessere, ma per una differente cultura acquisita.

Il mondo non viene salvato da individui eccezionali e solitari ma da comunità in trasformazione. Abbiamo bisogno di condividere sguardi filosofici, psicologici, artistici. Ed è attraverso la consapevolezza personale per scegliere, la capacità critica per riconoscere, il ragionamento per cambiare che possiamo affrancarci dai danni della cultura dominante e dai proclami del fondamentalismo e del pensiero libertario.

Rinnovamento è in definitiva l’aspetto assiologico della vita umana. Perciò dal punto di vista teologico quello che si chiamava “Spirito” è nella nostra tradizione fonte di renovatio mentis, è donum vitae. Per questo nessuna stagione è cantata quanto la primavera, e ogni sommovimento creduto positivo nella storia prende il nome di “primavera”. Il rinnovamento è una delle corde dei Salmi e l’anima stessa dei Profeti. La Pasqua cristiana porta questo tema al paradosso estremo. (pag.100)

Riferimenti per approfondire:

  • L’attenzione degli adulti, di Sophie McBain su Internazionale n.1496/2023
  • De Monticelli, Sull’idea di rinnovamento, Raff.Cortina, 2013

 

 

 

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L’apprendimento all’amore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Miriam Toews, la scrittrice e Sarah Polley, la regista rimangono fedeli ai fatti; il libro e il film registrano in trasparenza le vicende; i dialoghi e la scenografia rimandano alla gioia del testo. È la storia, accaduta tra il 2005 e il 2009, della comunità di donne, più di trecento, nella remota colonia mennonita, che si confidano un segreto drammatico: gli uomini per anni le hanno drogate e violentate con uno spray anestetico veterinario, ricavato dalla pianta di belladonna. Nel 2011, questi uomini, fratelli, cugini, zii e nipoti, vengono condannati a lunghe pene da un tribunale boliviano. Nel 2013, mentre i colpevoli sono ancora in carcere, viene reso noto che gli abusi sessuali continuano a verificarsi. Le donne decidono se restare e combattere oppure andare via. Il giovane August Epp, introverso, affidabile, fragile e tenero, stende i verbali delle riunioni, essendo le donne analfabete.

La dottrina mennonita pretende il ritorno alle origini della chiesa cristiana che giudica rovinata dal potere; rifiuta il battesimo e gli scritti dei padri della chiesa; pretende il pacifismo che, in realtà, è solo obbedienza e pretende di crescere santi che accolgano sacrifici e sottomissioni; combatte il lusso con l’esclusione sociale, accettando, in fondo, l’etica sociale calvinista.

Ogni partecipante, figlia, sorella, nipote, convivente, a modo suo, non esaurisce né le parole, né i gesti, pur dolorante, si racconta in gruppo, tenendo in conto anche le assenti, stanche e provate dalla fatica. Le donne che hanno votato favorevolmente per compiere il sacrificio di rimanere contano come le altre, hanno ragioni che tutte devono considerare, perché non è sempre vero che le bestie scappano dai loro aggressori. La violenza fisica e morale è l’espressione di un potere complesso nella sua fenomenologia. Le donne, in fondo, hanno tutto quello che vogliono, devono solo convincersi di volere pochissimo.

Spesso l’ordine delle cose è una costruzione mentale e la visione fallocratica può appartenere agli uomini quanto alle donne. La visione virile e predatoria del mondo è interiorizzata da molte persone e viene riproposta all’esterno come fisiologica. Non è mai semplice e scontato che una donna capisca il sistema reiterato del ratto e dello stupro e se ne allontani in tempo per non perdere la testa, il corpo e il cuore. Ci vuole il tempo, lo spazio e la compagnia accogliente.

Predate come bestie, ferite, non rinunciano a partire da sé e a confidarsi nelle emozioni, nei pensieri e nelle azioni. Il pensiero critico, l’ascolto, il ragionamento astratto e complesso non appaiono legati alla scolarizzazione, ma all’età psicologica e all’esperienza. Nel dolore, queste donne rimangono capaci di discernere, di argomentare, di trasferire e di condividere l’angoscia di morte, i desideri e i sogni frequenti. Nominano la vita quotidiana, creano il pensiero, attraverso le parole, attraverso la realtà e l’esperienza. Le donne del film non sanno di agire una pratica politica. Infatti, il pensiero della differenza parla della “politica del simbolico” e prevede, anche, la cura delle parole scambiate per dire di noi, del prossimo, della vita, del mondo. Se le donne apprendono il diritto alla parola, possono scegliere.

Le giovani e le anziane mennonite sono libere ancora prima di decidere l’allontanamento dalla colonia perché si riconoscono, si vedono, si ascoltano e scambiano sentimenti e riflessioni. Devastate nei corpi e nelle anime, ricominciano dal corpo e dall’anima a immaginare e ad organizzare la speranza. Non sanno se perdoneranno gli uomini per gli abusi ripetutamente subiti. Capiscono bene, però, la necessità di costruire la distanza definitiva dai luoghi e dalle situazioni manipolative. Dopo, potranno liberare le menti dei bambini, di tutti i figli piccoli, colonizzate dall’ideologia patriarcale dominante. Liberano se stesse per liberare anche gli uomini. Dobbiamo proprio sbrigarci… Ma non stiamo scappando… Non siamo ratti in fuga da un edificio in fiamme.

