Dolorante. Sguardi sulla medicina di genere

 

Caro amico mio, il dolore è narrativo,

pieno di articolazioni e di fantasia

Raffaele La Capria

 

Il dolore è la voce del corpo che non rinuncia, in ogni modo, alla legittima pretesa di essere intero, una unità, con la mente e con l’anima. L’esperienza sensoriale ed emotiva sgradevole rende il dolore espressione di una difesa. Questa difesa è soggettiva. E il corpo si esprime con messaggi sempre più chiari, man mano che diminuisce la resistenza a comprendere e si fa strada la scelta a consegnarmi. Il dolore è sempre assieme fisico, mentale, psicologico e culturale. Se avverto dolore nei tessuti del corpo, automaticamente registrerò la difficoltà a concentrarmi, ad ascoltare e a leggere, a seguire un film, a godere del cibo e del sonno; si abbasserà la mia soglia culturale di tolleranza, di energia vitale, di sguardo lungo. Sono convinta, pro domo mea, che la prevenzione psicologica sia fondamentale, credo all’aspetto interpretativo del dolore fisico, ma se non mi prendo cura direttamente del corpo, non salverò niente, l’ampia prospettiva mentale, la spiritualità, i miei studi. Fin qui, la premessa.

La medicina occidentale moderna tratta differentemente il dolore: la sofferenza di una donna è minimizzata e non curata in modo adeguato. La filosofa Miranda Fricker (City university, New York) parla di deficit di credibilità; insomma, siamo credute poco e male e i pregiudizi sociali abbondano, a proposito dell’irrazionalità e del fattore emozionale. Dinanzi ad una donna, continuo a registrare la tendenza diffusa ad attribuire la causa del dolore alla variabile emotiva. Non esiste un rapporto gerarchico tra dolore fisico e psicologico; il dolore appartiene alla persona intera e la coinvolge tutta. Siamo abituati a indagare e a distinguere la causa primaria fra una patologia fisica o una sofferenza psicologica; la mia ipotesi di indagine è che il dolore preveda contemporaneamente cause fisiche, psicologiche e culturali e tutte le variabili influiscono su come seguo la prevenzione e la cura. I parametri del dolore, però, sono calibrati sul modello maschile. E, dunque, ipotizzo una psicologia della medicina di genere.

È innegabile il mio interesse per la dimensione psicologica del dolore; rifletto sul fatto che, dinanzi a un uomo, indago ugualmente sulla sua stabilità emotiva e sulla relazione con la compagna. Dinanzi a una persona, di qualunque genere, tengo in conto le emozioni quando si tratta della salute e del dolore. Se, assieme, non ipotizziamo alcun percorso formativo possibile, passo la parola alla medicina e alla psicoterapia, senza ipotesi di isteria o di depressione. La sofferenza non sempre soddisfa i criteri del disturbo psicologico o della malattia mentale. Mi esprimo meglio: gli aspetti fisici, psicologici e del contesto c’entrano sempre e c’entrano tutti. Il dolore è sempre “vero”, anche se sono dinanzi a una persona che valuto meno credibile, esagerata, melodrammatica. Valuto sempre partendo dal mio copione psicologico, con i suoi ordini e le sue ingiunzioni.

Ora, il secondo punto di riflessione. Perché sia reale, il dolore non ha per forza una causa organica, ma, troppo spesso, accogliere il dolore delle donne, significa dover dimostrare che non ha origini psicologiche. Condivido le considerazioni di Elizabeth Barnes: “… i risultati di alcuni studi scientifici fanno pensare che le donne soffrano più degli uomini a causa di problemi psicologici. Per esempio, sembrano soffrire di depressione e di ansia più degli uomini. Ma i risultati di queste ricerche vanno letti con occhio critico perché non si capisce fino a che punto questa differenza sia dovuta ai pregiudizi diagnostici, cioè agli strumenti usati per misurare la depressione e l’ansia e ai pregiudizi dei professionisti della salute mentale, che potrebbero aver distorto i risultati attribuendo al fattore psicologico più importanza nelle donne che negli uomini. Ma considerato tutto quello che sappiamo sulla vita delle donne – gli abusi, le violenze, le barriere, il peso del lavoro di cura e accudimento – è plausibile che soffrano maggiormente di depressione e di ansia. Possiamo credere che la sofferenza delle donne sia più spesso mentale senza necessariamente credere che siano emotivamente fragili per natura… Genere, malattia psichiatrica e corpo sono chiaramente collegati tra loro. E più ne sappiamo del dolore, più ci rendiamo conto che è un complesso fenomeno biopsicosociale.” E io aggiungo, anche, politico.

L’autrice parla di doppio vincolo: il doppio vincolo, prodotto da due diversi pregiudizi: “le donne sono isteriche” e “le malattie psichiche non sono reali”. Ed è difficile combattere uno dei due pregiudizi senza involontariamente rafforzare l’altro. Sono d’accordo: “È importante non ignorare che lo stress, la depressione e i traumi influiscono sul dolore delle donne. Ma è altrettanto importante non rafforzare il pregiudizio che i problemi delle donne dipendono dalle loro emozioni. È molto difficile fare entrambe le cose e si possono provocare danni eccedendo in una direzione o nell’altra. Trattare le malattie fisiche delle donne come disturbi psicologici può mettere in pericolo la loro salute e la loro vita così come non tener conto della loro salute mentale può provocare danni”.

Il corpo non è solo il dolore rivelato in superficie, esso è il richiamo di una verità profonda che, attraverso il sentire anche dolorante, andiamo apprendendo. Il corpo femminile si apre diversamente alla comprensione, sente di più, sente, appunto, intuitivamente, dolorosamente.  Nella mia indagine che rimane psicologica, mi conforta il testo chiaro e senza pregiudizi della biologa immunologa pugliese Antonella Viola, Il sesso è (quasi) tutto, pubblicato qualche mese fa da Feltrinelli.

Seguendo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la medicina di genere considera l’influenza delle differenze biologiche definite dal sesso, ma anche le differenze sociali, politiche, economiche e culturali. Le neuroscienze non rilevano differenze significative, inclinazioni, capacità e potenzialità nel funzionamento del cervello maschile e femminile. In uomini e donne, invece, in termini fisiologici sono importanti le dimensioni e le differenze dei polmoni, delle vie respiratorie, del cuore. “Gli ormoni sessuali giocano chiaramente un ruolo importante nelle differenze fisiologiche tra i due sessi: in aggiunta agli organi legati alla riproduzione, i recettori degli ormoni sessuali sono infatti presenti in moltissimi tessuti, tra cui il cuore, il fegato, le ossa, i muscoli, i vasi sanguigni e il sistema immunitario” p.70

Sento e vedo la responsabilità del calo di estrogeni sulle ossa e sui muscoli; considero, certo, quanto sia stata fatale l’intermittenza del movimento fisico, dalla pubertà alla menopausa, dalla bicicletta al bastone, attraverso le gravidanze e gli allattamenti. Ribadisco con convinzione che alle 4 P della medicina – personalizzata, preventiva, predittiva e partecipativa – è bene aggiungere le 4P del cambiamento psicologico. Queste ultime prevedono la comprensione e la pratica quotidiana nel riscoprire la Potenza, l’energia interiore vitale, nel Perdono di sé, facendoci carico della fallibilità umana, nella Protezione rispetto al proprio nucleo di fragilità, nel Permesso a trasformazioni possibili perché reali.

La ricerca continua.

