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La forza delle ragioni

Il dolore delle donne, fisico e psicologico, inizia da una complessa e distorta idea di maternità e di abnegazione. Addestrarci a sopportare per amore è l’illusoria pratica della vittima sacrificale, della salvatrice che vuole, a costo della propria vita, salvare chi non ha chiesto di essere salvato, giacché non si è mai sentito in pericolo o fragile. L’amore che dà sofferenza è sempre imparentato con le dinamiche di potere.

Le donne che incontro sono spaventate dai compagni, mariti, figli, padri, colleghi, insomma, temono i maschi che pretendono di comandare gli spazi e i tempi, di controllare i cellulari, gli spostamenti, il denaro.

Un fenomeno di irrigidimento del patriarcato, per gli uomini e per le donne, è la tentazione di psicologizzare, di strumentalizzare in ogni modo la psicologia per confermare il dominio sull’altra. Riconosco le astuzie della manipolazione ogni volta che, senza averne la competenza, ascolto “discorsi da psicologa/o”. Di volta in volta, le donne risultano incapaci, esaurite, deficienti e cattive madri. Oppure sono descritte come deliziosamente fragili, incomprensibilmente infelici, visto che hanno proprio tutto.

Le valutazioni esagerate e superlative – le carezze verbali e non verbali incondizionate, positive e negative – dichiarano, in ogni modo, la riduzione dell’alterità. La oggettivazione della donna è fondamentale in un’idea che prevede l’incontro come simbiosi e non come libertà. L’aspettativa mal celata del patriarca che si manifesta onnipresente perché afferma di essere protettivo è che la donna accolga la sottomissione come l’unica salvezza; l’obbedienza come espressione di educazione; il sorriso perenne come forma di gratitudine.

Il maschilismo è l’espressione più immediata del sistema patriarcale il quale rappresenta la struttura fondante della nostra società, non solo un vizio occasionale. Tale visione strutturale prevede la virilità come misura di ogni cosa, dal linguaggio al pensiero. È sempre esistita la convinzione che l’uomo sia naturalmente portato al comando, alla competizione, alle materie scientifiche, ai commerci, alla forza, al mondo pubblico. La donna, di conseguenza, naturalmente, è pretesa come madre e sposa che cura, nutre e si emoziona, rimanendo ai margini e dentro.

Nelle relazioni malate, non rilevo crisi passeggere, episodi di caduta aggressiva, sviste momentanee, ma un sistema rigido e atavico sostenuto dall’egocentrismo.  Gli uomini hanno paura e non possono registrare la forza delle donne che sì, hanno paura e continuano a pensare, a scegliere, a godersi l’azione, a ripensare e a riscegliere. Il patriarcato produce varianti e si coniuga in molti modi a fondamento della nostra società.

La mentalità diffusa prevede ancora la stabilità e la sicurezza – della famiglia, della relazione, dei rapporti lavorativi – come centrate sul potere del comando e del controllo, sulla disciplina dettata dal feudatario, sull’ordine genitoriale indiscusso. La conoscenza di sé è il fondamento di una trasformazione urgente di una visione di mondo che promuova la salvaguardia dell’ambiente e che risolva l’individualismo della salvezza solitaria, la mania di possesso, l’idea fissa di prevaricazione. I percorsi formativi della scuola di educazione Alla persona guidano ogni essere umano a riconoscere in sè il sessismo, il capitalismo, il razzismo, il patriarcato. L’esclusione, l’antisemitismo, l’omofobia traggono l’ispirazione e le pretese di sopravvivenza dalla predominanza fallica.

Ancora gira, e la chiamiamo cultura, il vissuto della donnafortecomeummaschio o del metodo carotaebastone o dell’uomochepperoaiuta: c’è tutto un sistema da assumere come responsabilità personale e, in seguito, da rivedere, iniziando dalla propria vita con interventi formativi adeguati e sistematici. Il femminismo intersezionale inserisce l’oppressione della donna all’interno di un quadro globale di sudditanza strutturale psicologica e sociale e si impegna a lavorare su numerosi piani. Abbiamo bisogno di chiederci cosa c’è oltre il dominio, come creare e allargare le relazioni e, in seguito, per non rimanere rennude/i, come lasciare il vecchio abito pacchiano di dominanti.

