Prima del dopo

Sono grata alla giornalista Marilena Pastore e al giornalista Luca Ciciriello. Ricerco e nutro gli incontri con le persone che credono nell’impegno del lavoro a servizio della comunità. Assieme insistiamo sulla prevenzione, perché è possibile ogni ragionamento prima che il dopo accada. Ripartiamo dalla coscienza di sé, dalla conoscenza professionale, dalla libertà di parola e di scelta dei linguaggi. Apprendere prima del dopo è analizzare la realtà attraverso il buon governo di sé e delle relazioni. Si chiama, giornalismo, oppure, arte del ricamo, oppure, insegnamento o politica. Insomma, il pensiero critico è la prevenzione di ogni deriva professionale che, spesso, in ogni campo, ci tocca registrare.

https://youtu.be/b7WbGSyZG6s

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Le attività lavorative e la coscienza delle donne

È bella l’opera sempre più ampia dei pensieri e delle pratiche intorno al lavoro delle donne.

Cosa è diventato, in questo nuovo secolo, il lavoro delle donne? E come ripensiamo il successo, il denaro, il potere? Cosa significa riscrivere il desiderio attraverso la liberazione del pensiero, attraverso i corpi e gli spazi delle donne?

Dopo più di vent’anni, io e Tonia abbiamo recuperato le orme della nostra relazione, nata in un’aula di formazione. Ho accettato con gioia, una gioia includente il sentimento di fatica e di responsabilità. Ho recuperato il volto e il nome e, in fondo, è stata Silvia a ritrovarsi naturalmente nel progetto e a decidere di partecipare.

La fotografia non è solo la tecnica, ma segnala, innanzitutto, lo sguardo che dall’interiorità, guarda il mondo e accetta di essere guardato, in uno scambio che trasforma entrambi, la persona e il mondo. Parlo di capacità generativa e trasformativa: insomma, siamo tre corpi, tre anime, tre teste inquiete e in pace. Può sembrare paradossale, ma la tensione alla pace prevede una ricerca senza pace e un cammino di turbamenti.

Abbiamo mangiato assieme e, pensando e parlando, ci siamo incomprese, allontanate, ritrovate. Infine, siamo convinte del lavoro svolto che apre esperienze di verità e rivoluzioni silenziose e profonde.

Il lavoro della cura esiste, ce ne facciamo carico ed è importante tanto da essere scontato. Chiediamo di nominare quel sottinteso che, più o meno colpevolmente, ha destinato molte donne alla sopportazione e alla sottomissione. Le immagini, la voce, la parola sono gli strumenti per vigilare sulle condizioni familiari, personali, professionali.

Le donne sono ancora troppo spesso escluse dal contratto sociale. La minaccia di licenziamento e il contratto precario, la mancanza di democrazia, di welfare, di giustizia sociale e ambientale mantengono in posizione di ricattabilità una parte della società.

Il vissuto del lavoro è asservito alla produzione, al guadagno, al consumo, alla visibilità personale, alla supremazia, come modello unico e universale. Non credo al rovesciamento fisiologico e meccanico delle parti: sotto e sopra; mortificanti e mortificati; sfruttati e sfruttatori che si danno il cambio. Credo nell’analisi dell’esercizio di potere da parte di ogni essere umano perché sia consapevole delle interazioni malsane e dei giochi psicologici.

L’impegno è a facilitare l’utilizzo della critica non come l’aggressione verso qualcuno, ma come l’abitudine a riconoscere le logiche di potere patriarcale ben celate, anche delle donne che imitano, magari inconsapevolmente, il modello predominante di virilità. Non ci sono consigli da distribuire; invitiamoci, semmai, alla coscienza, alla conoscenza di noi stesse e alla ricerca sistematica della storia del pensiero delle donne e dei femminismi.

Allontaniamo l’influenza nociva dell’immaginario che ci convince dell’impossibilità di essere felici lontane dalle relazioni simbiotiche e manipolative. Si può riscoprire il godimento di mangiare insieme, di lavorare per quell’insieme sperimentato che ci fa star bene.

Abbiamo bisogno di correggere la rotta di un’idea politica che ha reso pateticamente evidente il suo sfascio. È importante imparare a prendere la parola e a parteggiare per non diventare conniventi con un sistema senza etica. Non possiamo fare altro che continuare a studiare e a pensare come atto di resistenza individuale e comunitario per spiegare e governare gli squilibri di potere anche psicologico a cui ci sentiamo sottomesse. Non tanto per vincere – cosa, poi? – ma per continuare a vivere da persone libere.

Non voltiamo pagina facilmente e intravediamo una depressione collettiva dovuta all’accentuarsi delle diseguaglianze sociali. È culturalmente difficile eradicare le modalità di sopravvivenza del vecchio mondo che offriva sicurezze, finte, ma ben presentate, basate sulle divisioni, sulle opposizioni, sui pregiudizi e su una visione antropologica tolemaica che sistemava al centro di tutto l’uomo e la sua immediata soddisfazione.

“… essere artiste o artisti visuali non significa solo saper usare il mezzo; vuol dire far vedere il mondo, reinventandolo, come nessun’altra o nessun altro te l’aveva o te lo farà mai più sperimentare e conoscere. Non è un dovere, non è un messaggio, perché l’arte non ha mai nulla da argomentare; è la scommessa di una felicità imprevista, come l’arrivo di un taglio di luce in una tela caravaggesca.”

Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, 2022, pp.84-85

Essere artiste, dunque, come le operatrici di arti di filo, operatrici di storie.

