FB_IMG_1652111369109

Le parole che vestono i corpi

 

Pochi testi mi convincono, resistendo alla immediata comprensione e chiedendo di essere trattenuti presso di me, prima di essere detti e condivisi. Desidero che la scrittura mi spiazzi, mi allontani, che mi mandi all’inferno e poi mi redima: mi rassicuro, così, perché è un modo per continuare a conoscermi, a ricercare. Nel linguaggio psicologico “non mi piace/mi piace” è inteso come “mi difendo/accolgo”. Necessariamente, dinanzi a significati nuovi, oppongo resistenza e, di conseguenza, desidero capire. Così, sono gioiosa.

Riconosco Camminamenti, collana di scritture viandanti, ideata da Marthia Carrozzo, come un’operazione culturale complessa: il verso e la prosa marcano la differenza fra l’utilizzo del corpo, anche nelle sue descrizioni e rappresentazioni minime, come processo di liberazione e, al contrario, lo sfruttamento dell’immagine femminile a uso del lettore/predatore.

Il corpo è la forza, è l’esistenza; nominarlo, attraverso le sue azioni, significa contribuire a cambiare i rapporti sociali di potere. Questa visione esprime il secondo volume Stazione degli occhi (O del corpo che si sottrae) Poesie in albanese di Jonida Prifti, Racconti di Donatella Della Ratta.

Fiuto da lontano il sessismo che guarda ai corpi viventi con benevolenza patriarcale esaltandone il ruolo di mogli e di riproduttori della patria, di collaboratrici infaticabili, a curare, a nutrire, a sostenere il copione sacrificale delle madri e dei padri. Siamo pronte/i e siamo degne/i, iniziando dall’esercizio della parola scelta consapevolmente, di raccontare una storia, di testimoniare un percorso trasformativo.

Questa piccola e intensa raccolta ci aiuta a dire il vero dei propri vissuti e desideri, evitando di conformarci a ideali, dottrine e morali, a modelli e misure costruite dal patriarcato. E vale per gli uomini e per le donne sessuati/e ché ripensino i ruoli predefiniti. In nome della libertà e non in nome della parità, perché il senso libero della differenza, come bene dice la filosofa Muraro, è interna ad ogni persona, non è tra uomini e donne.

La liberazione apre le vie con le parole di Jonida Prifti e di Donatella Della Ratta: sono versi di unità che vanno assunti e spiegati con la fatica del ragionamento e che in alcun modo abusano di sentimenti repressi diventando slogan perdenti. Il verso che non preveda l’azione politica e il movimento di comunità risulta fatuo, irreale e rimane nell’approssimazione di un sé qualunque.

È l’affondo nel corpo che rende le parole e le voci strumento di coscienza e di conoscenza personale. Non riconciliano come la preghiera, non sono depresse nei cunicoli emotivi, non si compiacciono del sarcasmo nella vecchiaia incattivita (anche a trent’anni si può essere vecchi e incattiviti). Sperimentiamo una rottura, guardiamo una voragine, avvertiamo un disagio, un’inquietudine che accompagnano l’ampliamento di prospettive.

Scelgo di tornare ai versi e ai racconti delle Autrici, lontani, come dicevo, dalla linea duale “mi piace/non mi piace”. È la bellezza necessariamente non bella, non dolce, è la bellezza sgradevole e ferita, la sola, però, che possa interrogarmi e bastarmi. Abbiamo ricevuto un corpo e apprendiamo a essere proprio quel corpo.

Ancora oggi, le donne e gli uomini hanno la necessità di essere ripensate/i e vissute/i come spazi di autorità e di autodeterminazione, evitando di restare prede e campi di battaglia sotto lo sguardo del potere dominante. Nascendo siamo accolte/i dalla culla di parole materne (Chiara Zamboni) che favoriscono la primaria identità. Il corpo è sesso ed è biologia e lo conosciamo lentamente con lo sguardo e con il tatto; il genere è cultura. Nel cammino di individuazione ci abbigliamo, innanzitutto, con le parole. Scopriamo il singolare e personale desiderio che ci guida. E anche il desiderio della pace nel mondo, oltre ogni demagogia, è legato al processo di conoscenza e di pacificazione di ogni persona con il suo corpo.

Dobbiamo riflettere e condividere e, stavolta, il dovere acquisisce un significato di crescita e di trasformazione. È tempo che Persefone ritorni a godere della rinascita e della primavera. L’apprendimento è proprio lì, nei luoghi e nelle scritture in cui la resistenza psicologica è tignosa e incomprensibile.

È con questo orientamento verso la comunità, con queste idee rispetto al lavoro e al godimento delle donne e degli uomini vivi che rileggo e condivido dall’Introduzione di Marthia Carrozzo:

“… il corpo è perno attorno al quale ruota il senso più intimo di una scrittura viva, che non sa starsene sulla pagina e che trova incarnazione, di volta in volta, in quei poeti capaci di declinare in versi quella particolare sfumatura fatta di presenza, quell’esserci che è peculiare alla poesia nel suo compiersi, nel suo farsi voce, sentinella esatta del proprio tempo, nell’imprescindibile atto politico dell’entrare in relazione con l’altro, mettendosi poi a disposizione della curiosità del pubblico, della sua sete, indicandogli il cammino verso un riappropriarsi delle testimonianze più nitide, appassionate e accorte che, non a caso, passano da sempre per gli occhi dei poeti…”

“Per un dovere etico, per un imperativo morale, per quell’esigenza imprescindibile che la poesia ha, da sempre, di guardare a fondo il mondo e la sua storia, offrendo al lettore, all’ascolto, una chiave di lettura più utile, spronandolo a cercarla da sé nelle narrazioni meno convenzionali. Lungi dal celebrare l’ego degli autori e delle autrici pure bravissime che ci sono state e che ci saranno, dietro Camminamenti c’è l’idea di una poesia al servizio dell’altro”