Affrontare la “questione maschile” significa capire e trasformare l’identità centrata sul comando e sulla violenza, l’identità che è sempre funzione del dominio invidioso. Desideriamo studiare e ragionare sull’invidia maschile per la maternità o sull’espulsione, in quanto maschio, dalla genealogia femminile: l’invidia del pene origina nell’invidia per l’utero, risolvendo Freud e contestualizzando nel periodo storico in cui vennero espressi i suoi assunti di base. Nessuno che si viva come il centro del mondo, va guardato e soccorso come una minoranza, una delle tante, come i neri, i disabili, gli ebrei, gli omosessuali. Non troviamo necessariamente un punto di incontro che, magari, non c’è e non può esserci avendo, ogni persona, la propria storia. È già una forza smettere di compiacere chiunque, ad oltranza, per tenerlo buono, per paura di un eventuale conflitto.

 Ma mostrare la propria forza ha un costo, perché gli uomini preferiscono avere a che fare con donne fragili. Perciò alcune mogli, un po’ per compiacenza, un po’ per comodità, preferiscono recitare la parte delle vittime. E grazie a questa innocente simulazione che le donne riescono a navigare nelle acque agitate della vita, tessono le trame delle loro storie, costruiscono i destini delle loro famiglie. Poi, a forza di recitare, finiscono per immedesimarsi in quel ruolo e anche questo ha il suo costo, si sa che il potere è dei consapevoli.

Giuseppina Torregrossa, Manna e miele, ferro e fuoco, Mondadori, 2011, p.269

 

pumo melogranata

La bambina-della-mamma

Io sono Kore: la giovinezza, l’innocenza, la leggerezza.
Sono la Dea del Fiore, una stagione nella natura e nella vita di ogni donna.
Io ho conosciuto l’oscurità dell’Ade, ho assaggiato i chicchi della melagrana
ritrovando così il mio nome: Persefone, la Terribile,
Silenziosa Signora del Regno dei Morti.
Solo dopo aver varcato la soglia del buio,
traversato il mondo delle ombre, posso risalire alla luce
tenendo fra le mani la sacra melagrana,
simbolo dell’eterno ritorno

Omero

Il mito racconta del rapimento di Kore ad opera di Ade, dio degli inferi che la fece sua sposa e regina del suo regno. Demetra, la madre, per nove giorni e nove notti percorre la terra intera da est a ovest, da levante a ponente, alla ricerca della sua adorata figlia e come misura di ritorsione lascia subito l’Olimpo. Paralizzata dall’angoscia, Demetra, dea delle messi e delle stagioni, rende la terra sterile e sfiorita. La madre, privata della sua bambina, è inflessibile e non ferma il disastro finché Zeus non obbliga Ade a lasciare che Persefone ritorni verso la luce. Ma la fanciulla, finalmente risalita sulla terra, non può più rimanere permanentemente avendo mangiato, durante il soggiorno negli inferi, sette chicchi di melagrana offerti da Ade. Zeus, ristabilendo un ordine giusto, decide che del ciclo dell’anno, la figlia ne trascorra un terzo nell’oscurità nebbiosa e gli altri due con sua madre.

Demetra, Kore, Persefone: oltre che nomi di donna, sono passaggi esperienziali, sono parti di sé che si svelano attraverso il lavoro di consapevolezza psicologica. Demetra, Kore, Persefone sono figure in trasformazione e non solo figure della trasformazione. Sono archetipi introiettati nella nostra psiche, parti che pensiamo imperdonabili, negate, respinte nel buio. È un cammino di conoscenza per intuire ed esperire la catabasis, la Discesa e il nostos, il Ritorno.