 

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Il fuori campo nelle storie delle donne

 

Notre héritage n’est précédé d’aucun testament

La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento

René Char, Feuillets d’Hypnos, 1946

Eredità senza testamento, dunque, leggo nella raccolta Feuillets d’Hypnos, dall’esperienza del poeta durante la Resistenza francese. In questa frase ritrovo la convinzione e lo spirito di ricerca, decidendo di partecipare alla pubblicazione di Piccole storie di grandi donne tra Bari e Bitonto, edito da SECOP.

Lo studio del passato è diverso dalla memoria; esso è in funzione della conoscenza e della comprensione della realtà, e non in funzione della creazione di un sistema di valori. Le figure genitoriali, i maestri e le maestre, non sono modelli da riproporre, esempi di virtù da imitare. Sono un pezzo della nostra storia che, per andare avanti in autonomia, è bene allontanare, criticare, tradire. Non possono essere assunti, da ogni persona, tout court come fondamento del sistema genitoriale di valori. L’autonomia del pensiero femminile non è solo emancipazione e non è solo imitazionismo.

È importante conoscere nelle ombre e nelle luci l’eredità ricevuta e decidere cosa accogliere e/o modificare per procedere nel personale processo di individuazione. Si chiama self-reparenting ed è una teoria, una metodologia e una tecnica psicologica che evita la demagogia modaiola, a proposito di ricordi e di storie di donne. Ritengo fondamentale vedere le relazioni nella loro complessità includendo le contraddizioni, accompagnando la memoria che sceglie e censura affiancata dalla storia. Possiamo trasformare le mentalità, diversificare le prospettive, dubitare dei dogmi, rileggendo e ricostruendo lo stato dell’Io Genitore. Esso è costituito dai pensieri, dai sentimenti e dai comportamenti ripresi da precise figure che nella storia di ogni persona hanno svolto un ruolo parentale, per come sono state percepite e non quali oggettivamente erano.

Quali sono i fatti storici e i vissuti che ognuna/o considera parte della struttura culturale individuale? Non sceglierà tutto, come patrimonio per la costruzione della identità psicologica. Tutto fa parte della storia, ma non sceglierà tutto come patrimonio caratterizzante l’identità. Se cambia l’idea di mondo e di umanità è inevitabile che cambino anche i valori e la dimensione simbolica. La differenza è nel processo di conoscenza e di consapevolezza che ogni persona compie. Siamo differenti anche nelle forme in cui, raccontando, ci raccontiamo.

Per la scuola di educazione Alla persona® preoccuparsi del prossimo e delle storie delle donne, vuol dire chiedersi se i meccanismi che portano alle scelte personali siano compatibili con i requisiti di comunità, di interdipendenza, di sostenibilità, più o meno distanti dalla evoluzione di una società giusta. La psicologia applicata alla consapevolezza non può mantenersi nella sfera strettamente soggettiva di ogni persona senza incidere sul contesto. Le problematiche non sono mai solo individuali ma strutturali, sociali, di sistema. Appena pubblicato da Einaudi, Lo spazio delle donne, è un saggio illuminante. Daniela Brogi esprime con chiarezza e determinazione i pensieri dispersi e confusi che da anni vado maturando.

Le donne non rappresentano storie da esibire come creature da includere a rischio estinzione: “… lo spazio delle donne, infatti, non è l’appendice, l’intermezzo, la pezza d’appoggio per non fare troppo brutta figura; non è la sedia in più che si aggiunge” (Brogi, p.20); “… non si tratta di incorporare le donne in un sistema di valori, di canoni e di gerarchie preesistenti e, di fatto, patriarcali. La tradizione va ripensata complessivamente… si tratta di assumere una nuova prospettiva, mobile e multifocale, che, oltre a restituirci la complessità del quadro, sarà in grado di farcelo vedere e capire meglio, rendendolo anche più trasmissibile.” (Brogi, p.21)

Scrivere e leggere 40 storie di donne invisibili, ma non assenti, è un atto, assieme, unificante e divisivo. Unifica nella sintesi che propone rispetto agli eventi e ai periodi storici. Divide nella possibilità di analisi e di rilettura delle donne e delle vicende narrate da parte di ogni scrivente. Ci prepariamo a leggere, quindi, non solo i contenuti, il che cosa, ma il come e il contesto. Non è soltanto il riflesso di ciascuna in queste donne: con i lettori e le lettrici è interessante avviare un sistema di riconoscimento e di significatività per ogni storia di donna. Non voglio cavarmela con un piccolo discorso sugli spazi e sull’attenzione alle donne, desidero affinare uno sguardo ampio sulle forme e sui contesti, sulle modalità di stare al mondo.

“Ragionando in termini di disuguaglianza, non basta fare un corso, una conferenza, una tesi su un’autrice, un articolo, se la sua opera non viene restituita allo spazio della storia da cui è stata sradicata, e, assieme ad esso, alla genealogia culturale e artistica a cui appartiene.” (op.cit., p.26)

E, trattandosi di una pubblicazione per giovani, il discorso vale di più e rappresenta il primo passo per arginare il patriarcato. Esistono tante visioni per concepire, organizzare, praticare e narrare l’esistenza e il lavoro delle donne. Piccole storie di grandi donne tra Bari e Bitonto non vuole essere una pennellata di rosa, ma un percorso conoscitivo e trasformativo di intelligenze, di presenze e di corpi sociali, non perché stranamente eccezionali, ma perché esistenti in uno spazio e in un tempo.

Accolgo così l’opportunità di partecipazione che mi è stata offerta, grata alla casa editrice SECOP e alle compagne in cammino. A me pare che la lettura di questo testo sia un’azione preventiva e che c’entri con l’esclusione di ogni categoria bellica nell’educazione dei/lle giovani, rimettendo in discussione la cultura del controllo sociale sui corpi e sui pensieri delle donne, attraverso la paura e la colpa.

