Le storie scritte dele donne

Il padre, mastro Geppetto

Mi convince Fabio Stassi perché riscrive la storia dalla parte del padre, partendo da sé, esponendosi nelle fragilità dei ricordi, perduto e mancante. Questo mastro Geppetto è un genitore che abbandona la posizione dominante e si mette in viaggio per incontrare il figlio lì dove lui è, come lui desidera e neanche riesce a chiedere. Gli tocca andare a cercarlo, come una via per ritrovare il senso della propria vita. Cerca Pinocchio che, ad un certo momento, vuole essere trovato.

È il lavoro di cura che rende padre Geppetto, un uomo a cui ”girava la testa, e sentiva nel petto un arruffo che lo scombussolava e lo lasciava combattuto”(p.14). È il lavoro di cura che rende figlio Pinocchio, un figlio che capisce cadendo per conto suo e superando l’obbligo dell’obbedienza e della sottomissione come l’unico strumento per incontrare la vita. La proposta è la riscoperta della parte maschile normativa affettiva.

Geppetto misura l’orizzonte lontano, apre gli scenari, faticando nello sguardo, ammalando il corpo. Vacilla e inciampa nel dubbio e nella paura, tace e astrae, cercando sollievo nelle visualizzazioni. L’esercizio apparentemente naturale del potere si trasforma nella pratica modesta e profonda dell’ascolto e del racconto di sè. Pinocchio può diventare umano perché Geppetto lo accoglie, nella realtà, come un burattino fallibile e come un minore, non minus, non minorato, in controdipendenza fisiologica, soffrendo senza farne un dramma di colpe e senza gridare all’obbedienza pretesa dalla lesa maestà.

Per essere preso sul serio, Geppetto/Stassi abbandona gli androcentrismi linguistici. Non leggo i termini del possesso come la notorietà, il prestigio, lo stuolo di acculturati, il compito che segue gli obiettivi, l’orgoglio e la vendetta… Geppetto sussurra parole pure sconnesse che cercano il senso nell’essere assieme, nel dono della presenza. La preghiera di Geppetto è un moto di gratitudine e di riconoscenza verso quel figlio bugiardo e scappato di casa, proprio verso Pinocchio.

Mi convince la paternità patita e sorridente di Geppetto, nella letteratura di Fabio Stassi, molto più della revisione lacaniana proposta dallo psicoanalista Recalcati che noiosamente rimanda l’immagine in vetrina di un personaggio paterno ancora forte e seduttivo, di un professore di riferimento da seguire, come nella migliore tradizione patriarcale. È estetico e puntuale il pensiero di Recalcati per dire della Legge e del padre nei saggi La notte del Getsemani e Cosa resta del padre? Il mio sguardo, tuttavia, intravede sempre una figura di uomo dotto e indottrinato, un uomo di valutazioni e di modelli che interpreta centrando tutto su di sé come misura e che spiega le cose come stanno. Per chiarire, io studio i testi di Lacan, epperò faccio volentieri a meno della postura arrogante che espone Recalcati al commercio facile, della cera sul suo volto impostato, della tentazione virile all’imposizione e alla benedizione salvifica verso il pubblico ignorante.

La domanda di Geppetto rimane fondativa di un lavoro tutto da incominciare sull’autocoscienza maschile: “Chi è che ci getta senza nessuna pietà nel pandemonio del mondo?” (p.27). E, nell’uomo, ancora mi convince riuscire a leggergli l’anima sul volto: “Non si può dire che mastro Geppetto fosse di costumi mansueti, ma di certo gli si leggeva l’anima sul volto.” (p.19)

Ho rivisto il film di Matteo Garrone del 2019 e considero la storia quasi una preparazione al libro, una modalità psicologica lenta che prepara la trasformazione del padre in persona della cura. Geppetto è presente, anche in assenza, si adatta allo scherno del mondo e rinuncia a rilanciare le risposte. In fondo, solitario, trova rifugio nella pancia della balena. Geppetto, il mastro, l’artigiano, è autentico e si fa sempre convincere da Pinocchio, mica perché è scemo, ma perché la giovinezza del figlio che continua a sbagliare e a sbattere la testa di legno a causa dell’età, deve essere credibile agli occhi dell’anziano, per se stesso, per invecchiare con ironia.

Credo alla autorità come una opportunità e non come la garanzia di un ordine. Essa si esprime come servizio all’altro, come disposizione d’animo all’incontro. Mi piace l’autorità taciturna e invisibile di Geppetto: Pinocchio stesso la riconosce e se ne serve, come un suo diritto. Sono le scelte apparentemente ingenue e disarmate degli adulti che seminano le relazioni pedagogiche. L’altro, se gli abbiamo donato la possibilità di abbandonarci, quando arriverà il tempo suo di apprendimento, ricorderà e sarà libero.

Riferimenti

Fabio Stassi, Mastro Geppetto, Sellerio, 2021

https://www.raiplay.it/video/2021/12/Pinocchio-2a9e57ec-c71a-474b-96bc-0598dee42b32.html

https://www.liziadagostino.it/autorita-della-presenza-in-relazione/

mano mia

Le scritture delle donne

Il tema fondamentale di cui mi occupo come psicologa è la coscienza e la rilettura del copione personale anche attraverso la conoscenza dei miti e degli archetipi. Appaiono temi inattuali e anacronistici rispetto al covid, alla denatalità, all’ambiente e al lavoro.  Ma è l’inattualità che rende fondamentale e duratura l’educazione Alla persona, partendo da sé verso il proprio nucleo di verità. M.T.Romanini, C.G.Jung, J.Hillman, L.Zoja, continuano a essere i miei punti di riferimento. Propongo una psicologia itinerante e militante che, talvolta, per evitare di compiacere il potere, si riduce in clandestinità; una psicologia che facilita l’esercizio politico di una lettura della realtà; una psicologia che insegna a pensare e a scrivere intorno alla morte e al morire, evitando le scorciatoie e evocando i lutti.

Apprendo a raccontare l’esperienza da molteplici prospettive. Promuovo l’idea di un pensiero psicologico che sia necessariamente democratico, consentendo di uscire dai binomi fissi: salute/malattia; vittoria/sconfitta; ragione/torto; gioia/dolore. Fra una parola e l’altra ritroviamo lo spazio e il tempo della forza, delle possibilità e delle scelte. I problemi da risolvere sono le situazioni da capire e che custodiscono le soluzioni. L’abilità e l’allenamento nell’utilizzo delle parole è l’esercizio di coscienza di sé e di rivoluzione di visioni con la ricaduta nel territorio e nella comunità.

Ogni donna ha una storia da raccontare e da testimoniare nella scrittura. Con alcune di loro, da anni vado studiando e nutrendo, anche a distanza, la relazione. Mi piace condividere parzialmente la mia prefazione, nel testo che una compagna di via ha deciso di pubblicare con uno pseudonimo: Ci sono molti modi di uccidere una donna, rubarle l’anima è uno di questi.

“L’autrice di questa storia mi insegna la disponibilità a ricevere e con gratitudine accolgo il suo invito a indicare, come psicologa, una lettura delle vicende confidate. Il lavoro si inserisce nella tradizione diaristica, indugia nella quotidianità e serve a riconoscere i messaggi svalutanti e le angosce di morte. Il linguaggio è semplice perché è semplice la profondità di pensiero, quando si raggiunge, come nel caso dell’autrice. Non si tratta di letteratura e di scrittrice o di narrativa vittimistica. Il diario è prezioso perché è costato tanto e rappresenta una presa in carico di sé e della propria storia. La consapevolezza acquisita facilita l’uso di parole semplici e trasparenti.

Concordo con la possibilità che le osservazioni proposte possano essere strumento di liberazione per altre donne. Sono convinta che se una donna non pensa a proteggersi è perché non c’è un contesto che glielo consenta o che glielo insegni. Parlo di un contesto ampio, sociale e comunitario e non solo familiare. Fra donne, credo nello sviluppo di una consuetudine comunitaria a prendere la parola, a costruire relazioni di intimità.

La violenza domestica, la violenza intima da parte del partner, la violenza sessuale, la violenza di genere sono, nella maggioranza dei casi, questioni di maschi. È inaudito che un uomo simile, con quel linguaggio, quella psicologia, quei modi, quella rozzezza intellettuale, quella meschinità umana, quella idea delle donne, quella sconfinata ignoranza del mondo, quella presunzione smodata, non venga segnalato, riconosciuto in un contesto sociale e non segua incontri di psicoterapia.