Il termine greco kore significa virgulto, energia e non si riferisce a un’età storica, recupera la radice della forza vitale, dell’esserci. La “ragazza indicibile” (arretos kore), “Kore è la vita in quanto non si lascia “dire”, cioè definire secondo l’età, le identità sessuali e le maschere familiari e sociali”(1). Per ogni persona, consideriamo l’età storica che coincide con il giorno del compleanno e, anche, l’età psicologica e culturale. La bambina-della-mamma si ritrova da sola a fare i conti con il ratto, lo stupro e l’inganno. Grida, prova a difendersi, capisce di essere vittima di una guerra sconosciuta e di una virilità arrogante e assassina. La giovane impara la prevenzione, l’intuito, la pre-occupazione di sé.

Vivere Demetra significa cercare e continuare a vagare consapevoli dell’angoscia di morte, significa sentire il sentimento e continuare a ragionare. Demetra si indigna, contratta, propone soluzioni, si separa e si avvicina e riconosce la distanza come cifra dell’amore.

È frustrante ed è un buon momento quando la psicologia scopre che il cambiamento non si può insegnare, non si può nominare attraverso i modelli, non si può imporre perché la forza serve a rimanere, a tacere e a capire. Rimane la relazione di accompagnamento, la figura dello psicopompo. Rimangono il viaggio e il racconto, oîmos e oimē che, nell’antica poesia epica, si assomigliano. La forza della trasformazione è dentro la regina Persefone: lei apprende gli opposti, assume il conflitto, si abbandona al buio e, di conseguenza, può tornare, può rinascere.

Per Omero, Persefone, colei che porta la luce, ha diritto a essere chiamata hagné, pura, e suggerisce la purezza come distinzione e separazione. E Roberto Calasso sottolinea come “non c’è purezza che non sia accompagnata da una scia sanguinosa” (2). A differenza del termine katharós, hagnós è uno stato che prevede un versamento di sangue; occorre essere hagnós, puro, hagné, pura per contenere l’eccedenza, per reggere la potenza della rinascita.

La bambina-della-mamma, ormai regina degli inferi, apprende a proteggersi, a governare l’attimo prima del dopo. La purezza e l’inquinamento, rimangono categorie mentali e psicologiche e non si riferiscono a condizioni reali. Nel ventre accogliamo ogni rigenerazione, di persone e di relazioni, con la pazienza nel tempo della gestazione e con la pulizia nel luogo del racconto. Se la persona chiede, il processo psicologico aiuta la trasformazione e agisce sulla contaminazione, favorendo il governo di sé e la decontaminazione dei confini dell’Io.

La divisione del mondo, dell’intero ordine cosmico è garantita dall’alternarsi della vita e della morte, delle stagioni di fioritura e dalle stagioni di riposo sotterraneo, dall’assenza e dalla presenza, dalla separazione e dall’intimità. Solo attraverso i vari passaggi, più e più volte, l’essere umano Demetra, Kore, Persefone può dirsi ed essere chiamata anche dea Libera. Chi visita le ombre, il regno dei morti, intravede i cammini di liberazione verso le libertà possibili. I cammini che prevedono il privilegio degli inferi e l’umiltà della ciclica fioritura.

Condivido un brano molto interessante da Il cacciatore celeste di Roberto Calasso:

Ma perché Zeus volle accordarsi con Ade? Core significa «pupilla» – e la pupilla è l’unico punto del corpo che ospita in sé il riflesso. Ma, dove c’è il riflesso, c’è anche uno sguardo che guarda se stesso. Non c’è vita, per gli uomini, senza quello sguardo. E al tempo stesso è quello sguardo a rivelare il predominio inscalfibile dell’assenza sulla presenza. 

Il guardare è l’unico processo fisiologico scindibile senza termine: in chi guarda c’è anche colui che guarda se stesso mentre guarda. E questi può essere guardato da un ulteriore altro. Ma chi è allora il soggetto: chi guarda o colui che guarda chi guarda? Quest’ultimo si direbbe, perché ingloba chi guarda. Ma chi guarda siamo noi. Allora chi guarda lo sguardo diventa un altro rispetto a noi, che però abita in noi. Da lui noi dipendiamo. Ma con lui non possiamo confonderci, perché nel momento in cui diventiamo quell’altro, subito si forma uno sguardo che ci guarda diventare quell’altro. Il processo può ricominciare, all’infinito. Ciò che ci governa mentre guardiamo è ciò che per sempre ci sfugge. Ma è anche ciò che per sempre ci accompagna. Noi possiamo oscurarlo, ignorarlo. Ma, se l’attenzione appena si fissa, eccolo apparire di nuovo, accoglierci, come Ade colse Core. Ma dov’è quell’essere che guarda chi guarda, quando noi non lo avvertiamo, quindi per una larga parte della nostra vita? È assente o presente? E dove? È l’assenza stessa, ma -quando appare – è una presenza che rapisce ogni altra presenza.                                             (p.407-408)