“In piena emergenza pandemica, la scrittura delle nostre due autrici vira naturalmente, quasi istintivamente a testimoniare un corpo in moto retrogrado – allarmato e vigile, vivo e bruciante, seppure nella sottrazione a cui è costretto. Allarmato e vigile, vivo e bruciante, proprio come doveva essere il corpo di Cassandra”

Ph. Fonte Silvia Meo

La viandanza e la restanza

 

 

Considero l’erranza e la restanza, le radici e le ali, come stati di vita psicologica che richiedono la confidenza con se stessi e con l’alterità, con l’intimità in ogni interazione. Attraverso le sfumature delle luci e delle ombre, rimaniamo ancorate/i al passato e proiettate/i verso il futuro. In primis, il radicamento, l’individuazione, l’abitare sono in noi stesse/i. E, dunque, possiamo andare, restare, tornare e ripartire perché le situazioni sono mutevoli e molteplici. Talvolta ci accorgiamo di essere rimaste, in quel paese, in quella relazione, pur essendo andate via formalmente. Oppure, ci ritroviamo, radicate e ferme, ormai fuori e lontane.

“Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo” (Teti, p.5)

È auspicabile tenerle assieme, come possibilità, la viandanza e la restanza, in ogni fase differente di vita e in diversi stati di salute e di relazioni. Siamo esseri umani appaesati e spaesati allo stesso tempo, appartenenti ed estranei, con gli occhi bassi e, ugualmente, con lo sguardo oltre il confine, in apprendimento con il nostro corpo e con l’altrui. La restanza richiama l’immagine interiore di appartenenza e di attaccamento, fondamentali per l’evoluzione di ogni vivente. E la viandanza esprime la domanda di curiosità, di ricerca, di conoscenza di ogni persona. La restanza può essere itinerante e utopica e l’erranza può irrigidirsi a recuperare il passato.

Sentirci esiliate/i e straniere/i, stanziali e viandanti, in fondo, è permanere nell’inquietudine la quale se non ostacola, avvia le trasformazioni. Rimaniamo sospese/i e affondate/i nella partenza o nella restanza proteggendoci, a darci il permesso di rimanere fino al giorno in cui osiamo il permesso di allontanarci, di tradĕre. Ogni azione arriva perchè compiuta e dovuta, come una evoluzione naturale.

La spersonalizzazione e la disumanità, l’arretratezza e il conservativismo, il progresso e lo sviluppo possono accompagnare sia la stanzialità sia la mobilità. In ogni caso, che si vada o che si rimanga, il movimento e il cambiamento sono e devono essere possibili, se ogni persona garantisce l’esserci, l’essere presente a se stessa, nel conflitto e nella contraddizione.

La tristezza e il godimento vissuti assieme sono il termometro; altrimenti, rischiamo di rimanere sconfitti e perdenti nel viaggio come nel radicamento. Nella viandanza e nella restanza, ci accompagnano l’essenzialità e la povertà, per goderne senza pesi, voglio dire senza giochi psicologici.

“Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno piú distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi” (Teti, p.33).

Anche nella scomodità del viaggio può ingannarci il confort di rimanere solo quel che eravamo, senza farci modellare dai luoghi e dalle persone e ritornare, così, identici al pigro sé di prima. E, invece, la staticità può divenire dinamica e consentirci di viaggiare a lungo. Chi resta persegue la trasformazione e chi parte si augura di tornare nel luogo immutato – o nella relazione – per riconoscere e per ritrovarsi. Siamo vivi e sani se restiamo con il desiderio di andare e se partiamo con la tensione al ritorno possibile. Siamo stanziali mentre erriamo e in movimento mentre restiamo, sentendo la rabbia, la tristezza e la paura, compagne nella durata, nell’attesa, nella cacciata, nel cerchio che combacia. Non per sopravvivenza, ma per essere felici.

“… farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi”: nell’autobiografia di un antropologo, come chiama il suo libro La restanza Vito Teti, ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, ritrovo studi, ricerche e riflessioni puntuali e profonde. Apprezzo le 150 pagine di questo saggio, e soprattutto mi intriga la bibliografia che racconta la via seguita, i maestri e le maestre considerate, fra saggi e narrativa, fra cultura popolare e accademica, fra economia e poesia.

“Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto. Ogni luogo non è solo articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente e richiede un’organizzazione simbolica tramata di tempo, memoria ed oblio”. (p.21).

È un luogo comune ed è un paradigma obsoleto pensare che i padri, i maschi debbano andare e che, invece, siamo confermate come buone madri e donne solo scegliendo di rimanere. Possiamo goderci la restanza in una relazione e in un luogo, avvertendo la spinta di rivoluzione verso il mondo? Andare o restare, insomma, dipende da chi stiamo diventando.

Apprendiamo ad abitare la restanza e la viandanza come figure archetipiche del cambiamento, come metafore dell’esistenza. Chi va non è necessariamente moderno e migliore e chi resta non è, tout court, omologato e rinunciatario. Il restare può esprimere la regressione e l’andare può tradursi in immobilismo. Andando o restando, il dinamismo è nell’educazione al senso.

Quando c’è qualcuna/o che attende qui il ritorno, in modo attivo e non rassegnato, allora nessuno si sente gettato nell’altrove perché “l’amore rimane, l’amore cammina”: è la dedica di Teti a chi legge.

Da studiare e da guardare:

  • Vito Teti, La restanza, Einaudi, 2022
  • Film La restanza, 2021, della regista Alessandra Coppola che racconta di giovani trentenni che decidono di restare a Castiglione d’Otranto coltivando semi antichi e curando la biodiversità.

“Le retoriche del viaggiare e quelle del restare sono infinite e disegnano scacchi della ragione che esorcizzano lo specchio in cui si riflette la maledizione dell’inabitabile altrove: forse perché viaggiare e restare, viaggiare e tornare sono esperienze e ritualità inscindibili, si presuppongono e s’intrecciano nelle loro aporie di senso per trovare senso l’una nell’altra” (p.77).

“Se non ci si sente prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo si possiede la libertà del cammino” (p.79).