… È difficile che io neghi ad un essere umano la possibilità di scegliere, la libertà di espressione, la capacità di intendere e di volere. Ritengo che anche la persona con una diagnosi psicologica grave conservi la capacità di essere responsabile e io riconosco all’altro una responsabilità pur minima, limitata e dolorante. So di intervenire, per un tempo non calcolato, in uno spazio ridotto e con una speranza affievolita. È fondamentale che io coltivi la certezza che ogni essere umano possa riconoscere, a modo suo e considerato lo scenario di riferimento, il senso sano della colpa, che se ne possa far carico e che possa renderne conto al prossimo. Un nucleo, talvolta piccolissimo, di coscienza, lo sento, lo trovo e lo restituisco. Se no, scompare la ragione per esercitare la professione psicologica. Il senso sano della colpa è la responsabilità di aver rotto un patto, di essere venuto meno all’alleanza relazionale, di aver tradito, in primis, la propria natura di esseri umani evoluti perché dotati di capacità di pensiero.

Invece, quando rimango in ascolto delle storie di donne, registro all’inizio l’impossibilità di un senso della colpa, l’impossibilità immediata di assunzione della responsabilità. Quasi tutte, subendo sottomissioni e manipolazioni, tradimenti e abusi, dichiarano di non aver capito, o di aver capito tardi, di aver voluto sperare, di aver creduto all’amore che trasforma e al tempo che guarisce. Insomma, ascolto donne che, in fondo, un po’ onnipotenti, pensano di farcela da sole a combattere il mostro, che ragionano a favore dei figli e delle famiglie di provenienza, che sottovalutano o, innamorate, non si accorgono della gravità irrimediabile dei comportamenti maschili.

In verità, nelle dinamiche familiari a rischio di abuso di qualunque genere, le donne non hanno la forza per opporsi, senza l’aiuto di persone alleate. E io non insisto sulla centralità della donna nell’immagine giovane, innamorata e fragile perché intravedo il rischio di vittimizzare la donna la quale, semmai, vittima, lo è davvero. Chiedo di discutere dell’uomo ammalato di narcisismo e chiedo, a gran voce, che venga svelato, riconosciuto e accompagnato da uno psicologo e/o da un medico. Desidero credere in una comunità sociale in cui l’uomo con disturbi psicologici sia segnalato, anche in un contesto allargato, e sia curato.

… Il maschio «alfa» ha bisogno di cure, a causa del protagonismo, dell’estroversione ostentata, dell’abitudine alla voce grossa, dell’azzardo: l’umiltà, la sobrietà, l’understanding, la comprensione e la prudenza prevedono un lavoro sulla coscienza e sulla conoscenza di sé. Le donne si incamminano assieme proteggendosi, tenendosi d’occhio l’una con l’altra, intervenendo amorevolmente, confidandosi, in relazioni di sorellanza diffusa.”

Passiamo parola, è un libro intenso, di formazione all’autonomia: Ci sono molti modi di uccidere una donna, rubarle l’anima è uno di questi

 

 

 

demoni o demoni

Dèmoni e demònî

Nella visione cattolica e protestante, nella Chiesa orientale e romana, i demònî sono da temere e da scacciare; essi rappresentano satana, il caos, la tentazione. Come I demònî, (in russo: Бесы, Besy), il romanzo di Dostoevskij in cui si fa riferimento ai diavoli, ai posseduti, agli spiriti maligni e impuri, rappresentati dai personaggi narrati.

Oltre la demonizzazione dei dèmonî, Jung e, in tempi più recenti Hillman, ancora oggi miei compagni di viaggio, parlano dei daimones, gli intermediari fra l’uomo e il divino, come uno strumento di conoscenza di sé. Come il dèmone di Socrate e di Diotima. I daimones sono il «piccolo popolo» junghiano dei complessi. Le immagini personificate delle visioni interiori ci aiutano a trovare la vocazione, l’idea e il senso stesso della vita, la forza della personalità. Anche Eros è un daimon e spinge a conoscerci e ad ascoltarci nella storia interiore, come un orientamento che agita il cuore e spinge a percorrere una via. Sono i significati profondi che ci aiutano a trascendere la nostra vita personale e comunitaria.

La psicologia compie il lavoro di guida, di rilettura, di liberazione nel nucleo profondo, nella «valle del fare anima». La rinascita in autenticità è sempre possibile trasformando il dominio e il ricatto che ogni persona agisce su di sè per prima, in energia di espressione vitale e relazionale. Non possiamo reggere da soli i daimones, possiamo incontrarli con la forza della conoscenza e della condivisione.

Nascere significa accogliere il proprio daimon nella lettura luminosa del talento e delle virtù e nella narrazione buia e infelice che segnala i futuri apprendimenti possibili. Eraclito e, in seguito, Jung dicono che il carattere è il nostro destino: θος νθρώπ δαίμων, ethos anthropoi daimon. Ne sono certa e penso che gli esseri umani non vadano ammaestrati e domati come se fossero sbagliati, rotti, colpevoli. Aggiungo che non abbiamo lati brutti e belli, bianchi e neri, giusti e ingiusti, ma solo aspirazioni e tensioni alleate e inespresse, da capire e liberare. Non possiamo soffocare noi stesse/i per compiacere e per omologarci. Andiamo bene così come siamo. Il cambiamento è riconoscere le originarie inclinazioni e orientarle per il benessere proprio e del prossimo.

E, allora, può essere Natale ogni giorno.

Riporto due passi di opere letterarie. Nel primo brano è raccontata la parte demòne, la voce oscura, da accogliere e perdonarci:

Ed ecco in lui (nel diavolo, intendo) manifestarsi quei tratti caratteristici che, a un occhio attento, lo rendono riconoscibile: tutto nella sua persona pecca di eccesso, il suo riso è sgangherato, il gesto è teatrale, i capelli ravviati all’indietro, piuttosto lunghi e untuosi, sono tinti di nero; le labbra purpuree, affilate, con i lati rivolti all’insù a mimare un sorriso perenne¸ gli incisivi grossi, a forma di scalpello, sono affetti da un vistoso diastema, e la voce, la voce poi, dove sembra celarsi il segreto del suo fascino, è rotonda, impostata, senza asperità, senza picchi, ma basterebbe rallentarne la frequenza con l’ausilio di un nastro magnetico per rilevare un sottofondo di sospiri e lamenti.

Paolo Maurensig, Il diavolo nel cassetto, Einaudi, 2018, p.55

E in questo secondo adorabile brano riconosco, invece, il dèmone, la forza vitale, lo spazio e il tempo della conoscenza:

Voglio impossessarmi dell’è della cosa. Quegli istanti che passano nell’aria che respiro: fuochi d’artificio che esplodono muti nello spazio. Voglio possedere gli atomi del tempo. E voglio catturare il presente che per sua stessa natura mi è interdetto: il presente mi sfugge, l’attimo svanisce, l’attimo sono io sempre nell’adesso. Solo nell’atto dell’amore – nella limpida astrazione siderale di ciò che si sente – si coglie l’incognita dell’istante… e la vita è questo istante irraccontabile, più grande dell’avvenimento in sé… Voglio cogliere il mio è. E canto alleluia all’aria, come fanno gli uccelli. E il mio canto non appartiene a nessuno. Ma non c’è passione sofferta con dolore e amore a cui non segua un alleluia.

Clarice Lispector, Acqua viva, Adelphi, 1973, 2017, pp.9,10

 I miei riferimenti in psicologia:

James Hillman, Le storie che curano, Raffaello Cortina, 1984, 2021

James Hillman, Re-visione della psicologia, Gli Adelphi, 1975, 1983

 

L’idea della malattia mentale – Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi, 2021

 

 

Mi piacerebbe leggere pensieri e studi di collaborazione nei territori della psicologia e della psichiatria. Forse l’autore aveva in cuore di trasferire la sua esperienza in versi e in prosa, e io leggo e custodisco, con comprensione e ammirazione, la fatica della scrittura e dell’attività lavorativa ricordata. Propongo una lettura critica di questo testo prezioso per la testimonianza, per le storie raccolte in quarant’anni di Reparto 77 e per i dubbi che solletica. Come lettrice psicologa sono preoccupata per le eventuali derive dell’idea stessa di malattia mentale, nell’atteggiamento e nelle visioni strutturate.