 

Le riflessioni proposte originano dalle letture:

  • La Capria, U. Silva, Al bar, nottetempo, 2015
  • Antonella Viola, Il sesso è (quasi) tutto, Evoluzione, diversità e medicina di genere, Feltrinelli, 2022
  • Articolo di Elizabeth Barnes che insegna filosofia nella Virginia a Charlottesvile. Non ritrovo il N., sono certa che l’articolo è apparso, mesi fa, sul settimanale Internazionale

 

 

 

 

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Aggiustamenti

 

Ho messo la vita in modalità vacanza, presso l’odore e il suono dello scoglio, sempre lui, da più di sessant’anni: le due lente colazioni, alle 5 e alle 11; il mare, di mattina alle 6.30 in estate e alle 8 in inverno; il pranzo frugale e, di seguito, più niente. Il pomeriggio, due o tre appuntamenti in studio, se richiesti. È un’altra vita ed è un’altra via, rispetto alle gare e agli obiettivi e alle rincorse. Per me e per le persone che scelgono il lavoro di consulenza e, dunque, di revisione della giornata lavorativa, propongo una nuova idea di vacanza presso di sé, una vacanza perenne, trasformando lo stile di vita quotidiano, senza più rifugi in un edonismo strutturato, arido e deludente. Le mattine lunghe, i pomeriggi intensi e le sere brevi, la lettura e lo studio. Ho incontrato, durante il confinamento in casa, le lezioni di Lucilla Giagnoni, attrice e studiosa della voce e dei movimenti corporei, prima che la parola venga consegnata nel suo significato. Il linguaggio è strumento recente di elezione per gli esseri umani. Interessante è il movimento del corpo, di tutto il corpo, che partecipa alla pronuncia. Si chiama fonosimbolismo e mi appassiona, mentre risparmio parole e ascolto il respiro. Prima della significatività del termine scelto, c’è la voce potenziale fra i suoni, le sillabe, le vocali e le consonanti, in un interscambio continuo con il corpo. La voce vibra, anticipa il fonema e racconta dell’anima, del desiderio nell’esprimere l’esistenza.

https://www.youtube.com/watch?v=uMFZ_jTamFw&t=74s

Ph.Fonte Silvia Meo

La legge dei padri e la giustizia delle donne: A Jury of Her Peers

ph. Fonte Silvia Meo

Scopro Susan Glaspell (1876-1948), scrittrice e drammaturga statunitense, e un suo librino imperdibile, A Jury of Her Peers, tradotto, Una giuria di sole donne, edito da Sellerio, un breve racconto poliziesco che si trasforma in un procedimento psicologico, in una riflessione sul bene e sul male.

In una fattoria sperduta e abbandonata, John Wright muore per impiccamento e sua moglie, Minnie Foster, la ragazza di città che cantava nel coro vent’anni prima, adesso ridotta in stracci, è incriminata. La signora Hale e la signora Peters, mogli acute, svalutate e derise dello sceriffo e del procuratore distrettuale, vengono invitate nella casa del delitto, nonostante la convinzione dei due uomini, per i quali le donne sono abituate a preoccuparsi per delle bazzecole.(p.32)

Prendo in prestito da Kimberlé Crenshaw il termine intersezionale per applicarlo all’analisi delle interazioni e delle intersezioni, alle diverse identità sociali, alle discriminazioni e alle oppressioni. Il testo offre una lettura psicologica, appunto, intersezionale, incrociando le problematiche simbiotiche, manipolative, di contaminazione fra le due donne e i due uomini e rende noti gli sguardi differenti sulla ipseità, sulla alterità, sul mondo.

L’utilizzo delle intuizioni è la formula rivoluzionaria femminile: vale lo scarto, il particolare insignificante, il segreto, la bazzecola, come malamente viene giudicata. La signora Hale e la signora Peters non cercano indizi di colpevolezza, semmai, si impegnano a capire chi è Minnie: le marmellate, la trapunta cucita, lo scialle, il grembiule, la stufa, la gabbietta scardinata del canarino, l’asciugamano sporco. Le due donne affinano la capacità di sentire i pensieri, di ascoltare la solitudine, di soffrire la mancanza dei figli e le incomprensioni nella coppia. La sorellanza è solidarietà e si esprime nella comprensione delle cause, nella visione sul contesto ampio; la sorellanza sempre registra e assume la superficie nella profondità.

Rifletto con interesse sulle scelte divergenti da quelle egemoni che le due donne silenziosamente compiono. Ci sono le leggi imposte dalle istituzioni e, accanto, ci sono i principi superiori alle leggi imposte; non esiste la legge cattiva dei maschi e, al contrario, la giustizia buona femminile. Al di là del criterio moralistico, emergono esigenze di prospettive, magari contrapposte, ma ugualmente utili per leggere la vita delle persone, delle famiglie, dei contesti sociali. Le donne che uccidono non sono folli, come recitava la cultura ottocentesca; la violenza non può essere elusa, né negata, va riconosciuta in noi stesse. I mali peggiori originano dalle forme svariate di ignoranza, non dai differenti pensieri femministi.

Rilevo che è possibile garantire la disciplina e l’ordine assieme alle incomprensioni dei registri comunicativi destabilizzanti delle donne che mettono in discussione e che dissentono dall’assetto sociale prestabilito. Tutti i giocatori psicologici difendono la stessa struttura mentale e rilanciano gli stessi pseudovalori per i quali se alcuni si salvano e ce la fanno, altri/e rimangono necessariamente scotomizzati/e, esclusi/e, tradotti/e in cella.

Il patriarcato non può essere oggetto di dibattito, rappresenta la follia che più spaventa, perché socialmente radicata e accettata come normalità. Le letture psicologiche della realtà non collimano con il canone in voga. E mi mortifica incontrare compagne di lavoro e di vita assoggettate, vittime sacrificali che dichiarano l’amore e patiscono il sacrificio.

La concessione di alcuni uomini e donne, anche la generosità che non è pari e che non possiamo ricambiare, è buonismo e diventa velocemente potere.

Il modello virile dichiara guerra al/la criminale, e le guerre sono roba importante, sono tutte sante e servono a sconfiggere il peccatore e a ridurlo in punizione. Nel racconto, lo sceriffo e il procuratore seguono un percorso prestabilito, pulito e ordinato, di indagini rituali e protocollate. Invece, le due donne, in relazione fra di loro e con il contesto, si fanno carico dei personali pensieri e sentimenti. Dunque, partono da se stesse e accolgono i dubbi, notano le differenze, si interrogano sulle disparità, sottolineano i contrasti, ritornano sulle divergenze; capendo e accogliendo il caos, seguono le esperienze visionarie che raccontano la realtà da molteplici prospettive di luci e di ombre. In tal modo, la pratica di vita coincide con il progetto lavorativo-professionale e politico.

Per la signora Hale e la signora Peters del romanzo non è in dubbio la giustizia che assicuri la pena al colpevole, ma la modalità di arrivare al mistero di ogni persona, per salvare se stesse, prima della eventuale condanna di Minnie Foster, e per scegliere, nel futuro prossimo, il cambiamento dei propri comportamenti, la trasformazione nell’interno interattivo della comunità. In una parola, la signora Hale e la signora Peters, apprendono e ci trasmettono il valore della prevenzione, oltre le colpe, i peccati e le punizioni.