Luisa Muraro parla della tecnica della schivata: se una montagna sta per caderti addosso, scansati. Maria Teresa Romanini diceva di apprendere la Protezione di sé, in primis. Se le donne si proteggono, se si offrono il Permesso di allontanarsi, di schivare la violenza, possono considerare il Perdono, per sé e per gli altri. Non dimenticano, ma donano a se stesse la pace e una diversa possibile comunione con le altre e con il mondo. Ci vuole la Potenza, è così che le donne riprendono la forza, l’energia vitale, ricordando e raccontando, confliggendo e dubitando. Assieme. Niente è scontato: gli assiomi religiosi, filosofici, legislativi, sociali possono essere ripensati e riletti da prospettive nuove e molteplici. Sento fra queste donne che hanno arte e parte, l’élan vital di Henri Bergson, contro il positivismo e l’evoluzionismo darwiniano.

Possono, assieme, riscrivere e trasformare il copione di violenza e di morte. Primitive e lucide, sanguinanti e decise; piangendo, idratano gli occhi e vedono meglio, con amore per sé, per le figlie e i figli. Le une con le altre non utilizzano la persuasione che, spesso, sconfina nell’utilitarismo della comunicazione manipolativa. Si mostrano nell’autonomia dell’io e, di conseguenza, offrono l’autonomia dall’io, verso una dimensione relazionale collettiva. Nessuna dice di avere la coscienza a posto, mettono in dubbio il dubbio stesso, vivendo in se stesse la contraddizione dei sentimenti e dei pensieri. Non si schierano e non si adulano ipocritamente: la lusinga, l’ossequio, l’invidia sono forme di vanità sociale ed è la richiesta infinita rilanciata attraverso i social. Quando ci saremo emancipate, dovremo chiederci chi siamo… È esatto dire che ora come ora noi donne ci stiamo chiedendo qual è la nostra priorità, e cos’è giusto – proteggere le nostre figlie o perdonare ed entrare nel regno dei cieli?

 

Le donne, nel romanzo e nel film, si vogliono bene e desiderano il bene, accolgono l’altra per come è, anche in assenza; chi c’è, nella riunione parla e costruisce l’intimità e lo scambio simbolico e generativo anche per le altre, bisognose di tempi diversi di apprendimento. E le vedo, ci vedo, oltre le lacrime, i denti finti ingombranti, i vestiti logori e sciatti, le scarpe sfondate e scomode, oltre le leggi del patriarcato, della sottomissione e dell’esaurimento mentale. Noi donne siamo artiste… Agata prende la mano di Ona che prende la mano di Salomè che prende la mano di Mejal che prende la mano di Neitje che prende la mano di Autje che prende la mano di Mariche che prende la mano di Greta che prende la mano di Agata.

L’apprendimento all’amore è faticoso perché chi ama assume il carico, leggero e pesante, della diversità e della storia altrui. La relazione sana non serve a guadagnare rapporti di potere personali e non è una proiezione narcisistica di sé. Nel libro e nel film, gli abusanti non compaiono, otto sono già in carcere, ritengono di sentirsi offesi e alle donne viene richiesto di perdonarli.

Il narcisismo è una patologia, i maschi costruiscono mostri sulla base delle proprie frustrazioni e credono davvero di aver subito, loro, un terribile affronto. Torneranno nella congregazione e la cauzione verrà pagata perché gli uomini si coalizzano e si salvano fra di loro e non si accorgono, basici, ignoranti, bugiardi, malati, di essere già morti. Da soli. Qualcuno si suiciderà.

La vita era l’unica cosa. Migrazione, movimento, libertà. Vogliamo proteggere i nostri figli e vogliamo pensare. Vogliamo conservare la nostra fede. Vogliamo il mondo. Vogliamo il mondo? Se sono fuori dal mondo, se la mia vita è fuori dal mondo, fuori dalla mia vita, se la mia vita non è nel mondo, allora che senso ha? Insegnare? Ma insegnare cosa, se non il mondo?

Le donne nel fienile mi hanno insegnato che la coscienza è resistenza, che la fede è azione, che il tempo stringe. Ma la fede può anche essere tornare, restare, servire? Ma ai campi è di grande aiuto anche chi, volgendo in obliquo l’aratro, frantuma di nuovo le zolle sollevate con la prima aratura. 

Note:

  • Le parole in corsivo sono tratte dal libro: Toews, Miriam. Donne che parlano (Gli alianti) (Italian Edition). Marcos y Marcos. Edizione del Kindle.
  • Luisa Muraro è una filosofa, docente all’Università di Verona, studiosa del pensiero femminista, è stata tra le fondatrici di Diotima e della Libreria delle donne di Milano.
  • Maria Teresa Romanini è stata medica, neuropsichiatra infantile, fondatrice della Scuola Superiore “Seminari romani di Analisi Transazionale” e mia analista.