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Nel nome musicale di Idrusa. A ricominciare.

 

Sono affezionata a questa ultima pubblicazione di Camminamenti, Di bellezza non si pecca, eppure. E come ogni lettura perturbante, nel panorama omogeneo dei testi che non danno alcun disturbo, ho custodito per mesi i pensieri che si vanno ancora componendo.

Non posso che ricominciare dall’arte, come via di liberazione e di approfondimento, nel segno di Idrusa, la donna ribelle otrantina per antonomasia che rifiuta le convenzioni della sua comunità. I linguaggi della poesia e della musica liberano e favoriscono l’esperienza psichica profonda. E rimango in ascolto protetto, assorta in solitudine, nella marginalità riflessiva, con le parole, con le note del maestro Claudio Fabi e i versi di Marthia Carrozzo che tormentano e che pacificano.

E penso che in ogni incontro formativo ogni partecipante accetti l’incontro casuale, trasformandolo in una benedizione di crescita personale e di comunità. La relazione di scambio sana, paritaria nella dignità delle due o più persone interlocutrici, evita i salvatori da banco, pronti a presenziare e a mostrarsi utili. Torno spesso sulla figura del salvatore psicologico, subdola e socialmente accettabile, più della vittima e del persecutore che rimangono identificabili facilmente.  In qualunque situazione, il salvatore è l’ingombro funesto, pronto a infilarsi per aiutare come dice lui, per fare, fare, fare qualcosa, rivolgendo le luminarie pacchiane verso di sé.

Così la relazione fra la poeta e il musicista esprime il bene per sé, per il prossimo in assenza o in presenza, per l’intero contesto. Lui è maestro, lei è maestra e non cercano adepti, favoriscono la parte luminosa di chi c’è, di chi sceglie di creare sintonie. Come negli incontri formativi, le parole, i suoni, i gesti sono sempre musicali,  riuscendo a vedersi e a vedersi con gli altri e le altre, evitando gli assolo.

Se non c’è la richiesta non c’è coscienza di sé e non è il tempo di offrire qualsivoglia aiuto e nota poetica e musicale. Le parole, i versi, la musica rimangono pronti dinanzi ad un cenno che dichiari l’intenzione anche minima di introspezione. Fra i suoni segreti e i ritmi poetici riscopriamo l’armonia del vivere. Nutro una personale avversione verso i salvatori, artisti virili anche quando sono donne, per la particolare attrazione pericolosa verso l’illusione di salvare il mondo. Richiamo il pudore dei silenzi: la contemplazione è frustrante per l’onnipotente. Sono convinta che il fine dell’incontro artistico o formativo rimane la relazione.

Lontani da leggende, bufale e rumors che fanno soffrire un’arte moderna che stenta a essere visibile e riconosciuta dalla maggioranza omologata, mi predispongo all’incontro nel silenzio- Con Marthia Carrozzo e Claudio Fabi ascoltiamo la musica, leggiamo le interazioni in confidenza, gli scambi di prospettive, i versi che affondano, che non ci lasciano in pace, di due artisti non trasformati in gadget e in santini da tv. Incamminarci su certe vie presume l’incontro solo di certe persone. Ascolto le riflessioni, le note e i versi che rimandano all’origine dell’autocoscienza. Il dialogo e l’intervista, assieme, rivelano, in fondo, l’arte del ragionamento, dando potenza l’uno all’esperire dell’altra. La reciprocità si apprende dal lavoro sistematico con se stessi e dalla relazione.

La musica accompagna le parole e le ricrea con luce nuova; assieme smascherano gli imbrogli, demistificano l’ideologia e non possono essere addomesticate da qualunque potere. L’energia trasmessa dalla relazione artistica spinge il cambiamento verso la comunione. La poesia e la musica, dunque, non come un gioco estetico, ma come un percorso di risonanza che narra e cura, come i gesti psichici che incontrano le trasformazioni profonde.

Ogni essere umano custodisce e manifesta Idrusa come parte di sé scalza, in vite movimentate, minime e velate. La leggiadria del corpo è comprensione attraversata dalla lettura psicologica e filosofica e persiste nello sguardo di meraviglia e di curiosità, sguardo poetico e musicale, sguardo d’arte. Il respiro dell’intervista è internazionale perché le voci partecipanti collaborano alla visione di una umanità che riporta a se stessa e che ritrova le ragioni nell’intesa fra umani. A differenza delle contaminazioni psicologiche dannose, le contaminazioni artistiche possono essere sane aprendo così prospettive e scenari molteplici. Condivido con Marthia, la convinzione che l’arte è politica, incontrando ogni persona nel suo nucleo intimo e nel suo fondamento comunitario. Durante il percorso esistenziale partiamo dall’attenzione al corpo per allontanarcene e ad esso ritornare con sempre maggiore accuratezza e profondità. Non di solo cura si tratta, ma di responsabilità nell’assumere ciò che siamo e che diventiamo, oltre le categorie, abusate dal sempre vecchio capitalismo, di utilità, di prestanza, di virilità armata. La poeta e il musicista nominano e si fanno nominare l’un l’altra.

Ogni apprendimento, emotivo e cognitivo, passa attraverso il corpo, necessariamente. Ce ne accorgiamo di più, con l’età che avanza. Il discorso formativo è così, si costruisce naturalmente e pensosamente, in uno scambio in cui la differenza è ampliamento e generatività. L’opera è questa dinamica fra due con altre presenze umane, originali e l’evento manifesta l’armonia del sentire, del riflettere, dell’agire assieme. Può accadere, la chiamo noità, la riconosco nel risveglio, nella forza interiore che risento. È la presenza che continuiamo a sentire, senza darci appuntamento, se c’è stata anche per un attimo la scintilla di intimità e se abbiamo voluto riconoscerla, trattenerla, nutrirla. Oppure, niente, dopo ore di aula o di palcoscenico, a comunicare cose, nomi, luoghi, assiomi, fatti. In aula, ogni volta, non conosco alcuno ed è la magia d’intesa, non conosco e so chi sono e chi sei.

“Sembra venire da fuori, ma che deve venire da te, deve avvenire dentro di te”, afferma il maestro Fabi ed è questa la cifra della universalità della musica, di un verso, di un incontro. Riconoscerci autocentrati per sciogliere l’inganno dell’io autocentrico, l’io narcisista che, pur tecnicamente e metodologicamente ineccepibile, non fa la differenza, non crea. Rimane la retorica di una gestualità inadeguata, tronfia e ampollosa, ridicola, sul palco e in aula. La formazione può essere classica o jazz o rap, punk, rock, pop, non per il look, ma per la fatica del processo di individuazione di sé il quale nasce dal basso, nasce dal proprio corpo e dal corpo sociale.

La poesia e la musica come forme d’arte hanno un significato se ce ne lasciamo pervadere così come è accaduto all’artista quando, dice Jung, “egli ha toccato quella profondità psichica salutare e liberatrice nella quale ancora nessuna coscienza singola si è isolata, per seguire la via degli errori e del dolore, dove tutti ancora sono presi dallo stesso ritmo, dove l’agire e il sentire del singolo si ripercuotono ancora sull’umanità intera”. (C.G. Jung, “Psicologia e poesia”, tr. it. in Opere, vol. x, Boringhieri, Torino 1985, pp. 377-378).

 

Ph. Fonte Silvia Meo

La consolazione di rinascere

Ph. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente.

Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, 2021, pag.18

 

In questo periodo, l’invito è a recuperare la propria nascita, a ritrovare l’umano nei pensieri, nei gesti rituali, nei sentimenti affinati con la riflessione. Smetto di oggettivare la persona e di soggettivare la patria, smetto la voglia mortifera della testa mozzata del nemico piantata sul palo. Nelle parole, scelgo di risparmiare il sangue, a favore dell’autorità di ognuno/a, riconosciuta nella relazione di scambio. Desidero la testimonianza come pedagogia, la ricerca come incontro, la divisa come antidoto alla vanità.