“Alla fine ci si scoraggia… ci si perde d’animo.” p.43

“Non so come, però a volte non si capisce davvero come vivono gli altri finché… non succede qualcosa.” p.49

“Avrei dovuto capire che aveva bisogno di aiuto! Glielo dico io, è assurdo, signora Peters. Viviamo vicine, eppure siamo così lontane. E dobbiamo tutte sopportare le stesse cose… a guardarci non sembra, ma sono le stesse cose! Se non fosse che – perché io e lei lo capiamo? Perché sappiamo… quello che sappiamo adesso?” p.56

 

 

Ph. Fonte Silvia Meo

Le rose rosse (per ogni benservito)

Il rosso è il colore del patire, del sangue e della lotta sociale. Nel 1973, contro lo sfruttamento delle lavoratrici del ricamo, a Santa Caterina Villarmosa, nasce la “Lega delle ricamatrici”, sostenuta da UDI, PCI e CGL. Filippa Rotondo fonda la cooperativa “La rosa rossa” e raccoglie le lavoratrici abili e gioiose nel ricamare l’abbigliamento, i corredi e gli arredi. Ester Rizzo, nel libro Le ricamatrici, racconta una storia di avvilimento, di mortificazione e di ricatto, nella Sicilia degli anni settanta.

Considerando la mia esperienza professionale, dico che risultare perdenti serve ad illuminare le dinamiche dei gruppi sociali, le tensioni politiche del territorio, serve a ricordare gli abusi e a riparlarne. In fondo, riconoscermi perdente, in molte occasioni, ancora oggi, è una spinta a capire, a costituire piccole comunità in cammino.

“A volte nella vita le anime più diverse si incontrano ed è come se avessero condiviso un cammino insieme, come se si conoscessero da sempre” (Rizzo, p.53)

Non siamo escluse dal mondo professionale e lavorativo, siamo visibili e ascoltate con orecchie e con occhi di prospettiva maschilista, tra proclami, comitati e buone intenzioni. Il maschilismo rappresenta il peggiore dei mali ed è una fase primordiale nell’evoluzione mentale, psicologica e sociale dell’essere umano. Il modello fallocentrico su cui sono fondate la cultura e la civiltà occidentale è in agguato, è dappertutto, è subdolo; è difficile che l’occhio e l’orecchio non addestrati lo riconoscano.

Il libro ricorda le lavoratrici artigiane che filano, cuciono, ricamano e sono anche figlie innocenti, mogli fedeli e madri devote. Racconta i soprusi degli intermediari che procuravano loro il lavoro i quali, portati in tribunale e condannati, si vendicarono boicottandole. Vennero riconosciute come “lavoratrici dipendenti a domicilio” e per loro furono fissate le tariffe e i contributi, il riconoscimento e la tutela del lavoro. Ma siamo ancora a ragionare intorno al senso delle attività femminili, alla indipendenza, all’autonomia, alla libertà emotiva e cognitiva, strutturale, delle donne.

Qualche contesto associativo, politico, aziendale, si attiva nel promuovere i diritti delle lavoratrici ed è più avvilente la scoperta di una scelta di facciata che non trova riscontro nella pratica minima della quotidianità; i rimedi, talvolta, sono peggiori della malattia. Non chiedo alcuna garanzia posticcia dell’equilibrio di genere, poco credibile perché non ha radici nel cambiamento autentico, neanche in un orientamento appena desiderato. Né le donne autorevoli, tecniche o politiche preparate, devono dimostrare in qualche modo di esserlo: senza il cambio di mentalità le “prove” di adeguatezza non sono mai abbastanza. Non rilevo una battuta d’arresto o uno scherzo della mia personale sorte negativa: ogni volta ho la conferma che, senza le radici culturali e la conoscenza coltivata, non nasce niente. Gli slogan e le frasi ad effetto di chi sa chi, l’incantamento ingenuo, il sentimentiring, la tendenza a buttarla sull’emozionale, sul vittimismo, perpetuano inconsapevolmente l’oscuramento e l’indebolimento dell’universo femminile.

La spina è la mentalità, non solo la rappresentanza femminile, giacché anche scegliendo un numero di donne adeguato, possono essere confermate le scelte patriarcali e rigide, i governi classisti e militarizzati, la società con una mentalità paranoica. Desideriamo interessarci di welfare, di contratti collettivi, di asili nido, di congedi parentali, di bonus, di gender gap. Riconosciamo le forme o le dichiarazioni superficiali di femminismo o di una generica attenzione alle donne che inseguono la carriera personale e non la liberazione collettiva, che orientano verso gli ordini psicologici copionali, invece di misurarli e di curarli.

E insistiamo e ricominciamo a dovere vantarci di essere forti, perfette, a sbrigarci, a compiacere, a mettercela tutta. Come comanda il modello maschile. Ci consumiamo in proteste inutili e rassicuranti che puntano a mantenere il potere all’interno dei gruppi, dei sindacati, all’interno, addirittura, di quelle relazioni che, fin dall’inizio del Novecento, vedevano le donne schierate chiaramente da una parte o dall’altra.

L’indignazione è alzare la testa e reggere il confronto ricattatorio di chi rimprovera, sempre paternamente, di non essere coerente con l’accoglienza di tutte le idee.  Ma con il vecchio patriarcato non si discute. Soprattutto quando la divisione fra sfruttati e sfruttatori, dominanti e dominati, insomma, quando la divisione in vittime, persecutori e salvatori, in un ordine naturalmente gerarchico, viene presentato come fisiologico, meccanico e utile.

Infatti, la classe dominante ha le sue retoriche per reprimere le spinte di cambiamento: la più diffusa è provare a radicare la convinzione che i ricchi, i padroni da modello paranoico, servono. Mi applico a curare l’idea che la Vittima, il Persecutore e il Salvatore rappresentino «una legge naturale» (rivediamo Vilpredo, Pareto e Gaetano Mosca di fine Ottocento) e che mantengano, in fondo, equilibri utili e legittimi. Rappresentano, invece, dinamiche psicologiche malsane che finiscono per sostenere i soprusi e le ingiustizie, le manipolazioni e le simbiosi.

L’idea centrata sui valori virili di riuscita, di potere e di forza anche delle donne, sostiene i personaggi del triangolo drammatico come fossero tre furbi che usano le strategie per cambiare, senza cambiare nulla, ottenendo benefici minimi e momentanei. E finisce che i furbi, asserviti e dotati di micropoteri, vengano richiesti come fossero i migliori, i più adeguati. Insomma, siamo dinanzi a balletti ideologici. Serve proporci nei comportamenti vittimistici, di sudditanza e di bisogno nella misura in cui all’altro serve il paternalismo e l’assistenzialismo, per mantenere i copioni senza uscita e senza possibilità di trasformazione autentica.

Come fosse un principio universale, ai Salvatori servono i persecutori e le vittime in lite; se no, a chi promettono l’apparente salvezza? A chi vendono i loro prodotti, la negoziazione, la gestione dei conflitti, il successo, la resilienza, l’empatia, il consenso sociale, l’autostima, la vincita perpetua? Solo mantenendo i giochi psicologici, vengono ristabiliti e potenziati la diseguaglianza della cittadinanza, l’ordine proprietario e i meccanismi regolativi.

Il benessere proposto è truccato: l’accordo fra tutti, la risata, la visibilità da like, il presenzialismo ad ogni costo, la strumentalizzazione, la decontestualizzazione, le grida, i pianti, le sfide, i rancori richiamano i giochi psicologici e sociali della classe dominante. Come fosse nell’interesse di tutti essere competitivi e vincere le colluttazioni, mortificare ed escludere chi non dichiara guerra e non si difende. Ritengo che la frustrazione e l’indignazione siano ricchezze interiori come risorse di trasformazione e di rivoluzione. L’ansia non è un difetto personale, è un fenomeno sociale. A dover essere eliminate sono la volgarità e la violenza del sistema, non il dolore e la preoccupazione personali, anche delle persone che incontro nella mia attività di psicologa.