8X7A0528ph

La prevenzione e lo sguardo adulto

Ho in cuore, da tempo, di riprendere gli appunti anche per chi si è allontanato oppure non ho mai incontrato. Il territorio ampio di indagine è la relazione, nella gioia e nel potere, con se stesse/i, con il prossimo e con il mondo sociale.

Recupero un pensiero di Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi, 2021, nelle pagine100-101:

Eppure penso anche che solo chi si abitua vede davvero, perché ha sgomberato il suo sguardo da ogni sentimento. I sentimenti sono occhiali colorati, ingannano la vista. Conosci quel detto zen che parla di montagne? Dice: «Prima di avvicinarmi allo zen, per me le montagne erano solo montagne e i fiumi erano solo fiumi. Quando ho cominciato a praticare, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi. Ma quando ho raggiunto la chiarezza, le montagne sono tornate montagne e i fiumi sono tornati fiumi».

Lo sguardo, il racconto e l’agire psicologici possono apparire scontati o, al contrario, inutilmente farraginosi.  Raggiungere la chiarezza significa poter vedere le cose per quelle che sono. Significa, metaforicamente e semplicemente, tornare a vedere le montagne come montagne e i fiumi come fiumi. Considero le due radici del verbo ὁράω, orao, in greco, -ἶδ (-id) e -ὁρ (-or), nel latino v-ĭd-ēre. Dunque, vedere è pensare, è prevenire; rimanda a un lavoro continuo di introspezione e di autocoscienza. L’idea, la visione non può che riferirsi alle primordiali previsione e prevenzione; l’immagine ultima, la convinzione ha origine nelle rappresentazioni mentali. Jung afferma più volte che la psiche non è dentro di noi, ma che siamo noi dentro la psiche e sviluppa l’idea di individuazione, sostituendo il modello medico e terapeutico freudiano.

Mi accorgo di utilizzare sempre più la parola e la pratica della prevenzione perché con gli anni diviene più sottile e profondo il ragionamento sulle conseguenze di ogni scelta, di ogni comportamento e cattiva abitudine assunti. La cura è la prevenzione. La cura interviene sul modello mentale che non registra il calcolo del rischio e che osa il permesso senza la protezione. Ragioniamo prima che la guerra abbia inizio, che la malattia mentale o fisica avanzi, che il passatempo si trasformi in vizio, prima della rottura definitiva. Prima è quando il controllo di sé e il governo della situazione sono ancora possibili.

È difficile scegliere di cercare e di accogliere l’aiuto.

Considero il binomio azione e reazione come un ricovero minimo del pensiero basico. Davanti agli eventi, non possiamo sempre sorprenderci, con lo sguardo da fashion statement, d’incanto e di ansia.  Cado dalle nubi è la diffusa deriva del gioco psicologico a stupido.1

Il giornalismo di inchiesta, la ricerca scientifica da tempo ci dicono dell’ingiustizia sociale, dell’emergenza ambientale, del patriarcato, delle discriminazioni secolari, delle crisi del lavoro, della scuola, della famiglia, della sanità… E siamo sempre più informati e sorpresi, dinanzi alla guerra, alla pandemia, ai femminicidi. Cadiamo dal pero dinanzi alle nostre stesse derive di sentimenti e di comportamenti.

Se il discorso pubblico è violento, anche la relazione intima ne risente e viceversa. Non coltiviamo linguaggi includenti e non ci stupiamo di poter divenire ricattabili, sotto lo schiaffo del potente di turno. Le radici culturali che affondano nel patriarcato, con l’orientamento sistematico alla violenza, al potere, alla guerra, minacciano tutta l’esistenza, di tutti. Desidero, invece, affinare, a mio favore e a favore delle persone in formazione, la pensosità lenta, ad evitare l’azione veloce. Attuo la cura al decisionismo occupando i tempi e gli spazi ampi del pensiero solitario e del pensare assieme ad altri e altre.

Infine, nella lettura psicologica della realtà, tutto c’entra, dal particolare al generale, dalla vita personale alla sopravvivenza dell’umanità, dal centro alla periferia. Condivido interamente la riflessione di Domenico Starnone su Internazionale del 7 aprile 2022:

La cultura bellica ha eroicizzato per troppi secoli il guerriero che allarga i confini di città, nazioni e imperi. E da sempre ha reso eccitante, avvincente, il colpo di lancia, o altra arma, che rompe il naso, spezza i denti, mozza la lingua, squarcia il mento. Certo, a noi esseri umani – buoni e farabutti, ben educati e beceri – viene naturale ritrarci inorriditi di fronte ai misfatti dell’esercito nemico e, caso mai, del nostro. Abbondano gli “ah, mai più orrori del genere, mai più”, pronunciati in pompa magna dopo una guerra locale o mondiale. Ma lo facciamo, scioccati, solo a orrori compiuti. Questo perché non ci riesce proprio di inorridire preventivamente e imparare ad avvertire quasi per istinto che impugnare le armi comporta sempre il cedimento della fragile costruzione dell’umano e il prevalere della disumanità più spietata. Di conseguenza continuiamo a meravigliarci quando, insieme ai ponti, agli edifici, a quel po’ di convivenza civile che siamo riusciti a realizzare, sono violati e fatti a pezzi corpi vivi ai quali la guerra ha assegnato all’improvviso assai meno valore che a una mosca d’estate o alle formiche sul lavello. “Mai più”, dunque, per via dello spirito guerriero che – gratta gratta – ci ruggisce dentro, è un’espressione di ipocrita solennità e di frivolo ottimismo. Solo chi impara a essere audacemente imbelle forse ha il diritto di dire “mai più”.

 Nota

1 Rimando a una precedente riflessione: https://www.liziadagostino.it/la-stupidita-le-stupidita-il-gioco-2/

8X7A0520ph

Contraddizioni, fallimenti e altre prospettive

Invito non solo a guardare la contraddizione e il fallimento come opportunità, ma ad accogliere come un valore la situazione che, in vecchi modelli, è dichiarata come una sconfitta o un’incertezza. Discuto l’idea stessa di ciò che viene valutato come fallimento o come perdita.  “Ho vinto/ho perso” è una riduzione patriarcale, è il binomio di una mentalità stretta fra due poli opposti. Oltre la coppia valutativa “positivo/negativo” scopriamo lo sguardo ampio rispetto alla realtà considerata.