Non possiamo nascere di nuovo, nascere da zero; l’augurio è di nascere presso di sé, più intimi a sé. Il lavoro è riappartenerci, con la memoria, con la lettura diversa dei ricordi, con la scoperta della forza interiore, con il riconoscimento della realtà come guida.

Stig Dagerman, scrittore svedese che apprezzo, è convinto che il bisogno di consolazione dell’essere umano non possa mai essere soddisfatto. È vero, aggiungo che la coscienza della malattia e della morte possono aprire e illuminare la quotidianità, se riconosciamo la potenza dell’alterità. Voglio dire che provvedere alla creazione di me come servizio e come comunità è la cura all’insopportabile, è il sollievo alla ferita, è la risoluzione.  La disperazione esistenziale di Dagerman e nostra, la disillusione, la precarietà, la violenza strutturale esistono e costituiscono la realtà. Ci conviene curare l’ossessione più che di vincere, di veder perdere, «perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà».

La consolazione è imparentata con il solstizio, con il calore e con la luce del sole; dies natalis solis invicti, è la festa di rinascita del sole, è il privilegio di un Dio che sceglie di rinascere umano. L’evento è astronomico, religioso e psicologico: la notte, proprio nella sua massima oscurità, cede alla luce.

Il testamento spirituale, scritto nel 1952, del nostro giovane autore suicida, svela che la libertà e la felicità anelate non si misurano a partire dalle prestazioni e dallo sguardo esterno di un giudizio intransigente che, necessariamente, prevede una storia altrui, differente. Benedire ciò che siamo, senza essere violati/e, nel contesto in cui viviamo, che è raggiungibile e può essere sottratto al dominio, attraverso le sciagure e le beatitudini. Il desiderio sotterraneo espresso nel testo di Dagerman è la bellezza di una comunità di viventi, nell’amarezza e nel disgusto di incomprensioni profonde.

Non considero il Natale solo una data, ma un processo di cambiamento, anno dopo anno, di letture nuove, di formazione in clandestinità, come un eremitaggio, lontana dai funzionari dominanti, dai parassiti e dai cortigiani. Mi impegno a recuperare le ragioni della nascita e il respiro dei corpi liberati assieme. Ad avvertire sempre l’impatto simbolico poco rassicurante dell’uno/a al comando che non preveda benefici per tutte e per tutti. A riconoscere la volontà potente unicamente come responsabilità verso la comunità. A essere pacificata con me stessa più che a trionfare nella competizione fallica. La consolazione della nascita è, in fondo, il bene degli sguardi, delle voci, dei doni.

A me non basta sapere che ogni cosa può essere scusata in nome del servo arbitrio. Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione. Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione. (pag.13)

Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente di umano può essere perenne? E che consolazione miserabile, da arricchire solo gli svizzeri! Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso, sentire la morte che mi accerchia. È nel fuoco, in tutti gli oggetti taglienti che mi stanno intorno, nel peso del tetto e nella massa delle pareti, è nell’acqua, nella neve, nel calore e nel mio sangue. Cos’è allora la sicurezza dell’uomo se non una consolazione, che riesce solo a ricordarci ciò che vorrebbe farci dimenticare! (pag.14)

 

ph. Fonte Silvia Meo

L’avventura umana

 

 

 

 

 

 

 

PH. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

Raccoglimento e meditazione, in una domenica di Avvento, per l’avventura umana di Gesù, attraverso il racconto di uno scrittore amato, Giosuè Calaciura. La fascinazione collettiva verso la figura dei Vangeli diviene causa e origine di una ricerca psicologica, dalla preadolescenza all’adultità. Sono diciassette anni, di luoghi e di esperienze, inesistenti nelle Scritture, e di questo vuoto l’autore approfitta per creare e rappresentare una benevola e nuova antropologia dell’essere umano, di Gesù. Attraverso i deserti, le guerre, la fame e la sete, attraverso il carro di improbabili saltimbanchi, l’avventura umana si dipana, nella coscienza della solitudine e dell’abbandono.

Ricordo i ragazzini di Elsa Morante, disubbidienti e bugiardi, i minori visionari che rischiano diagnosi psichiatriche, animati dall’immaginazione, dalla percezione trasparente della realtà e da una mentalità rivoluzionaria. Sono rivoluzionari perché credono nella umanità degna di relazioni. Felici pochi e infelici molti, come il Gesù quattordicenne, un ragazzo brigante, solo, tradito, derubato, picchiato, a capire il senso dell’esistenza, con la fatica, con le lacrime, con il sangue, con l’amore. Ritrovo la sensibilità di un giovane uomo differente. Non incontro il Gesù virile, mitico e miracolante, ma un giovane che si incammina verso la propria individuazione, un figlio qualsiasi che avverte la genitorialità, come deve essere, assente, lontana, silente. Nel racconto di Calaciura, Giovanni, Barabba, Lazzaro, Marta e Maria sono incontri, sono persone che partecipano alla formazione di Gesù, verso il mondo, come i nostri ragazzi, con libertà, con responsabilità.

Goffredo Fofi, nella prefazione al libro di Morante dice che l’esercizio del potere è un vizio degradante, un vizio che rende ciechi alla realtà: questa è la persuasione che avrebbe dovuto fare della rivolta dei ragazzini una svolta. E ritrovo questa idea nel respiro ampio della scrittura di Calaciura che decide di far credito all’adolescente, decide di fidarsi, di far prevalere il suo volere.

La storia di Gesù adolescente è commovente perché rimanda ai volti, ai silenzi, ai dubbi, ai desideri e alle rabbie giovanili. È questa l’idea trasformativa di preadolescenza, di adolescenza e di postadolescenza in cui maturo le mie riflessioni. E di questa idea mi preoccupo nella consulenza che molti genitori richiedono. Tutti e tutte abbiamo il privilegio di accompagnare i minori, come figure diverse genitoriali, ad allargare la possibilità di divenire quello che noi stessi/e siamo, accompagnando la natura, assistendo e coltivando, generando e custodendo, tacendo e soffrendo, per cautelare e assicurare la crescita libera dell’altro, con i suoi tempi e nei suoi spazi. Senza lo stigma di una diagnosi esterna che non rassicura nessuno. Ogni giovane è questo Gesù che Calaciura racconta, “estremo e imprevedibile”, “selvaggio e incoercibile”, “ribelle e impertinente”, “un ragazzino smarrito, smanioso di autonomia e già consunto dalla fatica della libertà”.

Dunque, l’Avvento si manifesta nella ricerca e nello svelamento dell’avventura umana, nella meraviglia e nell’accoglienza della diversità, nel viaggio di liberazione.  Giungere a salvamento non prevede alcun personaggio salvatore, ma è la pratica quotidiana di comprensione di sé, in una realtà. Maria è la madre silenziosa, che accarezza con lo sguardo e capisce oltre la superficie del quotidiano doloroso: “Il solo nemico è lui stesso”. È questo lo sguardo di liberazione sull’essere umano in crescita, è lo sguardo di chi smette di fare la madre, l’insegnante, il prete e di chi, innanzitutto, sceglie la cura, in assenza e in presenza, della propria idea di mondo e di relazione.  L’adventus può diventare la preparazione, l’attesa, l’arrivo di molte nascite, non una volta per tutte, semmai, nascite in continuo rinascere. E la Parola di Dio – suggerisce la teologa di mio gradimento Adriana Zarri – detta dall’essere umano, è anche la parola dell’essere umano e di questi ne assume i condizionamenti. L’Avvento è una predisposizione psicologica, a consentire che accada, è un cedimento, è un impoverimento dell’azione. Dinanzi ai figli e alle figlie, prima del nostro fare, c’è il nostro attendere.

Sono loro a intuire il futuro, i ragazzi ostili e teneri che non pregano e non credono. “Paura, fatica e perplessità su un piatto della mia bilancia. Sull’altro, solo faticosa speranza”, dice il ragazzo Gesù. In ogni percorso esistenziale esiste un’armonia da riconoscere e da rispettare; non è il destino, è il senso della vita di ogni persona, è il percorso da compiere ognuno/a per sé, a svelare un po’ per volta la forza e la profezia.