Fino a pochi anni fa, io ho creduto in ciò che mi raccontavano, poi ho scoperto, camminando con fatica, che non era vero. E che la nemica ero io. Di volta in volta, scoprivo che quel programma di scrittura, di conferenza, di formazione, di lavoro in gruppo, era una mistificazione, una menzogna per lasciare tutto com’era. Richiedevano la mia consulenza, sì, per continuare a fare i loro interessi, anche ideologici. Mi ritrovavo ridotta nella condizione di non dover ostacolare gli individui dominanti, maschi e femmine, perché io stessa e la parcella potessimo sopravvivere. È un’identità di ceto, più che di classe, dice Nadia Urbinati, a pag.22, nel numero 11 della rivista Jacobin. E vale la pena, assieme alle letture psicologiche, seguire il pensiero democratico liberale contemporaneo e le teorie della sovranità che la filosofa propone.

Nelle attività lavorative, solo con la formazione sistematica, circolare e onesta di coscienza e di consapevolezza, la rosa rossa, davvero, può segnalare l’amore che inizia da sé e crea comunità professionali sempre più allargate.

Le riflessioni che propongo tengono in conto le letture:

  • Ester Rizzo, Le ricamatrici, Navarra Ed., 2021
  • Nadia Urbinati, Marco d’Eramo, Dominanti e Dominati in Jacobin, Il nemico invisibile, N.11/2021, pp.16/25
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Testimoni di risvegli

 

Nei primi anni Ottanta, con la promulgazione della Legge 180, partono i primi esperimenti di reparto aperto. Gli Spdc, i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura sono luoghi imperfetti, fragili, lenti; le comunicazioni verbali e scritte sono circolari e ogni nota si chiude con la dicitura Altro nulla da segnalare. L’umanità ha bisogno di essere protetta dal potere, dal patriarcato, dall’ingiustizia, non ha bisogno di difendersi dalla follia e dai pazzi.

Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro studiano e si impegnano perché i “matti forte” siano riconosciuti umani. E la natura umana chiede respiri, spazi, dignità e libertà di esistenza, senso di comunità. Il dottor Sorrentino segue il progetto di liberazione promosso da Psichiatria Democratica nell’Ospedale torinese Mauriziano e ne dà conto, alla fine della sua esperienza professionale, aiutato nella scrittura da Francesca Valente, con energia e misericordia. La scrittrice ha meritato all’unanimità il Premio Italo Calvino 2021.

Il mondo che abitiamo prevede che alcuni gruppi di persone siano come fantasmi e che per loro valga un dizionario minimo: il repartino, il rapportino, la domandina sono diminuitivi svalutanti. Ritrovo il linguaggio diminuito anche negli istituti penitenziari in cui il detenuto è deresponsabilizzato e oggettivizzato. La segregazione e la marginalità sociale è uguale dappertutto, nei ghetti agricoli e nei campi rom, nei manicomi e nelle carceri.

Non ci sono simulazioni a beneficio di chi legge; la realtà diviene testimonianza di verità. Purtroppo, sono destinate a fallire le leggi che non prevedono il cambiamento di tutta la visione rispetto alla persona, alla società e al mondo. I reparti aperti, le celle aperte, le interazioni circolari sono come ponti fra i rinnegati e il territorio, fra la comunità dentro e quella fuori. Rifiutiamo la mentalità brutale che genera l’uso di misure e di strumenti violenti, il contenimento, la punizione corporale, la reclusione più feroce. La follia è brutta, è sporca, è cattiva, ma è un’espressione umana e bisogna farne qualcosa di questa parte negletta che appartiene al corpus sociale. Il nemico è dentro e non si fa cancellare.

Così, in una storia recuperata dagli appunti, l’Alberti che sfogava la sua ira sfasciando il comodino, si calmava dopo un colloquio prolungato. L’Autrice non risparmia situazioni, non omette particolari, racconta e racconta di vite miserabili: il vomito e le feci, le urla e l’euforia, la furia e l’abbandono, le bottiglie nascoste nelle braghe e la poesia di chi entra senza insistenza nella morte su una panchina dei giardini.

Oltre i documenti ufficiali, i timbri definitivi, oltre le cartelle cliniche, in questo libro apprezzo gli originali scritti informali, le comunicazioni veloci e i diari di bordo, gli scritti parlati in dialetto: ad ogni lettore/trice giungono le voci, gli odori, i volti, i malesseri. Gli infermieri che scrivono offrono consigli agli psichiatri, ipotizzano trattamenti anche verbali, auspicano comportamenti e mentalità accoglienti. Leggo in un pizzino: Farsi restituire, fosse possibile, le chiavi di casa e dell’auto e mi convinco che la rivoluzione è in quel fosse possibile perché, nella interazione, è previsto che l’altro, in qualche modo, affermi la propria volontà, è previsto che esista, insomma, anche negandosi.

Attraverso le pagine è la follia che, abitandoci come possibilità, ci viene incontro sorniona. Sono storie da ricostruire, vite da riconoscere come dignitose e legittime ponendo al centro la relazione, fondamento e struttura dell’essere umano. Questa scrittura crede che i paz., allo stesso tempo pazzi e pazienti, pure inconsapevolmente, abitando il mondo, rappresentino la spinta e la forza di un pensiero critico. Francesca Valente non li vuole emendare, non li vuole salvare. Partecipiamo ai risvegli, riconosciamo la realtà per quella che è e non per quello che immaginiamo. È la comprensione della realtà che consente il romanzare, un bel romanzare, il migliore negli ultimi mesi di letture.

 

Francesca Valente, Altro nulla da segnalare, Einaudi, 2022

VIII Qui c’era un’umanità che raccontava un’altra umanità, con benevolenza e un sincero sforzo di comprensione. Spesso erano entrambi umanità dolenti.

Occhipinti, insonne, insisteva nell’ordinare champagne: le ho portato in sostituzione dello stesso dell’acqua, ma ha dimostrato, rovesciandomela in testa, di non gradirla. p.3

I certificati elettorali sono nell’armadietto stupefacenti .p. 148

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L’esperire di sè

 

 

La nevrosi che incontra la narrazione può divenire romanzo, l’ansia può ispirare la letteratura e il tormento interiore può sostenere come una leva e una misura di genialità. In Niente di vero, romanzo pubblicato da Einaudi e candidato quest’anno fra i dodici finalisti al premio Strega, riconosco Veronica Raimo, scrittrice di talento nell’intuizione, nel metodo e nella tecnica. Apprezzo lo stile incalzante e deciso, ammiro il coraggio, la disinvolta e spregiudicata perizia delle operazioni chirurgiche sull’anima.

Da lettrice psicologa mi commuovo e tengo a cuore le sorti della creatura piccola, Vero, Veronica o Verika o anche “oca”, figura centrale delle vicende narrate. E considero che, ad ogni età e in ogni professione, le donne si propongono nella loro diversa eccellenza ed eccedenza. Ritengo cosa buona apprendere la protezione di sé ché consenta la forza stabile e profonda. Sono generose, le donne e, quando scrivono, lo sono di più, fino a scorticare l’anima e fino al più profondo dei deserti.