Le parole “colpa”, “errore”, “contraddizione” rimandano ad una visione umana punitiva, accusatoria, escludente; una visione a scale, in cui qualcuno è sopra e qualcun altro sotto, ad alternarsi con la stessa rivendicazione. È un sistema che guadagna a tenere in scacco, sotto lo schiaffo del senso di colpa, soprattutto le donne. Sbagliamo, veniamo punite e attiviamo i meccanismi perdenti del senso di colpa, nella misura in cui non assomigliamo al modello dominante, risultando, di conseguenza, disturbanti, offensive e cattive. In uno stato di avvilimento colpevole, rimaniamo taciturne, lamentose, adattate, ricattabili. Ridurci al senso di colpa è ancora la scelta dalla parte del patriarcato.

Ogni evento è un ostacolo ed è una situazione di apprendimento. La realtà ci attraversa avvicinandoci alla individualità, affinché diveniamo ciò che siamo, ciascuna combaciando con il nucleo. Chiamo arte della resa l’accoglienza della realtà. Non è arrenderci. È scegliere di capire, è accompagnare l’accadere, consentirne lo svelamento. L’arte della resa è permettere alla quotidianità di non infrangersi contro un muro di cemento, ma di trasformare la carne di ogni persona, trovandola porosa e trasparente.

Discuto l’idea dell’esistenza scambiata per un campo di battaglia, della scuola per quelli “portati a studiare” e del lavoro in fabbrica che “schiaccia a tal punto da renderti disabile” – mi racconta un caro amico rimasto “consapevole del suo stato”. I risultati di ogni persona possono apparire minimi e precari rispetto ad un sistema in cerca di schede definitive e di protocolli dentro cui invalidare le persone.

Siamo il risultato di quello che la genetica e l’ereditarietà, le figure genitoriali, l’ambiente e il caso hanno seminato dentro e intorno a noi. Infine, c’è la responsabilità, la libertà dell’ultima parola, della scelta attraverso un contesto che c’entra, che conta e che facilita o imbroglia alcune vie più di altre. A causa del potere, il patriarcato è interiorizzato dalle donne, forse, per alcune, a loro insaputa. Ogni persona ha la sua via da percorrere, ci incontriamo e condividiamo frammenti di strade.

Lo sforzo di mettere ordine non si oppone al caos e non evita la perdizione. L’ordine psicologico Sii perfetto ci riduce a strutturare gerarchie, elenchi ed esclusioni. Invece, lo spazio per l’azione comunitaria è nel disordine e nell’incertezza. Accettare di essere come morte e non vedere una via d’uscita, allontanarci dalle figure un po’ retoriche dell’eroina e della vittima sacrificale sono la guida verso l’autorità femminile, verso la responsabilità in un determinato contesto. La profondità evita l’impianto dualistico e il modello unico. Assumendo la via della differenza sessuale, il pensiero che esprimo non è confrontabile con il modello maschile e non esprime di esso il capovolgimento: non sono pari; sento, penso e decido su un altro binario/livello di relazione.

La vita come ζωη (zoe) è la condizione biologica che ci è data, la vita come βίος (bíos) è la vita consapevole e, dunque, libera. La formazione della scuola di educazione Alla persona benedice il conflitto, la contraddizione, assumendone le ombre, resistendo alla immediata elaborazione e risoluzione. Esperienze diverse, naturalmente, l’una dall’altra, ma anche diverse in sé, nella singolarità e nella unicità della trasformazione di ogni persona. Non cedere una sovranità che pensiamo continui a proteggerci, ribaltare il rapporto di potere mantenendo la stessa logica di dominio, con variazioni sul tema, non indica alcun cambiamento profondo e strutturale. Apprendiamo a sopportare l’instabilità e la contraddizione e a godercele, come l’attacco di labirintite che invita a trovare nuove centrature ed equilibri non previsti. È terribile. È lo smarrimento, inevitabile e prezioso.

La guida a queste riflessioni è un piccolo testo appena pubblicato da Laterza, l’ultimo scritto del compianto Franco Cassano, La contraddizione dentro.

“Ogni tentativo di capire non può vivere senza una costante esperienza della contraddizione, … La contraddizione è forse la forma di esperienza più acuta della propria insufficienza e precarietà, …” p.14

“… pensare non significa nascondersi sotto le coltri di queste rassicurazioni comuni. Il pensiero ha la sua dimensione iniziale in questa mobilità dolorosa, diversa dalla sua versione iper-moderna, nevrotica e bulimica, che sempre più rassomiglia ad una forma di dis-trazione, in una mobilità che nasce da uno strappo che fa abbandonare le cose amate e fidate, perché avverte che il mondo è largo, più largo delle nostre certezze. Questo movimento è in primo luogo trascendenza, capacità di uscire da sé, di guardarsi da un punto di vista superiore e più comprensivo.” pp.16-17

“Non si tratta quindi della placida ricerca del giusto mezzo, ma di avvertire ogni volta la dissonanza, l’attrito capace di rivelare l’esistenza di altri versi, la necessità di non rimanere seduti, come fa chi non mette mai il proprio pensiero alla prova perché sin dall’inizio tiene pronti nel suo repertorio i congegni per riuscire ogni volta a salvarlo (e soprattutto a salvarsi).” p.30

“… l’unica certezza che possediamo è la coscienza di questa imperfezione, di questa incompletezza, l’insuperabilità dell’ambivalenza che ci caratterizza. La coscienza infelice non è uno stadio da superare, ma una condizione permanente di tensione, è la consapevolezza che l’unico modo per andare avanti è avere la contraddizione dentro senza farsene travolgere.” p.49

Prima del dopo

Sono grata alla giornalista Marilena Pastore e al giornalista Luca Ciciriello. Ricerco e nutro gli incontri con le persone che credono nell’impegno del lavoro a servizio della comunità. Assieme insistiamo sulla prevenzione, perché è possibile ogni ragionamento prima che il dopo accada. Ripartiamo dalla coscienza di sé, dalla conoscenza professionale, dalla libertà di parola e di scelta dei linguaggi. Apprendere prima del dopo è analizzare la realtà attraverso il buon governo di sé e delle relazioni. Si chiama, giornalismo, oppure, arte del ricamo, oppure, insegnamento o politica. Insomma, il pensiero critico è la prevenzione di ogni deriva professionale che, spesso, in ogni campo, ci tocca registrare.

https://youtu.be/b7WbGSyZG6s

20220311_131418

Le attività lavorative e la coscienza delle donne

È bella l’opera sempre più ampia dei pensieri e delle pratiche intorno al lavoro delle donne.