Il giovane Gesù del romanzo ci insegna che “tradimento è gettare via i sogni e la fantasia, la scommessa naturale lanciata da ogni madre mentre accarezza il volto neonato della sua creatura”. E ci confida: “Ma in realtà, se devo interrogarmi, nel fondo del mio animo avvertivo il senso di liberazione, una leggerezza di uccello, la certezza che si viene al mondo solo per abbandonarlo.”

E riprendo, in conclusione, da Morante: “A quanto pare, d’anno in anno / i Felici Pochi diventano sempre più pochi/e sempre più infelici. / E si capisce: / gli Infelici Molti sono troppo affaccendati / a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare propagandare / la loro enorme indispensabile felicità / per darsi pena dell’infelicità superflua / minoritaria / dei Felici Pochi.”

 

 

Riferimenti:

Ph. Fonte Silvia Meo

a lettere minuscole

 

Qualche giorno fa, il 17 novembre, ho onorato i 40 anni di laurea, donandomi la partecipazione alle lezioni, Le donne pensano: Nuove ghinee, condotte dalla filosofa Annarosa Buttarelli, presso la storica Libreria delle Donne di Milano. Mi offrirò tutto il tempo che servirà per ritornare sulle tematiche e sulle argomentazioni complesse, sui riferimenti numerosi a testi e idee, sull’esperimento di pensiero che l’Accademia propone attraverso la sua Direttrice scientifica.

Adesso, appena spenti il microfono e il video, ricordo un particolare, un appunto sulle lettere minuscole delle parole. Buttarelli, seguendo il quarto volume dei Quaterni di Simone Weil e oltre la tradizione metafisica, come da Nietzsche in poi, ragiona sul Bene e gli toglie la maiuscola, per evitare, anche, le definizioni consolidate e ipocrite della morale. Dunque, rimane il bene, al di fuori di ogni morale, anche per i credenti, il bene nella relazione o niente, il bene concepito come atto comune e in comune, come gesto scelto e dimenticato, “senza lasciarti trattenere da colui che hai salvato” (Françoise Dolto)

La questione segnala aspetti fondamentali di una psicologia con la lettera minuscola, senza alcun potere sulla persona, senza le forzature interpretative, senza la richiesta di una rivoluzione obbligatoria, anche in un contesto aziendale. Minuscola risulta l’azione quotidiana e minuscolo è il movimento che testimonia la coscienza, lo spirito di servizio, il lavoro di ricerca e di comprensione del copione.

Confermo la lettera minuscola ogni volta che nomino la donna, il bene, l’amore, lo studio, la comunità, la vita. La lettera minuscola offende, come deve essere, il modello del vero Amore, dell’Uomo vero o, peggio, della Madre vera, del Bene assoluto, della Laurea in Psicologia. Credo in una psicologia con la lettera minuscola che rimandi all’analisi personale, allo scarto, alle periferie, all’intimità e alla fatica del ragionamento. Assumo il rischio di una parola psicologica che risulti una banale traduzione degli assunti filosofici a cui rimanda. Indago le espressioni di una psicologia e, quindi, di me psicologa, che proponga bene, il bene e che assuma il male non come nemico esterno, ma come una possibilità in ciascun essere umano.

Ripenso all’idea stessa di cura, di risoluzione del malessere psicologico e del corto circuito relazionale. Non lavoro per riportare la marginalità al centro, ma per viverla lì, dov’è e com’è. Non perché l’io ritrovi la sua appagante soggettività, ma perché io stessa ne apprezzi la fallibilità, in ogni colloquio. Non perché l’altro guarisca, funzionale al sistema, ma perché sia libero in un mondo che contenga anche la sua differenza. Continuo a proporre incontri psicologici attraversati dal pensiero artigiano. Chiamo così, pensiero artigiano, l’energia relazionale liberata dalle prove di virilità, l’energia della gioia e della sofferenza, della leggerezza e della profondità vissute assieme, senza lo sforzo che una delle due prevalga, combattendo, sull’altra.

Nelle relazioni di coppia, aziendali, familiari, nella stanza della psicologa, il minuscolo della parola spegne le luminarie appariscenti, predispone al silenzio, al vuoto, alla distanza, alla mancanza che non sono il nulla e non dichiarano il fallimento. Indicano la semina avvenuta più che il successo raggiunto e segnalano la predisposizione, l’orientamento continuo al cambiamento e non il successo conquistato una volta per tutte.

Minuscolo è il battito d’ali della farfalla che esprime la possibilità dell’uragano dall’altra parte del mondo. Minimo è il movimento che può risultare trasformativo. Invece, il contratto patriarcale, sociale e privato, valuta come perdente, inefficiente, tardivo, qualunque risultato che rallenti la sconfitta dell’altro, che si tratti di mercato, di prossimo, di passo. Nel mondo del lavoro, l’efficienza e l’efficacia sono considerati il binomio valutativo originario, confermando i codici di dominazione e di sottomissione sottintesi, infondo, come indispensabili, per comandare e  per vincere.

E ritorna la scuola di educazione Alla persona®: in ultimo, ho scelto di cambiare le lettere da maiuscole in minuscole, a risignificare il lavoro oscuro, lento, minuto, trascurabile, impercettibile intorno alle relazioni e alle persone che non sono categorie intellettuali, ma esprimono la realtà sociale, fra la carne e il potere. La preposizione Alla rimane in maiuscolo, indicando con la luminosità della lettera grande, la via e il verso. Dico meglio: Alla è la preposizione che indica una causa e uno scopo, un tempo e una direzione precisa: ogni azione è scelta verso la persona, a causa della sua esistenza, a favore della sua crescita, incontro al suo tempo di evoluzione, nel modo in cui sa e può apprendere. La preposizione Alla indica la strada da compiere verso la consapevolezza, rappresenta il senso sociale della propria presenza nella comunità e della presenza dell’altro.

L’attività psicologica si realizza intorno al bene e al buono, da indagare nelle proiezioni personali e nelle strutture mentali e sociali. Dopo 40 anni, ritorno alle domande fondamentali. Rifletto spesso su un testo di Annarosa Buttarelli, Maledire, pregare, non domandare, in La magica forza del negativo/Diotima, Liguori Editore, 2005, pp.35-51:

“Per tornare al punto: non è dunque possibile, a mio giudizio, identificare il lavoro del negativo con il male. Di fronte a questa consapevolezza per me c’è sempre stata inquietudine, ma anche curiosità, perché quando il male mi raggiunge, quando qualcuno o qualcuna ci fa del male, quando qualcosa fa male fuori della nostra portata trasformatrice, cosa accade? E ora soprattutto la domanda è: cosa faccio, come hanno fatto le molte donne che non si sono regolate costruendo etiche e non si sono fatte proteggere dalla consolazione delle buone azioni a tutti i costi? Il problema, abbiamo visto, consiste nel saper ritirare la volontà di pensare alle cause ultime e di correggere, di dominare il male contingente ritenendolo un errore da trasformare con la nostra benevolenza. Inoltre, in mancanza di morali e di prescrizioni etiche, si mostra anche l’altro lato dello stesso problema: come evitare di rendersi complici del male contingente, e anche come evitare di aggiungere male al male, come sarebbero ad esempio la risposta suicidaria o omicida? Cosa ci resta?  Ci resta il lavoro del negativo – una forma di passività – che può fare  molto di più dell’ingombrante volontà positiva.”

 

Sprucida

Sprucida

Ph.Fonte Silvia Meo

Ph.Fonte Silvia Meo

“Ebbe un attimo di paura: paura di lui, paura di se stessa; subito però si scosse sdegnosa, pensando ancora una volta che era padrona di sé e della sua sorte, che era stata abbastanza serva degli altri e non doveva rendere conto di nulla a nessuno.”

Sono le parole di Marianna Sirca a sottolineare come la struttura, la visione del mondo, sempre, è quella degli uomini. Le norme, le narrazioni, le punizioni, sono concepite dal potere virile, oggi come nel 1915, anno di pubblicazione del romanzo, ambientato nella Sardegna barbaricina. Grazia Deledda dà conto della famiglia disfunzionale, il più delle volte patriarcale, del sistema autocratico e profondamente regolamentato, in cui il desiderio delle giovani donne viene soffocato precocemente.