 

 

Alcuni riferimenti bibliografici

  1. Giorgio Agamben, Monica Ferrando, La ragazza indicibile, Mondadori Electa, 2010, p.12
  2. Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, 2016, p.56
  3. Elda Fossi, Persefone, Moretti e Vitali, 2010
  4. Carl Gustav Jung, Psicologia della figura di “Kore”, in Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942), Torino, Bollati Boringhieri, 1972 (2003), pp. 149-220 e 221-48
  5. Carol S. Pearson, Persefone, Astrolabio, 2017

 

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Le resistenze

 

Fame e sete ci sono negate, non conosciamo riso né lacrime, il nostro stato è di pigro appagamento, di monotona inappetenza… Ora, tu dimmi: Può bastarci, questo? Può dirsi, questo, felicità? Sapessi cosa non daremmo per una spina di passione, un amore, un odio, uno strazio, una malattia!

Gesualdo Bufalino, Favola del castello senza tempo, Bompiani, 2020, p.46

 

Un giovane giornalista, vicino alla scuola di educazione Alla persona, qualche giorno fa, mi diceva di sentirsi come un partigiano, come nella resistenza. Capisco, ed è così. Aggiungo che la resistenza prevede anche l’arte della resa, il momento di resistere lasciando andare, resistere tacendo, resistere mancando la sovraesposizione. Resistere, sì, riposando e recuperando le forze.

Seguo una psicologia di prevenzione militante e scelgo ogni intervento verbale o scritto prevedendone la ricaduta non solo personale, ma anche sociale e politica; voglio dire, di appartenenza comunitaria e creaturale, non certo partitica. In ogni situazione sgradevole, la psicologia formativa nella quale credo propone di rivolgere domande a se stesse/i per comprendere le diverse prospettive. E non dà per scontato che esistano esseri umani difettati e rotti. D’altronde, fossi io stessa o fosse l’altra persona bruttasporcacattiva, è proprio con me e con lei che esistiamo. E, allora, tanto vale chiederci come possiamo vederci e narrare di noi diversamente. Iniziando dalle parole di valutazione.

In questi tempi, evitare di capire in profondità anche con l’analisi psicologica, equivale a rimanere in una superficie patologica, imprigionati in un’immagine grottesca di sé che si autoduplica, che si fotocopia, senza fecondare e senza mettere al mondo. La semplicità, la leggerezza, l’autenticità prevedono un cammino complesso e faticoso, per nulla scontato e non acquisito naturalmente.

Durante il lavoro di consapevolezza, il limite posto all’ego non è limitante; al contrario, il metodo, la disciplina, l’orientamento a capire, incontro dopo incontro, liberano l’energia emotiva e cognitiva, affinano la potenza del sentimento, del pensiero e dell’azione. È la coscienza del limite, la coscienza di non sapere molte cose che ci spinge a conoscere e a modificare.  Il ridimensionamento di sé e l’alleggerimento dell’ego creano forza e movimento. Ogni persona, isolata dal contesto e dalla coscienza della storia personale, diventa una merce e una proposta pubblicitaria.

I social media consentono di sbirciare le vite private, i gusti e i tic, in apparenza innocenti. Le esposizioni frequenti e, spesso, compulsive defraudano i legittimi territori d’ombra, vicini al nucleo esistenziale, vicini al carattere che ogni persona può riconoscere e custodire. Durante il lavoro di educazione Alla persona tocca capire e trasformare, in ogni sua variabile, il copione personale. Proteggendoci, nel tempo, possiamo educare e modificare l’immagine esteriore patinata, fotoshoppata ad uso dei social, modello di aspirazione dei poveretti che, sempre in affanno, inseguono visibilità, soldi e consensi. Spesso, rivendichiamo il diritto alla nostra opinione e alle nostre scelte; ma il diritto prevede il ragionamento e il pensiero critico. Abbiamo bisogno anche di gravitas.