Cosa è diventato, in questo nuovo secolo, il lavoro delle donne? E come ripensiamo il successo, il denaro, il potere? Cosa significa riscrivere il desiderio attraverso la liberazione del pensiero, attraverso i corpi e gli spazi delle donne?

Dopo più di vent’anni, io e Tonia abbiamo recuperato le orme della nostra relazione, nata in un’aula di formazione. Ho accettato con gioia, una gioia includente il sentimento di fatica e di responsabilità. Ho recuperato il volto e il nome e, in fondo, è stata Silvia a ritrovarsi naturalmente nel progetto e a decidere di partecipare.

La fotografia non è solo la tecnica, ma segnala, innanzitutto, lo sguardo che dall’interiorità, guarda il mondo e accetta di essere guardato, in uno scambio che trasforma entrambi, la persona e il mondo. Parlo di capacità generativa e trasformativa: insomma, siamo tre corpi, tre anime, tre teste inquiete e in pace. Può sembrare paradossale, ma la tensione alla pace prevede una ricerca senza pace e un cammino di turbamenti.

Abbiamo mangiato assieme e, pensando e parlando, ci siamo incomprese, allontanate, ritrovate. Infine, siamo convinte del lavoro svolto che apre esperienze di verità e rivoluzioni silenziose e profonde.

Il lavoro della cura esiste, ce ne facciamo carico ed è importante tanto da essere scontato. Chiediamo di nominare quel sottinteso che, più o meno colpevolmente, ha destinato molte donne alla sopportazione e alla sottomissione. Le immagini, la voce, la parola sono gli strumenti per vigilare sulle condizioni familiari, personali, professionali.

Le donne sono ancora troppo spesso escluse dal contratto sociale. La minaccia di licenziamento e il contratto precario, la mancanza di democrazia, di welfare, di giustizia sociale e ambientale mantengono in posizione di ricattabilità una parte della società.

Il vissuto del lavoro è asservito alla produzione, al guadagno, al consumo, alla visibilità personale, alla supremazia, come modello unico e universale. Non credo al rovesciamento fisiologico e meccanico delle parti: sotto e sopra; mortificanti e mortificati; sfruttati e sfruttatori che si danno il cambio. Credo nell’analisi dell’esercizio di potere da parte di ogni essere umano perché sia consapevole delle interazioni malsane e dei giochi psicologici.

L’impegno è a facilitare l’utilizzo della critica non come l’aggressione verso qualcuno, ma come l’abitudine a riconoscere le logiche di potere patriarcale ben celate, anche delle donne che imitano, magari inconsapevolmente, il modello predominante di virilità. Non ci sono consigli da distribuire; invitiamoci, semmai, alla coscienza, alla conoscenza di noi stesse e alla ricerca sistematica della storia del pensiero delle donne e dei femminismi.

Allontaniamo l’influenza nociva dell’immaginario che ci convince dell’impossibilità di essere felici lontane dalle relazioni simbiotiche e manipolative. Si può riscoprire il godimento di mangiare insieme, di lavorare per quell’insieme sperimentato che ci fa star bene.

Abbiamo bisogno di correggere la rotta di un’idea politica che ha reso pateticamente evidente il suo sfascio. È importante imparare a prendere la parola e a parteggiare per non diventare conniventi con un sistema senza etica. Non possiamo fare altro che continuare a studiare e a pensare come atto di resistenza individuale e comunitario per spiegare e governare gli squilibri di potere anche psicologico a cui ci sentiamo sottomesse. Non tanto per vincere – cosa, poi? – ma per continuare a vivere da persone libere.

Non voltiamo pagina facilmente e intravediamo una depressione collettiva dovuta all’accentuarsi delle diseguaglianze sociali. È culturalmente difficile eradicare le modalità di sopravvivenza del vecchio mondo che offriva sicurezze, finte, ma ben presentate, basate sulle divisioni, sulle opposizioni, sui pregiudizi e su una visione antropologica tolemaica che sistemava al centro di tutto l’uomo e la sua immediata soddisfazione.

“… essere artiste o artisti visuali non significa solo saper usare il mezzo; vuol dire far vedere il mondo, reinventandolo, come nessun’altra o nessun altro te l’aveva o te lo farà mai più sperimentare e conoscere. Non è un dovere, non è un messaggio, perché l’arte non ha mai nulla da argomentare; è la scommessa di una felicità imprevista, come l’arrivo di un taglio di luce in una tela caravaggesca.”

Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, 2022, pp.84-85

Essere artiste, dunque, come le operatrici di arti di filo, operatrici di storie.

 

Donne Bitonto Ba

Il fuori campo nelle storie delle donne

 

Notre héritage n’est précédé d’aucun testament

La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento

René Char, Feuillets d’Hypnos, 1946

Eredità senza testamento, dunque, leggo nella raccolta Feuillets d’Hypnos, dall’esperienza del poeta durante la Resistenza francese. In questa frase ritrovo la convinzione e lo spirito di ricerca, decidendo di partecipare alla pubblicazione di Piccole storie di grandi donne tra Bari e Bitonto, edito da SECOP.