“Nel linguaggio cinematografico il fuori campo è ciò che non viene mostrato ma che tuttavia esiste, perché vive nello spazio di cui l’inquadratura è solo una minima parte. Lo spazio delle donne costruito insieme può funzionare come fuori campo attivo, vale a dire come tipo di messa a fuoco dinamica che genera dubbi e domande intorno a ciò che si vede, creando una dialettica tra ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia è implicato.” (pp.97-98)

Riferimenti bibliografici:

  • Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022
  • Jacobin, N°11, 2021
  • MicroMega 4.2021
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Maestri

 

Il lutto è il prezzo che paghiamo

per aver avuto il coraggio

di amare gli altri.

Irvin e Marilyn Yalom

I miei buoni maestri dicono e scrivono intorno al lutto e alla morte. Raccontano le giornate della vecchiaia verso la morte. E io vado a ritroso, a rileggere i loro testi, dall’ultimo al primo. E mi convinco della necessità per gli imprenditori di una educazione Alla persona ® che preveda la confidenza con la finitudine, con il limite e la feribilità. E, dunque, per quelli che scelgono di incontrarmi, considero indispensabile una formazione intorno alle tematiche della morte. Mi rendo conto che può apparire una progettualità lugubre, da menàgramo e che, inevitabilmente può allontanare. Ma l’urgenza di educarci alla morte è la via principale per ripensare le attività lavorative, la vita aziendale, il successo, il guadagno e l’espansione. La formazione intorno alla morte – non ci sono sinonimi per dire diversamente – serve a ritrovare il senso della fatica e della gioia quotidiana. Serve alla vita personale e professionale.

La consulenza psicologica non può fingere di essere un parco giochi ed è costitutivamente pesante, se no, vale la confidenza e il consiglio della zia o dell’amico. Poi, esiste la leggerezza della pesantezza, la leggerezza che può arrivare attraverso il peso della pensosità, delle relazioni profonde, solidali, durature. L’innovazione è possibile a partire da sé verso la pratica di comunità, attraverso le riflessioni guidate sulla morte e sulla vita.

Durante la trasmissione Rebus, con forti perplessità sulla conduzione Zanchini-Augias, ascolto un altro maestro, Vittorino Andreoli. Lo psichiatra propone la distinzione fra il dolore fisico, nelle parti del corpo; il dolore psichico, esistenziale, legato alla fatica di vivere e, infine, il dolore sociale. Rifletto sul dolore sociale che richiama la malattia culturale, alla base dei miei interventi in azienda. Per dirigere, per impegnarci nella professione, è necessaria la coscienza e la conoscenza di sè, del copione e dei giochi di potere che ogni essere umano innesca.

Spente le luci dei teatrini, il capo si ammala volendo essere forte, rigido e resistente, a causa del suo ideale di perfezione. Sopravvive in un mondo costruito su parametri quasi soltanto maschili, rinforzando una mentalità profondamente radicata nelle strutture sociali, politiche, economiche e mediatiche. Considera pericolosa e inaccettabile la finitudine, la mancanza, la perdita e chiede alla psicologia di cancellare l’idea del lutto. L’obiettivo è continuare a proporsi come forti, perfetti, veloci, scaltri, vincitori, sorridenti, pure intravedendone la finzione.

La formazione, invece, favorisce la convivenza dell’energia e della fragilità, lontano dall’idea muscolare e individualista, eccentrica e performante che vuole evitare i conflitti e produrre meccanicamente catene cooperative. E questo pensiero c’entra con la ratio di una psicologia che nell’immediato risolve lo stress, ma che discute anche il sistema, il contesto generale da cui originano i comportamenti inadeguati e dolorosi chiamati, genericamente, ansia. Il capitale ha sempre fretta di battere cassa e di assemblare quote di denaro in poche mani. Il culto della crescita infinita procede indiscusso. La formazione deve ripensare al modello di cura del profitto. La salute psicologica non è una merce ed è fondamentale l’impegno per la prevenzione del malessere strutturato.

Il maschilismo è una costruzione copionale che evita l’idea della morte. È una interpretazione sociale maniacale. È un atteggiamento psicologico e culturale fondato sulla presunta superiorità biologica e intellettuale delle virtù virili, come la competizione, la velocità, la furbizia e degli strumenti virili, come i dualismi, le scale di valore, le piramidi, i bicchieri vuoti e pieni, le carote e i bastoni. Quotidianamente, sono sotto i miei occhi gli effetti del potere, nella logica del dominio, nei tratti identitari usati come strumenti di discriminazione. Allontanare l’idea della morte ci impedisce di godere pienamente della vita, anche lavorativa.

Nell’ ultima intervista dell’ottobre 2011, pubblicata su La Stampa, James Hillman afferma:

Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio. Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio. Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe. Ora l’intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo. Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio. Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio. E la rubefactio, che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero. La consapevolezza viene dal morire.

Gli ultimi testi dei maestri:

 

  • James Hillman, Silvia Ronchey, L’ultima immagine, Rizzoli, 2021
  • Irvin Yalom e Marilyn Yalom, Una questione di morte e di vita, Neri Pozza, 2022

V.Andreoli in Rebus:

https://www.raiplay.it/video/2022/02/Rebus—Puntata-del-13022022-f7450fc0-2d73-49f7-b444-7a7640c866f4.html

A proposito di amore

https://fb.watch/bae8gqqi0i/

L’intervista dell’ottobre scorso, anticipa la nascita di un progetto e si inserisce in un quadro più ampio della professione psicologica applicata al lavoro e alle attività delle donne. L’autonomia interiore e l’indipendenza economica vanno di pari passo e segnano la via per rimettere al mondo se stesse. La scuola di educazione Alla persona® propone la rilettura del copione personale, partendo dalla coscienza e dalla conoscenza di sé attraverso le azioni lavorative. Ogni donna ha una esperienza generativa da raccontare: accolgo, mi predispongo in ascoltazione, propongo una guida direzionale e non direttiva. In ogni incontro, l’analisi e la sintesi nella relazione che procede prepara a guidare il pensiero, a decidere la voce, a prendere la parola.