All’inizio, nessuna, come Deledda, può comparire con il nome, con il volto, con il pensiero libero: Ilia di Saint’Ismail fu lo pseudonimo della scrittrice. I temi della narrativa deleddiana sottolineano l’importanza dell’autocoscienza e della trasformazione psicologica ed esistenziale. I tempi e i luoghi della protezione di sé sono numerosi e imprevedibili: registriamo che, ad un certo punto, fra la sofferenza e il contesto reale, fra la colpa e l’amore, le donne decidono di prendere la parola e così inizia la trasformazione per se stesse e per i/le loro compagni/e, mariti, sorelle, fratelli, figli/e, amanti.

Nel romanzo, il triangolo padrone/servo/bandito, oltre che indicare i ruoli sociali, diviene caratteristica psicologica e modalità di esistenza. Le donne come Marianna, sono escluse dal contratto sociale e sono ridotte al contratto matrimoniale, vivono da serva, da padrona e da briganta, vivono da latitanti, nella solitudine esistenziale, come uno spaesamento nell’universo. Sola, dice di sé Marianna, come la fiera nel bosco. «Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci».

Da psicologa artigiana registro, in quarant’anni di attività, come lo sguardo della psicologia favorisca il patriarcato, spesso con il volto femminile, spesso inconsapevolmente. Senza le donne e gli uomini maschiliste/i, il dominio patriarcale non durerebbe così a lungo. Riconosco la forza e la profondità del sentire dolce e disruttivo di molte donne che, scegliendo di raccontarsi, rileggono la storia di tutti gli esseri umani. Donne e uomini che si offrono il permesso di divenire ciò che sono e di opporsi alla riduzione di sè.

È sempre tempo per attivare il pensiero e per trasformare le azioni minime quotidiane. “Sei pazza” o “sei una cattiva madre/lavoratrice/moglie”: non serve metterci a discutere quanto sia più o meno falso e non serve difenderci rilanciando le interazioni. Molte donne tacciono dinanzi alla calunnia, alla diffamazione, alla voce sfidante, per proteggersi, perché non interessa la scelta bellica. Sprucide appaiono, arroganti e, io stessa, in età adulta, anche a causa della claudicanza, rischio ancor più lo stigma dell’acidità e della scontrosità.

Presso il mio studio ragiono con le persone e, assieme, con ironia, ci permettiamo, anche, di sragionare, di seguire percorsi di pensieri ignoti e ignorati. Non è snobismo e non siamo sprucide: è un ritiro patito e fisiologico nelle riflessioni e nelle prospettive differenti, nei sottosuoli, nelle trincee delle nostre vite. Gli incontri rivelano un mondo in disparte, minimo, ma conosciuto a chi acquisisce la sensibilità all’autocoscienza. Coltiviamo più pensiero critico, più forza, più discernimento. Spesso, molte persone, per amor di pace, compiacciono e rinunciano alla parola oppure, allontanando da sè l’ipocrisia, definitivamente si tacciono. La loro azione finisce per essere fraintesa dall’occhio del padrone o per essere immaginata dalla sua parte. Diveniamo complici, diciamo per amore, ed è invece assuefazione al moralismo del senso di colpa.

Sono convinta che sia il potere a decidere la memoria storica, a decretare il torto e la sconfitta, a tramandare il racconto con il modello del vincitore. Al contrario, credo che la potenza relazionale possa ritrovare le ragioni degli eventi passati e riconsiderati. La cultura dominante svilisce intenzionalmente il servizio, allo scopo di mantenere la subordinazione, e chi svolge una professione di cura, di presa in carico, viene considerata inferiore, inutile, pericolosa. Ma lo spirito di servizio non coincide con la subordinazione. La resistenza è possibile attraverso la protezione di sé che viene spesso scambiata per egoismo. Invece, è potenza autoaffermativa. Ritrovo la potenza autoaffermativa in una intervista di Antonio Gnoli a Luisa Muraro, la filosofa del pensare la differenza.

I desideri e le proposte di trasformazione sono possibili attraverso le pratiche di libertà quotidiana, attraverso la testimonianza di ogni scelta personale e lavorativa. L’indignazione, il rigore e la misurazione della realtà svolgono una funzione vitale di autoprotezione, vigilando sulla vulnerabilità del sé. In certi momenti, tutti sono tenuti lontani, funzionando come uno schermo per la coscienza ferita.

Grazia Deledda, ritirando il Nobel nel 1927, nel suo discorso, parte da sé, nomina la famiglia, “composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi”: riconosce la forza e l’autonomia nel legame con la natura, con la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria. Anche lei, giudicata come sprucida dalla cultura dominante del suo tempo, si è rimessa al mondo, si è rigenerata, partendo da sé, dai suoi studi, dai desideri.

“Nulla le mancava: eppure ripiegata su se stessa, si guardava dentro, con piena coscienza di sé, e vedeva un crepuscolo, sereno, sì, ma crepuscolo: rosso e grigio, grigio e rosso e solitario come il crepuscolo della tanca.”

Riferimenti:

Grazia Deledda, Marianna Sirca, Edizione del Kindle

https://www.fondazionefo.it/rassegna-stampa/il-discorso-saggio-e-toccante-di-grazia-deledda-quando-ritiro-il-nobel-nel-1927/

https://www.repubblica.it/cultura/2014/05/12/news/luisa_muraro_ho_lottato_con_amore_per_le_donne_ma_l_egoismo_la_mia_vera_forza-85907256/

 

Ph. Ennio Cusano

L’amore, nella realtà

 

 

 

 

Incontro libri diversi, ciascuno come un capitolo di una narrazione unica, di un pensiero sempre più scarno e più profondo. Rimango nell’attesa: potrà sempre accadere la possibilità nuova di un conflitto, nella comunione di una visione allineata. Attendere è una posizione esistenziale, una modalità di abitare i tempi e i luoghi.

A differenza dell’attesa dura, povera e patriarcale di Giovanni Drogo, nella fortezza Bastiani di Buzzati (1) e a differenza dell’attesa inconsapevole, ingenua e spontanea di Tululu, il personaggio di Mattioli (2), la figura di Génie la matta resiste, esprime la forza, piegata nella certezza della scelta cosciente e della condizione ineludibile.

Inès Cagnati, morta nel 2007, figlia di immigrati veneti e insegnante in Francia, è una scrittrice che convince. Rifiuta le luci finte dei salotti letterari che sceglie di non frequentare e, in tutta la sua opera, indaga i margini dell’esistenza. Le persone narrate sperimentano la vita senza ancore di salvezza.

… la chiamavano Génie la matta perché non parlava, ma lei non era matta, semplicemente non parlava e non rideva. (p.97)

La violenza subita, il silenzio di un dolore legittimo, l’attesa, la maternità: per una donna, talvolta, l’unica uscita possibile è fare la matta. E nelle società irrisolte e bisognose di cataloghi e di controlli, i matti sopravvivono come capri espiatori. Le matte come Génie accettano il ruolo perché la follia di tutti rimanga fuori. Se sei matta, la società può assicurarti la vita, perché sei una garanzia di normalità per tutti gli altri.

La gioia delle donne dinanzi ad una scelta è sempre un po’ triste, perché il passo dichiarato verso la liberazione di sé, tiene conto del contesto, degli altri e delle altre. La gioia della libertà e dell’autorità, nella parte dell’ombra, custodisce il senso del tradimento, della colpa e della tentazione di dover salvare l’altro dal dispiacere, a causa del proprio cambiamento. L’amore, in realtà, rivela la coscienza che ciascuna persona non può che essere quella che è, e non può che agire la trasformazione, tremenda e meravigliosa. Il limite non si può sorpassare, lo si accetta, con la protezione del silenzio e con la solidarietà fragile, per vedersi fino in fondo nella propria miseria.