Lo studio del passato è diverso dalla memoria; esso è in funzione della conoscenza e della comprensione della realtà, e non in funzione della creazione di un sistema di valori. Le figure genitoriali, i maestri e le maestre, non sono modelli da riproporre, esempi di virtù da imitare. Sono un pezzo della nostra storia che, per andare avanti in autonomia, è bene allontanare, criticare, tradire. Non possono essere assunti, da ogni persona, tout court come fondamento del sistema genitoriale di valori. L’autonomia del pensiero femminile non è solo emancipazione e non è solo imitazionismo.

È importante conoscere nelle ombre e nelle luci l’eredità ricevuta e decidere cosa accogliere e/o modificare per procedere nel personale processo di individuazione. Si chiama self-reparenting ed è una teoria, una metodologia e una tecnica psicologica che evita la demagogia modaiola, a proposito di ricordi e di storie di donne. Ritengo fondamentale vedere le relazioni nella loro complessità includendo le contraddizioni, accompagnando la memoria che sceglie e censura affiancata dalla storia. Possiamo trasformare le mentalità, diversificare le prospettive, dubitare dei dogmi, rileggendo e ricostruendo lo stato dell’Io Genitore. Esso è costituito dai pensieri, dai sentimenti e dai comportamenti ripresi da precise figure che nella storia di ogni persona hanno svolto un ruolo parentale, per come sono state percepite e non quali oggettivamente erano.

Quali sono i fatti storici e i vissuti che ognuna/o considera parte della struttura culturale individuale? Non sceglierà tutto, come patrimonio per la costruzione della identità psicologica. Tutto fa parte della storia, ma non sceglierà tutto come patrimonio caratterizzante l’identità. Se cambia l’idea di mondo e di umanità è inevitabile che cambino anche i valori e la dimensione simbolica. La differenza è nel processo di conoscenza e di consapevolezza che ogni persona compie. Siamo differenti anche nelle forme in cui, raccontando, ci raccontiamo.

Per la scuola di educazione Alla persona® preoccuparsi del prossimo e delle storie delle donne, vuol dire chiedersi se i meccanismi che portano alle scelte personali siano compatibili con i requisiti di comunità, di interdipendenza, di sostenibilità, più o meno distanti dalla evoluzione di una società giusta. La psicologia applicata alla consapevolezza non può mantenersi nella sfera strettamente soggettiva di ogni persona senza incidere sul contesto. Le problematiche non sono mai solo individuali ma strutturali, sociali, di sistema. Appena pubblicato da Einaudi, Lo spazio delle donne, è un saggio illuminante. Daniela Brogi esprime con chiarezza e determinazione i pensieri dispersi e confusi che da anni vado maturando.

Le donne non rappresentano storie da esibire come creature da includere a rischio estinzione: “… lo spazio delle donne, infatti, non è l’appendice, l’intermezzo, la pezza d’appoggio per non fare troppo brutta figura; non è la sedia in più che si aggiunge” (Brogi, p.20); “… non si tratta di incorporare le donne in un sistema di valori, di canoni e di gerarchie preesistenti e, di fatto, patriarcali. La tradizione va ripensata complessivamente… si tratta di assumere una nuova prospettiva, mobile e multifocale, che, oltre a restituirci la complessità del quadro, sarà in grado di farcelo vedere e capire meglio, rendendolo anche più trasmissibile.” (Brogi, p.21)

Scrivere e leggere 40 storie di donne invisibili, ma non assenti, è un atto, assieme, unificante e divisivo. Unifica nella sintesi che propone rispetto agli eventi e ai periodi storici. Divide nella possibilità di analisi e di rilettura delle donne e delle vicende narrate da parte di ogni scrivente. Ci prepariamo a leggere, quindi, non solo i contenuti, il che cosa, ma il come e il contesto. Non è soltanto il riflesso di ciascuna in queste donne: con i lettori e le lettrici è interessante avviare un sistema di riconoscimento e di significatività per ogni storia di donna. Non voglio cavarmela con un piccolo discorso sugli spazi e sull’attenzione alle donne, desidero affinare uno sguardo ampio sulle forme e sui contesti, sulle modalità di stare al mondo.

“Ragionando in termini di disuguaglianza, non basta fare un corso, una conferenza, una tesi su un’autrice, un articolo, se la sua opera non viene restituita allo spazio della storia da cui è stata sradicata, e, assieme ad esso, alla genealogia culturale e artistica a cui appartiene.” (op.cit., p.26)

E, trattandosi di una pubblicazione per giovani, il discorso vale di più e rappresenta il primo passo per arginare il patriarcato. Esistono tante visioni per concepire, organizzare, praticare e narrare l’esistenza e il lavoro delle donne. Piccole storie di grandi donne tra Bari e Bitonto non vuole essere una pennellata di rosa, ma un percorso conoscitivo e trasformativo di intelligenze, di presenze e di corpi sociali, non perché stranamente eccezionali, ma perché esistenti in uno spazio e in un tempo.

Accolgo così l’opportunità di partecipazione che mi è stata offerta, grata alla casa editrice SECOP e alle compagne in cammino. A me pare che la lettura di questo testo sia un’azione preventiva e che c’entri con l’esclusione di ogni categoria bellica nell’educazione dei/lle giovani, rimettendo in discussione la cultura del controllo sociale sui corpi e sui pensieri delle donne, attraverso la paura e la colpa.

“Nel linguaggio cinematografico il fuori campo è ciò che non viene mostrato ma che tuttavia esiste, perché vive nello spazio di cui l’inquadratura è solo una minima parte. Lo spazio delle donne costruito insieme può funzionare come fuori campo attivo, vale a dire come tipo di messa a fuoco dinamica che genera dubbi e domande intorno a ciò che si vede, creando una dialettica tra ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia è implicato.” (pp.97-98)

Riferimenti bibliografici:

  • Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022
  • Jacobin, N°11, 2021
  • MicroMega 4.2021
8X7A0408ph

Maestri

 

Il lutto è il prezzo che paghiamo

per aver avuto il coraggio

di amare gli altri.

