Ph. Fonte Silvia Meo

La strada verso casa e verso il corpo

Ph. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E così ho vissuto come un’ingorda macchina senza respiro programmata per sfide e raggiungimenti. Poiché non volevo e non potevo abitare il corpo o la terra, non potevo riconoscere o sentire il dolore (Ensler, p.14)

In una visione primordiale, il mondo degli esseri umani è diviso in maschi e femmine, due sessi ben distinti. Il sesso biologico richiama il patrimonio genetico, gli organi genitali e in generale il quadro ormonale. Falsamente qualcuno pensa che l’orientamento sessuale sia biologicamente determinato. Anche nella struttura mentale e culturale del secolo in corso, ciò che non rientra in un binario o nell’altro deve essere normalizzato, classificato, rinchiuso in modelli. La scienza parla poco delle differenze legate al sesso biologico e al genere e, al contrario, di identità di genere e di orientamento sessuale se ne parla in superficie, fra rivendicazioni, proclami e slogan.

Il corpo umano, come una cartina geografica, raccoglie storie, mancanze, illusioni, aspettative, limiti e godimenti. Qualunque tema legato alla fragilità del corpo, al dolore, alla malattia è considerato antisociale e io stessa, distinguo i corpi più o meno socialmente accettati. Nel mondo del lavoro, nei processi di selezione, la riflessione proposta ha ancora più peso. Per anni, ho costruito questo mio corpo e ho lavorato fino all’espressione odierna che il dolore cronico ha contribuito a rendere visibile. Così, ho trovato “la strada di ritorno al mio corpo e alla Terra” (Ensler, p.14)

Il dolore non serve a sfidare la sorte mostrando quanto siamo capaci, forti, di più degli altri. Neanche come alibi per sopravvivere come individui già spenti. Né per rassegnarci a pagare pegni, debiti di altre vite passate. Non serve a essere ricattati dalla promessa di un paradiso futuro oppure – la peggiore di ogni credenza – pre-visti, adocchiati e maledetti da un dio affamato del dolore di specie umana.

Leggo che gli esseri umani possono usare circa il cinquanta per cento del loro cervello per l’elaborazione visiva. Scrive Spiegel che “se bombardiamo gli occhi con visioni spettacolari e dinamiche, quei tre miliardi di scariche neuronali al secondo rimbalzeranno attraverso metà del cervello per elaborare il travolgente carico di dati visivi”. Brennan Spiegel, gastroenterologo e ricercatore dell’ospedale Cedars-Sinai, dirige il progetto accademico sulle terapie basate sulla realtà virtuale. Il dolore è chiamato cronico quando persiste per almeno tre mesi. Gli oppioidi, le terapie farmacologiche vengono sostituiti dall’utilizzo della realtà virtuale. Potenzialmente, potrebbe essere creato un nuovo settore sanitario per alleviare l’ansia e la depressione o per la riabilitazione dopo un ictus. Omero Liran è uno psichiatra e un programmatore autodidatta che crea mondi virtuali al fine di curare le persone. Attraverso l’utilizzo di un visore nero il/la paziente viaggia in tutti i laghi e in tutti i luoghi. Le suggestioni favoriscono le pupille meno dilatate, la frequenza cardiaca diminuita, e il/la paziente raggiunge uno stato pervasivo di benessere generale.

Continuo a studiare ma, dinanzi ad alcune applicazioni delle neuroscienze, mi sento ingannata e coltivo il dubbio che non accompagnino efficacemente sulla via del cambiamento comportamentale. Ricablare il cervello è un’intenzione né morale né etica.

È proprio ciò che serve, usare la realtà virtuale per coinvolgere il cervello, per esempio, nel controllare un aereo e nel guardare dall’alto in diverse direzioni?

L’apprendimento, anche del giusto ritmo respiratorio, riguarda il cambiamento di copione e invita a smettere, semmai, di guardare dall’alto e di tenere tutto sotto controllo. Il ricorso alla realtà virtuale è rischioso nella misura in cui rafforza il vecchio copione umano che, anche nella sofferenza, rivendica l’onnipotenza.

Nella situazione reale di ogni persona, il dramma è cambiare vita, non necessariamente trovare a tutti i costi le soluzioni per riprendere i ritmi precedenti. Quando si prova un dolore cronico la parte del corpo che fa male può essere intatta e perfino sembrare sana. A essere alterata è l’area del cervello che corrisponde alla sua posizione anatomica. Per questo, rifiuto ogni sistema che, rozzamente, velocizza e procura le modifiche.

La trasformazione è lenta ed è possibile con me, tutta intera, non senza di me. Oltre agli aiuti del farmaco e della tecnologia, il pensiero psicologico dà  forma a nuove modalità di vita e contribuisce alla trasformazione dei modelli di umanità meno perfetta e anche meno suggestionabile, meno asservita ai poteri esterni: un’umanità più dolorante e mortale. Libera. Gioiosa.

Dinanzi al dolore, desidero capire, non ho un problema da risolvere. Senza il lavoro sulla mentalità, sulle espressioni di sé, la realtà virtuale rimane un inganno. Ipotizzo che il dolore cronico, in uno stato diverso di salute, oltre che essere fregato e, forse, anche guarito con il farmaco o con il visore, va accolto come parte fondante della vita. Noto, invece, che ancora una volta il cambiamento segnato dagli studiosi americani deve essere indotto dall’esterno, e si conferma paternalistico ed emozionale.

La somatizzazione non è una difesa, non è un disagio psicologico in forma di sintomo, essa esprime la norma e la natura. Esiste un altro modo per attraversare la vita che non sia la somatizzazione? Il cammino che intravedo non è clinico né scientifico: è spirituale, è psicologico. Il corpo dolorante è me stessa nella restanza. La ricerca valuta l’assunzione di un diverso modello di vita, al lordo di tutto, malattia e morte comprese.  Da un verso, superiamo la sentenza che siamo nati per soffrire, ma, dall’altro, evitiamo di trattare il dolore come il male da estirpare per riprendere il potere sulla vita, falsamente considerata vera. La normalità della esistenza umana comprende i passaggi dolorosi.

Mi rilasso e ripenso a una qualità di vita in età diverse, in situazioni economiche, sociali, psicologiche diverse. Poi, vale tutto il sollievo offerto dai farmaci, evitando le epidemie da oppioidi, dalle tecnologie e dagli strumenti virtuali. Il lavoro, come sempre, è culturale, su un modello e su una mentalità che pretendono ancora oggi una esistenza basata sul prodotto e sul consumo e sull’indebitamento dovuto al possesso sfrenato.

Nella visione patriarcale, ben espressa nel ricorso ai mondi virtuali, ciò che conta è il futuro, è la produzione, è il risultato previsto.  Non voglio essere lì, nel mondo virtuale, desidero essere nella realtà, nel qui e ora: il senso sano dei ricordi è che scalavo le montagne e camminavo chilometri in città sconosciute. Adesso, grata al passato, è adesso. Il dolore cronico ha bisogno di tempo per essere capito e integrato. La prostrazione del corpo, ricorda Ensler, in molte fedi, è posizione di riverenza, io aggiungo, è orientamento al riconoscimento della realtà umana.  Ho lottato troppo, sono rimasta troppo sul pezzo, ho corso troppo… Attraverso il dolore, tutto rimane, si svela e accade: la lotta e le persone in cui credo, i testi su cui rifletto, i viaggi che desidero, le situazioni da risolvere.

E sto già meglio.