Si è appiattito
come una rotaia
il mio cuore in ascoltazione
ma si scopriva a seguire
come una scia
una scomparsa navigazione

Giuseppe Ungaretti, da L’Allegria, 1916

cartellate

Ridere

La psicologia archetipica considera il discorso metaforico intorno alla mitologia, all’arte, alla religione, all’epica come un modello fondamentale dell’esistenza umana. Considera il mito come una narrazione simbolica di carattere sacrale che fornisce una spiegazione ai fatti storici. Nei percorsi formativi della scuola di educazione Alla persona, il mito diviene il linguaggio che facilita il percorso di coscienza.

“Chicchi di melograno al telefono” è il nome che Ina Macina dichiara per le nostre conversazioni online. Dopo aver letto https://www.liziadagostino.it/la-bambina-della-mamma/:

Ina: Quando sento Kore Persefone Demetra io accorro. Lizia, alla triade manca Baubò, la vecchia che fece ridere con scherzi osceni Demetra. Mitica la versione de “il sorriso di Demetra”. Il tuo scritto mi fa immaginare Demetra che dice agli dei: chi vi ha detto che potete prendere mia figlia? Chi vi ha detto che potete disporre del femminile a vostro piacimento?…  Sto riuscendo con la solita grande fatica a fare formazione a scuola… Stiamo ragionando anche sulla matrice patriarcale della cultura classica; matrice patriarcale suona come un ossimoro…

 Lizia: Certo Ina, la matrice patriarcale della cultura classica la ritrovo in un piccolo libro Einaudi, Futuro del “classico” di Salvatore Settis… Se rendessimo parzialmente pubbliche le nostre conversazioni? Baubò manca perché manca a me l’incontro con lei.

 Ina: Non sapevo che fossero 9 i giorni della ricerca di Demetra. Numero simbolico, come la gravidanza. Rimessa al mondo.

Dunque, in uno dei nostri dialoghi, Ina nomina Baubò. Omero, maschio forse anche inesistente, ma sempre moralista e sprezzante, chiama Baubò con un nome diverso, Iambe, un nome che rimanda a un modo di camminare claudicante e, inoltre, traveste il gesto del sollevare la gonna, ἀνάσυρμα, con più innocenti e poeticamente accettabili, παρασκώπτουσα, lazzi e beffe.

E torniamo al racconto del mito: nessuno riconosce Demetra, ἀγέλαστος, triste e vagante alla ricerca di sua figlia Persefone, rapita da Plutone, dio dell’Ade. La dea viene invitata nella casa di Metanira ed è qui che incontra Iambe, in greco Ιάμβη, la figlia del dio Pan e della ninfa Eco o forse, figlia proprio di Metanira e di Celeo. La dea passa dal sorriso amaro alla risata oscena, e accompagna, attraverso il sorriso e la risata, il ritorno alla vita. Demetra affonda e rinasce ed è segno che ha quella esistenza e che è quella esistenza.

Rileggo i versi 197-205 dell’Inno a Demetra:

«[Demetra] apportatrice di messi, dai magnifici doni,/ non volle sedersi sul trono risplendente,/ e ristette in silenzio, abbassando i begli occhi,/ finché l’operosa Iambe ebbe disposto per lei/ un solido sgabello, gettandovi sopra una candida pelle./ Là ella sedeva, e con le mani tendeva il velo sul volto;/ e per lungo tempo, tacita e piena di tristezza, stava immobile sul seggio,/ né ad alcuno rivolgeva parola o gesto,/ ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande,/ sedeva, struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile:/ finché con i suoi motteggi l’operosa Iambe,/ scherzando continuamente, indusse la dea veneranda/ a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore:/ Iambe che anche in seguito fu cara all’anima della dea.»

Baubò, dea dell’oscenità, spariglia le carte, esce dalle righe, eccede, scoprendosi le parti intime e facendone bella mostra alla sua ospite. Divertita e sollevata, Demetra, sorpresa, sorride divinamente! E accetta di buon grado di bere il sacro ciceone, una bevanda di acqua, farina d’orzo e menta, interrompendo il digiuno e instaurando così il rito eleusino. Baubò è la donna magica priva di testa, con gli occhi al posto dei capezzoli e la bocca al posto dei genitali; si muove dimenando i fianchi e mimando un rapporto sessuale; parla attraverso la sua vagina e racconta storie scurrili e divertenti.

Lo scrittore Matteo Nucci, a pagina 171 del testo Le lacrime degli eroi, chiarisce bene: Demetra sorride e ride, non muta il segno delle proprie lacrime. Ride di tutto, ride su tutto e si prepara a vincere la morte. Baubò può rappresentare una opzione, fra le espressioni molteplici e colorate del nucleo femminile, e si svela come unità corporea, spirituale e psichica. Il piangere non è sempre riconducibile a un dolore e il ridere non rimanda necessariamente a uno stato di piacere. Demetra sorride e si abbandona alla risata, colta dalla diversità grottesca e dalla gestualità ampia e libera.