Irvin e Marilyn Yalom

I miei buoni maestri dicono e scrivono intorno al lutto e alla morte. Raccontano le giornate della vecchiaia verso la morte. E io vado a ritroso, a rileggere i loro testi, dall’ultimo al primo. E mi convinco della necessità per gli imprenditori di una educazione Alla persona ® che preveda la confidenza con la finitudine, con il limite e la feribilità. E, dunque, per quelli che scelgono di incontrarmi, considero indispensabile una formazione intorno alle tematiche della morte. Mi rendo conto che può apparire una progettualità lugubre, da menàgramo e che, inevitabilmente può allontanare. Ma l’urgenza di educarci alla morte è la via principale per ripensare le attività lavorative, la vita aziendale, il successo, il guadagno e l’espansione. La formazione intorno alla morte – non ci sono sinonimi per dire diversamente – serve a ritrovare il senso della fatica e della gioia quotidiana. Serve alla vita personale e professionale.

La consulenza psicologica non può fingere di essere un parco giochi ed è costitutivamente pesante, se no, vale la confidenza e il consiglio della zia o dell’amico. Poi, esiste la leggerezza della pesantezza, la leggerezza che può arrivare attraverso il peso della pensosità, delle relazioni profonde, solidali, durature. L’innovazione è possibile a partire da sé verso la pratica di comunità, attraverso le riflessioni guidate sulla morte e sulla vita.

Durante la trasmissione Rebus, con forti perplessità sulla conduzione Zanchini-Augias, ascolto un altro maestro, Vittorino Andreoli. Lo psichiatra propone la distinzione fra il dolore fisico, nelle parti del corpo; il dolore psichico, esistenziale, legato alla fatica di vivere e, infine, il dolore sociale. Rifletto sul dolore sociale che richiama la malattia culturale, alla base dei miei interventi in azienda. Per dirigere, per impegnarci nella professione, è necessaria la coscienza e la conoscenza di sè, del copione e dei giochi di potere che ogni essere umano innesca.

Spente le luci dei teatrini, il capo si ammala volendo essere forte, rigido e resistente, a causa del suo ideale di perfezione. Sopravvive in un mondo costruito su parametri quasi soltanto maschili, rinforzando una mentalità profondamente radicata nelle strutture sociali, politiche, economiche e mediatiche. Considera pericolosa e inaccettabile la finitudine, la mancanza, la perdita e chiede alla psicologia di cancellare l’idea del lutto. L’obiettivo è continuare a proporsi come forti, perfetti, veloci, scaltri, vincitori, sorridenti, pure intravedendone la finzione.

La formazione, invece, favorisce la convivenza dell’energia e della fragilità, lontano dall’idea muscolare e individualista, eccentrica e performante che vuole evitare i conflitti e produrre meccanicamente catene cooperative. E questo pensiero c’entra con la ratio di una psicologia che nell’immediato risolve lo stress, ma che discute anche il sistema, il contesto generale da cui originano i comportamenti inadeguati e dolorosi chiamati, genericamente, ansia. Il capitale ha sempre fretta di battere cassa e di assemblare quote di denaro in poche mani. Il culto della crescita infinita procede indiscusso. La formazione deve ripensare al modello di cura del profitto. La salute psicologica non è una merce ed è fondamentale l’impegno per la prevenzione del malessere strutturato.

Il maschilismo è una costruzione copionale che evita l’idea della morte. È una interpretazione sociale maniacale. È un atteggiamento psicologico e culturale fondato sulla presunta superiorità biologica e intellettuale delle virtù virili, come la competizione, la velocità, la furbizia e degli strumenti virili, come i dualismi, le scale di valore, le piramidi, i bicchieri vuoti e pieni, le carote e i bastoni. Quotidianamente, sono sotto i miei occhi gli effetti del potere, nella logica del dominio, nei tratti identitari usati come strumenti di discriminazione. Allontanare l’idea della morte ci impedisce di godere pienamente della vita, anche lavorativa.

Nell’ ultima intervista dell’ottobre 2011, pubblicata su La Stampa, James Hillman afferma:

Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio. Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio. Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe. Ora l’intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo. Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio. Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio. E la rubefactio, che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero. La consapevolezza viene dal morire.

Gli ultimi testi dei maestri:

 

  • James Hillman, Silvia Ronchey, L’ultima immagine, Rizzoli, 2021
  • Irvin Yalom e Marilyn Yalom, Una questione di morte e di vita, Neri Pozza, 2022

V.Andreoli in Rebus:

https://www.raiplay.it/video/2022/02/Rebus—Puntata-del-13022022-f7450fc0-2d73-49f7-b444-7a7640c866f4.html

A proposito di amore

https://fb.watch/bae8gqqi0i/

L’intervista dell’ottobre scorso, anticipa la nascita di un progetto e si inserisce in un quadro più ampio della professione psicologica applicata al lavoro e alle attività delle donne. L’autonomia interiore e l’indipendenza economica vanno di pari passo e segnano la via per rimettere al mondo se stesse. La scuola di educazione Alla persona® propone la rilettura del copione personale, partendo dalla coscienza e dalla conoscenza di sé attraverso le azioni lavorative. Ogni donna ha una esperienza generativa da raccontare: accolgo, mi predispongo in ascoltazione, propongo una guida direzionale e non direttiva. In ogni incontro, l’analisi e la sintesi nella relazione che procede prepara a guidare il pensiero, a decidere la voce, a prendere la parola.

Si è appiattito
come una rotaia
il mio cuore in ascoltazione
ma si scopriva a seguire
come una scia
una scomparsa navigazione

Giuseppe Ungaretti, da L’Allegria, 1916

cartellate

Ridere

La psicologia archetipica considera il discorso metaforico intorno alla mitologia, all’arte, alla religione, all’epica come un modello fondamentale dell’esistenza umana. Considera il mito come una narrazione simbolica di carattere sacrale che fornisce una spiegazione ai fatti storici. Nei percorsi formativi della scuola di educazione Alla persona, il mito diviene il linguaggio che facilita il percorso di coscienza.