Da Eve Ensler, un testo illuminante che ricopio integralmente e che dedico alle ragazze in cammino, in comunione, con differenti stati di salute:

La volata non significa avere o prendere o comprare o acquisire. Significa lasciare tutto e dare più di quello che pensavi di avere, dare il doppio di quello che prendi. Quello che sta arrivando non assomiglia a niente di quello che abbiamo conosciuto prima. La vostra morte, la mia sono necessarie e irrilevanti e inevitabili. Non abbiate paura, no, la morte non sarà la nostra fine. L’indifferenza lo sarà, la dissociazione lo sarà, il danno collaterale, lo scioglimento delle calotte polari, la fame infinita, gli stupri di massa, la ricchezza grottesca. Il cambiamento arriverà da coloro che sanno di non esistere separati, ma di essere parte del fiume. Se vuoi superare la tua malattia, aiuta qualcuno che è malato. Se vuoi dimenticare la tua fame, nutri un amico. Avete paura dei germi e accumulate raccolti, ma non vi salveranno, né vi salveranno le vostre belle case e i vostri villaggi recintati. L’unica salvezza è la bontà. L’unica via d’uscita è la cura. La volata finale arriverà dalla terra, dalla Terra. Si solleverà come una tempesta di sabbia. Apparirà all’improvviso dagli angoli delle strade e dai quartieri popolari, dalle favelas e dai luoghi invisibili dove vive la maggior parte del mondo. Perché le strade sono vive, e le donne che trasportano sacchi da novanta chili sono vive e danzano. La volata finale sarà delle ragazze. Delle ragazze. Delle ragazze. È in loro ed è loro. Questa volta spazzerà via tutto. E chi di voi può vivere senza, sopravviverà. Quelli di voi che possono essere nudi, senza un conto in banca, un futuro certo o perfino un posto da chiamare casa. Chi di voi può vivere senza e trovare un senso qui, qui, ovunque sia qui.  Sapendo che l’unica destinazione è il cambiamento. L’unico porto è dove stiamo andando. La volata vi sottrarrà quello di cui pensate di avere bisogno o che desiderate di più, e quello che avrete perduto e come lo avrete perduto determineranno la vostra sopravvivenza.

 Riferimenti biblografici

  • Eve Ensler, Nel corpo del mondo, il Saggiatore, 2015
  • Internazionale, n.1469, 15 luglio 2022, Helen Ouyang, Creare mondi virtuali per ridurre il dolore cronico, pp.64/71

 

 

 

Tuberosa

Il boomerang (o della violenza che ci abita)

 

“… il solito plotone di sociologi, psicoanalisti, filosofi e sobillatori di professione che somministra al pubblico interpretazioni autorevoli: l’egoismo epidemico, l’autismo…

Io credo che la maggior parte delle persone non sia preparata a un evento psichicamente traumatico come un’aggressione brutale.

… Chi sono le persone che odiamo? E quelle di cui abbiamo paura?”

Fabio Bacà, Nova, Adelphi

Ricordo la giovinezza decisionista e binaria che mi permetteva lo schieramento protettivo, chiaro e veloce da una parte o dall’altra. La fatica avvertita, legata all’età storica e psicologica, è in un cammino che si porta appresso tutto, le contraddizioni, i conflitti, le idiosincrasie e le predisposizioni al molteplice. Il carico e il movimento dei pensieri mi paralizzano; poi l’ordine ricomincia a fluire, un modello di ordine che inizialmente non riconosco, un ordine imprevisto.

Faccio bene, talvolta, a negare l’accordo con me stessa. E scopro una lettura appassionante e trasformativa nell’affondo, non fluida, né mai scontata: è la scrittura della maturità di un uomo giovane, esatto e studioso. Fabio Bacà è un istruttore di ginnastica dolce ed è uno scrittore incontrato con la volontà di non dare per scontato l’insipienza delle candidature ai premi Strega e Campiello. L’autore racconta l’esperienza di Davide, un neurochirurgo e di sua moglie, Barbara, logopedista, dinanzi all’aggressione, al comportamento asociale, alla paura, alla protezione e alla trasformazione.

La promessa è abbandonare l’idea che da una parte ci sia la ragione e dall’altra il torto, da una parte il business e dall’altra la cura, come la bellezza e l’orrido, la malattia e il benessere, schierati su fronti avversi. Tutto è assieme e ci tocca non solo l’equilibrio possibile quotidiano, ma il lavoro di attraversamento del buio e della luce, perché si nutrono l’uno dell’altra. Ci tocca non solo tollerare e reprimere la nostra spazzatura, ma convenire sull’orientamento alla speranza che si regge proprio sulla parte repressa, considerata colpevole. Perché, come nel romanzo: “La violenza era ripugnante. Eppure era inevitabile. Era inconcepibile. Ma era produttiva. Era vile. Ma ti faceva sentire vivo. Era disumana. Eppure profondamente, indissolubilmente umana”.

Ogni persona è in contatto con la componente nota e con quella inibita e latente, con l’istinto e la ragione, con la quotidianità sobria e con la follia, con il lato oscuro e istintivo, con le pulsioni ancestrali e primitive e con il raffinato cervello.

È illusorio condannare il male all’esterno, è reale, invece, riconoscerlo all’interno di sé, come responsabilità: è questa la forza degli esseri umani. La quotidianità procede lenta e scontata, il cambiamento è all’interno, nel dialogo faticoso e inarrestabile fra il corpo, la mente e la psiche nelle parti oscure e luminose. Siamo complessi, rozzi e raffinati, capaci di godere perché sofferenti; siamo vivi perché conosciamo la paura e l’abbandono.

Di conseguenza, progettiamo e garantiamo la sicurezza e l’ordine pubblico nella prospettiva ampia di un’offerta che operi con le coscienze e con le conoscenze. Prevediamo l’emergenza sociale e il contrasto alla criminalità attraverso le politiche di comunità, non certo nell’ottica punitiva, escludente e restrittiva dei sussidi, degli spazi, dei tempi.

Si può fuggire dinanzi alla violenza? Si può opporre la mitezza dinanzi a comportamenti violenti subiti? Non mi riferisco soltanto alla follia latente in ogni persona, ma all’alterazione naturale, al cortocircuito fisiologico che comporta la presa in carico della realtà. C’è da diventar matti alla sola idea che nasciamo per ammalarci e per morire.

Operiamo al di là delle espressioni caramellose e perverse dei sentimenti considerati buoni, visto che ne identifichiamo altri come cattivi. Disorientiamo il patriarcato compiaciuto nelle richieste di vittimismo, di scontro e di martirio, sdoganando i sentimenti inadeguati e sgradevoli, accogliendo, voglio dire, tutte le sfumature del sentire senza giudizi.

Gli istrionismi di copertura, le scariche isteriche, le epidemie depressive, le ossessioni maniacali rappresentano il lato oscuro e primitivo da registrare, senza colpe e senza punizioni. Auguriamoci il privilegio e la differenza nel discernere i maestri e le maestre nella potenza e nell’autenticità delle loro voci basse, a margine.

“L’universo è infinito perché contiene tutto l’odio generato dalla razza umana dall’inizio dei tempi. Questo è ciò che siamo. Questa è la sostanza di cui siamo fatti: sangue, furore e detriti di sogni al confine tra sonno e veglia. Dominare la violenza o esserne dominati. Toglietemi di dosso l’epitelio della civiltà fino a esporre il sembiante scorticato del mio vero io. Non sono più solo un medico seduto al capezzale di un ragazzo. Sono il figlio prediletto della foresta e del fiume. Sono il nucleo ribollente di Potere acquattato nelle tenebre in attesa di emergerne. Sono l’uomo con gli occhi chiusi, e medito sul tremendo koan oltre il quale saprò se sono capace di uccidere per salvare me stesso.”

Fabio Bacà, Nova, Adelphi. Edizione del Kindle

 

 

Ph. Fonte Silvia Meo

Esseri umani, lavori e barattoli

 

“Gli auguro una vita simile a quella del barattolo che in questo momento sua madre ha in mano, solo così nessuno potrà fargli del male”.

Parise, Goffredo. Il padrone. (p.238). Adelphi. Edizione del Kindle.

 

Negli ultimi quarant’anni il lavoro è stato utilizzato, anche nella lettura psicologica, come cura, come riscatto, come felicità. Il mercato globale è divenuto libero mercanteggiamento e ha inquadrato, disciplinato, omologato i dipendenti, talvolta, usandoli e gettandoli via. Il lavoro è diventato flessibile, precario, sottoposto, imposto a ogni condizione. E le persone lavoratrici hanno appreso il lavoro predatorio, frenetico, stancante, quello che ti fa tornare a casa senza energia e con denari appena sufficienti alla sopravvivenza. Il cambiamento è culturale e prevede l’analisi e lo studio delle priorità, dei desideri, delle prospettive, degli orientamenti. Gli imprenditori si lamentano dei giovani e degli adulti senza voglia di lavorare. La partecipazione alla forza-lavoro non è tornata ai tempi pre-pandemia: alcuni sono cialtroni, molti hanno scoperto la libertà del rifiuto e la possibilità di trasformare il senso della vita.