L’osceno è rimasto un termine legato al sesso: gli atti osceni in luogo pubblico e il linguaggio osceno sono parole della morale, ma l’osceno non è necessariamente volgare. Dunque, nel momento in cui a Demetra sembra definitiva la perdita della figlia Persefone, Baubò si manifesta e la dea si riscopre donna non solo fornita di corporeità, che ha un corpo, Leib, ma donna immersa nella corporeità, che è Körper. Il riso è l’esperienza della perdita del controllo di sè e della resa nella situazione, dell’affermazione di libertà e dell’abbandono. Il corpo, attraverso il ridere osceno, prende in carico la risposta e ogni demetra può sperimentarsi come corporeità nel corpo.

Vivo con la mia coscienza e la corporeità è il suo veicolo; agisco nella coscienza e Baubò apre e si rivela come l’incontro obbligato capace di dīvertĕre, di volgermi in un’altra direzione e di trasformare ogni perdita buia in un’apertura risolutiva. Utilizzo il corpo per camminare, per cercare e, manifestandosi Baubò, preziosa risorsa, attivo le modalità di comprensione ritenute inferiori. In un misto di risate e di libido, pratico la rottura di ogni stereotipo, allontano la malinconia e la tristezza, ritrovando il coraggio e ricominciando a cercare e a farmi incontrare. Chi è la mia Baubò?

Riferimenti bibliografici

  • Càssola, a cura di, Inni Omerici, Mondadori, Milano 1975
  • Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, Enaudi, 2013
  • Helmuth Plessner, Il riso e il pianto, Bompiani, 2000
  • Kurt Vonnegut, Madre notte, Bompiani, 2021
Le storie scritte dele donne

Il padre, mastro Geppetto

Mi convince Fabio Stassi perché riscrive la storia dalla parte del padre, partendo da sé, esponendosi nelle fragilità dei ricordi, perduto e mancante. Questo mastro Geppetto è un genitore che abbandona la posizione dominante e si mette in viaggio per incontrare il figlio lì dove lui è, come lui desidera e neanche riesce a chiedere. Gli tocca andare a cercarlo, come una via per ritrovare il senso della propria vita. Cerca Pinocchio che, ad un certo momento, vuole essere trovato.

È il lavoro di cura che rende padre Geppetto, un uomo a cui ”girava la testa, e sentiva nel petto un arruffo che lo scombussolava e lo lasciava combattuto”(p.14). È il lavoro di cura che rende figlio Pinocchio, un figlio che capisce cadendo per conto suo e superando l’obbligo dell’obbedienza e della sottomissione come l’unico strumento per incontrare la vita. La proposta è la riscoperta della parte maschile normativa affettiva.

Geppetto misura l’orizzonte lontano, apre gli scenari, faticando nello sguardo, ammalando il corpo. Vacilla e inciampa nel dubbio e nella paura, tace e astrae, cercando sollievo nelle visualizzazioni. L’esercizio apparentemente naturale del potere si trasforma nella pratica modesta e profonda dell’ascolto e del racconto di sè. Pinocchio può diventare umano perché Geppetto lo accoglie, nella realtà, come un burattino fallibile e come un minore, non minus, non minorato, in controdipendenza fisiologica, soffrendo senza farne un dramma di colpe e senza gridare all’obbedienza pretesa dalla lesa maestà.

Per essere preso sul serio, Geppetto/Stassi abbandona gli androcentrismi linguistici. Non leggo i termini del possesso come la notorietà, il prestigio, lo stuolo di acculturati, il compito che segue gli obiettivi, l’orgoglio e la vendetta… Geppetto sussurra parole pure sconnesse che cercano il senso nell’essere assieme, nel dono della presenza. La preghiera di Geppetto è un moto di gratitudine e di riconoscenza verso quel figlio bugiardo e scappato di casa, proprio verso Pinocchio.

Mi convince la paternità patita e sorridente di Geppetto, nella letteratura di Fabio Stassi, molto più della revisione lacaniana proposta dallo psicoanalista Recalcati che noiosamente rimanda l’immagine in vetrina di un personaggio paterno ancora forte e seduttivo, di un professore di riferimento da seguire, come nella migliore tradizione patriarcale. È estetico e puntuale il pensiero di Recalcati per dire della Legge e del padre nei saggi La notte del Getsemani e Cosa resta del padre? Il mio sguardo, tuttavia, intravede sempre una figura di uomo dotto e indottrinato, un uomo di valutazioni e di modelli che interpreta centrando tutto su di sé come misura e che spiega le cose come stanno. Per chiarire, io studio i testi di Lacan, epperò faccio volentieri a meno della postura arrogante che espone Recalcati al commercio facile, della cera sul suo volto impostato, della tentazione virile all’imposizione e alla benedizione salvifica verso il pubblico ignorante.

La domanda di Geppetto rimane fondativa di un lavoro tutto da incominciare sull’autocoscienza maschile: “Chi è che ci getta senza nessuna pietà nel pandemonio del mondo?” (p.27). E, nell’uomo, ancora mi convince riuscire a leggergli l’anima sul volto: “Non si può dire che mastro Geppetto fosse di costumi mansueti, ma di certo gli si leggeva l’anima sul volto.” (p.19)

Ho rivisto il film di Matteo Garrone del 2019 e considero la storia quasi una preparazione al libro, una modalità psicologica lenta che prepara la trasformazione del padre in persona della cura. Geppetto è presente, anche in assenza, si adatta allo scherno del mondo e rinuncia a rilanciare le risposte. In fondo, solitario, trova rifugio nella pancia della balena. Geppetto, il mastro, l’artigiano, è autentico e si fa sempre convincere da Pinocchio, mica perché è scemo, ma perché la giovinezza del figlio che continua a sbagliare e a sbattere la testa di legno a causa dell’età, deve essere credibile agli occhi dell’anziano, per se stesso, per invecchiare con ironia.