Nel romanzo, le interazioni sono opportunamente ripetitive, segno non tanto di un difetto di respiro, quanto di un passo piccolo e deciso verso la comprensione profonda della vita. Se apprendiamo a proteggerci e a centrare il governo ognuna/o per sé, ci diamo il permesso di aiutare, di riconoscere e di accogliere la richiesta dell’altro/a; così, possiamo smettere la salvazione, il vittimismo e la colpa onnipotente e persecutrice.

Come afferma la stessa Cagnati nell’intervista con Laurence Paton, a chiudere il libro: sopravvive almeno il desiderio di diventare matti e di scegliere la forma della propria follia per protestare contro l’insopportabile.

Génie, con sua figlia Marie, vive ai margini della società, avendo rifiutato di sposare il suo stupratore. Le donne spesso vengono considerate matte, di fronte al diniego e al silenzio, come Génie che non rivolge più a nessuno la parola. La comunità primordiale del mondo contadino rifiuta l’accoglienza e si manifesta ancora più aberrante quando è accolta pienamente, come concezione del vivere, da quelle donne che ne assumono interamente la mentalità patriarcale. La crudele nonna di Marie, madre di Génie, è la prima a confinare figlia e nipote, a isolarle, a infliggere loro sofferenze, a disprezzarle.

Abitiamo un tipo di società in cui la figura del matto assume una doppia valenza: da una parte gli viene assegnata la responsabilità di ogni male; dall’altra, lo si considera come il garante dell’altrui normalità. Nulla può modificare l’energia scarsa, il respiro vitale che manca. Manca al nonno che pure è figura nutritiva attraverso le favole e il cibo; manca ad Antoine, il fattore che vuole riscattare Génie e manca a Pierre, l’innamorato perdente e sfortunato. Lo stigma supera le generazioni, diviene carattere e si struttura come destino. La natura, anche se matrigna, e la realtà severa, divengono un rifugio, l’unico possibile. La vacca Rose e l’anatroccolo Benoît offrono il fiato e la compagnia in una miseria emozionale che, prima ancora, è economica e sociale. La durezza della fatica quotidiana è un ricovero ed è anche l’impedimento alla pienezza e a ogni possibile felicità.

Tutte le parole si consumano e giungono al capolinea dove, infine, sono io, sei tu. “Sono Marie”, “Sono Pierre”. L’abbondanza comunicativa è sparita. Gli occhi “assumono il colore delle lacrime”. “Non starmi tra i piedi”, perché rischio di vederti e di vedermi riflessa nello sguardo altrui. “Non starmi alle calcagna”, per muovermi più in fretta possibile, per evitare il fastidio del saluto, perché anche la presenza muta è un richiamo vivo al respiro e alla carne. Nelle fattorie a sarchiare il granturco, a lavare le stalle, a uccidere il maiale, nei boschi a fare legna, senza diritti e senza privilegi, rimangono la fatica, il freddo, la fame, ad uccidere i pensieri e i desideri.

È il messaggio che colgo in molti incontri professionali: le persone, perlomeno quelle che scelgono il dialogo con me, manifestano il disagio psichico come il segnale più o meno ascoltato e visibile di un desiderio di relazione e di vita. La vita all’esterno, infatti, esposta a relazioni molteplici e pericolose, viene sostituita dal riserbo, dalla prossimità a se stesse e dall’affondo nella fatica quotidiana. È la resistenza silenziosa in un mondo interconnesso.

Prima ancora del legame fra madre e figlia, la storia di Génie rivela il desiderio d’amore, muto, stanco, brutale. Perché la relazione d’amore, nel contesto reale, può rivelarsi anche così, brutta e resistente.

(1)   https://www.liziadagostino.it/dino-buzzati-il-deserto-dei-tartari-mondadori-19452016/

(2)   https://www.liziadagostino.it/stelio-mattioni-tululu-adelphi-2002/

Ph. Fonte Silvia Meo

La strada verso casa e verso il corpo

Ph. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E così ho vissuto come un’ingorda macchina senza respiro programmata per sfide e raggiungimenti. Poiché non volevo e non potevo abitare il corpo o la terra, non potevo riconoscere o sentire il dolore (Ensler, p.14)

In una visione primordiale, il mondo degli esseri umani è diviso in maschi e femmine, due sessi ben distinti. Il sesso biologico richiama il patrimonio genetico, gli organi genitali e in generale il quadro ormonale. Falsamente qualcuno pensa che l’orientamento sessuale sia biologicamente determinato. Anche nella struttura mentale e culturale del secolo in corso, ciò che non rientra in un binario o nell’altro deve essere normalizzato, classificato, rinchiuso in modelli. La scienza parla poco delle differenze legate al sesso biologico e al genere e, al contrario, di identità di genere e di orientamento sessuale se ne parla in superficie, fra rivendicazioni, proclami e slogan.

Il corpo umano, come una cartina geografica, raccoglie storie, mancanze, illusioni, aspettative, limiti e godimenti. Qualunque tema legato alla fragilità del corpo, al dolore, alla malattia è considerato antisociale e io stessa, distinguo i corpi più o meno socialmente accettati. Nel mondo del lavoro, nei processi di selezione, la riflessione proposta ha ancora più peso. Per anni, ho costruito questo mio corpo e ho lavorato fino all’espressione odierna che il dolore cronico ha contribuito a rendere visibile. Così, ho trovato “la strada di ritorno al mio corpo e alla Terra” (Ensler, p.14)

Il dolore non serve a sfidare la sorte mostrando quanto siamo capaci, forti, di più degli altri. Neanche come alibi per sopravvivere come individui già spenti. Né per rassegnarci a pagare pegni, debiti di altre vite passate. Non serve a essere ricattati dalla promessa di un paradiso futuro oppure – la peggiore di ogni credenza – pre-visti, adocchiati e maledetti da un dio affamato del dolore di specie umana.

Leggo che gli esseri umani possono usare circa il cinquanta per cento del loro cervello per l’elaborazione visiva. Scrive Spiegel che “se bombardiamo gli occhi con visioni spettacolari e dinamiche, quei tre miliardi di scariche neuronali al secondo rimbalzeranno attraverso metà del cervello per elaborare il travolgente carico di dati visivi”. Brennan Spiegel, gastroenterologo e ricercatore dell’ospedale Cedars-Sinai, dirige il progetto accademico sulle terapie basate sulla realtà virtuale. Il dolore è chiamato cronico quando persiste per almeno tre mesi. Gli oppioidi, le terapie farmacologiche vengono sostituiti dall’utilizzo della realtà virtuale. Potenzialmente, potrebbe essere creato un nuovo settore sanitario per alleviare l’ansia e la depressione o per la riabilitazione dopo un ictus. Omero Liran è uno psichiatra e un programmatore autodidatta che crea mondi virtuali al fine di curare le persone. Attraverso l’utilizzo di un visore nero il/la paziente viaggia in tutti i laghi e in tutti i luoghi. Le suggestioni favoriscono le pupille meno dilatate, la frequenza cardiaca diminuita, e il/la paziente raggiunge uno stato pervasivo di benessere generale.

Continuo a studiare ma, dinanzi ad alcune applicazioni delle neuroscienze, mi sento ingannata e coltivo il dubbio che non accompagnino efficacemente sulla via del cambiamento comportamentale. Ricablare il cervello è un’intenzione né morale né etica.

È proprio ciò che serve, usare la realtà virtuale per coinvolgere il cervello, per esempio, nel controllare un aereo e nel guardare dall’alto in diverse direzioni?

L’apprendimento, anche del giusto ritmo respiratorio, riguarda il cambiamento di copione e invita a smettere, semmai, di guardare dall’alto e di tenere tutto sotto controllo. Il ricorso alla realtà virtuale è rischioso nella misura in cui rafforza il vecchio copione umano che, anche nella sofferenza, rivendica l’onnipotenza.

Nella situazione reale di ogni persona, il dramma è cambiare vita, non necessariamente trovare a tutti i costi le soluzioni per riprendere i ritmi precedenti. Quando si prova un dolore cronico la parte del corpo che fa male può essere intatta e perfino sembrare sana. A essere alterata è l’area del cervello che corrisponde alla sua posizione anatomica. Per questo, rifiuto ogni sistema che, rozzamente, velocizza e procura le modifiche.