A lordo delle mistificazioni rispetto alle cause dell’elevata disoccupazione, per molte persone non è più desiderabile lo schema capitalista – diploma/laurea-lavoro-matrimonio-mutuo-casa-figli-vacanze – sotto il ricatto di una qualsiasi azienda che onori, benedica e sfrutti le strettoie e i legami dei/lle dipendenti. Una esistenza, a lavorare dieci ore al giorno, fra trasferte e straordinari, perché pagatori di rate, consumatori indebitati, esasperati e insoddisfatti. Liberi, sì, di lavorare sempre e spendere di più. In molte organizzazioni, non è solo una questione di rivendicare i diritti lavorativi, è in atto una trasformazione della mentalità, degli aspetti culturali che coinvolgono i tempi e i luoghi della vita intera, dei responsabili e dei dipendenti, dei padroni e degli asserviti.

Nella fabbrica o nel cantiere, come comandava la società industriale, l’operaio vendeva la sua forza-lavoro; adesso, i nuovi proletari si sono ritrovati a vendere, a prezzo modico, il tempo e l’equilibrio mentale.  La qualità della vita non è certo quella che viene propinata dal vecchio sistema: il lavoro, gli investimenti, il corpo forte e aggressivo, la famigghia e la patria, il divertimento, i consumi e i debiti.

Ipotizzo, in alcuni casi, che anche gli abusi – alcol, fumo, sesso, droghe, gioco d’azzardo, … – diventano funzionali a clinicizzare il tormento interiore, a colpevolizzare, a escludere quelli che non sono considerati all’altezza. Lo studio, il ragionamento e la consapevolezza consentono un adeguato governo di sé, concedendoci e godendo l’eccedenza, il divertĕre, “la cattiva strada”, strutturando e riconoscendo, in ogni situazione, il limite oltre il quale la merce siamo noi.

La “muta concentrazione vegetativa” del dipendente, come scrive Goffredo Parise, garantisce al feudatario la sua fetta di mercato. Il lavoro in cambio della vita. Il lavoro come una “trappola mortuaria” che, togliendo l’anima, il tempo, il pensiero, le relazioni, la salute, relega alla spossatezza, all’alienazione, alla frustrazione.

Per pensare a un diverso modello di sviluppo, a una produzione che incroci il sociale e l’ambiente è necessario interrogarci sugli aspetti culturali e sulle distorsioni cognitive. A favore dell’umanità, evitando la regressione dittatoriale e la barbarie del dominio, anche delle forze economiche, serve la coscienza dell’umano al posto dei nazionalismi. La ricerca è, innanzitutto, psicologica e filosofica; sono contenta quando intravedo e quando collaboro alla creazione di bande randagie di gatti e di gatte, di piccole comunità di ricerca, di imprese giovani e di giovani. Questi ultimi, soprattutto, rifiutano l’ideologia del lavoro che colonizza tutta la vita e rifiutano l’idea di un lavoratore a disposizione, a mostrarsi sempre felice e motivato.

A quasi sessant’anni dalla pubblicazione del libro Il padrone, inserito nel filone della narrativa industriale degli anni Sessanta, l’ammaestramento alla gerarchia lavorativa diviene causa di nevrosi per chi è al potere e per chi lo subisce. Il padrone e il dipendente, circondati da personaggi paradossali, diventano complici di un copione perdente, entrambi, avvelenati dal moralismo dell’obbedienza e della sottomissione al lavoro, soffrendo a causa dei comportamenti ossessivi compulsivi, dell’ansia, dell’iperadattamento.

Quando uscì, il romanzo fu considerato una metafora; nella lettura odierna, è una foto. Parise, anarchico impolitico, era convinto dell’illusoria libertà dell’individuo fra sistema, struttura e funzione ed era convinto dell’impossibilità di una realtà senza padroni. L’ordine delle procedure deve essere acquisito come un rituale religioso, se no, il lavoratore è segnalato come un elemento di disordine, come un errore pericoloso. L’Autore vede le persone come appendici della produzione e dei profitti, e racconta il potere totalitario che viene percepito come biologico e naturale. Alla fine, c’è la follia, a incatenare servi e padroni. Ed è sotto i nostri occhi.

Non desideriamo investire emotivamente, come in passato ci veniva richiesto, solo nella identità lavorativa di produttori e di consumatori. Non crediamo più alla favola del lavoro che richieda e doni empatia, resilienza, autostima, ottimismo e motivazione. Le organizzazioni non si modificano partendo solo dalle fragilità e dalle mancanze personali, ma considerando e favorendo la loro stessa  trasformazione: i copioni eroici culturali dell’utilitarismo, l’idea del lavoro con l’unica dimensione performativa, i protocolli di successo omologanti. Senza traboccante sentimentalismo, chiedo a me per prima di essere professionale, onesta, radicale, affaticata dai conflitti e dalle contraddizioni. Sono convinta che la psicologia applicata alle organizzazioni offra la possibilità di ripensare al mondo del lavoro senza dannarci l’anima e il corpo, senza impazzire, orientando il senso di sé e della comunità.

 

“Manterrò quello che ho promesso ai miei genitori: farò parte della ditta, lavorerò e guadagnerò, mi sposerò e formerò una famiglia, avrò una casa, con mobili moderni, la radio, la televisione, il frigorifero, la lavatrice e tutto quello che occorre. Andrò in villeggiatura d’estate nei venti giorni che mi toccheranno, se mi toccheranno, come tutti, come tutti gli uomini di questo mondo. Non mi muoverò di qui. Stringerò i denti e non sentirò più le parole di nessuno e in ogni caso, ripeto, sarò coerente con me stesso; oramai sono proprietà del dottor Max e sta a lui decidere per me, non io; io devo star qui e fare quello che fanno tutti gli altri e tutto quello che c’è qui dentro: uomini, donne, mobili, macchine da scrivere, macchine meccanografiche, e tutte le altre cose che sono qui dentro…”

Parise, Goffredo. Il padrone. (pp.59-60). Adelphi. Edizione del Kindle.

«Sono il padrone, il padrone, il padrone…! sono stufo di essere il servo dei miei dipendenti, sono stufo di aver a che fare coi furbi, con le volpi, con i ricci, con le donnole della ditta. Non ne posso più, vi caccio via tutti… il vostro comportamento fa schifo, io vi pago ed esigo rispetto. Non è per i soldi, io me ne frego dei soldi, potrei benissimo farne a meno, è il fatto morale che conta. E tutto ciò è immorale, immorale, immorale, avete capito? Purtroppo Dio non c’è per fulminarvi, ma lo farò io se sarà necessario, avete capito? Avete capito? Avete capito?»

Parise, Goffredo. Il padrone. (p.46). Adelphi. Edizione del Kindle.

“Esso emanava una forza di attrazione e di concentrazione simile alla fede religiosa. Come questa, infatti, ma senza oscurità e senza mistero, la ditta mi aveva chiamato a sé e ora la mia vita le apparteneva per sempre.”

Parise, Goffredo. Il padrone. (p.71). Adelphi. Edizione del Kindle.

ph. Fonte Silvia Meo

vir

 

Simenon è un grande scrittore e un uomo di sottile e profonda consapevolezza. Sono interessanti le indagini psicologiche dei personaggi, i profili delineati in tratti precisi, suggestivi e reali. Per Simenon non è importante la ricerca del peccatore, ma la comprensione delle condizioni culturali, sociali e del contesto personale e politico che hanno consentito di strutturare le situazioni colpevoli perché umanamente miserabili.