Questa esperienza scritta dello psichiatra Milone mi ha dato da pensare a lungo. Problematizzo, non cerco e offro soluzioni; l’invito è continuare a interrogarci.

Per esempio, riporto da pagina 148: “Non è cattivo chi lega, legare è faticoso. È cattivo chi abbandona il paziente”. E rifletto sull’idea maschile binaria: o legare il paziente o abbandonarlo? L’aspettativa è che legare qualcuno, anche il matto, risulti meno faticoso? Perché, seppure fragile e malato, l’essere umano dovrebbe facilmente acconsentire alla contenzione?

E a pagina 159, l’autore si meraviglia: “Gli psicologi, è incredibile, vivono in un mondo psicologico!”. Una psichiatria a cui manchi la dimensione psicologica è pericolosamente assoggettata alla tecnica applicata e al suo lato oscuro. Se manca la psichiatria psicologica, il professionista è condannato alla negazione, alla scissione da sé e alla proiezione di quello che non assume come variabili. Per lo psichiatra, il nemico diventa il malato e la sua malattia.

I progressi della tecnica e dell’economia non compensano i bisogni primari dell’animo umano. L’organicismo è una tentazione sempre dominante. Abbiamo bisogno maggiormente di continuare a credere e a coltivare l’utopia di Franco Basaglia e di Franca Ongaro, sua moglie. L’utopia a favore dell’essere umano concreto che va adattandosi alle circostanze e non della generica massa. L’utopia che cerca ancora una programmazione e un’azione politica.

Nessuna forma di costrizione è giustificabile e la coercizione può diventare l’applicazione che rimanda ad una visione utilitaristica dell’essere umano, accolto e riconosciuto solo nella separazione fra la normalità e la follia. Certo, ci sono le situazioni eccezionali che però vanno valutate caso per caso. A me interessa, ab origine, la convinzione e la decisione di non legare. Come psicologa non mi sento “esposta al male” degli altri, ma al male dentro di me; non “a guardare l’abisso con gli occhi degli altri”, ma a conoscere l’inferno della mia interiorità, in relazione con il prossimo.

Leggo a pagina13: “C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa più brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora più brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana.” E a pagina17: “Psichiatria è urla e pianto muto”.

Nessuna parola mi convince. Penso che realmente il ricovero possa diventare, come ogni detenzione, la “cosa più brutta al mondo” e, aggiungo, la più inutile. La vita di molti esseri umani è brutta a causa dell’ingiustizia, di un mondo sociale che include quelli ritenuti perfetti, forti, compiacenti e utili al potere. Ascoltare l’urlo e il pianto muto dei fragili, dei malati è l’apprendimento quotidiano, non un peso di cui liberarsi a favore della illimitata produzione. Cos’altro avremmo da fare, noi umani, se non stanare le solitudini dolorose? E cos’altro proporrebbe la psicologia se non le riletture ecologiche, ampie il più possibile, della mente e degli stati di vita differenti?

Magari l’autore non ne aveva l’intenzione ma, il fenomeno violento sul minus, sulla pazza di turno, risulta banalizzato, naturalizzato, romanticizzato; quindi, ridimensionato e giustificato; infine, rimane invisibile e impunito. La narrazione della malattia psichiatrica che usa il linguaggio emozionale rischia di confermare gli atteggiamenti moralisti e compassionevoli. Sospetto una dinamica di potere forte, non una pratica di pietà per evitare all’altro la sofferenza.

Soprattutto la Psichiatria d’urgenza e gli interventi di Tso (trattamenti sanitari obbligatori) necessitano di discernimento, di una pratica psicologica che riguardi non tanto e non solo il male negli altri, ma il male e la violenza in se stessi. L’attesa è che l’analisi personale, la formazione alla relazione, nell’esercizio delle professioni di psicologo e di psichiatra, non risultino occasionali e diluite, ma sistematiche e continuative. A fianco di un pensiero filosofico e politico a servizio degli uomini e delle donne.

Infine, il libro è Einaudi, è pieno di suggestioni e invito ad affinare l’olfatto rispetto all’idea di un potere sornione che pretende, pure, di essere poetico e che coinvolge il corpo, l’intera prospettiva di vita relazionale e di cura.

 

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La forza delle ragioni

Il dolore delle donne, fisico e psicologico, inizia da una complessa e distorta idea di maternità e di abnegazione. Addestrarci a sopportare per amore è l’illusoria pratica della vittima sacrificale, della salvatrice che vuole, a costo della propria vita, salvare chi non ha chiesto di essere salvato, giacché non si è mai sentito in pericolo o fragile. L’amore che dà sofferenza è sempre imparentato con le dinamiche di potere.

Le donne che incontro sono spaventate dai compagni, mariti, figli, padri, colleghi, insomma, temono i maschi che pretendono di comandare gli spazi e i tempi, di controllare i cellulari, gli spostamenti, il denaro.

Un fenomeno di irrigidimento del patriarcato, per gli uomini e per le donne, è la tentazione di psicologizzare, di strumentalizzare in ogni modo la psicologia per confermare il dominio sull’altra. Riconosco le astuzie della manipolazione ogni volta che, senza averne la competenza, ascolto “discorsi da psicologa/o”. Di volta in volta, le donne risultano incapaci, esaurite, deficienti e cattive madri. Oppure sono descritte come deliziosamente fragili, incomprensibilmente infelici, visto che hanno proprio tutto.

Le valutazioni esagerate e superlative – le carezze verbali e non verbali incondizionate, positive e negative – dichiarano, in ogni modo, la riduzione dell’alterità. La oggettivazione della donna è fondamentale in un’idea che prevede l’incontro come simbiosi e non come libertà. L’aspettativa mal celata del patriarca che si manifesta onnipresente perché afferma di essere protettivo è che la donna accolga la sottomissione come l’unica salvezza; l’obbedienza come espressione di educazione; il sorriso perenne come forma di gratitudine.

Il maschilismo è l’espressione più immediata del sistema patriarcale il quale rappresenta la struttura fondante della nostra società, non solo un vizio occasionale. Tale visione strutturale prevede la virilità come misura di ogni cosa, dal linguaggio al pensiero. È sempre esistita la convinzione che l’uomo sia naturalmente portato al comando, alla competizione, alle materie scientifiche, ai commerci, alla forza, al mondo pubblico. La donna, di conseguenza, naturalmente, è pretesa come madre e sposa che cura, nutre e si emoziona, rimanendo ai margini e dentro.

Nelle relazioni malate, non rilevo crisi passeggere, episodi di caduta aggressiva, sviste momentanee, ma un sistema rigido e atavico sostenuto dall’egocentrismo.  Gli uomini hanno paura e non possono registrare la forza delle donne che sì, hanno paura e continuano a pensare, a scegliere, a godersi l’azione, a ripensare e a riscegliere. Il patriarcato produce varianti e si coniuga in molti modi a fondamento della nostra società.

La mentalità diffusa prevede ancora la stabilità e la sicurezza – della famiglia, della relazione, dei rapporti lavorativi – come centrate sul potere del comando e del controllo, sulla disciplina dettata dal feudatario, sull’ordine genitoriale indiscusso. La conoscenza di sé è il fondamento di una trasformazione urgente di una visione di mondo che promuova la salvaguardia dell’ambiente e che risolva l’individualismo della salvezza solitaria, la mania di possesso, l’idea fissa di prevaricazione. I percorsi formativi della scuola di educazione Alla persona guidano ogni essere umano a riconoscere in sè il sessismo, il capitalismo, il razzismo, il patriarcato. L’esclusione, l’antisemitismo, l’omofobia traggono l’ispirazione e le pretese di sopravvivenza dalla predominanza fallica.

Ancora gira, e la chiamiamo cultura, il vissuto della donnafortecomeummaschio o del metodo carotaebastone o dell’uomochepperoaiuta: c’è tutto un sistema da assumere come responsabilità personale e, in seguito, da rivedere, iniziando dalla propria vita con interventi formativi adeguati e sistematici. Il femminismo intersezionale inserisce l’oppressione della donna all’interno di un quadro globale di sudditanza strutturale psicologica e sociale e si impegna a lavorare su numerosi piani. Abbiamo bisogno di chiederci cosa c’è oltre il dominio, come creare e allargare le relazioni e, in seguito, per non rimanere rennude/i, come lasciare il vecchio abito pacchiano di dominanti.