Credo alla autorità come una opportunità e non come la garanzia di un ordine. Essa si esprime come servizio all’altro, come disposizione d’animo all’incontro. Mi piace l’autorità taciturna e invisibile di Geppetto: Pinocchio stesso la riconosce e se ne serve, come un suo diritto. Sono le scelte apparentemente ingenue e disarmate degli adulti che seminano le relazioni pedagogiche. L’altro, se gli abbiamo donato la possibilità di abbandonarci, quando arriverà il tempo suo di apprendimento, ricorderà e sarà libero.

Riferimenti

Fabio Stassi, Mastro Geppetto, Sellerio, 2021

https://www.raiplay.it/video/2021/12/Pinocchio-2a9e57ec-c71a-474b-96bc-0598dee42b32.html

https://www.liziadagostino.it/autorita-della-presenza-in-relazione/

mano mia

Le scritture delle donne

Il tema fondamentale di cui mi occupo come psicologa è la coscienza e la rilettura del copione personale anche attraverso la conoscenza dei miti e degli archetipi. Appaiono temi inattuali e anacronistici rispetto al covid, alla denatalità, all’ambiente e al lavoro.  Ma è l’inattualità che rende fondamentale e duratura l’educazione Alla persona, partendo da sé verso il proprio nucleo di verità. M.T.Romanini, C.G.Jung, J.Hillman, L.Zoja, continuano a essere i miei punti di riferimento. Propongo una psicologia itinerante e militante che, talvolta, per evitare di compiacere il potere, si riduce in clandestinità; una psicologia che facilita l’esercizio politico di una lettura della realtà; una psicologia che insegna a pensare e a scrivere intorno alla morte e al morire, evitando le scorciatoie e evocando i lutti.

Apprendo a raccontare l’esperienza da molteplici prospettive. Promuovo l’idea di un pensiero psicologico che sia necessariamente democratico, consentendo di uscire dai binomi fissi: salute/malattia; vittoria/sconfitta; ragione/torto; gioia/dolore. Fra una parola e l’altra ritroviamo lo spazio e il tempo della forza, delle possibilità e delle scelte. I problemi da risolvere sono le situazioni da capire e che custodiscono le soluzioni. L’abilità e l’allenamento nell’utilizzo delle parole è l’esercizio di coscienza di sé e di rivoluzione di visioni con la ricaduta nel territorio e nella comunità.

Ogni donna ha una storia da raccontare e da testimoniare nella scrittura. Con alcune di loro, da anni vado studiando e nutrendo, anche a distanza, la relazione. Mi piace condividere parzialmente la mia prefazione, nel testo che una compagna di via ha deciso di pubblicare con uno pseudonimo: Ci sono molti modi di uccidere una donna, rubarle l’anima è uno di questi.

“L’autrice di questa storia mi insegna la disponibilità a ricevere e con gratitudine accolgo il suo invito a indicare, come psicologa, una lettura delle vicende confidate. Il lavoro si inserisce nella tradizione diaristica, indugia nella quotidianità e serve a riconoscere i messaggi svalutanti e le angosce di morte. Il linguaggio è semplice perché è semplice la profondità di pensiero, quando si raggiunge, come nel caso dell’autrice. Non si tratta di letteratura e di scrittrice o di narrativa vittimistica. Il diario è prezioso perché è costato tanto e rappresenta una presa in carico di sé e della propria storia. La consapevolezza acquisita facilita l’uso di parole semplici e trasparenti.

Concordo con la possibilità che le osservazioni proposte possano essere strumento di liberazione per altre donne. Sono convinta che se una donna non pensa a proteggersi è perché non c’è un contesto che glielo consenta o che glielo insegni. Parlo di un contesto ampio, sociale e comunitario e non solo familiare. Fra donne, credo nello sviluppo di una consuetudine comunitaria a prendere la parola, a costruire relazioni di intimità.

La violenza domestica, la violenza intima da parte del partner, la violenza sessuale, la violenza di genere sono, nella maggioranza dei casi, questioni di maschi. È inaudito che un uomo simile, con quel linguaggio, quella psicologia, quei modi, quella rozzezza intellettuale, quella meschinità umana, quella idea delle donne, quella sconfinata ignoranza del mondo, quella presunzione smodata, non venga segnalato, riconosciuto in un contesto sociale e non segua incontri di psicoterapia.

… È difficile che io neghi ad un essere umano la possibilità di scegliere, la libertà di espressione, la capacità di intendere e di volere. Ritengo che anche la persona con una diagnosi psicologica grave conservi la capacità di essere responsabile e io riconosco all’altro una responsabilità pur minima, limitata e dolorante. So di intervenire, per un tempo non calcolato, in uno spazio ridotto e con una speranza affievolita. È fondamentale che io coltivi la certezza che ogni essere umano possa riconoscere, a modo suo e considerato lo scenario di riferimento, il senso sano della colpa, che se ne possa far carico e che possa renderne conto al prossimo. Un nucleo, talvolta piccolissimo, di coscienza, lo sento, lo trovo e lo restituisco. Se no, scompare la ragione per esercitare la professione psicologica. Il senso sano della colpa è la responsabilità di aver rotto un patto, di essere venuto meno all’alleanza relazionale, di aver tradito, in primis, la propria natura di esseri umani evoluti perché dotati di capacità di pensiero.