Il presidente, pubblicato nel 1958, non è solo un giallo; siamo dinanzi alla fenomenologia dell’uomo di potere. L’autore ha ufficialmente negato, ma, probabilmente, trae l’ispirazione dalla storia di George Clemenceau, capo del governo francese durante la prima guerra mondiale.

Nel testo, la drammatica e brillante vicenda umana di un politico potente si conclude in un casale sepolto sulla costa normanna, dopo la caduta del suo ultimo governo e la sincope che lo riduce affondato nella poltrona.

Il presidente, ancora assunto dal potere, è patetico, triste, semplicemente ripiegato su se stesso. L’intelligenza non gli serve per capire e per prevenire. La dura ira repressa per compiacere non esprime l’attesa della lenta vendetta, è solo un muro che nega l’intimità relazionale con chiunque. I tre medici, l’infermiera, la segretaria, la cuoca, la domestica, l’autista sono controllori imponenti e infallibili. Il potere scelto come un destino irrimediabile è l’unico affetto, è il senso di tutta la vita. I lineamenti tirati del presidente non richiamano il rispetto, titillano la furbizia dei servitori venduti.

Le relazioni finte, tutte, gli si sono sbriciolate negli occhi, fra le mani. L’uomo del potere, il presidente, il genio politico è un povero cristo che, in ogni situazione, intuendo l’opportunismo, si è illuso, inutilmente, di sfruttarlo per sé. L’interesse personale, l’avidità, i ricatti, la vanità, le competizioni, l’ipocrisia sono la forza di un mondo, di un modello di mondo, inumano.

La morte esiste perché gli esseri umani scelgono di farsi attraversare dall’amore. Il presidente non può morire perché non c’è alcuna vita da abbandonare; il respiro, senza l’éros, non è entrato, non è mai uscito.

In tutta la vicenda, l’uomo è fotografato in una immobilità ridicola rispetto al ruolo apicale. Non per vecchiaia e non per malattia: per la consunzione solitaria del carattere culturale. L’abbandono è pervasivo e il paesaggio della Normandia può essere feroce come i volti dei controllori.

Sono convinta che il dominio e la violenza del patriarcato uccidano i maschi, per prima. Molti uomini hanno disturbi psicologici culturali gravi. Qualora si presentino con impertinenza, brillanti e performativi, sono ancora più malati; certo, sono gli eroi del sorriso finto e della chiacchiera sciolta. Riconosco ancora tante creature che passano la vita a misurarselo e a vantarsene. Sono fragili e irregimentati in camicie di forza copionali, inseguendo antiquati medaglieri fuori contesto. Soli e appariscenti, ignoranti e logorroici, presenzialisti senza presenza psichica, senza forza vitale. Spesso, rimane soltanto il sudore imbarazzante dei venditori furbi, sempre più incattiviti e maldicenti.

Registro continuamente il pericoloso patriarcato che passa attraverso i ragionamenti compiaciuti ad lìbitum che girano senza cogliere la sostanza, un mefitico eroismo virile che sfugge, si intrufola, manipola dappertutto.

Sic transit gloria mundi, anche se l’occasione non è solenne, tradisce, in ogni caso, l’ossessione per la gloria: desideriamo trasformare il modo di stare al mondo che dia valore soltanto alla gloria, desideriamo smettere la coazione a ripetere dell’eccellere e dell’essere primo a tutti i costi. Per molti, il costo è la salute, è la stessa vita.

 

“Prima di andarsene gli sarebbe piaciuto portare a termine la sua opera più segreta, più personale, senza lasciare niente nell’ombra ed esaminando tutti gli aspetti. Non era forse per questo che si era dato alla lettura di memorie, confessioni e diari?  Ogni volta, però, ne usciva deluso e irritato, con la sensazione che l’autore avesse barato. Lui voleva la verità allo stato puro, allo stato grezzo, come la pretendeva da se stesso, fosse pure una verità disgustosa o ripugnante.  Gli scrittori che aveva letto, invece, aggiustavano le cose – era ormai abbastanza avanti negli anni per capirlo. Tutti avevano, credevano o sostenevano di avere una verità, mentre lui, che la cercava con tanto accanimento, non la trovava.”

Simenon, Georges. Il Presidente (Biblioteca Adelphi) (Italian Edition) . Adelphi. Edizione del Kindle.

 

 

Dolorante. Sguardi sulla medicina di genere

 

Caro amico mio, il dolore è narrativo,

pieno di articolazioni e di fantasia

Raffaele La Capria

 

Il dolore è la voce del corpo che non rinuncia, in ogni modo, alla legittima pretesa di essere intero, una unità, con la mente e con l’anima. L’esperienza sensoriale ed emotiva sgradevole rende il dolore espressione di una difesa. Questa difesa è soggettiva. E il corpo si esprime con messaggi sempre più chiari, man mano che diminuisce la resistenza a comprendere e si fa strada la scelta a consegnarmi. Il dolore è sempre assieme fisico, mentale, psicologico e culturale. Se avverto dolore nei tessuti del corpo, automaticamente registrerò la difficoltà a concentrarmi, ad ascoltare e a leggere, a seguire un film, a godere del cibo e del sonno; si abbasserà la mia soglia culturale di tolleranza, di energia vitale, di sguardo lungo. Sono convinta, pro domo mea, che la prevenzione psicologica sia fondamentale, credo all’aspetto interpretativo del dolore fisico, ma se non mi prendo cura direttamente del corpo, non salverò niente, l’ampia prospettiva mentale, la spiritualità, i miei studi. Fin qui, la premessa.

La medicina occidentale moderna tratta differentemente il dolore: la sofferenza di una donna è minimizzata e non curata in modo adeguato. La filosofa Miranda Fricker (City university, New York) parla di deficit di credibilità; insomma, siamo credute poco e male e i pregiudizi sociali abbondano, a proposito dell’irrazionalità e del fattore emozionale. Dinanzi ad una donna, continuo a registrare la tendenza diffusa ad attribuire la causa del dolore alla variabile emotiva. Non esiste un rapporto gerarchico tra dolore fisico e psicologico; il dolore appartiene alla persona intera e la coinvolge tutta. Siamo abituati a indagare e a distinguere la causa primaria fra una patologia fisica o una sofferenza psicologica; la mia ipotesi di indagine è che il dolore preveda contemporaneamente cause fisiche, psicologiche e culturali e tutte le variabili influiscono su come seguo la prevenzione e la cura. I parametri del dolore, però, sono calibrati sul modello maschile. E, dunque, ipotizzo una psicologia della medicina di genere.

È innegabile il mio interesse per la dimensione psicologica del dolore; rifletto sul fatto che, dinanzi a un uomo, indago ugualmente sulla sua stabilità emotiva e sulla relazione con la compagna. Dinanzi a una persona, di qualunque genere, tengo in conto le emozioni quando si tratta della salute e del dolore. Se, assieme, non ipotizziamo alcun percorso formativo possibile, passo la parola alla medicina e alla psicoterapia, senza ipotesi di isteria o di depressione. La sofferenza non sempre soddisfa i criteri del disturbo psicologico o della malattia mentale. Mi esprimo meglio: gli aspetti fisici, psicologici e del contesto c’entrano sempre e c’entrano tutti. Il dolore è sempre “vero”, anche se sono dinanzi a una persona che valuto meno credibile, esagerata, melodrammatica. Valuto sempre partendo dal mio copione psicologico, con i suoi ordini e le sue ingiunzioni.

Ora, il secondo punto di riflessione. Perché sia reale, il dolore non ha per forza una causa organica, ma, troppo spesso, accogliere il dolore delle donne, significa dover dimostrare che non ha origini psicologiche. Condivido le considerazioni di Elizabeth Barnes: “… i risultati di alcuni studi scientifici fanno pensare che le donne soffrano più degli uomini a causa di problemi psicologici. Per esempio, sembrano soffrire di depressione e di ansia più degli uomini. Ma i risultati di queste ricerche vanno letti con occhio critico perché non si capisce fino a che punto questa differenza sia dovuta ai pregiudizi diagnostici, cioè agli strumenti usati per misurare la depressione e l’ansia e ai pregiudizi dei professionisti della salute mentale, che potrebbero aver distorto i risultati attribuendo al fattore psicologico più importanza nelle donne che negli uomini. Ma considerato tutto quello che sappiamo sulla vita delle donne – gli abusi, le violenze, le barriere, il peso del lavoro di cura e accudimento – è plausibile che soffrano maggiormente di depressione e di ansia. Possiamo credere che la sofferenza delle donne sia più spesso mentale senza necessariamente credere che siano emotivamente fragili per natura… Genere, malattia psichiatrica e corpo sono chiaramente collegati tra loro. E più ne sappiamo del dolore, più ci rendiamo conto che è un complesso fenomeno biopsicosociale.” E io aggiungo, anche, politico.