La registrazione della realtà e l’ironia sono strumenti per uscire dai giochi psicologici. Però, nel romanzo, certa ironia, pur utilizzata con indiscussa e sottile maestrìa, non mi fa sorridere affatto, anzi, mi preoccupa. Giocare a proprie spese, raccontando di sé episodi e situazioni, è un gioco psicologico pericoloso. Non escludo che Veronica Raimo possa permettersi di entrare nel gioco dell’esposizione e di rompere dal di dentro la maledizione della svalutazione di sé, dell’altro e della situazione. Non lo escludo, ma è una operazione delicata, complessa e che prevede una guida psicologica.

Io chiedo di proteggerci, prima di donarci e di esporci. E questo vale anche per una letterata. “Spararsi pose da fallite” nell’adolescenza è un’azione seduttiva almeno quanto, nell’età adulta, manifestarsi risolte, guarite, sornione dinanzi alle ferite. Di queste ultime, il corpo, l’anima e la mente sanno e conservano, in qualche modo, i segni e la memoria. Il tono fra il comico e il surreale, nel lavoro formativo, è tragico.

La scrittrice dichiara nell’intervista di Rosa Carnevale, qualche giorno fa:

“Mi interessava fare esattamente il contrario di quanto avviene solitamente in molti libri e rovesciare l’idea che i percorsi esistenziali siano così lineari o che tendano, come nei romanzi di formazione, a qualche tipo di consapevolezza. Volevo mettere in crisi questa credenza che si debba per forza arrivare da qualche parte altrimenti la struttura narrativa non regge.”

Raimo riesce nel suo intento. A me rimane il dubbio che al nucleo, alla base, alla parte più intima e nascosta, bisogna che ci avviciniamo con cautela e rispetto. E nessuno entra in quel nucleo. Il rischio è continuare il cammino senza pelle: ci infettiamo, ci scottiamo. Il pudore, l’imbarazzo, la vergogna non sono solo categorie morali ma, soprattutto, sono protezioni psicologiche, più o meno adeguate, in situazioni diverse. Il ricordo è sempre “vero” perché è la lettura che io stessa offro di ogni accadimento e, dunque, se affermo niente di vero, leggo una inconsapevole scotomizzazione. Semmai, è tutto di vero, di sè. E siamo definite da quei ricordi, ci strutturiamo partendo da quel vero percepito che, talvolta, magari, non è accaduto realmente.

Per esempio, a me non importa quanto risultino ridicoli “il cimitero dei feti” o “il giardino degli angeli”: l’interruzione volontaria di gravidanza, non fa ridere nessuna donna. Mai. Perché anche la volontarietà prevede contesti, pensieri e sentimenti dolorosi. Non è mai facile e neppure adeguato riuscire a riderne. Il sospetto è che, in molti casi, l’ironia mostrata e venduta a se stesse per prima, equivalga alla risata della forca o la risata dell’impiccato. E vale dinanzi ai traumi infantili, dinanzi alle nevrosi della coppia genitoriale, dinanzi alle difficoltà relazionali, dinanzi alla finitudine e alla mancanza; vale per ogni dispiacere e in ogni situazione sgradevole. È retorica patriarcale la considerazione della visione psicologica come uno sdolcinato rimestare di pancia.

Il patriarcato è sempre spavaldo; la mente maschilista deride le fragilità, si fa beffa delle ferite, considerate onorificenze nelle guerre combattute. Con lo sguardo maschile la tragedia è esilarante, le manifestazioni di pazzia sono irresistibilmente buffe, e provocano ilarità gli spettacolini delle donne nervose perché mestruate. E, dopo la risata sarcastica, appunto, la risata della forca, il patriarcato si abbatte dinanzi all’insopportabilità delle proprie imperfezioni. L’auto fiction puzza di patriarcato.

Nell’esposizione libera di sé e liberante per gli altri, il dolore, la fatica, la vergogna rimangono compagni di viaggio governati, ma presenti. Condivido, riportando brevi frasi, la confidenza di una donna che scrive, che ha pubblicato e, ancora, desidera mantenere l’anonimato:

“Lizia, … A me è mancata la fierezza, … è una parte della mia vita che mi imbarazza, non mi inorgoglisce la consapevolezza di ammettere che quella sono io, persona derelitta, brutta e stupida… Ad essere sincera, non ho cura né fierezza neanche verso la me del presente che continua ad annaspare tra paura, incertezza e rabbia… Quel vissuto si è preso giovinezza, speranze, vita, e continuo a non avere alcuna voglia di dargli una bella veste che io stessa non riconosco… Poi lo rileggo e piango. Leggo le ultime pagine e solo là mi scorgo vera. E penso che sono a centinaia di chilometri e ad anni di distanza, in una città meravigliosa, ma ho ancora troppi macigni per riuscire a volare. Rileggo la fine per darmi coraggio e dirmi che se solo abbandonassi le zavorre farei passi da gigante… Sono sempre un po’ lenta, sono un po’ stanca, ma poi ci arrivo a far accadere le cose.”

Nel lavoro autobiografico, per ogni donna, leggo la “zavorra” della lentezza e della stanchezza come un bene, per proteggersi tutto il tempo che serve. Prima di dissacrare le ideologie e di demolire le certezze, prima di buttare i vestiti vecchi, apprendiamo a proteggerci, anche godendo, ciascuna presso di sé, della fragilità e delle ferite. Voglio dire che il vecchio e caro copione, perché si avvii l’autentica trasformazione, ha bisogno di essere considerato e ringraziato per la sua devozione e per averci accompagnato in un periodo esistenziale. Ad un certo punto, il copione non basta più, inizia ad apparire stretto, obsoleto, inutile e, di conseguenza, possiamo decidere, legittimamente, di avviarne il cambiamento consapevole, parziale o totale. La garanzia di liberazione e di felicità autentiche è segnata dalla permanenza nei territori del dispiacere.

Con la riflessione proposta sul metodo autobiografico come cura e formazione mi sono allontanata dal libro per ritornare ad esso, meritando ancor più il piacere della lettura. Ogni romanzo, ogni storia letta o ascoltata diviene un pretesto per indagare, per approfondire le potenzialità che le donne hanno di custodire la fedeltà a se stesse, la sensibilità al male, per le creature terrestri, la cura della “gettatità”; sì, la cura rispetto all’essere-gettati-nel-mondo (Heidegger).

E qui la lettura psicologica passa la mano alla filosofia.

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Le parole che vestono i corpi

 

Pochi testi mi convincono, resistendo alla immediata comprensione e chiedendo di essere trattenuti presso di me, prima di essere detti e condivisi. Desidero che la scrittura mi spiazzi, mi allontani, che mi mandi all’inferno e poi mi redima: mi rassicuro, così, perché è un modo per continuare a conoscermi, a ricercare. Nel linguaggio psicologico “non mi piace/mi piace” è inteso come “mi difendo/accolgo”. Necessariamente, dinanzi a significati nuovi, oppongo resistenza e, di conseguenza, desidero capire. Così, sono gioiosa.

Riconosco Camminamenti, collana di scritture viandanti, ideata da Marthia Carrozzo, come un’operazione culturale complessa: il verso e la prosa marcano la differenza fra l’utilizzo del corpo, anche nelle sue descrizioni e rappresentazioni minime, come processo di liberazione e, al contrario, lo sfruttamento dell’immagine femminile a uso del lettore/predatore.

Il corpo è la forza, è l’esistenza; nominarlo, attraverso le sue azioni, significa contribuire a cambiare i rapporti sociali di potere. Questa visione esprime il secondo volume Stazione degli occhi (O del corpo che si sottrae) Poesie in albanese di Jonida Prifti, Racconti di Donatella Della Ratta.