Affrontare la “questione maschile” significa capire e trasformare l’identità centrata sul comando e sulla violenza, l’identità che è sempre funzione del dominio invidioso. Desideriamo studiare e ragionare sull’invidia maschile per la maternità o sull’espulsione, in quanto maschio, dalla genealogia femminile: l’invidia del pene origina nell’invidia per l’utero, risolvendo Freud e contestualizzando nel periodo storico in cui vennero espressi i suoi assunti di base. Nessuno che si viva come il centro del mondo, va guardato e soccorso come una minoranza, una delle tante, come i neri, i disabili, gli ebrei, gli omosessuali. Non troviamo necessariamente un punto di incontro che, magari, non c’è e non può esserci avendo, ogni persona, la propria storia. È già una forza smettere di compiacere chiunque, ad oltranza, per tenerlo buono, per paura di un eventuale conflitto.

 Ma mostrare la propria forza ha un costo, perché gli uomini preferiscono avere a che fare con donne fragili. Perciò alcune mogli, un po’ per compiacenza, un po’ per comodità, preferiscono recitare la parte delle vittime. E grazie a questa innocente simulazione che le donne riescono a navigare nelle acque agitate della vita, tessono le trame delle loro storie, costruiscono i destini delle loro famiglie. Poi, a forza di recitare, finiscono per immedesimarsi in quel ruolo e anche questo ha il suo costo, si sa che il potere è dei consapevoli.

Giuseppina Torregrossa, Manna e miele, ferro e fuoco, Mondadori, 2011, p.269

 

pumo melogranata

La bambina-della-mamma

Io sono Kore: la giovinezza, l’innocenza, la leggerezza.
Sono la Dea del Fiore, una stagione nella natura e nella vita di ogni donna.
Io ho conosciuto l’oscurità dell’Ade, ho assaggiato i chicchi della melagrana
ritrovando così il mio nome: Persefone, la Terribile,
Silenziosa Signora del Regno dei Morti.
Solo dopo aver varcato la soglia del buio,
traversato il mondo delle ombre, posso risalire alla luce
tenendo fra le mani la sacra melagrana,
simbolo dell’eterno ritorno

Omero

Il mito racconta del rapimento di Kore ad opera di Ade, dio degli inferi che la fece sua sposa e regina del suo regno. Demetra, la madre, per nove giorni e nove notti percorre la terra intera da est a ovest, da levante a ponente, alla ricerca della sua adorata figlia e come misura di ritorsione lascia subito l’Olimpo. Paralizzata dall’angoscia, Demetra, dea delle messi e delle stagioni, rende la terra sterile e sfiorita. La madre, privata della sua bambina, è inflessibile e non ferma il disastro finché Zeus non obbliga Ade a lasciare che Persefone ritorni verso la luce. Ma la fanciulla, finalmente risalita sulla terra, non può più rimanere permanentemente avendo mangiato, durante il soggiorno negli inferi, sette chicchi di melagrana offerti da Ade. Zeus, ristabilendo un ordine giusto, decide che del ciclo dell’anno, la figlia ne trascorra un terzo nell’oscurità nebbiosa e gli altri due con sua madre.

Demetra, Kore, Persefone: oltre che nomi di donna, sono passaggi esperienziali, sono parti di sé che si svelano attraverso il lavoro di consapevolezza psicologica. Demetra, Kore, Persefone sono figure in trasformazione e non solo figure della trasformazione. Sono archetipi introiettati nella nostra psiche, parti che pensiamo imperdonabili, negate, respinte nel buio. È un cammino di conoscenza per intuire ed esperire la catabasis, la Discesa e il nostos, il Ritorno.

Il termine greco kore significa virgulto, energia e non si riferisce a un’età storica, recupera la radice della forza vitale, dell’esserci. La “ragazza indicibile” (arretos kore), “Kore è la vita in quanto non si lascia “dire”, cioè definire secondo l’età, le identità sessuali e le maschere familiari e sociali”(1). Per ogni persona, consideriamo l’età storica che coincide con il giorno del compleanno e, anche, l’età psicologica e culturale. La bambina-della-mamma si ritrova da sola a fare i conti con il ratto, lo stupro e l’inganno. Grida, prova a difendersi, capisce di essere vittima di una guerra sconosciuta e di una virilità arrogante e assassina. La giovane impara la prevenzione, l’intuito, la pre-occupazione di sé.

Vivere Demetra significa cercare e continuare a vagare consapevoli dell’angoscia di morte, significa sentire il sentimento e continuare a ragionare. Demetra si indigna, contratta, propone soluzioni, si separa e si avvicina e riconosce la distanza come cifra dell’amore.

È frustrante ed è un buon momento quando la psicologia scopre che il cambiamento non si può insegnare, non si può nominare attraverso i modelli, non si può imporre perché la forza serve a rimanere, a tacere e a capire. Rimane la relazione di accompagnamento, la figura dello psicopompo. Rimangono il viaggio e il racconto, oîmos e oimē che, nell’antica poesia epica, si assomigliano. La forza della trasformazione è dentro la regina Persefone: lei apprende gli opposti, assume il conflitto, si abbandona al buio e, di conseguenza, può tornare, può rinascere.

Per Omero, Persefone, colei che porta la luce, ha diritto a essere chiamata hagné, pura, e suggerisce la purezza come distinzione e separazione. E Roberto Calasso sottolinea come “non c’è purezza che non sia accompagnata da una scia sanguinosa” (2). A differenza del termine katharós, hagnós è uno stato che prevede un versamento di sangue; occorre essere hagnós, puro, hagné, pura per contenere l’eccedenza, per reggere la potenza della rinascita.

La bambina-della-mamma, ormai regina degli inferi, apprende a proteggersi, a governare l’attimo prima del dopo. La purezza e l’inquinamento, rimangono categorie mentali e psicologiche e non si riferiscono a condizioni reali. Nel ventre accogliamo ogni rigenerazione, di persone e di relazioni, con la pazienza nel tempo della gestazione e con la pulizia nel luogo del racconto. Se la persona chiede, il processo psicologico aiuta la trasformazione e agisce sulla contaminazione, favorendo il governo di sé e la decontaminazione dei confini dell’Io.

La divisione del mondo, dell’intero ordine cosmico è garantita dall’alternarsi della vita e della morte, delle stagioni di fioritura e dalle stagioni di riposo sotterraneo, dall’assenza e dalla presenza, dalla separazione e dall’intimità. Solo attraverso i vari passaggi, più e più volte, l’essere umano Demetra, Kore, Persefone può dirsi ed essere chiamata anche dea Libera. Chi visita le ombre, il regno dei morti, intravede i cammini di liberazione verso le libertà possibili. I cammini che prevedono il privilegio degli inferi e l’umiltà della ciclica fioritura.

Condivido un brano molto interessante da Il cacciatore celeste di Roberto Calasso:

Ma perché Zeus volle accordarsi con Ade? Core significa «pupilla» – e la pupilla è l’unico punto del corpo che ospita in sé il riflesso. Ma, dove c’è il riflesso, c’è anche uno sguardo che guarda se stesso. Non c’è vita, per gli uomini, senza quello sguardo. E al tempo stesso è quello sguardo a rivelare il predominio inscalfibile dell’assenza sulla presenza. 