L’autrice parla di doppio vincolo: il doppio vincolo, prodotto da due diversi pregiudizi: “le donne sono isteriche” e “le malattie psichiche non sono reali”. Ed è difficile combattere uno dei due pregiudizi senza involontariamente rafforzare l’altro. Sono d’accordo: “È importante non ignorare che lo stress, la depressione e i traumi influiscono sul dolore delle donne. Ma è altrettanto importante non rafforzare il pregiudizio che i problemi delle donne dipendono dalle loro emozioni. È molto difficile fare entrambe le cose e si possono provocare danni eccedendo in una direzione o nell’altra. Trattare le malattie fisiche delle donne come disturbi psicologici può mettere in pericolo la loro salute e la loro vita così come non tener conto della loro salute mentale può provocare danni”.

Il corpo non è solo il dolore rivelato in superficie, esso è il richiamo di una verità profonda che, attraverso il sentire anche dolorante, andiamo apprendendo. Il corpo femminile si apre diversamente alla comprensione, sente di più, sente, appunto, intuitivamente, dolorosamente.  Nella mia indagine che rimane psicologica, mi conforta il testo chiaro e senza pregiudizi della biologa immunologa pugliese Antonella Viola, Il sesso è (quasi) tutto, pubblicato qualche mese fa da Feltrinelli.

Seguendo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la medicina di genere considera l’influenza delle differenze biologiche definite dal sesso, ma anche le differenze sociali, politiche, economiche e culturali. Le neuroscienze non rilevano differenze significative, inclinazioni, capacità e potenzialità nel funzionamento del cervello maschile e femminile. In uomini e donne, invece, in termini fisiologici sono importanti le dimensioni e le differenze dei polmoni, delle vie respiratorie, del cuore. “Gli ormoni sessuali giocano chiaramente un ruolo importante nelle differenze fisiologiche tra i due sessi: in aggiunta agli organi legati alla riproduzione, i recettori degli ormoni sessuali sono infatti presenti in moltissimi tessuti, tra cui il cuore, il fegato, le ossa, i muscoli, i vasi sanguigni e il sistema immunitario” p.70

Sento e vedo la responsabilità del calo di estrogeni sulle ossa e sui muscoli; considero, certo, quanto sia stata fatale l’intermittenza del movimento fisico, dalla pubertà alla menopausa, dalla bicicletta al bastone, attraverso le gravidanze e gli allattamenti. Ribadisco con convinzione che alle 4 P della medicina – personalizzata, preventiva, predittiva e partecipativa – è bene aggiungere le 4P del cambiamento psicologico. Queste ultime prevedono la comprensione e la pratica quotidiana nel riscoprire la Potenza, l’energia interiore vitale, nel Perdono di sé, facendoci carico della fallibilità umana, nella Protezione rispetto al proprio nucleo di fragilità, nel Permesso a trasformazioni possibili perché reali.

La ricerca continua.

 

Le riflessioni proposte originano dalle letture:

  • La Capria, U. Silva, Al bar, nottetempo, 2015
  • Antonella Viola, Il sesso è (quasi) tutto, Evoluzione, diversità e medicina di genere, Feltrinelli, 2022
  • Articolo di Elizabeth Barnes che insegna filosofia nella Virginia a Charlottesvile. Non ritrovo il N., sono certa che l’articolo è apparso, mesi fa, sul settimanale Internazionale

 

 

 

 

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Aggiustamenti

 

Ho messo la vita in modalità vacanza, presso l’odore e il suono dello scoglio, sempre lui, da più di sessant’anni: le due lente colazioni, alle 5 e alle 11; il mare, di mattina alle 6.30 in estate e alle 8 in inverno; il pranzo frugale e, di seguito, più niente. Il pomeriggio, due o tre appuntamenti in studio, se richiesti. È un’altra vita ed è un’altra via, rispetto alle gare e agli obiettivi e alle rincorse. Per me e per le persone che scelgono il lavoro di consulenza e, dunque, di revisione della giornata lavorativa, propongo una nuova idea di vacanza presso di sé, una vacanza perenne, trasformando lo stile di vita quotidiano, senza più rifugi in un edonismo strutturato, arido e deludente. Le mattine lunghe, i pomeriggi intensi e le sere brevi, la lettura e lo studio. Ho incontrato, durante il confinamento in casa, le lezioni di Lucilla Giagnoni, attrice e studiosa della voce e dei movimenti corporei, prima che la parola venga consegnata nel suo significato. Il linguaggio è strumento recente di elezione per gli esseri umani. Interessante è il movimento del corpo, di tutto il corpo, che partecipa alla pronuncia. Si chiama fonosimbolismo e mi appassiona, mentre risparmio parole e ascolto il respiro. Prima della significatività del termine scelto, c’è la voce potenziale fra i suoni, le sillabe, le vocali e le consonanti, in un interscambio continuo con il corpo. La voce vibra, anticipa il fonema e racconta dell’anima, del desiderio nell’esprimere l’esistenza.

https://www.youtube.com/watch?v=uMFZ_jTamFw&t=74s

Ph.Fonte Silvia Meo

La legge dei padri e la giustizia delle donne: A Jury of Her Peers

ph. Fonte Silvia Meo

Scopro Susan Glaspell (1876-1948), scrittrice e drammaturga statunitense, e un suo librino imperdibile, A Jury of Her Peers, tradotto, Una giuria di sole donne, edito da Sellerio, un breve racconto poliziesco che si trasforma in un procedimento psicologico, in una riflessione sul bene e sul male.

In una fattoria sperduta e abbandonata, John Wright muore per impiccamento e sua moglie, Minnie Foster, la ragazza di città che cantava nel coro vent’anni prima, adesso ridotta in stracci, è incriminata. La signora Hale e la signora Peters, mogli acute, svalutate e derise dello sceriffo e del procuratore distrettuale, vengono invitate nella casa del delitto, nonostante la convinzione dei due uomini, per i quali le donne sono abituate a preoccuparsi per delle bazzecole.(p.32)

Prendo in prestito da Kimberlé Crenshaw il termine intersezionale per applicarlo all’analisi delle interazioni e delle intersezioni, alle diverse identità sociali, alle discriminazioni e alle oppressioni. Il testo offre una lettura psicologica, appunto, intersezionale, incrociando le problematiche simbiotiche, manipolative, di contaminazione fra le due donne e i due uomini e rende noti gli sguardi differenti sulla ipseità, sulla alterità, sul mondo.

L’utilizzo delle intuizioni è la formula rivoluzionaria femminile: vale lo scarto, il particolare insignificante, il segreto, la bazzecola, come malamente viene giudicata. La signora Hale e la signora Peters non cercano indizi di colpevolezza, semmai, si impegnano a capire chi è Minnie: le marmellate, la trapunta cucita, lo scialle, il grembiule, la stufa, la gabbietta scardinata del canarino, l’asciugamano sporco. Le due donne affinano la capacità di sentire i pensieri, di ascoltare la solitudine, di soffrire la mancanza dei figli e le incomprensioni nella coppia. La sorellanza è solidarietà e si esprime nella comprensione delle cause, nella visione sul contesto ampio; la sorellanza sempre registra e assume la superficie nella profondità.