La trasformazione è lenta ed è possibile con me, tutta intera, non senza di me. Oltre agli aiuti del farmaco e della tecnologia, il pensiero psicologico dà  forma a nuove modalità di vita e contribuisce alla trasformazione dei modelli di umanità meno perfetta e anche meno suggestionabile, meno asservita ai poteri esterni: un’umanità più dolorante e mortale. Libera. Gioiosa.

Dinanzi al dolore, desidero capire, non ho un problema da risolvere. Senza il lavoro sulla mentalità, sulle espressioni di sé, la realtà virtuale rimane un inganno. Ipotizzo che il dolore cronico, in uno stato diverso di salute, oltre che essere fregato e, forse, anche guarito con il farmaco o con il visore, va accolto come parte fondante della vita. Noto, invece, che ancora una volta il cambiamento segnato dagli studiosi americani deve essere indotto dall’esterno, e si conferma paternalistico ed emozionale.

La somatizzazione non è una difesa, non è un disagio psicologico in forma di sintomo, essa esprime la norma e la natura. Esiste un altro modo per attraversare la vita che non sia la somatizzazione? Il cammino che intravedo non è clinico né scientifico: è spirituale, è psicologico. Il corpo dolorante è me stessa nella restanza. La ricerca valuta l’assunzione di un diverso modello di vita, al lordo di tutto, malattia e morte comprese.  Da un verso, superiamo la sentenza che siamo nati per soffrire, ma, dall’altro, evitiamo di trattare il dolore come il male da estirpare per riprendere il potere sulla vita, falsamente considerata vera. La normalità della esistenza umana comprende i passaggi dolorosi.

Mi rilasso e ripenso a una qualità di vita in età diverse, in situazioni economiche, sociali, psicologiche diverse. Poi, vale tutto il sollievo offerto dai farmaci, evitando le epidemie da oppioidi, dalle tecnologie e dagli strumenti virtuali. Il lavoro, come sempre, è culturale, su un modello e su una mentalità che pretendono ancora oggi una esistenza basata sul prodotto e sul consumo e sull’indebitamento dovuto al possesso sfrenato.

Nella visione patriarcale, ben espressa nel ricorso ai mondi virtuali, ciò che conta è il futuro, è la produzione, è il risultato previsto.  Non voglio essere lì, nel mondo virtuale, desidero essere nella realtà, nel qui e ora: il senso sano dei ricordi è che scalavo le montagne e camminavo chilometri in città sconosciute. Adesso, grata al passato, è adesso. Il dolore cronico ha bisogno di tempo per essere capito e integrato. La prostrazione del corpo, ricorda Ensler, in molte fedi, è posizione di riverenza, io aggiungo, è orientamento al riconoscimento della realtà umana.  Ho lottato troppo, sono rimasta troppo sul pezzo, ho corso troppo… Attraverso il dolore, tutto rimane, si svela e accade: la lotta e le persone in cui credo, i testi su cui rifletto, i viaggi che desidero, le situazioni da risolvere.

E sto già meglio.

Da Eve Ensler, un testo illuminante che ricopio integralmente e che dedico alle ragazze in cammino, in comunione, con differenti stati di salute:

La volata non significa avere o prendere o comprare o acquisire. Significa lasciare tutto e dare più di quello che pensavi di avere, dare il doppio di quello che prendi. Quello che sta arrivando non assomiglia a niente di quello che abbiamo conosciuto prima. La vostra morte, la mia sono necessarie e irrilevanti e inevitabili. Non abbiate paura, no, la morte non sarà la nostra fine. L’indifferenza lo sarà, la dissociazione lo sarà, il danno collaterale, lo scioglimento delle calotte polari, la fame infinita, gli stupri di massa, la ricchezza grottesca. Il cambiamento arriverà da coloro che sanno di non esistere separati, ma di essere parte del fiume. Se vuoi superare la tua malattia, aiuta qualcuno che è malato. Se vuoi dimenticare la tua fame, nutri un amico. Avete paura dei germi e accumulate raccolti, ma non vi salveranno, né vi salveranno le vostre belle case e i vostri villaggi recintati. L’unica salvezza è la bontà. L’unica via d’uscita è la cura. La volata finale arriverà dalla terra, dalla Terra. Si solleverà come una tempesta di sabbia. Apparirà all’improvviso dagli angoli delle strade e dai quartieri popolari, dalle favelas e dai luoghi invisibili dove vive la maggior parte del mondo. Perché le strade sono vive, e le donne che trasportano sacchi da novanta chili sono vive e danzano. La volata finale sarà delle ragazze. Delle ragazze. Delle ragazze. È in loro ed è loro. Questa volta spazzerà via tutto. E chi di voi può vivere senza, sopravviverà. Quelli di voi che possono essere nudi, senza un conto in banca, un futuro certo o perfino un posto da chiamare casa. Chi di voi può vivere senza e trovare un senso qui, qui, ovunque sia qui.  Sapendo che l’unica destinazione è il cambiamento. L’unico porto è dove stiamo andando. La volata vi sottrarrà quello di cui pensate di avere bisogno o che desiderate di più, e quello che avrete perduto e come lo avrete perduto determineranno la vostra sopravvivenza.

 Riferimenti biblografici

  • Eve Ensler, Nel corpo del mondo, il Saggiatore, 2015
  • Internazionale, n.1469, 15 luglio 2022, Helen Ouyang, Creare mondi virtuali per ridurre il dolore cronico, pp.64/71

 

 

 

Tuberosa

Il boomerang (o della violenza che ci abita)

 

“… il solito plotone di sociologi, psicoanalisti, filosofi e sobillatori di professione che somministra al pubblico interpretazioni autorevoli: l’egoismo epidemico, l’autismo…

Io credo che la maggior parte delle persone non sia preparata a un evento psichicamente traumatico come un’aggressione brutale.

… Chi sono le persone che odiamo? E quelle di cui abbiamo paura?”

Fabio Bacà, Nova, Adelphi

Ricordo la giovinezza decisionista e binaria che mi permetteva lo schieramento protettivo, chiaro e veloce da una parte o dall’altra. La fatica avvertita, legata all’età storica e psicologica, è in un cammino che si porta appresso tutto, le contraddizioni, i conflitti, le idiosincrasie e le predisposizioni al molteplice. Il carico e il movimento dei pensieri mi paralizzano; poi l’ordine ricomincia a fluire, un modello di ordine che inizialmente non riconosco, un ordine imprevisto.

Faccio bene, talvolta, a negare l’accordo con me stessa. E scopro una lettura appassionante e trasformativa nell’affondo, non fluida, né mai scontata: è la scrittura della maturità di un uomo giovane, esatto e studioso. Fabio Bacà è un istruttore di ginnastica dolce ed è uno scrittore incontrato con la volontà di non dare per scontato l’insipienza delle candidature ai premi Strega e Campiello. L’autore racconta l’esperienza di Davide, un neurochirurgo e di sua moglie, Barbara, logopedista, dinanzi all’aggressione, al comportamento asociale, alla paura, alla protezione e alla trasformazione.

La promessa è abbandonare l’idea che da una parte ci sia la ragione e dall’altra il torto, da una parte il business e dall’altra la cura, come la bellezza e l’orrido, la malattia e il benessere, schierati su fronti avversi. Tutto è assieme e ci tocca non solo l’equilibrio possibile quotidiano, ma il lavoro di attraversamento del buio e della luce, perché si nutrono l’uno dell’altra. Ci tocca non solo tollerare e reprimere la nostra spazzatura, ma convenire sull’orientamento alla speranza che si regge proprio sulla parte repressa, considerata colpevole. Perché, come nel romanzo: “La violenza era ripugnante. Eppure era inevitabile. Era inconcepibile. Ma era produttiva. Era vile. Ma ti faceva sentire vivo. Era disumana. Eppure profondamente, indissolubilmente umana”.