Il guardare è l’unico processo fisiologico scindibile senza termine: in chi guarda c’è anche colui che guarda se stesso mentre guarda. E questi può essere guardato da un ulteriore altro. Ma chi è allora il soggetto: chi guarda o colui che guarda chi guarda? Quest’ultimo si direbbe, perché ingloba chi guarda. Ma chi guarda siamo noi. Allora chi guarda lo sguardo diventa un altro rispetto a noi, che però abita in noi. Da lui noi dipendiamo. Ma con lui non possiamo confonderci, perché nel momento in cui diventiamo quell’altro, subito si forma uno sguardo che ci guarda diventare quell’altro. Il processo può ricominciare, all’infinito. Ciò che ci governa mentre guardiamo è ciò che per sempre ci sfugge. Ma è anche ciò che per sempre ci accompagna. Noi possiamo oscurarlo, ignorarlo. Ma, se l’attenzione appena si fissa, eccolo apparire di nuovo, accoglierci, come Ade colse Core. Ma dov’è quell’essere che guarda chi guarda, quando noi non lo avvertiamo, quindi per una larga parte della nostra vita? È assente o presente? E dove? È l’assenza stessa, ma -quando appare – è una presenza che rapisce ogni altra presenza.                                             (p.407-408)

 

 

Alcuni riferimenti bibliografici

  1. Giorgio Agamben, Monica Ferrando, La ragazza indicibile, Mondadori Electa, 2010, p.12
  2. Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, 2016, p.56
  3. Elda Fossi, Persefone, Moretti e Vitali, 2010
  4. Carl Gustav Jung, Psicologia della figura di “Kore”, in Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942), Torino, Bollati Boringhieri, 1972 (2003), pp. 149-220 e 221-48
  5. Carol S. Pearson, Persefone, Astrolabio, 2017

 

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Le resistenze

 

Fame e sete ci sono negate, non conosciamo riso né lacrime, il nostro stato è di pigro appagamento, di monotona inappetenza… Ora, tu dimmi: Può bastarci, questo? Può dirsi, questo, felicità? Sapessi cosa non daremmo per una spina di passione, un amore, un odio, uno strazio, una malattia!

Gesualdo Bufalino, Favola del castello senza tempo, Bompiani, 2020, p.46

 

Un giovane giornalista, vicino alla scuola di educazione Alla persona, qualche giorno fa, mi diceva di sentirsi come un partigiano, come nella resistenza. Capisco, ed è così. Aggiungo che la resistenza prevede anche l’arte della resa, il momento di resistere lasciando andare, resistere tacendo, resistere mancando la sovraesposizione. Resistere, sì, riposando e recuperando le forze.

Seguo una psicologia di prevenzione militante e scelgo ogni intervento verbale o scritto prevedendone la ricaduta non solo personale, ma anche sociale e politica; voglio dire, di appartenenza comunitaria e creaturale, non certo partitica. In ogni situazione sgradevole, la psicologia formativa nella quale credo propone di rivolgere domande a se stesse/i per comprendere le diverse prospettive. E non dà per scontato che esistano esseri umani difettati e rotti. D’altronde, fossi io stessa o fosse l’altra persona bruttasporcacattiva, è proprio con me e con lei che esistiamo. E, allora, tanto vale chiederci come possiamo vederci e narrare di noi diversamente. Iniziando dalle parole di valutazione.

In questi tempi, evitare di capire in profondità anche con l’analisi psicologica, equivale a rimanere in una superficie patologica, imprigionati in un’immagine grottesca di sé che si autoduplica, che si fotocopia, senza fecondare e senza mettere al mondo. La semplicità, la leggerezza, l’autenticità prevedono un cammino complesso e faticoso, per nulla scontato e non acquisito naturalmente.

Durante il lavoro di consapevolezza, il limite posto all’ego non è limitante; al contrario, il metodo, la disciplina, l’orientamento a capire, incontro dopo incontro, liberano l’energia emotiva e cognitiva, affinano la potenza del sentimento, del pensiero e dell’azione. È la coscienza del limite, la coscienza di non sapere molte cose che ci spinge a conoscere e a modificare.  Il ridimensionamento di sé e l’alleggerimento dell’ego creano forza e movimento. Ogni persona, isolata dal contesto e dalla coscienza della storia personale, diventa una merce e una proposta pubblicitaria.

I social media consentono di sbirciare le vite private, i gusti e i tic, in apparenza innocenti. Le esposizioni frequenti e, spesso, compulsive defraudano i legittimi territori d’ombra, vicini al nucleo esistenziale, vicini al carattere che ogni persona può riconoscere e custodire. Durante il lavoro di educazione Alla persona tocca capire e trasformare, in ogni sua variabile, il copione personale. Proteggendoci, nel tempo, possiamo educare e modificare l’immagine esteriore patinata, fotoshoppata ad uso dei social, modello di aspirazione dei poveretti che, sempre in affanno, inseguono visibilità, soldi e consensi. Spesso, rivendichiamo il diritto alla nostra opinione e alle nostre scelte; ma il diritto prevede il ragionamento e il pensiero critico. Abbiamo bisogno anche di gravitas.

Lo sguardo e la parola possono essere severi nella misura in cui sono prima pietosi, di pietas, comprendendo l’affetto per l’umanità e la devozione per la professione. Oltre che nel corpo e nella mente, il responsabile aziendale – in realtà, ogni persona – può ammalarsi nella visione ottusa ed escludente di sé, dell’alterità e del lavoro. Esistono mali culturali che possono tradursi in sofferenze e che dipendono da convinzioni del copione psicologico, da mentalità parassitate e manipolabili, anche se affollate di luci.

La prevenzione della malattia culturale, l’attenta supervisione della visione di sé, degli altri esseri viventi e del mondo ha come scopo il benessere e il tornaconto economico sulla durata stabile, sul lungo periodo. L’intervento formativo non è costruito sulla centralità dell’uomo che compete e che vince, ma sul senso della comunità. Sostituendo il vecchio assetto, propongo un sistema di pensiero critico radicato nello studio e nella relazione. Partendo da sé e da noi.

L’impegno principale, il nucleo di ogni lavoro è guidare a vedere le prospettive non ancora considerate, le vie credute chiuse, le opzioni oscurate dalla frustrazione, passando dall’ostinazione duale –  o questo o quello – allo sguardo molteplice. Prima di ogni scelta e prima di convincerci di non avere alcuna scelta.

Nella mia vita, la libera professione ha finito per significare la ricerca e l’opera, in solitudine, talvolta luminosa, talvolta oscura. La psicologia applicata alla prevenzione e alla cura della cultura e, in particolare della cultura del lavoro, si pone necessariamente fuori dalle accademie, ai margini, indagando il limite fra il personale e il professionale, fra il pubblico e il privato. Allora, accogliamo le resistenze come i luoghi e gli spazi di riflessioni interiori, nel silenzio, nel vuoto, nell’abbandono che aprono all’accadere diverso.

Rifiuti Ombre

Esperienze di formazione a distanza

Rifiuti Ombre

Foto di Tim Noble e Sue Webster

Il faut se méfier, d’accord, mais pas de tout refuser…

Simone de Beauvoir, 1974

Le riflessioni proposte originano dalla esperienza formativa attraverso una piattaforma per la didattica a distanza (DAD) con i/le partecipanti ai corsi degli istituti tecnici superiori (ITS), per la formazione tecnica specialistica e la ricerca applicata nel settore alimentare.

La scuola di educazione Alla persona, in continua ridefinizione e condivisione, propone la formazione per gli adulti non come l’insegnamento; io mi riconosco come formatrice, né insegnante, né psicoterapeuta. In breve, nei moduli a me affidati, il fine è la relazione e la creazione di comunità di ricerca e di interscambio. L’obiettivo riguarda la coscienza e la consapevolezza di sé e del gruppo. Le metodologie sono necessariamente interattive. Significa che, in ogni momento, ogni persona partecipante, compresa l’esperta, ha diritto alla parola di pari valore. Gli strumenti sono il corpo, la voce e l’intuizione o l’intelligenza sociale. Il monitoraggio prevede il confronto frequente nel gruppo. La semina certa, seria e sistematica della pratica relazionale è parallela alla valutazione meccanica dei risultati.

Negli ultimi anni è un continuo apprendimento con le protesi artificiali! Ho l’opportunità di fare pace con il mondo digitale, utilizzando gli incontri a distanza con i gruppi di lavoro e, singolarmente, con i/le responsabili di azienda. Certo, la formazione a distanza non offre buoni argomenti a chi si incarica di difenderla e si ripromette di evidenziarne gli aspetti positivi. La relazione formativa prevede la sperimentazione del corpo al massimo grado e non l’omologazione al livello minimo, senza conflitto e senza odore. Ma scopro che ciò che è virtuale, in fondo, è reale. Voglio dire che la didattica a distanza rivela le luci e le ombre di ciascuno come una lente di ingrandimento.