Rifletto con interesse sulle scelte divergenti da quelle egemoni che le due donne silenziosamente compiono. Ci sono le leggi imposte dalle istituzioni e, accanto, ci sono i principi superiori alle leggi imposte; non esiste la legge cattiva dei maschi e, al contrario, la giustizia buona femminile. Al di là del criterio moralistico, emergono esigenze di prospettive, magari contrapposte, ma ugualmente utili per leggere la vita delle persone, delle famiglie, dei contesti sociali. Le donne che uccidono non sono folli, come recitava la cultura ottocentesca; la violenza non può essere elusa, né negata, va riconosciuta in noi stesse. I mali peggiori originano dalle forme svariate di ignoranza, non dai differenti pensieri femministi.

Rilevo che è possibile garantire la disciplina e l’ordine assieme alle incomprensioni dei registri comunicativi destabilizzanti delle donne che mettono in discussione e che dissentono dall’assetto sociale prestabilito. Tutti i giocatori psicologici difendono la stessa struttura mentale e rilanciano gli stessi pseudovalori per i quali se alcuni si salvano e ce la fanno, altri/e rimangono necessariamente scotomizzati/e, esclusi/e, tradotti/e in cella.

Il patriarcato non può essere oggetto di dibattito, rappresenta la follia che più spaventa, perché socialmente radicata e accettata come normalità. Le letture psicologiche della realtà non collimano con il canone in voga. E mi mortifica incontrare compagne di lavoro e di vita assoggettate, vittime sacrificali che dichiarano l’amore e patiscono il sacrificio.

La concessione di alcuni uomini e donne, anche la generosità che non è pari e che non possiamo ricambiare, è buonismo e diventa velocemente potere.

Il modello virile dichiara guerra al/la criminale, e le guerre sono roba importante, sono tutte sante e servono a sconfiggere il peccatore e a ridurlo in punizione. Nel racconto, lo sceriffo e il procuratore seguono un percorso prestabilito, pulito e ordinato, di indagini rituali e protocollate. Invece, le due donne, in relazione fra di loro e con il contesto, si fanno carico dei personali pensieri e sentimenti. Dunque, partono da se stesse e accolgono i dubbi, notano le differenze, si interrogano sulle disparità, sottolineano i contrasti, ritornano sulle divergenze; capendo e accogliendo il caos, seguono le esperienze visionarie che raccontano la realtà da molteplici prospettive di luci e di ombre. In tal modo, la pratica di vita coincide con il progetto lavorativo-professionale e politico.

Per la signora Hale e la signora Peters del romanzo non è in dubbio la giustizia che assicuri la pena al colpevole, ma la modalità di arrivare al mistero di ogni persona, per salvare se stesse, prima della eventuale condanna di Minnie Foster, e per scegliere, nel futuro prossimo, il cambiamento dei propri comportamenti, la trasformazione nell’interno interattivo della comunità. In una parola, la signora Hale e la signora Peters, apprendono e ci trasmettono il valore della prevenzione, oltre le colpe, i peccati e le punizioni.

“Alla fine ci si scoraggia… ci si perde d’animo.” p.43

“Non so come, però a volte non si capisce davvero come vivono gli altri finché… non succede qualcosa.” p.49

“Avrei dovuto capire che aveva bisogno di aiuto! Glielo dico io, è assurdo, signora Peters. Viviamo vicine, eppure siamo così lontane. E dobbiamo tutte sopportare le stesse cose… a guardarci non sembra, ma sono le stesse cose! Se non fosse che – perché io e lei lo capiamo? Perché sappiamo… quello che sappiamo adesso?” p.56

 

 

Ph. Fonte Silvia Meo

Le rose rosse (per ogni benservito)

Il rosso è il colore del patire, del sangue e della lotta sociale. Nel 1973, contro lo sfruttamento delle lavoratrici del ricamo, a Santa Caterina Villarmosa, nasce la “Lega delle ricamatrici”, sostenuta da UDI, PCI e CGL. Filippa Rotondo fonda la cooperativa “La rosa rossa” e raccoglie le lavoratrici abili e gioiose nel ricamare l’abbigliamento, i corredi e gli arredi. Ester Rizzo, nel libro Le ricamatrici, racconta una storia di avvilimento, di mortificazione e di ricatto, nella Sicilia degli anni settanta.

Considerando la mia esperienza professionale, dico che risultare perdenti serve ad illuminare le dinamiche dei gruppi sociali, le tensioni politiche del territorio, serve a ricordare gli abusi e a riparlarne. In fondo, riconoscermi perdente, in molte occasioni, ancora oggi, è una spinta a capire, a costituire piccole comunità in cammino.

“A volte nella vita le anime più diverse si incontrano ed è come se avessero condiviso un cammino insieme, come se si conoscessero da sempre” (Rizzo, p.53)

Non siamo escluse dal mondo professionale e lavorativo, siamo visibili e ascoltate con orecchie e con occhi di prospettiva maschilista, tra proclami, comitati e buone intenzioni. Il maschilismo rappresenta il peggiore dei mali ed è una fase primordiale nell’evoluzione mentale, psicologica e sociale dell’essere umano. Il modello fallocentrico su cui sono fondate la cultura e la civiltà occidentale è in agguato, è dappertutto, è subdolo; è difficile che l’occhio e l’orecchio non addestrati lo riconoscano.

Il libro ricorda le lavoratrici artigiane che filano, cuciono, ricamano e sono anche figlie innocenti, mogli fedeli e madri devote. Racconta i soprusi degli intermediari che procuravano loro il lavoro i quali, portati in tribunale e condannati, si vendicarono boicottandole. Vennero riconosciute come “lavoratrici dipendenti a domicilio” e per loro furono fissate le tariffe e i contributi, il riconoscimento e la tutela del lavoro. Ma siamo ancora a ragionare intorno al senso delle attività femminili, alla indipendenza, all’autonomia, alla libertà emotiva e cognitiva, strutturale, delle donne.

Qualche contesto associativo, politico, aziendale, si attiva nel promuovere i diritti delle lavoratrici ed è più avvilente la scoperta di una scelta di facciata che non trova riscontro nella pratica minima della quotidianità; i rimedi, talvolta, sono peggiori della malattia. Non chiedo alcuna garanzia posticcia dell’equilibrio di genere, poco credibile perché non ha radici nel cambiamento autentico, neanche in un orientamento appena desiderato. Né le donne autorevoli, tecniche o politiche preparate, devono dimostrare in qualche modo di esserlo: senza il cambio di mentalità le “prove” di adeguatezza non sono mai abbastanza. Non rilevo una battuta d’arresto o uno scherzo della mia personale sorte negativa: ogni volta ho la conferma che, senza le radici culturali e la conoscenza coltivata, non nasce niente. Gli slogan e le frasi ad effetto di chi sa chi, l’incantamento ingenuo, il sentimentiring, la tendenza a buttarla sull’emozionale, sul vittimismo, perpetuano inconsapevolmente l’oscuramento e l’indebolimento dell’universo femminile.

La spina è la mentalità, non solo la rappresentanza femminile, giacché anche scegliendo un numero di donne adeguato, possono essere confermate le scelte patriarcali e rigide, i governi classisti e militarizzati, la società con una mentalità paranoica. Desideriamo interessarci di welfare, di contratti collettivi, di asili nido, di congedi parentali, di bonus, di gender gap. Riconosciamo le forme o le dichiarazioni superficiali di femminismo o di una generica attenzione alle donne che inseguono la carriera personale e non la liberazione collettiva, che orientano verso gli ordini psicologici copionali, invece di misurarli e di curarli.

E insistiamo e ricominciamo a dovere vantarci di essere forti, perfette, a sbrigarci, a compiacere, a mettercela tutta. Come comanda il modello maschile. Ci consumiamo in proteste inutili e rassicuranti che puntano a mantenere il potere all’interno dei gruppi, dei sindacati, all’interno, addirittura, di quelle relazioni che, fin dall’inizio del Novecento, vedevano le donne schierate chiaramente da una parte o dall’altra.

L’indignazione è alzare la testa e reggere il confronto ricattatorio di chi rimprovera, sempre paternamente, di non essere coerente con l’accoglienza di tutte le idee.  Ma con il vecchio patriarcato non si discute. Soprattutto quando la divisione fra sfruttati e sfruttatori, dominanti e dominati, insomma, quando la divisione in vittime, persecutori e salvatori, in un ordine naturalmente gerarchico, viene presentato come fisiologico, meccanico e utile.