“Chicchi di melograno al telefono” è il nome che Ina Macina dichiara per le nostre conversazioni online. Dopo aver letto https://www.liziadagostino.it/la-bambina-della-mamma/:

Ina: Quando sento Kore Persefone Demetra io accorro. Lizia, alla triade manca Baubò, la vecchia che fece ridere con scherzi osceni Demetra. Mitica la versione de “il sorriso di Demetra”. Il tuo scritto mi fa immaginare Demetra che dice agli dei: chi vi ha detto che potete prendere mia figlia? Chi vi ha detto che potete disporre del femminile a vostro piacimento?…  Sto riuscendo con la solita grande fatica a fare formazione a scuola… Stiamo ragionando anche sulla matrice patriarcale della cultura classica; matrice patriarcale suona come un ossimoro…

 Lizia: Certo Ina, la matrice patriarcale della cultura classica la ritrovo in un piccolo libro Einaudi, Futuro del “classico” di Salvatore Settis… Se rendessimo parzialmente pubbliche le nostre conversazioni? Baubò manca perché manca a me l’incontro con lei.

 Ina: Non sapevo che fossero 9 i giorni della ricerca di Demetra. Numero simbolico, come la gravidanza. Rimessa al mondo.

Dunque, in uno dei nostri dialoghi, Ina nomina Baubò. Omero, maschio forse anche inesistente, ma sempre moralista e sprezzante, chiama Baubò con un nome diverso, Iambe, un nome che rimanda a un modo di camminare claudicante e, inoltre, traveste il gesto del sollevare la gonna, ἀνάσυρμα, con più innocenti e poeticamente accettabili, παρασκώπτουσα, lazzi e beffe.

E torniamo al racconto del mito: nessuno riconosce Demetra, ἀγέλαστος, triste e vagante alla ricerca di sua figlia Persefone, rapita da Plutone, dio dell’Ade. La dea viene invitata nella casa di Metanira ed è qui che incontra Iambe, in greco Ιάμβη, la figlia del dio Pan e della ninfa Eco o forse, figlia proprio di Metanira e di Celeo. La dea passa dal sorriso amaro alla risata oscena, e accompagna, attraverso il sorriso e la risata, il ritorno alla vita. Demetra affonda e rinasce ed è segno che ha quella esistenza e che è quella esistenza.

Rileggo i versi 197-205 dell’Inno a Demetra:

«[Demetra] apportatrice di messi, dai magnifici doni,/ non volle sedersi sul trono risplendente,/ e ristette in silenzio, abbassando i begli occhi,/ finché l’operosa Iambe ebbe disposto per lei/ un solido sgabello, gettandovi sopra una candida pelle./ Là ella sedeva, e con le mani tendeva il velo sul volto;/ e per lungo tempo, tacita e piena di tristezza, stava immobile sul seggio,/ né ad alcuno rivolgeva parola o gesto,/ ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande,/ sedeva, struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile:/ finché con i suoi motteggi l’operosa Iambe,/ scherzando continuamente, indusse la dea veneranda/ a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore:/ Iambe che anche in seguito fu cara all’anima della dea.»

Baubò, dea dell’oscenità, spariglia le carte, esce dalle righe, eccede, scoprendosi le parti intime e facendone bella mostra alla sua ospite. Divertita e sollevata, Demetra, sorpresa, sorride divinamente! E accetta di buon grado di bere il sacro ciceone, una bevanda di acqua, farina d’orzo e menta, interrompendo il digiuno e instaurando così il rito eleusino. Baubò è la donna magica priva di testa, con gli occhi al posto dei capezzoli e la bocca al posto dei genitali; si muove dimenando i fianchi e mimando un rapporto sessuale; parla attraverso la sua vagina e racconta storie scurrili e divertenti.

Lo scrittore Matteo Nucci, a pagina 171 del testo Le lacrime degli eroi, chiarisce bene: Demetra sorride e ride, non muta il segno delle proprie lacrime. Ride di tutto, ride su tutto e si prepara a vincere la morte. Baubò può rappresentare una opzione, fra le espressioni molteplici e colorate del nucleo femminile, e si svela come unità corporea, spirituale e psichica. Il piangere non è sempre riconducibile a un dolore e il ridere non rimanda necessariamente a uno stato di piacere. Demetra sorride e si abbandona alla risata, colta dalla diversità grottesca e dalla gestualità ampia e libera.

L’osceno è rimasto un termine legato al sesso: gli atti osceni in luogo pubblico e il linguaggio osceno sono parole della morale, ma l’osceno non è necessariamente volgare. Dunque, nel momento in cui a Demetra sembra definitiva la perdita della figlia Persefone, Baubò si manifesta e la dea si riscopre donna non solo fornita di corporeità, che ha un corpo, Leib, ma donna immersa nella corporeità, che è Körper. Il riso è l’esperienza della perdita del controllo di sè e della resa nella situazione, dell’affermazione di libertà e dell’abbandono. Il corpo, attraverso il ridere osceno, prende in carico la risposta e ogni demetra può sperimentarsi come corporeità nel corpo.

Vivo con la mia coscienza e la corporeità è il suo veicolo; agisco nella coscienza e Baubò apre e si rivela come l’incontro obbligato capace di dīvertĕre, di volgermi in un’altra direzione e di trasformare ogni perdita buia in un’apertura risolutiva. Utilizzo il corpo per camminare, per cercare e, manifestandosi Baubò, preziosa risorsa, attivo le modalità di comprensione ritenute inferiori. In un misto di risate e di libido, pratico la rottura di ogni stereotipo, allontano la malinconia e la tristezza, ritrovando il coraggio e ricominciando a cercare e a farmi incontrare. Chi è la mia Baubò?

Riferimenti bibliografici

  • Càssola, a cura di, Inni Omerici, Mondadori, Milano 1975
  • Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, Enaudi, 2013
  • Helmuth Plessner, Il riso e il pianto, Bompiani, 2000
  • Kurt Vonnegut, Madre notte, Bompiani, 2021