Bisogna diffidare ma non rifiutare del tutto, affermava Simone de Beauvoir, in un altro discorso, ma esprimendo un pensiero con applicazioni diverse. E ci fa bene il tempo dilatato della diretta online, un tempo interrotto senza interruzione di intimità attesa e timorosa. In diretta, viviamo un tempo liquido, ma non liquidato in fretta, lento, di parole ancora più scelte con cura e scandite bene. Guidiamo il tempo paziente della riflessione, prima di ogni risposta, della comprensione, della ripresa naturale. Sperimentiamo la cura della interazione, la noità, il sentire di essere condannati ed eletti alla relazione, nel suo nucleo solitario e originario, protetti dal video e dalla distanza.

Viviamo un tempo sacro in cui l’intelligenza sociale può manifestare abilità mentali e psichiche: l’elaborazione di nuovi modelli, il pensiero astratto, la comprensione dell’essere al mondo solo come relazione e la capacità di affidarsi ad essa. Per chi partecipa, è l’esercizio di accettare l’inaccettabilità, dunque, di escludere la carnalità, il respiro addosso del corpo altrui. Non siamo più in presenza del corpo dell’altro ma solo della sua immagine. Dalla mancanza del contatto origina l’attenzione alla voce e alle parole, riformulando l’organizzazione sociale dell’incontro.

Sapere di essere potenzialmente visitati dal virus significa essere penetrabili, a prescindere dalla propria volontà. Non possiamo uscire dal tunnel della pandemia senza farne esperienza anche attraverso la formazione a distanza. Permetterci di contattare noi stessi e la voce interiore è un obbligo e non è più una opzione. L’analisi personale ha valore di necessità: è il tempo nuovo ed è in un monitor, la stanza tutta per sé. Richiamiamo la presenza percettibile, la consapevolezza della presenza per assenza, anzi, presente proprio perché assente. Sperimentare una vicinanza differente è possibile se una persona è risolta e, dunque, è capace di scambio, di autonoma condivisione di sentimenti e di pensieri. In questo modo, diventiamo persone portatrici di salute psicologica.

In realtà non sono davvero riuscita a vederla, sa; ma ho sentito che c’era.

In che senso?

Certe persone hanno una presenza percettibile*

 Rileggendo Arthur Miller, ogni persona è una presenza percettibile se affiniamo l’intuizione e il desiderio di spenderci in una relazione possibile. Nell’esercizio della professione in questo periodo di lontananza non voglio inventarmi nulla: i salotti, le lezioni, gli assolo. Se manca la relazione in presenza, vale l’intuizione affinata del respirare assieme, vale la pratica della distanza che presuppone la confidenza con il silenzio, con lo spazio e con il limite del tempo, con la durata delle cose. Apprendiamo il governo dello scuro e dell’ombra.

Durante gli incontri formativi, le immagini rimangono fisse per imparare a volare in basso, in profondità e non solo per pretendere di volare in alto. Infatti, la vista, attraverso il movimento innaturale, di posa, soli, dinanzi alla telecamera, può essere invadente. Le immagini ricche, le riprese luccicanti mi appaiono sciocche e non riesco a parlare con disinvoltura, da sola, davanti ad una telecamera accesa, come un antidoto contro la paura. Reputo indispensabile che dinanzi a me, dall’altra parte, ci sia una persona, viva, con la quale interagire in tempo reale, con tutti i filtri e i disturbi della linea. Apprendiamo a rimanere nella relazione senza precipitare nel fondo della mancata presenza, guardando a testa alta la prospettiva, l’orizzonte futuro, il desiderio dell’alterità, in qualunque modo possa esprimersi. Ho sempre pensato che quando la vita è precaria valga ancor più la pena di non sentirci precari nell’esistenza e capaci, di conseguenza, di non diventare oggetti senza valore.

La formazione da remoto consente un elemento nuovo: la psicologa e il cliente hanno paura assieme. Contemporaneamente, abbiamo il timore di perderci e il bisogno di protezione, al di là delle difese personali e viviamo in tempo reale il sentimento d’incertezza. Nel processo formativo, la differenza non la fa il medium, la piattaforma, ma le persone. Il video ci sposta dal centro, ci consente di percepirci parziali e di smetterla di far coincidere il proprio io con il tutto. Proprio quando il corpo dell’altro è distante, è possibile registrare un’altra esperienza con quel corpo, a partire dalla distanza, dalla voce e dalla parola. Siamo spettatori/trici gli uni delle altre ed entriamo nel luogo dell’altro, anche quando, quel luogo, alle sue spalle, è opaco. L’altro/a, il/la cliente non è l’oggetto inferiorizzato dal mio ruolo nel mio studio ma, in modo naturale, diviene il mio specchio. La distanza offre la possibilità di lavorare sul senso personale della prossimità.

L’uso dei social presuppone una profonda conoscenza psicologica dell’io e i vantaggi della tecnologia sono possibili solo quando la persona è consapevole di sé. In caso contrario, registro interazioni di manipolazione, di simbiosi, di abuso di potere, di mercificazione dell’interiorità. Più vasta è la scelta che offre la tecnologia, più alto è il rischio di un sovraccarico d’informazione. Ricordiamo di essere corpo e dotati di una storia, di un movimento, di iniziativa e di competenza emozionale. Anche a distanza, con la formazione promossa dalla scuola di educazione Alla persona, facciamo esperienza di realtà: rimaniamo tesi, insicuri, precari, poveri, spesso, in strutture sempre più gerarchiche e grasse di norme procedurali.

Purtroppo, negli ultimi anni, la visibilità, la popolarità, il riconoscimento avevano assunto un’importanza eccessiva. Anche la psicologia, all’interno dell’azienda, aveva rappresentato una forma diversa di controllo, sotterraneo e sottile, con l’illusione che fosse la personalità e non lo status ad avallare il successo del lavoratore. Alcuni non hanno mai ceduto né creduto al discorso ideologico dell’azienda come una famiglia, giacché la cooperazione e la socialità vantati erano strumenti di dominio e di arricchimento del feudatario e non una base culturale alla quale, per prima, il vertice aderisse. I corsi manageriali sulle competenze comunicative non prevedevano che la nozione psicologica di comunicazione riguardasse la fatica dell’analisi personale, ma rilanciavano, unicamente, in modo orizzontale, l’immagine di sé, funzionale al sistema, offerta agli altri. Infatti, conquistare il dominio prevedeva e, in molti casi prevede ancora, la verifica del proprio effetto sugli altri. In questa ottica obsoleta, un buon comunicatore è empatico, cioè interpreta (sic!) il comportamento e il sentimento altrui con l’imperativo di sintonizzarsi e adattarsi più facilmente allo stile comunicativo dominante.

Attraverso l’utilizzo della dad, la democrazia non è solo una forma di governo, ma rivela coniugazioni economiche e, soprattutto, psicologiche e sociali.  A differenza del capitalismo con un obiettivo elitario e centrato sul potere, la democrazia è un ventre e riflette faticosamente sulla relazione come nutrimento e forza. L’autonomia relazionale prevede l’alterità come pratica e come base di responsabilità. Ogni persona è l’altra oltre che se stessa, contagiata dalla diversità e non contaminata nella simbiosi, nella relazione pericolosa e salvifica, vincolante e liberante. L’interdipendenza, la giustizia, la fiducia originano dalla protezione di se stessi/e, dall’autotutela che non è obbedienza passiva. Non vantiamo la fretta di risolvere o l’arroganza della soluzione, solo la certezza di rimanere nella relazione, in una intimità cosciente: talvolta, non so che fare, ma rimaniamo assieme, in un verso di poeta.

 

*Arthur Miller, Presenza, Einaudi, 2017, p.138

Melville

L’opzione no

Melville

Turkey, Nippers, Ginger Nut, Bartleby sono tutti copisti in uno studio legale. Ma Bartleby è differente nel silenzio, nell’attesa, nel rigore della posizione e mestamente aggira il comando, nega il dovere, rifiuta l’obbligo: I would prefer not to. Gianni Celati traduce: Avrei preferenza di no.

 Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby. p.10

Come un derelitto, appare Bartleby, cocciuto, irragionevole, mendicante di una intimità autentica, privo della malizia e del sarcasmo evidenti in qualunque sfottò. Ma, riflettiamo: l’«aver preferenza di no» non è un rifiuto dell’alterità, è un’accoglienza a se stesso ed esprime l’appartenenza ad un altro sistema concettuale, non opponendoci alla richiesta dell’altro con l’impertinenza e la sfida, anzi, proteggendolo da una compiacenza ipocrita.