Infatti, la classe dominante ha le sue retoriche per reprimere le spinte di cambiamento: la più diffusa è provare a radicare la convinzione che i ricchi, i padroni da modello paranoico, servono. Mi applico a curare l’idea che la Vittima, il Persecutore e il Salvatore rappresentino «una legge naturale» (rivediamo Vilpredo, Pareto e Gaetano Mosca di fine Ottocento) e che mantengano, in fondo, equilibri utili e legittimi. Rappresentano, invece, dinamiche psicologiche malsane che finiscono per sostenere i soprusi e le ingiustizie, le manipolazioni e le simbiosi.

L’idea centrata sui valori virili di riuscita, di potere e di forza anche delle donne, sostiene i personaggi del triangolo drammatico come fossero tre furbi che usano le strategie per cambiare, senza cambiare nulla, ottenendo benefici minimi e momentanei. E finisce che i furbi, asserviti e dotati di micropoteri, vengano richiesti come fossero i migliori, i più adeguati. Insomma, siamo dinanzi a balletti ideologici. Serve proporci nei comportamenti vittimistici, di sudditanza e di bisogno nella misura in cui all’altro serve il paternalismo e l’assistenzialismo, per mantenere i copioni senza uscita e senza possibilità di trasformazione autentica.

Come fosse un principio universale, ai Salvatori servono i persecutori e le vittime in lite; se no, a chi promettono l’apparente salvezza? A chi vendono i loro prodotti, la negoziazione, la gestione dei conflitti, il successo, la resilienza, l’empatia, il consenso sociale, l’autostima, la vincita perpetua? Solo mantenendo i giochi psicologici, vengono ristabiliti e potenziati la diseguaglianza della cittadinanza, l’ordine proprietario e i meccanismi regolativi.

Il benessere proposto è truccato: l’accordo fra tutti, la risata, la visibilità da like, il presenzialismo ad ogni costo, la strumentalizzazione, la decontestualizzazione, le grida, i pianti, le sfide, i rancori richiamano i giochi psicologici e sociali della classe dominante. Come fosse nell’interesse di tutti essere competitivi e vincere le colluttazioni, mortificare ed escludere chi non dichiara guerra e non si difende. Ritengo che la frustrazione e l’indignazione siano ricchezze interiori come risorse di trasformazione e di rivoluzione. L’ansia non è un difetto personale, è un fenomeno sociale. A dover essere eliminate sono la volgarità e la violenza del sistema, non il dolore e la preoccupazione personali, anche delle persone che incontro nella mia attività di psicologa.

Fino a pochi anni fa, io ho creduto in ciò che mi raccontavano, poi ho scoperto, camminando con fatica, che non era vero. E che la nemica ero io. Di volta in volta, scoprivo che quel programma di scrittura, di conferenza, di formazione, di lavoro in gruppo, era una mistificazione, una menzogna per lasciare tutto com’era. Richiedevano la mia consulenza, sì, per continuare a fare i loro interessi, anche ideologici. Mi ritrovavo ridotta nella condizione di non dover ostacolare gli individui dominanti, maschi e femmine, perché io stessa e la parcella potessimo sopravvivere. È un’identità di ceto, più che di classe, dice Nadia Urbinati, a pag.22, nel numero 11 della rivista Jacobin. E vale la pena, assieme alle letture psicologiche, seguire il pensiero democratico liberale contemporaneo e le teorie della sovranità che la filosofa propone.

Nelle attività lavorative, solo con la formazione sistematica, circolare e onesta di coscienza e di consapevolezza, la rosa rossa, davvero, può segnalare l’amore che inizia da sé e crea comunità professionali sempre più allargate.

Le riflessioni che propongo tengono in conto le letture:

  • Ester Rizzo, Le ricamatrici, Navarra Ed., 2021
  • Nadia Urbinati, Marco d’Eramo, Dominanti e Dominati in Jacobin, Il nemico invisibile, N.11/2021, pp.16/25
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Testimoni di risvegli

 

Nei primi anni Ottanta, con la promulgazione della Legge 180, partono i primi esperimenti di reparto aperto. Gli Spdc, i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura sono luoghi imperfetti, fragili, lenti; le comunicazioni verbali e scritte sono circolari e ogni nota si chiude con la dicitura Altro nulla da segnalare. L’umanità ha bisogno di essere protetta dal potere, dal patriarcato, dall’ingiustizia, non ha bisogno di difendersi dalla follia e dai pazzi.

Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro studiano e si impegnano perché i “matti forte” siano riconosciuti umani. E la natura umana chiede respiri, spazi, dignità e libertà di esistenza, senso di comunità. Il dottor Sorrentino segue il progetto di liberazione promosso da Psichiatria Democratica nell’Ospedale torinese Mauriziano e ne dà conto, alla fine della sua esperienza professionale, aiutato nella scrittura da Francesca Valente, con energia e misericordia. La scrittrice ha meritato all’unanimità il Premio Italo Calvino 2021.

Il mondo che abitiamo prevede che alcuni gruppi di persone siano come fantasmi e che per loro valga un dizionario minimo: il repartino, il rapportino, la domandina sono diminuitivi svalutanti. Ritrovo il linguaggio diminuito anche negli istituti penitenziari in cui il detenuto è deresponsabilizzato e oggettivizzato. La segregazione e la marginalità sociale è uguale dappertutto, nei ghetti agricoli e nei campi rom, nei manicomi e nelle carceri.

Non ci sono simulazioni a beneficio di chi legge; la realtà diviene testimonianza di verità. Purtroppo, sono destinate a fallire le leggi che non prevedono il cambiamento di tutta la visione rispetto alla persona, alla società e al mondo. I reparti aperti, le celle aperte, le interazioni circolari sono come ponti fra i rinnegati e il territorio, fra la comunità dentro e quella fuori. Rifiutiamo la mentalità brutale che genera l’uso di misure e di strumenti violenti, il contenimento, la punizione corporale, la reclusione più feroce. La follia è brutta, è sporca, è cattiva, ma è un’espressione umana e bisogna farne qualcosa di questa parte negletta che appartiene al corpus sociale. Il nemico è dentro e non si fa cancellare.

Così, in una storia recuperata dagli appunti, l’Alberti che sfogava la sua ira sfasciando il comodino, si calmava dopo un colloquio prolungato. L’Autrice non risparmia situazioni, non omette particolari, racconta e racconta di vite miserabili: il vomito e le feci, le urla e l’euforia, la furia e l’abbandono, le bottiglie nascoste nelle braghe e la poesia di chi entra senza insistenza nella morte su una panchina dei giardini.

Oltre i documenti ufficiali, i timbri definitivi, oltre le cartelle cliniche, in questo libro apprezzo gli originali scritti informali, le comunicazioni veloci e i diari di bordo, gli scritti parlati in dialetto: ad ogni lettore/trice giungono le voci, gli odori, i volti, i malesseri. Gli infermieri che scrivono offrono consigli agli psichiatri, ipotizzano trattamenti anche verbali, auspicano comportamenti e mentalità accoglienti. Leggo in un pizzino: Farsi restituire, fosse possibile, le chiavi di casa e dell’auto e mi convinco che la rivoluzione è in quel fosse possibile perché, nella interazione, è previsto che l’altro, in qualche modo, affermi la propria volontà, è previsto che esista, insomma, anche negandosi.

Attraverso le pagine è la follia che, abitandoci come possibilità, ci viene incontro sorniona. Sono storie da ricostruire, vite da riconoscere come dignitose e legittime ponendo al centro la relazione, fondamento e struttura dell’essere umano. Questa scrittura crede che i paz., allo stesso tempo pazzi e pazienti, pure inconsapevolmente, abitando il mondo, rappresentino la spinta e la forza di un pensiero critico. Francesca Valente non li vuole emendare, non li vuole salvare. Partecipiamo ai risvegli, riconosciamo la realtà per quella che è e non per quello che immaginiamo. È la comprensione della realtà che consente il romanzare, un bel romanzare, il migliore negli ultimi mesi di letture.