Invece, quando rimango in ascolto delle storie di donne, registro all’inizio l’impossibilità di un senso della colpa, l’impossibilità immediata di assunzione della responsabilità. Quasi tutte, subendo sottomissioni e manipolazioni, tradimenti e abusi, dichiarano di non aver capito, o di aver capito tardi, di aver voluto sperare, di aver creduto all’amore che trasforma e al tempo che guarisce. Insomma, ascolto donne che, in fondo, un po’ onnipotenti, pensano di farcela da sole a combattere il mostro, che ragionano a favore dei figli e delle famiglie di provenienza, che sottovalutano o, innamorate, non si accorgono della gravità irrimediabile dei comportamenti maschili.

In verità, nelle dinamiche familiari a rischio di abuso di qualunque genere, le donne non hanno la forza per opporsi, senza l’aiuto di persone alleate. E io non insisto sulla centralità della donna nell’immagine giovane, innamorata e fragile perché intravedo il rischio di vittimizzare la donna la quale, semmai, vittima, lo è davvero. Chiedo di discutere dell’uomo ammalato di narcisismo e chiedo, a gran voce, che venga svelato, riconosciuto e accompagnato da uno psicologo e/o da un medico. Desidero credere in una comunità sociale in cui l’uomo con disturbi psicologici sia segnalato, anche in un contesto allargato, e sia curato.

… Il maschio «alfa» ha bisogno di cure, a causa del protagonismo, dell’estroversione ostentata, dell’abitudine alla voce grossa, dell’azzardo: l’umiltà, la sobrietà, l’understanding, la comprensione e la prudenza prevedono un lavoro sulla coscienza e sulla conoscenza di sé. Le donne si incamminano assieme proteggendosi, tenendosi d’occhio l’una con l’altra, intervenendo amorevolmente, confidandosi, in relazioni di sorellanza diffusa.”

Passiamo parola, è un libro intenso, di formazione all’autonomia: Ci sono molti modi di uccidere una donna, rubarle l’anima è uno di questi

 

 

 

demoni o demoni

Dèmoni e demònî

Nella visione cattolica e protestante, nella Chiesa orientale e romana, i demònî sono da temere e da scacciare; essi rappresentano satana, il caos, la tentazione. Come I demònî, (in russo: Бесы, Besy), il romanzo di Dostoevskij in cui si fa riferimento ai diavoli, ai posseduti, agli spiriti maligni e impuri, rappresentati dai personaggi narrati.

Oltre la demonizzazione dei dèmonî, Jung e, in tempi più recenti Hillman, ancora oggi miei compagni di viaggio, parlano dei daimones, gli intermediari fra l’uomo e il divino, come uno strumento di conoscenza di sé. Come il dèmone di Socrate e di Diotima. I daimones sono il «piccolo popolo» junghiano dei complessi. Le immagini personificate delle visioni interiori ci aiutano a trovare la vocazione, l’idea e il senso stesso della vita, la forza della personalità. Anche Eros è un daimon e spinge a conoscerci e ad ascoltarci nella storia interiore, come un orientamento che agita il cuore e spinge a percorrere una via. Sono i significati profondi che ci aiutano a trascendere la nostra vita personale e comunitaria.

La psicologia compie il lavoro di guida, di rilettura, di liberazione nel nucleo profondo, nella «valle del fare anima». La rinascita in autenticità è sempre possibile trasformando il dominio e il ricatto che ogni persona agisce su di sè per prima, in energia di espressione vitale e relazionale. Non possiamo reggere da soli i daimones, possiamo incontrarli con la forza della conoscenza e della condivisione.

Nascere significa accogliere il proprio daimon nella lettura luminosa del talento e delle virtù e nella narrazione buia e infelice che segnala i futuri apprendimenti possibili. Eraclito e, in seguito, Jung dicono che il carattere è il nostro destino: θος νθρώπ δαίμων, ethos anthropoi daimon. Ne sono certa e penso che gli esseri umani non vadano ammaestrati e domati come se fossero sbagliati, rotti, colpevoli. Aggiungo che non abbiamo lati brutti e belli, bianchi e neri, giusti e ingiusti, ma solo aspirazioni e tensioni alleate e inespresse, da capire e liberare. Non possiamo soffocare noi stesse/i per compiacere e per omologarci. Andiamo bene così come siamo. Il cambiamento è riconoscere le originarie inclinazioni e orientarle per il benessere proprio e del prossimo.

E, allora, può essere Natale ogni giorno.

Riporto due passi di opere letterarie. Nel primo brano è raccontata la parte demòne, la voce oscura, da accogliere e perdonarci:

Ed ecco in lui (nel diavolo, intendo) manifestarsi quei tratti caratteristici che, a un occhio attento, lo rendono riconoscibile: tutto nella sua persona pecca di eccesso, il suo riso è sgangherato, il gesto è teatrale, i capelli ravviati all’indietro, piuttosto lunghi e untuosi, sono tinti di nero; le labbra purpuree, affilate, con i lati rivolti all’insù a mimare un sorriso perenne¸ gli incisivi grossi, a forma di scalpello, sono affetti da un vistoso diastema, e la voce, la voce poi, dove sembra celarsi il segreto del suo fascino, è rotonda, impostata, senza asperità, senza picchi, ma basterebbe rallentarne la frequenza con l’ausilio di un nastro magnetico per rilevare un sottofondo di sospiri e lamenti.

Paolo Maurensig, Il diavolo nel cassetto, Einaudi, 2018, p.55

E in questo secondo adorabile brano riconosco, invece, il dèmone, la forza vitale, lo spazio e il tempo della conoscenza:

Voglio impossessarmi dell’è della cosa. Quegli istanti che passano nell’aria che respiro: fuochi d’artificio che esplodono muti nello spazio. Voglio possedere gli atomi del tempo. E voglio catturare il presente che per sua stessa natura mi è interdetto: il presente mi sfugge, l’attimo svanisce, l’attimo sono io sempre nell’adesso. Solo nell’atto dell’amore – nella limpida astrazione siderale di ciò che si sente – si coglie l’incognita dell’istante… e la vita è questo istante irraccontabile, più grande dell’avvenimento in sé… Voglio cogliere il mio è. E canto alleluia all’aria, come fanno gli uccelli. E il mio canto non appartiene a nessuno. Ma non c’è passione sofferta con dolore e amore a cui non segua un alleluia.