Parliamo di una categoria mentale diversa: mi proteggo nei miei desideri ritraendomi dall’assenso ripetitivo e meccanico e, di conseguenza, libero l’altro dall’automatismo del comando-risposta, dall’automatismo dell’azione-reazione. Non siamo dinanzi ad una risposta contro la richiesta altrui, piuttosto, confermiamo una relazione libera. Infatti,  è nella possibilità di negarci e di dissentire che riconosciamo l’autonomia dell’interazione, la libertà di rimanere ciò che siamo, rifiutando la simbiosi e la finzione.

Accogliamo il ruolo di autorità dell’altro, ribadendo ognuno per sé la capacità di pensiero e di scelta. Talvolta ascoltiamo il no oppositivo, rancoroso, sfidante e frustrato che pretende il rispetto, l’ osservanza delle regole e l’ammissione di colpa. L’«aver preferenza di no» significa che ci consegniamo alla possibilità della relazione senza cedere la forza, senza ridurci alle aspettative altrui.

L’apprendimento attraverso Bartleby incrocia la scelta che sempre confermo di una relazione conflittuale o niente. Utilizzando la teoria e la pratica dell’Analisi Transazionale, mi impegno a tener conto che la conflittualità sana prevede l’interazione parallela da uno Stato dell’Io Adulto ad un altro Stato dell’Io Adulto, nella differenza che apre, rompe, spariglia. Senza la parità di coscienza, necessariamente l’uno è Vittima e l’altro è Persecutore o Salvatore; il Genitore che critica e il Bambino Adattato che si offende. Chè poi, ad un livello appena più profondo, la vera vittima è il dispensatore di norme, e così, giriamo tutti a vuoto nel triangolo.

È risolutivo che, dall’inizio, come Bartleby, abbiamo preferenza dell’opzione «no», per garantire all’altro di esprimersi interamente, né per contraddire, né per convincere o vincere dialetticamente. La chiamiamo resistenza passiva e rimaniamo persone di preferenza, più che di assunti.

Stiamo imparando: gradirei di no, non significa solo no, evidenzia, tenacemente, che c’è un processo di pensiero, una scelta anche sofferta, un cammino faticoso per giungere a dire no. Il no che appare inizialmente senza speranza si rivela, invece, una misura del reale: adesso, in questa situazione è no.  «No» ci permette di riconoscere il dissenso come un valore doloroso. Il rischio è divenire settari, ma sostenere le ragioni della formazione psicologica non è come vendere un prodotto. Assumiamo la difficoltà di spingere la critica fino a consumarne la rottura, assumiamo la responsabilità di testimoniare il dissenso fino all’allontanamento o all’espulsione, al momento, irrimediabili.

Serve un necessario distacco dal lavoro e dal guadagno in senso stretto. E il distacco deve essere naturale e semplice. Non può che essere rottura.

“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse, e si ritirò nel suo eremo. p.25

Chagall

Nuovi inizi a nostra immagine e somiglianza

Chagall Marc Chagall, Giobbe, 1975

 

“Forse alle benedizioni occorre un tempo maggiore per realizzarsi che alle maledizioni”

Joseph Roth, Giobbe, Adelphi, 1977, p.29

Le statue o le pose o gli animali che ci attraggono, inevitabilmente, raccontano chi siamo. Le nostre vite abbondano di immagini, di personaggi e di copioni: tutti meccanismi di difesa, spesso, a difesa del patriarcato. Incontriamo molte creature impotenti e prepotenti che si ritrovano vecchie e sole senza mai essere diventate adulte, anche a causa di incaute esposizioni e coperture sociali finte e forzate. I simboli sono importanti e capiamo subito che dietro a certe foto e filmati non ci sono idee, storie, ricerche, esperimenti di creatività. Nella formula sempreverde che recita «tradizione e innovazione» scorgiamo la solita operazione di modernariato che purtroppo trasmette gli stessi messaggi di conquista, di sottomissione, di ambizione frivola, di bellezza e di felicità solo miseramente dichiarate.

La scelta istintiva e inadeguata delle rappresentazioni per dire di noi sarebbe una svista di poco conto, solo la mancanza da addebitare all’ignoranza incolpevole se non rappresentasse un pericolo per la comunità familiare, sociale e aziendale, se la ricaduta non fosse rovinosa. Perché diventiamo complici nella circolazione di modelli culturali maniacali e depressivi, grandiosi e sfigati, giubilanti e inaffidabili. Non è vero che le statue servono solo a ricordare una persona e a preservare un pezzo del passato; esse hanno anche un valore performativo: danno autorità a chi rappresentano e autorizzano valori e comportamenti per il presente e per il futuro. È dannoso apprezzare ed esibire senza inibizioni, le simbologie e i miti di forza, di spericolato ingegno, di sfrontato attacco, di privilegiate possibilità economiche perché invitiamo a prestare attenzione a cose insignificanti come la vittoria, l’identità, il guadagno, la genitorialità vera, una e sola, e finiamo a presenziare call, workshop, a parlare sulle dipendenze o sulla fame nel mondo o sul servizio militare obbligatorio, o peggio, sulla necessità di reinserire la pena di morte, interiorizzando punti di vista e metodi da feudatari, senza incidere su possibili azioni di trasformazione. Sì, perché, in ogni caso, le statue, i personaggi e i copioni rimangono quelli del padrone. Riproponendo le facce di plastica da vecchia soap opera, riconosciamo donne e uomini che se la cantano e se la suonano e che, in un modo o nell’altro, rimangono nella simbiosi, strumentalizzando le parole e i gesti degli altri a proprio favore.

In una relazione, lo scambio è il godimento della circolarità, invece, nella simbiosi soffriamo l’abuso illegittimo dell’altrui presenza. La differenza è l’intimità, quando ne diventiamo capaci. Quanto le immagini di cui ci circondiamo e che scegliamo per rappresentarci veicolano, al di là della loro materialità, le relazioni sociali e aziendali e come agiscono sulle persone trasformandole in falsi sociali? A causa di una demagogia che diviene sempre più violenta da parte dei potenti che contano, l’incoraggiamento a capire è azione severa, improcrastinabile e non è solo un richiamo a informarci su tutto un po’. Il simulacro di sé facilita la menzogna del sempre identico, rassicurando l’aspetto nevrotico e danneggiando il fisiologico cambiamento. Notiamo la tendenza compulsiva a strutturare in icona le espressioni del sé insicuro, facilitata da un utilizzo malsano dei social media, i quali strumentalizzano ogni cosa, rendendo futile e volgare ogni pensiero dichiarato e ogni cera del volto.

Il rischio è la recita della realtà. Ognuno continua ad esibirsi nel se stesso del passato, però più frustrato, con l’orientamento a comandare tecnicamente e a non governare anche negli aspetti di anima. Recitare la realtà significa risparmiare l’investimento emotivo e cognitivo che fa pensare al bene dell’azienda e della comunità dinanzi ad ogni occasione di espansione, di miglioramento e di progettualità. C’è il dentro con i protocolli senza respiro, irriducibili e poi c’è il fuori che offre prospettive diverse. Lo status quo mantenuto con routinaria fissazione, allontana l’anima, scoraggia l’entusiasmo e la gioia per un’azione originale. Il riconoscimento e la promozione, l’energia vitale e il respiro di comunità non ci sono più. Guadagniamo per tirare a campare. Tutti, titolari e dipendenti, sono orientati all’accomodamento nella zona confort, pur lavorando alacremente. Anzi, operando in modo che nessuno, né cliente esterno né interno, abbia da ridire, da commentare, da confliggere. Diventiamo indifferenti, senza spinte al cambiamento giacché, in fondo, va tutto bene così. Il gruppo stesso genera una violenza sotterranea mentre, in superficie, emergono solo l’iperadattamento e le comunicazioni ridotte alla stretta necessità. Ascoltiamo un silenzio sgarbato perché cova rancore e ci scambiamo negli sguardi la certezza che niente può cambiare. Intimità fredde, senza il piacere e la creatività, senza il q.b., la misura quanto basta dell’artigiano che fa la differenza con il suo tocco unico.