 

Francesca Valente, Altro nulla da segnalare, Einaudi, 2022

VIII Qui c’era un’umanità che raccontava un’altra umanità, con benevolenza e un sincero sforzo di comprensione. Spesso erano entrambi umanità dolenti.

Occhipinti, insonne, insisteva nell’ordinare champagne: le ho portato in sostituzione dello stesso dell’acqua, ma ha dimostrato, rovesciandomela in testa, di non gradirla. p.3

I certificati elettorali sono nell’armadietto stupefacenti .p. 148

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L’esperire di sè

 

 

La nevrosi che incontra la narrazione può divenire romanzo, l’ansia può ispirare la letteratura e il tormento interiore può sostenere come una leva e una misura di genialità. In Niente di vero, romanzo pubblicato da Einaudi e candidato quest’anno fra i dodici finalisti al premio Strega, riconosco Veronica Raimo, scrittrice di talento nell’intuizione, nel metodo e nella tecnica. Apprezzo lo stile incalzante e deciso, ammiro il coraggio, la disinvolta e spregiudicata perizia delle operazioni chirurgiche sull’anima.

Da lettrice psicologa mi commuovo e tengo a cuore le sorti della creatura piccola, Vero, Veronica o Verika o anche “oca”, figura centrale delle vicende narrate. E considero che, ad ogni età e in ogni professione, le donne si propongono nella loro diversa eccellenza ed eccedenza. Ritengo cosa buona apprendere la protezione di sé ché consenta la forza stabile e profonda. Sono generose, le donne e, quando scrivono, lo sono di più, fino a scorticare l’anima e fino al più profondo dei deserti.

La registrazione della realtà e l’ironia sono strumenti per uscire dai giochi psicologici. Però, nel romanzo, certa ironia, pur utilizzata con indiscussa e sottile maestrìa, non mi fa sorridere affatto, anzi, mi preoccupa. Giocare a proprie spese, raccontando di sé episodi e situazioni, è un gioco psicologico pericoloso. Non escludo che Veronica Raimo possa permettersi di entrare nel gioco dell’esposizione e di rompere dal di dentro la maledizione della svalutazione di sé, dell’altro e della situazione. Non lo escludo, ma è una operazione delicata, complessa e che prevede una guida psicologica.

Io chiedo di proteggerci, prima di donarci e di esporci. E questo vale anche per una letterata. “Spararsi pose da fallite” nell’adolescenza è un’azione seduttiva almeno quanto, nell’età adulta, manifestarsi risolte, guarite, sornione dinanzi alle ferite. Di queste ultime, il corpo, l’anima e la mente sanno e conservano, in qualche modo, i segni e la memoria. Il tono fra il comico e il surreale, nel lavoro formativo, è tragico.

La scrittrice dichiara nell’intervista di Rosa Carnevale, qualche giorno fa:

“Mi interessava fare esattamente il contrario di quanto avviene solitamente in molti libri e rovesciare l’idea che i percorsi esistenziali siano così lineari o che tendano, come nei romanzi di formazione, a qualche tipo di consapevolezza. Volevo mettere in crisi questa credenza che si debba per forza arrivare da qualche parte altrimenti la struttura narrativa non regge.”

Raimo riesce nel suo intento. A me rimane il dubbio che al nucleo, alla base, alla parte più intima e nascosta, bisogna che ci avviciniamo con cautela e rispetto. E nessuno entra in quel nucleo. Il rischio è continuare il cammino senza pelle: ci infettiamo, ci scottiamo. Il pudore, l’imbarazzo, la vergogna non sono solo categorie morali ma, soprattutto, sono protezioni psicologiche, più o meno adeguate, in situazioni diverse. Il ricordo è sempre “vero” perché è la lettura che io stessa offro di ogni accadimento e, dunque, se affermo niente di vero, leggo una inconsapevole scotomizzazione. Semmai, è tutto di vero, di sè. E siamo definite da quei ricordi, ci strutturiamo partendo da quel vero percepito che, talvolta, magari, non è accaduto realmente.

Per esempio, a me non importa quanto risultino ridicoli “il cimitero dei feti” o “il giardino degli angeli”: l’interruzione volontaria di gravidanza, non fa ridere nessuna donna. Mai. Perché anche la volontarietà prevede contesti, pensieri e sentimenti dolorosi. Non è mai facile e neppure adeguato riuscire a riderne. Il sospetto è che, in molti casi, l’ironia mostrata e venduta a se stesse per prima, equivalga alla risata della forca o la risata dell’impiccato. E vale dinanzi ai traumi infantili, dinanzi alle nevrosi della coppia genitoriale, dinanzi alle difficoltà relazionali, dinanzi alla finitudine e alla mancanza; vale per ogni dispiacere e in ogni situazione sgradevole. È retorica patriarcale la considerazione della visione psicologica come uno sdolcinato rimestare di pancia.

Il patriarcato è sempre spavaldo; la mente maschilista deride le fragilità, si fa beffa delle ferite, considerate onorificenze nelle guerre combattute. Con lo sguardo maschile la tragedia è esilarante, le manifestazioni di pazzia sono irresistibilmente buffe, e provocano ilarità gli spettacolini delle donne nervose perché mestruate. E, dopo la risata sarcastica, appunto, la risata della forca, il patriarcato si abbatte dinanzi all’insopportabilità delle proprie imperfezioni. L’auto fiction puzza di patriarcato.

Nell’esposizione libera di sé e liberante per gli altri, il dolore, la fatica, la vergogna rimangono compagni di viaggio governati, ma presenti. Condivido, riportando brevi frasi, la confidenza di una donna che scrive, che ha pubblicato e, ancora, desidera mantenere l’anonimato:

“Lizia, … A me è mancata la fierezza, … è una parte della mia vita che mi imbarazza, non mi inorgoglisce la consapevolezza di ammettere che quella sono io, persona derelitta, brutta e stupida… Ad essere sincera, non ho cura né fierezza neanche verso la me del presente che continua ad annaspare tra paura, incertezza e rabbia… Quel vissuto si è preso giovinezza, speranze, vita, e continuo a non avere alcuna voglia di dargli una bella veste che io stessa non riconosco… Poi lo rileggo e piango. Leggo le ultime pagine e solo là mi scorgo vera. E penso che sono a centinaia di chilometri e ad anni di distanza, in una città meravigliosa, ma ho ancora troppi macigni per riuscire a volare. Rileggo la fine per darmi coraggio e dirmi che se solo abbandonassi le zavorre farei passi da gigante… Sono sempre un po’ lenta, sono un po’ stanca, ma poi ci arrivo a far accadere le cose.”

Nel lavoro autobiografico, per ogni donna, leggo la “zavorra” della lentezza e della stanchezza come un bene, per proteggersi tutto il tempo che serve. Prima di dissacrare le ideologie e di demolire le certezze, prima di buttare i vestiti vecchi, apprendiamo a proteggerci, anche godendo, ciascuna presso di sé, della fragilità e delle ferite. Voglio dire che il vecchio e caro copione, perché si avvii l’autentica trasformazione, ha bisogno di essere considerato e ringraziato per la sua devozione e per averci accompagnato in un periodo esistenziale. Ad un certo punto, il copione non basta più, inizia ad apparire stretto, obsoleto, inutile e, di conseguenza, possiamo decidere, legittimamente, di avviarne il cambiamento consapevole, parziale o totale. La garanzia di liberazione e di felicità autentiche è segnata dalla permanenza nei territori del dispiacere.

Con la riflessione proposta sul metodo autobiografico come cura e formazione mi sono allontanata dal libro per ritornare ad esso, meritando ancor più il piacere della lettura. Ogni romanzo, ogni storia letta o ascoltata diviene un pretesto per indagare, per approfondire le potenzialità che le donne hanno di custodire la fedeltà a se stesse, la sensibilità al male, per le creature terrestri, la cura della “gettatità”; sì, la cura rispetto all’essere-gettati-nel-mondo (Heidegger).

E qui la lettura psicologica passa la mano alla filosofia.