Ogni persona è in contatto con la componente nota e con quella inibita e latente, con l’istinto e la ragione, con la quotidianità sobria e con la follia, con il lato oscuro e istintivo, con le pulsioni ancestrali e primitive e con il raffinato cervello.

È illusorio condannare il male all’esterno, è reale, invece, riconoscerlo all’interno di sé, come responsabilità: è questa la forza degli esseri umani. La quotidianità procede lenta e scontata, il cambiamento è all’interno, nel dialogo faticoso e inarrestabile fra il corpo, la mente e la psiche nelle parti oscure e luminose. Siamo complessi, rozzi e raffinati, capaci di godere perché sofferenti; siamo vivi perché conosciamo la paura e l’abbandono.

Di conseguenza, progettiamo e garantiamo la sicurezza e l’ordine pubblico nella prospettiva ampia di un’offerta che operi con le coscienze e con le conoscenze. Prevediamo l’emergenza sociale e il contrasto alla criminalità attraverso le politiche di comunità, non certo nell’ottica punitiva, escludente e restrittiva dei sussidi, degli spazi, dei tempi.

Si può fuggire dinanzi alla violenza? Si può opporre la mitezza dinanzi a comportamenti violenti subiti? Non mi riferisco soltanto alla follia latente in ogni persona, ma all’alterazione naturale, al cortocircuito fisiologico che comporta la presa in carico della realtà. C’è da diventar matti alla sola idea che nasciamo per ammalarci e per morire.

Operiamo al di là delle espressioni caramellose e perverse dei sentimenti considerati buoni, visto che ne identifichiamo altri come cattivi. Disorientiamo il patriarcato compiaciuto nelle richieste di vittimismo, di scontro e di martirio, sdoganando i sentimenti inadeguati e sgradevoli, accogliendo, voglio dire, tutte le sfumature del sentire senza giudizi.

Gli istrionismi di copertura, le scariche isteriche, le epidemie depressive, le ossessioni maniacali rappresentano il lato oscuro e primitivo da registrare, senza colpe e senza punizioni. Auguriamoci il privilegio e la differenza nel discernere i maestri e le maestre nella potenza e nell’autenticità delle loro voci basse, a margine.

“L’universo è infinito perché contiene tutto l’odio generato dalla razza umana dall’inizio dei tempi. Questo è ciò che siamo. Questa è la sostanza di cui siamo fatti: sangue, furore e detriti di sogni al confine tra sonno e veglia. Dominare la violenza o esserne dominati. Toglietemi di dosso l’epitelio della civiltà fino a esporre il sembiante scorticato del mio vero io. Non sono più solo un medico seduto al capezzale di un ragazzo. Sono il figlio prediletto della foresta e del fiume. Sono il nucleo ribollente di Potere acquattato nelle tenebre in attesa di emergerne. Sono l’uomo con gli occhi chiusi, e medito sul tremendo koan oltre il quale saprò se sono capace di uccidere per salvare me stesso.”

Fabio Bacà, Nova, Adelphi. Edizione del Kindle

 

 

Ph. Fonte Silvia Meo

Esseri umani, lavori e barattoli

 

“Gli auguro una vita simile a quella del barattolo che in questo momento sua madre ha in mano, solo così nessuno potrà fargli del male”.

Parise, Goffredo. Il padrone. (p.238). Adelphi. Edizione del Kindle.

 

Negli ultimi quarant’anni il lavoro è stato utilizzato, anche nella lettura psicologica, come cura, come riscatto, come felicità. Il mercato globale è divenuto libero mercanteggiamento e ha inquadrato, disciplinato, omologato i dipendenti, talvolta, usandoli e gettandoli via. Il lavoro è diventato flessibile, precario, sottoposto, imposto a ogni condizione. E le persone lavoratrici hanno appreso il lavoro predatorio, frenetico, stancante, quello che ti fa tornare a casa senza energia e con denari appena sufficienti alla sopravvivenza. Il cambiamento è culturale e prevede l’analisi e lo studio delle priorità, dei desideri, delle prospettive, degli orientamenti. Gli imprenditori si lamentano dei giovani e degli adulti senza voglia di lavorare. La partecipazione alla forza-lavoro non è tornata ai tempi pre-pandemia: alcuni sono cialtroni, molti hanno scoperto la libertà del rifiuto e la possibilità di trasformare il senso della vita.

A lordo delle mistificazioni rispetto alle cause dell’elevata disoccupazione, per molte persone non è più desiderabile lo schema capitalista – diploma/laurea-lavoro-matrimonio-mutuo-casa-figli-vacanze – sotto il ricatto di una qualsiasi azienda che onori, benedica e sfrutti le strettoie e i legami dei/lle dipendenti. Una esistenza, a lavorare dieci ore al giorno, fra trasferte e straordinari, perché pagatori di rate, consumatori indebitati, esasperati e insoddisfatti. Liberi, sì, di lavorare sempre e spendere di più. In molte organizzazioni, non è solo una questione di rivendicare i diritti lavorativi, è in atto una trasformazione della mentalità, degli aspetti culturali che coinvolgono i tempi e i luoghi della vita intera, dei responsabili e dei dipendenti, dei padroni e degli asserviti.

Nella fabbrica o nel cantiere, come comandava la società industriale, l’operaio vendeva la sua forza-lavoro; adesso, i nuovi proletari si sono ritrovati a vendere, a prezzo modico, il tempo e l’equilibrio mentale.  La qualità della vita non è certo quella che viene propinata dal vecchio sistema: il lavoro, gli investimenti, il corpo forte e aggressivo, la famigghia e la patria, il divertimento, i consumi e i debiti.

Ipotizzo, in alcuni casi, che anche gli abusi – alcol, fumo, sesso, droghe, gioco d’azzardo, … – diventano funzionali a clinicizzare il tormento interiore, a colpevolizzare, a escludere quelli che non sono considerati all’altezza. Lo studio, il ragionamento e la consapevolezza consentono un adeguato governo di sé, concedendoci e godendo l’eccedenza, il divertĕre, “la cattiva strada”, strutturando e riconoscendo, in ogni situazione, il limite oltre il quale la merce siamo noi.

La “muta concentrazione vegetativa” del dipendente, come scrive Goffredo Parise, garantisce al feudatario la sua fetta di mercato. Il lavoro in cambio della vita. Il lavoro come una “trappola mortuaria” che, togliendo l’anima, il tempo, il pensiero, le relazioni, la salute, relega alla spossatezza, all’alienazione, alla frustrazione.

Per pensare a un diverso modello di sviluppo, a una produzione che incroci il sociale e l’ambiente è necessario interrogarci sugli aspetti culturali e sulle distorsioni cognitive. A favore dell’umanità, evitando la regressione dittatoriale e la barbarie del dominio, anche delle forze economiche, serve la coscienza dell’umano al posto dei nazionalismi. La ricerca è, innanzitutto, psicologica e filosofica; sono contenta quando intravedo e quando collaboro alla creazione di bande randagie di gatti e di gatte, di piccole comunità di ricerca, di imprese giovani e di giovani. Questi ultimi, soprattutto, rifiutano l’ideologia del lavoro che colonizza tutta la vita e rifiutano l’idea di un lavoratore a disposizione, a mostrarsi sempre felice e motivato.

A quasi sessant’anni dalla pubblicazione del libro Il padrone, inserito nel filone della narrativa industriale degli anni Sessanta, l’ammaestramento alla gerarchia lavorativa diviene causa di nevrosi per chi è al potere e per chi lo subisce. Il padrone e il dipendente, circondati da personaggi paradossali, diventano complici di un copione perdente, entrambi, avvelenati dal moralismo dell’obbedienza e della sottomissione al lavoro, soffrendo a causa dei comportamenti ossessivi compulsivi, dell’ansia, dell’iperadattamento.