Fiuto da lontano il sessismo che guarda ai corpi viventi con benevolenza patriarcale esaltandone il ruolo di mogli e di riproduttori della patria, di collaboratrici infaticabili, a curare, a nutrire, a sostenere il copione sacrificale delle madri e dei padri. Siamo pronte/i e siamo degne/i, iniziando dall’esercizio della parola scelta consapevolmente, di raccontare una storia, di testimoniare un percorso trasformativo.

Questa piccola e intensa raccolta ci aiuta a dire il vero dei propri vissuti e desideri, evitando di conformarci a ideali, dottrine e morali, a modelli e misure costruite dal patriarcato. E vale per gli uomini e per le donne sessuati/e ché ripensino i ruoli predefiniti. In nome della libertà e non in nome della parità, perché il senso libero della differenza, come bene dice la filosofa Muraro, è interna ad ogni persona, non è tra uomini e donne.

La liberazione apre le vie con le parole di Jonida Prifti e di Donatella Della Ratta: sono versi di unità che vanno assunti e spiegati con la fatica del ragionamento e che in alcun modo abusano di sentimenti repressi diventando slogan perdenti. Il verso che non preveda l’azione politica e il movimento di comunità risulta fatuo, irreale e rimane nell’approssimazione di un sé qualunque.

È l’affondo nel corpo che rende le parole e le voci strumento di coscienza e di conoscenza personale. Non riconciliano come la preghiera, non sono depresse nei cunicoli emotivi, non si compiacciono del sarcasmo nella vecchiaia incattivita (anche a trent’anni si può essere vecchi e incattiviti). Sperimentiamo una rottura, guardiamo una voragine, avvertiamo un disagio, un’inquietudine che accompagnano l’ampliamento di prospettive.

Scelgo di tornare ai versi e ai racconti delle Autrici, lontani, come dicevo, dalla linea duale “mi piace/non mi piace”. È la bellezza necessariamente non bella, non dolce, è la bellezza sgradevole e ferita, la sola, però, che possa interrogarmi e bastarmi. Abbiamo ricevuto un corpo e apprendiamo a essere proprio quel corpo.

Ancora oggi, le donne e gli uomini hanno la necessità di essere ripensate/i e vissute/i come spazi di autorità e di autodeterminazione, evitando di restare prede e campi di battaglia sotto lo sguardo del potere dominante. Nascendo siamo accolte/i dalla culla di parole materne (Chiara Zamboni) che favoriscono la primaria identità. Il corpo è sesso ed è biologia e lo conosciamo lentamente con lo sguardo e con il tatto; il genere è cultura. Nel cammino di individuazione ci abbigliamo, innanzitutto, con le parole. Scopriamo il singolare e personale desiderio che ci guida. E anche il desiderio della pace nel mondo, oltre ogni demagogia, è legato al processo di conoscenza e di pacificazione di ogni persona con il suo corpo.

Dobbiamo riflettere e condividere e, stavolta, il dovere acquisisce un significato di crescita e di trasformazione. È tempo che Persefone ritorni a godere della rinascita e della primavera. L’apprendimento è proprio lì, nei luoghi e nelle scritture in cui la resistenza psicologica è tignosa e incomprensibile.

È con questo orientamento verso la comunità, con queste idee rispetto al lavoro e al godimento delle donne e degli uomini vivi che rileggo e condivido dall’Introduzione di Marthia Carrozzo:

“… il corpo è perno attorno al quale ruota il senso più intimo di una scrittura viva, che non sa starsene sulla pagina e che trova incarnazione, di volta in volta, in quei poeti capaci di declinare in versi quella particolare sfumatura fatta di presenza, quell’esserci che è peculiare alla poesia nel suo compiersi, nel suo farsi voce, sentinella esatta del proprio tempo, nell’imprescindibile atto politico dell’entrare in relazione con l’altro, mettendosi poi a disposizione della curiosità del pubblico, della sua sete, indicandogli il cammino verso un riappropriarsi delle testimonianze più nitide, appassionate e accorte che, non a caso, passano da sempre per gli occhi dei poeti…”

“Per un dovere etico, per un imperativo morale, per quell’esigenza imprescindibile che la poesia ha, da sempre, di guardare a fondo il mondo e la sua storia, offrendo al lettore, all’ascolto, una chiave di lettura più utile, spronandolo a cercarla da sé nelle narrazioni meno convenzionali. Lungi dal celebrare l’ego degli autori e delle autrici pure bravissime che ci sono state e che ci saranno, dietro Camminamenti c’è l’idea di una poesia al servizio dell’altro”

“In piena emergenza pandemica, la scrittura delle nostre due autrici vira naturalmente, quasi istintivamente a testimoniare un corpo in moto retrogrado – allarmato e vigile, vivo e bruciante, seppure nella sottrazione a cui è costretto. Allarmato e vigile, vivo e bruciante, proprio come doveva essere il corpo di Cassandra”

Ph. Fonte Silvia Meo

La viandanza e la restanza

 

 

Considero l’erranza e la restanza, le radici e le ali, come stati di vita psicologica che richiedono la confidenza con se stessi e con l’alterità, con l’intimità in ogni interazione. Attraverso le sfumature delle luci e delle ombre, rimaniamo ancorate/i al passato e proiettate/i verso il futuro. In primis, il radicamento, l’individuazione, l’abitare sono in noi stesse/i. E, dunque, possiamo andare, restare, tornare e ripartire perché le situazioni sono mutevoli e molteplici. Talvolta ci accorgiamo di essere rimaste, in quel paese, in quella relazione, pur essendo andate via formalmente. Oppure, ci ritroviamo, radicate e ferme, ormai fuori e lontane.

“Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo” (Teti, p.5)

È auspicabile tenerle assieme, come possibilità, la viandanza e la restanza, in ogni fase differente di vita e in diversi stati di salute e di relazioni. Siamo esseri umani appaesati e spaesati allo stesso tempo, appartenenti ed estranei, con gli occhi bassi e, ugualmente, con lo sguardo oltre il confine, in apprendimento con il nostro corpo e con l’altrui. La restanza richiama l’immagine interiore di appartenenza e di attaccamento, fondamentali per l’evoluzione di ogni vivente. E la viandanza esprime la domanda di curiosità, di ricerca, di conoscenza di ogni persona. La restanza può essere itinerante e utopica e l’erranza può irrigidirsi a recuperare il passato.

Sentirci esiliate/i e straniere/i, stanziali e viandanti, in fondo, è permanere nell’inquietudine la quale se non ostacola, avvia le trasformazioni. Rimaniamo sospese/i e affondate/i nella partenza o nella restanza proteggendoci, a darci il permesso di rimanere fino al giorno in cui osiamo il permesso di allontanarci, di tradĕre. Ogni azione arriva perchè compiuta e dovuta, come una evoluzione naturale.

La spersonalizzazione e la disumanità, l’arretratezza e il conservativismo, il progresso e lo sviluppo possono accompagnare sia la stanzialità sia la mobilità. In ogni caso, che si vada o che si rimanga, il movimento e il cambiamento sono e devono essere possibili, se ogni persona garantisce l’esserci, l’essere presente a se stessa, nel conflitto e nella contraddizione.

La tristezza e il godimento vissuti assieme sono il termometro; altrimenti, rischiamo di rimanere sconfitti e perdenti nel viaggio come nel radicamento. Nella viandanza e nella restanza, ci accompagnano l’essenzialità e la povertà, per goderne senza pesi, voglio dire senza giochi psicologici.

“Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno piú distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi” (Teti, p.33).

Anche nella scomodità del viaggio può ingannarci il confort di rimanere solo quel che eravamo, senza farci modellare dai luoghi e dalle persone e ritornare, così, identici al pigro sé di prima. E, invece, la staticità può divenire dinamica e consentirci di viaggiare a lungo. Chi resta persegue la trasformazione e chi parte si augura di tornare nel luogo immutato – o nella relazione – per riconoscere e per ritrovarsi. Siamo vivi e sani se restiamo con il desiderio di andare e se partiamo con la tensione al ritorno possibile. Siamo stanziali mentre erriamo e in movimento mentre restiamo, sentendo la rabbia, la tristezza e la paura, compagne nella durata, nell’attesa, nella cacciata, nel cerchio che combacia. Non per sopravvivenza, ma per essere felici.

“… farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi”: nell’autobiografia di un antropologo, come chiama il suo libro La restanza Vito Teti, ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, ritrovo studi, ricerche e riflessioni puntuali e profonde. Apprezzo le 150 pagine di questo saggio, e soprattutto mi intriga la bibliografia che racconta la via seguita, i maestri e le maestre considerate, fra saggi e narrativa, fra cultura popolare e accademica, fra economia e poesia.

“Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto. Ogni luogo non è solo articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente e richiede un’organizzazione simbolica tramata di tempo, memoria ed oblio”. (p.21).

È un luogo comune ed è un paradigma obsoleto pensare che i padri, i maschi debbano andare e che, invece, siamo confermate come buone madri e donne solo scegliendo di rimanere. Possiamo goderci la restanza in una relazione e in un luogo, avvertendo la spinta di rivoluzione verso il mondo? Andare o restare, insomma, dipende da chi stiamo diventando.

Apprendiamo ad abitare la restanza e la viandanza come figure archetipiche del cambiamento, come metafore dell’esistenza. Chi va non è necessariamente moderno e migliore e chi resta non è, tout court, omologato e rinunciatario. Il restare può esprimere la regressione e l’andare può tradursi in immobilismo. Andando o restando, il dinamismo è nell’educazione al senso.

Quando c’è qualcuna/o che attende qui il ritorno, in modo attivo e non rassegnato, allora nessuno si sente gettato nell’altrove perché “l’amore rimane, l’amore cammina”: è la dedica di Teti a chi legge.

Da studiare e da guardare:

  • Vito Teti, La restanza, Einaudi, 2022
  • Film La restanza, 2021, della regista Alessandra Coppola che racconta di giovani trentenni che decidono di restare a Castiglione d’Otranto coltivando semi antichi e curando la biodiversità.

“Le retoriche del viaggiare e quelle del restare sono infinite e disegnano scacchi della ragione che esorcizzano lo specchio in cui si riflette la maledizione dell’inabitabile altrove: forse perché viaggiare e restare, viaggiare e tornare sono esperienze e ritualità inscindibili, si presuppongono e s’intrecciano nelle loro aporie di senso per trovare senso l’una nell’altra” (p.77).

“Se non ci si sente prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo si possiede la libertà del cammino” (p.79).

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La prevenzione e lo sguardo adulto

Ho in cuore, da tempo, di riprendere gli appunti anche per chi si è allontanato oppure non ho mai incontrato. Il territorio ampio di indagine è la relazione, nella gioia e nel potere, con se stesse/i, con il prossimo e con il mondo sociale.

Recupero un pensiero di Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi, 2021, nelle pagine100-101:

Eppure penso anche che solo chi si abitua vede davvero, perché ha sgomberato il suo sguardo da ogni sentimento. I sentimenti sono occhiali colorati, ingannano la vista. Conosci quel detto zen che parla di montagne? Dice: «Prima di avvicinarmi allo zen, per me le montagne erano solo montagne e i fiumi erano solo fiumi. Quando ho cominciato a praticare, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi. Ma quando ho raggiunto la chiarezza, le montagne sono tornate montagne e i fiumi sono tornati fiumi».

Lo sguardo, il racconto e l’agire psicologici possono apparire scontati o, al contrario, inutilmente farraginosi.  Raggiungere la chiarezza significa poter vedere le cose per quelle che sono. Significa, metaforicamente e semplicemente, tornare a vedere le montagne come montagne e i fiumi come fiumi. Considero le due radici del verbo ὁράω, orao, in greco, -ἶδ (-id) e -ὁρ (-or), nel latino v-ĭd-ēre. Dunque, vedere è pensare, è prevenire; rimanda a un lavoro continuo di introspezione e di autocoscienza. L’idea, la visione non può che riferirsi alle primordiali previsione e prevenzione; l’immagine ultima, la convinzione ha origine nelle rappresentazioni mentali. Jung afferma più volte che la psiche non è dentro di noi, ma che siamo noi dentro la psiche e sviluppa l’idea di individuazione, sostituendo il modello medico e terapeutico freudiano.

Mi accorgo di utilizzare sempre più la parola e la pratica della prevenzione perché con gli anni diviene più sottile e profondo il ragionamento sulle conseguenze di ogni scelta, di ogni comportamento e cattiva abitudine assunti. La cura è la prevenzione. La cura interviene sul modello mentale che non registra il calcolo del rischio e che osa il permesso senza la protezione. Ragioniamo prima che la guerra abbia inizio, che la malattia mentale o fisica avanzi, che il passatempo si trasformi in vizio, prima della rottura definitiva. Prima è quando il controllo di sé e il governo della situazione sono ancora possibili.

È difficile scegliere di cercare e di accogliere l’aiuto.

Considero il binomio azione e reazione come un ricovero minimo del pensiero basico. Davanti agli eventi, non possiamo sempre sorprenderci, con lo sguardo da fashion statement, d’incanto e di ansia.  Cado dalle nubi è la diffusa deriva del gioco psicologico a stupido.1

Il giornalismo di inchiesta, la ricerca scientifica da tempo ci dicono dell’ingiustizia sociale, dell’emergenza ambientale, del patriarcato, delle discriminazioni secolari, delle crisi del lavoro, della scuola, della famiglia, della sanità… E siamo sempre più informati e sorpresi, dinanzi alla guerra, alla pandemia, ai femminicidi. Cadiamo dal pero dinanzi alle nostre stesse derive di sentimenti e di comportamenti.

Se il discorso pubblico è violento, anche la relazione intima ne risente e viceversa. Non coltiviamo linguaggi includenti e non ci stupiamo di poter divenire ricattabili, sotto lo schiaffo del potente di turno. Le radici culturali che affondano nel patriarcato, con l’orientamento sistematico alla violenza, al potere, alla guerra, minacciano tutta l’esistenza, di tutti. Desidero, invece, affinare, a mio favore e a favore delle persone in formazione, la pensosità lenta, ad evitare l’azione veloce. Attuo la cura al decisionismo occupando i tempi e gli spazi ampi del pensiero solitario e del pensare assieme ad altri e altre.