Proviamo, allora, a toglierci di dosso la stupidaggine e l’insipienza di certe scelte primitive, approfondendo le storie e i significati dei simulacri e di un certo atteggiarci. Non è opportuno sostituire le statue senza cambiare le narrazioni, spostandoci da un modello di successo ad un altro, sempre più fragile ed evanescente. I miti e le loro rappresentazioni artistiche offrono una lettura dell’umanità, ma di quale lettura si tratta ci tocca capire e decidere se è ancora adeguata alla nostra esperienza e al momento storico. Nella teoria analitico transazionale, demitizzare può voler indicare la trasformazione verso l’assunzione consapevole di più opzioni di possibilità. Non ci sono miti e statue giuste e sbagliate ma, certo, ogni rappresentazione esterna rimanda, purtroppo senza volerlo o saperlo, a ragioni interiori e a scelte copionali, uniche e ossessive.

Riconosciamo lo pseudo-eroismo di noi tutte creature umane a mostrare che, pur non piacendoci e non stimandoci, possiamo apparire forti e capaci, belle e potenti e fingerci abitanti in un mondo creato apposta per non affrontare il limite, la mancanza, la malattia che, sappiamo, ci distruggerebbero. Invece, è il contrario. Infatti, diventiamo autonomi confrontandoci con l’ombra, aiutati da una guida psicologica. Le liturgie finte dei social media non sono interessanti come l’essere umano che si indigna, che soffre, che confligge, che cade e riprende il cammino, che vuole curarsi e capire. La competenza e la preparazione fanno la differenza.

Nel marketing i professionisti rimangono pochi e i numerosi lavoratori dei social media offrono alle aziende servizi di comunicazione esterna alterati rispetto al cliente. Gli spot, i loghi, gli oggetti e i personaggi dagli aspetti grotteschi neanche lontanamente assomigliano al volto dei titolari, al volto dell’azienda e dei dipendenti. Rimuoviamo certe pubblicità e santini non solo per l’azione politicamente corretta, ma perché offendono l’evoluzione dei lavoratori e delle lavoratrici, in ogni ruolo. Possiamo utilizzare qualunque immagine rendendo, però, chiaro un messaggio moderno, di libertà, di interdipendenza con il passato, un messaggio ̶ perché no? ̶ di corporeità, ma non pesantemente sessuale e sessista, sempre a scapito delle donne. Guardando intuiamo sempre quanta preparazione c’è a servizio dell’impresa e quanto, al contrario, tradisce l’esposizione miserabile di mercanzia tecnologica.

I video, le foto, gli animali scelti per rappresentare l’azienda spesso solleticano una eccitabilità compulsiva che rimanda all’impotenza, all’incapacità di godimento e alla tristezza dell’autoreferenzialità. E l’immagine cliccata dieci, mille volte insiste e tiranneggia, senza contenuti, a imbrattare gli spazi di creatività, di immaginazione, di studio geniale, perché non rimanga più nulla del pensiero e della capacità critica e dell’ironia, sodale dell’intelligenza. L’azienda paga a un prezzo altissimo il sentimentalismo mellifluo, da quattro soldi. E se non era nelle intenzioni è ancora peggio perché, dunque, inconsapevolmente, recitiamo una parte brutalmente, senza neanche una scenografia pensata. L’opera d’arte, le produzioni del pensiero creativo sono poche e le benediciamo.

La caduta delle statue e lo studio dei miti origina dalla coscienza, dalla testa, dal cuore, dai comportamenti. Ogni personaggio mitologico ha una storia e rappresenta una prospettiva psicologico che è bene conoscere, se decidiamo di farne il nostro punto di riferimento. L’immagine di per sé non è un indicatore di successo e l’abbondanza finisce per evidenziare miseramente la mancanza di contenuti e di sostanza, finisce per escludere l’ipotesi di una storia da raccontare, e meno che mai una storia che includa le altre persone. Più patinate sono le riproduzioni di sé pubblicate e più dolore nascosto dovrà essere prima o poi svelato e liberato con le forme e le parole adeguate e reali di rabbia, di paura e di tristezza.

Affermiamo ancora una volta che questo è il momento di mantenere un profilo basso, personale e aziendale, evitando le estremità di una propaganda che rifiuta il molteplice e la diversità, reclamando il comodo dualismo di chi sta sopra e di chi rimane sotto, di chi perde come conseguenza della vittoria dell’altro, di una ragione sola, perché la controparte deve necessariamente avere torto. Mentre scegliamo i modelli che ci rappresentano, il rischio, senza contenuti pensati e organizzati, è la rozzezza. Il profilo basso significa la testa bassa a studiare, se ci interessano le metafore animali, i cartoni disneyani, la mitologia greca e romana, la simbologia cristiana, i bestiari e l’immaginario medioevale, il bestiario delle nostre cattedrali romaniche, Esopo, Orwell, London, Melville, Rowling. La ricerca, la curiosità storica e artistica, lo sguardo originale sulle opere/icone del passato creano aperture, respiri ampi e voli ed è invece l’ignoranza ad essere pesantissima. Di persone e di aziende, il volto psicologico e il volto sociale che combaciano determinano l’adeguatezza delle foto nei social media, la fedeltà al reale, la verità di esistenze libere e davvero potenti a servizio delle persone.

Le parole di cui i presunti dominatori si appropriano e che usano strategicamente in modo generico, rimangono una menzogna perché, nella quotidianità, favoriscono il contrario di ciò che predicano e, creando fumo, non consentono di identificare l’inganno di una pratica ossessiva e persecutoria. La libertà non è libera se incatena e mortifica le altrui presenze. La forza che non crea luce e felicità nella comunità è potere sulla testa degli altri. Il coraggio – il non avere paura che a noi fa sempre più paura – è sfrontatezza e arroganza, senza l’analisi di realtà. Di persone e di aziende, il volto psicologico e il volto sociale che combaciano determinano l’adeguatezza delle immagini nei social media, la fedeltà al reale. La verità di esistenze libere e davvero potenti a servizio delle persone.

Quest’anno la figura che scelgo come mia guida è Giobbe, nella storia, proposta da Joseph Roth1, di Mendel Singer, considerato un tapino che non sa farsi valere, una coscienza pura, un’anima casta, il povero e mite maestro ebreo di bibbia. Scelgo quest’uomo non per la pazienza, luogo comune e lettura in superficie delle vicende bibliche, ma perché Giobbe, in cui Mendel si riflette, rimane fermo nel desiderio di capire con “la curiosità, sorella della giovinezza, messaggera del desiderio…” (p.31). Giobbe soffre, è dolente, patisce ancora e decide di continuare a capire. Mendel/Giobbe non ha affatto pazienza. Vuole capire le ragioni e la ragione e chiede di dare un senso agli accadimenti, convinto che ogni situazione sia un apprendimento e non solo una sciagura contro l’uomo. Di questi tempi, abbiamo bisogno di profeti, degli “occhi dei profeti. Uomini ai quali Dio stesso ha parlato e che hanno questi occhi. Tutto sanno, nulla tradiscono, la luce è in loro” (p.174). Significa anche che il lavoro faticoso per tutti e tutte noi è generare e liberare la parte muta e patita di un sé profetico che custodiamo.

“Mendel Singer non pregò più. Certo qualche volta ci si servì di lui, quando mancava il decimo per completare il prescritto numero degli oranti. Allora si faceva pagare la sua presenza. A volte prestava anche, all’uno o all’altro, i suoi filatteri dietro un piccolo compenso. Si raccontava di lui che andasse spesso nel quartiere italiano per mangiare carne di maiale e far dispetto a Dio. Le persone in mezzo alle quali viveva parteggiavano per Mendel nella lotta che egli aveva intrapreso contro il cielo. Sebbene fossero credenti, dovevano dare ragione all’ebreo. Troppo duramente Geova l’aveva trattato.” p.155

“… lo afferrò la paura che potesse essere successa una disgrazia: tanto il suo cuore era abituato alla disgrazia che egli continuava ancora a spaventarsi, perfino dopo una lunga preparazione alla felicità. Che cosa può capitare all’improvviso di allegro a un uomo come me, pensava. Tutto ciò che è improvviso è male, e il bene arriva pian piano.” p.120-121

 

1Joseph Roth, Giobbe, Adelphi, 1977