Clarice Lispector, Acqua viva, Adelphi, 1973, 2017, pp.9,10

 I miei riferimenti in psicologia:

James Hillman, Le storie che curano, Raffaello Cortina, 1984, 2021

James Hillman, Re-visione della psicologia, Gli Adelphi, 1975, 1983

 

L’idea della malattia mentale – Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi, 2021

 

 

Mi piacerebbe leggere pensieri e studi di collaborazione nei territori della psicologia e della psichiatria. Forse l’autore aveva in cuore di trasferire la sua esperienza in versi e in prosa, e io leggo e custodisco, con comprensione e ammirazione, la fatica della scrittura e dell’attività lavorativa ricordata. Propongo una lettura critica di questo testo prezioso per la testimonianza, per le storie raccolte in quarant’anni di Reparto 77 e per i dubbi che solletica. Come lettrice psicologa sono preoccupata per le eventuali derive dell’idea stessa di malattia mentale, nell’atteggiamento e nelle visioni strutturate.

Questa esperienza scritta dello psichiatra Milone mi ha dato da pensare a lungo. Problematizzo, non cerco e offro soluzioni; l’invito è continuare a interrogarci.

Per esempio, riporto da pagina 148: “Non è cattivo chi lega, legare è faticoso. È cattivo chi abbandona il paziente”. E rifletto sull’idea maschile binaria: o legare il paziente o abbandonarlo? L’aspettativa è che legare qualcuno, anche il matto, risulti meno faticoso? Perché, seppure fragile e malato, l’essere umano dovrebbe facilmente acconsentire alla contenzione?

E a pagina 159, l’autore si meraviglia: “Gli psicologi, è incredibile, vivono in un mondo psicologico!”. Una psichiatria a cui manchi la dimensione psicologica è pericolosamente assoggettata alla tecnica applicata e al suo lato oscuro. Se manca la psichiatria psicologica, il professionista è condannato alla negazione, alla scissione da sé e alla proiezione di quello che non assume come variabili. Per lo psichiatra, il nemico diventa il malato e la sua malattia.

I progressi della tecnica e dell’economia non compensano i bisogni primari dell’animo umano. L’organicismo è una tentazione sempre dominante. Abbiamo bisogno maggiormente di continuare a credere e a coltivare l’utopia di Franco Basaglia e di Franca Ongaro, sua moglie. L’utopia a favore dell’essere umano concreto che va adattandosi alle circostanze e non della generica massa. L’utopia che cerca ancora una programmazione e un’azione politica.

Nessuna forma di costrizione è giustificabile e la coercizione può diventare l’applicazione che rimanda ad una visione utilitaristica dell’essere umano, accolto e riconosciuto solo nella separazione fra la normalità e la follia. Certo, ci sono le situazioni eccezionali che però vanno valutate caso per caso. A me interessa, ab origine, la convinzione e la decisione di non legare. Come psicologa non mi sento “esposta al male” degli altri, ma al male dentro di me; non “a guardare l’abisso con gli occhi degli altri”, ma a conoscere l’inferno della mia interiorità, in relazione con il prossimo.

Leggo a pagina13: “C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa più brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora più brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana.” E a pagina17: “Psichiatria è urla e pianto muto”.

Nessuna parola mi convince. Penso che realmente il ricovero possa diventare, come ogni detenzione, la “cosa più brutta al mondo” e, aggiungo, la più inutile. La vita di molti esseri umani è brutta a causa dell’ingiustizia, di un mondo sociale che include quelli ritenuti perfetti, forti, compiacenti e utili al potere. Ascoltare l’urlo e il pianto muto dei fragili, dei malati è l’apprendimento quotidiano, non un peso di cui liberarsi a favore della illimitata produzione. Cos’altro avremmo da fare, noi umani, se non stanare le solitudini dolorose? E cos’altro proporrebbe la psicologia se non le riletture ecologiche, ampie il più possibile, della mente e degli stati di vita differenti?

Magari l’autore non ne aveva l’intenzione ma, il fenomeno violento sul minus, sulla pazza di turno, risulta banalizzato, naturalizzato, romanticizzato; quindi, ridimensionato e giustificato; infine, rimane invisibile e impunito. La narrazione della malattia psichiatrica che usa il linguaggio emozionale rischia di confermare gli atteggiamenti moralisti e compassionevoli. Sospetto una dinamica di potere forte, non una pratica di pietà per evitare all’altro la sofferenza.

Soprattutto la Psichiatria d’urgenza e gli interventi di Tso (trattamenti sanitari obbligatori) necessitano di discernimento, di una pratica psicologica che riguardi non tanto e non solo il male negli altri, ma il male e la violenza in se stessi. L’attesa è che l’analisi personale, la formazione alla relazione, nell’esercizio delle professioni di psicologo e di psichiatra, non risultino occasionali e diluite, ma sistematiche e continuative. A fianco di un pensiero filosofico e politico a servizio degli uomini e delle donne.

Infine, il libro è Einaudi, è pieno di suggestioni e invito ad affinare l’olfatto rispetto all’idea di un potere sornione che pretende, pure, di essere poetico e che coinvolge il corpo, l’intera prospettiva di vita relazionale e di cura.