Quando uscì, il romanzo fu considerato una metafora; nella lettura odierna, è una foto. Parise, anarchico impolitico, era convinto dell’illusoria libertà dell’individuo fra sistema, struttura e funzione ed era convinto dell’impossibilità di una realtà senza padroni. L’ordine delle procedure deve essere acquisito come un rituale religioso, se no, il lavoratore è segnalato come un elemento di disordine, come un errore pericoloso. L’Autore vede le persone come appendici della produzione e dei profitti, e racconta il potere totalitario che viene percepito come biologico e naturale. Alla fine, c’è la follia, a incatenare servi e padroni. Ed è sotto i nostri occhi.

Non desideriamo investire emotivamente, come in passato ci veniva richiesto, solo nella identità lavorativa di produttori e di consumatori. Non crediamo più alla favola del lavoro che richieda e doni empatia, resilienza, autostima, ottimismo e motivazione. Le organizzazioni non si modificano partendo solo dalle fragilità e dalle mancanze personali, ma considerando e favorendo la loro stessa  trasformazione: i copioni eroici culturali dell’utilitarismo, l’idea del lavoro con l’unica dimensione performativa, i protocolli di successo omologanti. Senza traboccante sentimentalismo, chiedo a me per prima di essere professionale, onesta, radicale, affaticata dai conflitti e dalle contraddizioni. Sono convinta che la psicologia applicata alle organizzazioni offra la possibilità di ripensare al mondo del lavoro senza dannarci l’anima e il corpo, senza impazzire, orientando il senso di sé e della comunità.

 

“Manterrò quello che ho promesso ai miei genitori: farò parte della ditta, lavorerò e guadagnerò, mi sposerò e formerò una famiglia, avrò una casa, con mobili moderni, la radio, la televisione, il frigorifero, la lavatrice e tutto quello che occorre. Andrò in villeggiatura d’estate nei venti giorni che mi toccheranno, se mi toccheranno, come tutti, come tutti gli uomini di questo mondo. Non mi muoverò di qui. Stringerò i denti e non sentirò più le parole di nessuno e in ogni caso, ripeto, sarò coerente con me stesso; oramai sono proprietà del dottor Max e sta a lui decidere per me, non io; io devo star qui e fare quello che fanno tutti gli altri e tutto quello che c’è qui dentro: uomini, donne, mobili, macchine da scrivere, macchine meccanografiche, e tutte le altre cose che sono qui dentro…”

Parise, Goffredo. Il padrone. (pp.59-60). Adelphi. Edizione del Kindle.

«Sono il padrone, il padrone, il padrone…! sono stufo di essere il servo dei miei dipendenti, sono stufo di aver a che fare coi furbi, con le volpi, con i ricci, con le donnole della ditta. Non ne posso più, vi caccio via tutti… il vostro comportamento fa schifo, io vi pago ed esigo rispetto. Non è per i soldi, io me ne frego dei soldi, potrei benissimo farne a meno, è il fatto morale che conta. E tutto ciò è immorale, immorale, immorale, avete capito? Purtroppo Dio non c’è per fulminarvi, ma lo farò io se sarà necessario, avete capito? Avete capito? Avete capito?»

Parise, Goffredo. Il padrone. (p.46). Adelphi. Edizione del Kindle.

“Esso emanava una forza di attrazione e di concentrazione simile alla fede religiosa. Come questa, infatti, ma senza oscurità e senza mistero, la ditta mi aveva chiamato a sé e ora la mia vita le apparteneva per sempre.”

Parise, Goffredo. Il padrone. (p.71). Adelphi. Edizione del Kindle.

ph. Fonte Silvia Meo

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Simenon è un grande scrittore e un uomo di sottile e profonda consapevolezza. Sono interessanti le indagini psicologiche dei personaggi, i profili delineati in tratti precisi, suggestivi e reali. Per Simenon non è importante la ricerca del peccatore, ma la comprensione delle condizioni culturali, sociali e del contesto personale e politico che hanno consentito di strutturare le situazioni colpevoli perché umanamente miserabili.

Il presidente, pubblicato nel 1958, non è solo un giallo; siamo dinanzi alla fenomenologia dell’uomo di potere. L’autore ha ufficialmente negato, ma, probabilmente, trae l’ispirazione dalla storia di George Clemenceau, capo del governo francese durante la prima guerra mondiale.

Nel testo, la drammatica e brillante vicenda umana di un politico potente si conclude in un casale sepolto sulla costa normanna, dopo la caduta del suo ultimo governo e la sincope che lo riduce affondato nella poltrona.

Il presidente, ancora assunto dal potere, è patetico, triste, semplicemente ripiegato su se stesso. L’intelligenza non gli serve per capire e per prevenire. La dura ira repressa per compiacere non esprime l’attesa della lenta vendetta, è solo un muro che nega l’intimità relazionale con chiunque. I tre medici, l’infermiera, la segretaria, la cuoca, la domestica, l’autista sono controllori imponenti e infallibili. Il potere scelto come un destino irrimediabile è l’unico affetto, è il senso di tutta la vita. I lineamenti tirati del presidente non richiamano il rispetto, titillano la furbizia dei servitori venduti.

Le relazioni finte, tutte, gli si sono sbriciolate negli occhi, fra le mani. L’uomo del potere, il presidente, il genio politico è un povero cristo che, in ogni situazione, intuendo l’opportunismo, si è illuso, inutilmente, di sfruttarlo per sé. L’interesse personale, l’avidità, i ricatti, la vanità, le competizioni, l’ipocrisia sono la forza di un mondo, di un modello di mondo, inumano.

La morte esiste perché gli esseri umani scelgono di farsi attraversare dall’amore. Il presidente non può morire perché non c’è alcuna vita da abbandonare; il respiro, senza l’éros, non è entrato, non è mai uscito.

In tutta la vicenda, l’uomo è fotografato in una immobilità ridicola rispetto al ruolo apicale. Non per vecchiaia e non per malattia: per la consunzione solitaria del carattere culturale. L’abbandono è pervasivo e il paesaggio della Normandia può essere feroce come i volti dei controllori.

Sono convinta che il dominio e la violenza del patriarcato uccidano i maschi, per prima. Molti uomini hanno disturbi psicologici culturali gravi. Qualora si presentino con impertinenza, brillanti e performativi, sono ancora più malati; certo, sono gli eroi del sorriso finto e della chiacchiera sciolta. Riconosco ancora tante creature che passano la vita a misurarselo e a vantarsene. Sono fragili e irregimentati in camicie di forza copionali, inseguendo antiquati medaglieri fuori contesto. Soli e appariscenti, ignoranti e logorroici, presenzialisti senza presenza psichica, senza forza vitale. Spesso, rimane soltanto il sudore imbarazzante dei venditori furbi, sempre più incattiviti e maldicenti.

Registro continuamente il pericoloso patriarcato che passa attraverso i ragionamenti compiaciuti ad lìbitum che girano senza cogliere la sostanza, un mefitico eroismo virile che sfugge, si intrufola, manipola dappertutto.

Sic transit gloria mundi, anche se l’occasione non è solenne, tradisce, in ogni caso, l’ossessione per la gloria: desideriamo trasformare il modo di stare al mondo che dia valore soltanto alla gloria, desideriamo smettere la coazione a ripetere dell’eccellere e dell’essere primo a tutti i costi. Per molti, il costo è la salute, è la stessa vita.

 

“Prima di andarsene gli sarebbe piaciuto portare a termine la sua opera più segreta, più personale, senza lasciare niente nell’ombra ed esaminando tutti gli aspetti. Non era forse per questo che si era dato alla lettura di memorie, confessioni e diari?  Ogni volta, però, ne usciva deluso e irritato, con la sensazione che l’autore avesse barato. Lui voleva la verità allo stato puro, allo stato grezzo, come la pretendeva da se stesso, fosse pure una verità disgustosa o ripugnante.  Gli scrittori che aveva letto, invece, aggiustavano le cose – era ormai abbastanza avanti negli anni per capirlo. Tutti avevano, credevano o sostenevano di avere una verità, mentre lui, che la cercava con tanto accanimento, non la trovava.”

Simenon, Georges. Il Presidente (Biblioteca Adelphi) (Italian Edition) . Adelphi. Edizione del Kindle.