Infine, nella lettura psicologica della realtà, tutto c’entra, dal particolare al generale, dalla vita personale alla sopravvivenza dell’umanità, dal centro alla periferia. Condivido interamente la riflessione di Domenico Starnone su Internazionale del 7 aprile 2022:

La cultura bellica ha eroicizzato per troppi secoli il guerriero che allarga i confini di città, nazioni e imperi. E da sempre ha reso eccitante, avvincente, il colpo di lancia, o altra arma, che rompe il naso, spezza i denti, mozza la lingua, squarcia il mento. Certo, a noi esseri umani – buoni e farabutti, ben educati e beceri – viene naturale ritrarci inorriditi di fronte ai misfatti dell’esercito nemico e, caso mai, del nostro. Abbondano gli “ah, mai più orrori del genere, mai più”, pronunciati in pompa magna dopo una guerra locale o mondiale. Ma lo facciamo, scioccati, solo a orrori compiuti. Questo perché non ci riesce proprio di inorridire preventivamente e imparare ad avvertire quasi per istinto che impugnare le armi comporta sempre il cedimento della fragile costruzione dell’umano e il prevalere della disumanità più spietata. Di conseguenza continuiamo a meravigliarci quando, insieme ai ponti, agli edifici, a quel po’ di convivenza civile che siamo riusciti a realizzare, sono violati e fatti a pezzi corpi vivi ai quali la guerra ha assegnato all’improvviso assai meno valore che a una mosca d’estate o alle formiche sul lavello. “Mai più”, dunque, per via dello spirito guerriero che – gratta gratta – ci ruggisce dentro, è un’espressione di ipocrita solennità e di frivolo ottimismo. Solo chi impara a essere audacemente imbelle forse ha il diritto di dire “mai più”.

 Nota

1 Rimando a una precedente riflessione: https://www.liziadagostino.it/la-stupidita-le-stupidita-il-gioco-2/

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Contraddizioni, fallimenti e altre prospettive

Invito non solo a guardare la contraddizione e il fallimento come opportunità, ma ad accogliere come un valore la situazione che, in vecchi modelli, è dichiarata come una sconfitta o un’incertezza. Discuto l’idea stessa di ciò che viene valutato come fallimento o come perdita.  “Ho vinto/ho perso” è una riduzione patriarcale, è il binomio di una mentalità stretta fra due poli opposti. Oltre la coppia valutativa “positivo/negativo” scopriamo lo sguardo ampio rispetto alla realtà considerata.

Le parole “colpa”, “errore”, “contraddizione” rimandano ad una visione umana punitiva, accusatoria, escludente; una visione a scale, in cui qualcuno è sopra e qualcun altro sotto, ad alternarsi con la stessa rivendicazione. È un sistema che guadagna a tenere in scacco, sotto lo schiaffo del senso di colpa, soprattutto le donne. Sbagliamo, veniamo punite e attiviamo i meccanismi perdenti del senso di colpa, nella misura in cui non assomigliamo al modello dominante, risultando, di conseguenza, disturbanti, offensive e cattive. In uno stato di avvilimento colpevole, rimaniamo taciturne, lamentose, adattate, ricattabili. Ridurci al senso di colpa è ancora la scelta dalla parte del patriarcato.

Ogni evento è un ostacolo ed è una situazione di apprendimento. La realtà ci attraversa avvicinandoci alla individualità, affinché diveniamo ciò che siamo, ciascuna combaciando con il nucleo. Chiamo arte della resa l’accoglienza della realtà. Non è arrenderci. È scegliere di capire, è accompagnare l’accadere, consentirne lo svelamento. L’arte della resa è permettere alla quotidianità di non infrangersi contro un muro di cemento, ma di trasformare la carne di ogni persona, trovandola porosa e trasparente.

Discuto l’idea dell’esistenza scambiata per un campo di battaglia, della scuola per quelli “portati a studiare” e del lavoro in fabbrica che “schiaccia a tal punto da renderti disabile” – mi racconta un caro amico rimasto “consapevole del suo stato”. I risultati di ogni persona possono apparire minimi e precari rispetto ad un sistema in cerca di schede definitive e di protocolli dentro cui invalidare le persone.

Siamo il risultato di quello che la genetica e l’ereditarietà, le figure genitoriali, l’ambiente e il caso hanno seminato dentro e intorno a noi. Infine, c’è la responsabilità, la libertà dell’ultima parola, della scelta attraverso un contesto che c’entra, che conta e che facilita o imbroglia alcune vie più di altre. A causa del potere, il patriarcato è interiorizzato dalle donne, forse, per alcune, a loro insaputa. Ogni persona ha la sua via da percorrere, ci incontriamo e condividiamo frammenti di strade.

Lo sforzo di mettere ordine non si oppone al caos e non evita la perdizione. L’ordine psicologico Sii perfetto ci riduce a strutturare gerarchie, elenchi ed esclusioni. Invece, lo spazio per l’azione comunitaria è nel disordine e nell’incertezza. Accettare di essere come morte e non vedere una via d’uscita, allontanarci dalle figure un po’ retoriche dell’eroina e della vittima sacrificale sono la guida verso l’autorità femminile, verso la responsabilità in un determinato contesto. La profondità evita l’impianto dualistico e il modello unico. Assumendo la via della differenza sessuale, il pensiero che esprimo non è confrontabile con il modello maschile e non esprime di esso il capovolgimento: non sono pari; sento, penso e decido su un altro binario/livello di relazione.

La vita come ζωη (zoe) è la condizione biologica che ci è data, la vita come βίος (bíos) è la vita consapevole e, dunque, libera. La formazione della scuola di educazione Alla persona benedice il conflitto, la contraddizione, assumendone le ombre, resistendo alla immediata elaborazione e risoluzione. Esperienze diverse, naturalmente, l’una dall’altra, ma anche diverse in sé, nella singolarità e nella unicità della trasformazione di ogni persona. Non cedere una sovranità che pensiamo continui a proteggerci, ribaltare il rapporto di potere mantenendo la stessa logica di dominio, con variazioni sul tema, non indica alcun cambiamento profondo e strutturale. Apprendiamo a sopportare l’instabilità e la contraddizione e a godercele, come l’attacco di labirintite che invita a trovare nuove centrature ed equilibri non previsti. È terribile. È lo smarrimento, inevitabile e prezioso.

La guida a queste riflessioni è un piccolo testo appena pubblicato da Laterza, l’ultimo scritto del compianto Franco Cassano, La contraddizione dentro.

“Ogni tentativo di capire non può vivere senza una costante esperienza della contraddizione, … La contraddizione è forse la forma di esperienza più acuta della propria insufficienza e precarietà, …” p.14

“… pensare non significa nascondersi sotto le coltri di queste rassicurazioni comuni. Il pensiero ha la sua dimensione iniziale in questa mobilità dolorosa, diversa dalla sua versione iper-moderna, nevrotica e bulimica, che sempre più rassomiglia ad una forma di dis-trazione, in una mobilità che nasce da uno strappo che fa abbandonare le cose amate e fidate, perché avverte che il mondo è largo, più largo delle nostre certezze. Questo movimento è in primo luogo trascendenza, capacità di uscire da sé, di guardarsi da un punto di vista superiore e più comprensivo.” pp.16-17

“Non si tratta quindi della placida ricerca del giusto mezzo, ma di avvertire ogni volta la dissonanza, l’attrito capace di rivelare l’esistenza di altri versi, la necessità di non rimanere seduti, come fa chi non mette mai il proprio pensiero alla prova perché sin dall’inizio tiene pronti nel suo repertorio i congegni per riuscire ogni volta a salvarlo (e soprattutto a salvarsi).” p.30

“… l’unica certezza che possediamo è la coscienza di questa imperfezione, di questa incompletezza, l’insuperabilità dell’ambivalenza che ci caratterizza. La coscienza infelice non è uno stadio da superare, ma una condizione permanente di tensione, è la consapevolezza che l’unico modo per andare avanti è avere la contraddizione dentro senza farsene travolgere.” p.49