Lo sguardo e la parola possono essere severi nella misura in cui sono prima pietosi, di pietas, comprendendo l’affetto per l’umanità e la devozione per la professione. Oltre che nel corpo e nella mente, il responsabile aziendale – in realtà, ogni persona – può ammalarsi nella visione ottusa ed escludente di sé, dell’alterità e del lavoro. Esistono mali culturali che possono tradursi in sofferenze e che dipendono da convinzioni del copione psicologico, da mentalità parassitate e manipolabili, anche se affollate di luci.

La prevenzione della malattia culturale, l’attenta supervisione della visione di sé, degli altri esseri viventi e del mondo ha come scopo il benessere e il tornaconto economico sulla durata stabile, sul lungo periodo. L’intervento formativo non è costruito sulla centralità dell’uomo che compete e che vince, ma sul senso della comunità. Sostituendo il vecchio assetto, propongo un sistema di pensiero critico radicato nello studio e nella relazione. Partendo da sé e da noi.

L’impegno principale, il nucleo di ogni lavoro è guidare a vedere le prospettive non ancora considerate, le vie credute chiuse, le opzioni oscurate dalla frustrazione, passando dall’ostinazione duale –  o questo o quello – allo sguardo molteplice. Prima di ogni scelta e prima di convincerci di non avere alcuna scelta.

Nella mia vita, la libera professione ha finito per significare la ricerca e l’opera, in solitudine, talvolta luminosa, talvolta oscura. La psicologia applicata alla prevenzione e alla cura della cultura e, in particolare della cultura del lavoro, si pone necessariamente fuori dalle accademie, ai margini, indagando il limite fra il personale e il professionale, fra il pubblico e il privato. Allora, accogliamo le resistenze come i luoghi e gli spazi di riflessioni interiori, nel silenzio, nel vuoto, nell’abbandono che aprono all’accadere diverso.

Rifiuti Ombre

Esperienze di formazione a distanza

Rifiuti Ombre

Foto di Tim Noble e Sue Webster

Il faut se méfier, d’accord, mais pas de tout refuser…

Simone de Beauvoir, 1974

Le riflessioni proposte originano dalla esperienza formativa attraverso una piattaforma per la didattica a distanza (DAD) con i/le partecipanti ai corsi degli istituti tecnici superiori (ITS), per la formazione tecnica specialistica e la ricerca applicata nel settore alimentare.

La scuola di educazione Alla persona, in continua ridefinizione e condivisione, propone la formazione per gli adulti non come l’insegnamento; io mi riconosco come formatrice, né insegnante, né psicoterapeuta. In breve, nei moduli a me affidati, il fine è la relazione e la creazione di comunità di ricerca e di interscambio. L’obiettivo riguarda la coscienza e la consapevolezza di sé e del gruppo. Le metodologie sono necessariamente interattive. Significa che, in ogni momento, ogni persona partecipante, compresa l’esperta, ha diritto alla parola di pari valore. Gli strumenti sono il corpo, la voce e l’intuizione o l’intelligenza sociale. Il monitoraggio prevede il confronto frequente nel gruppo. La semina certa, seria e sistematica della pratica relazionale è parallela alla valutazione meccanica dei risultati.

Negli ultimi anni è un continuo apprendimento con le protesi artificiali! Ho l’opportunità di fare pace con il mondo digitale, utilizzando gli incontri a distanza con i gruppi di lavoro e, singolarmente, con i/le responsabili di azienda. Certo, la formazione a distanza non offre buoni argomenti a chi si incarica di difenderla e si ripromette di evidenziarne gli aspetti positivi. La relazione formativa prevede la sperimentazione del corpo al massimo grado e non l’omologazione al livello minimo, senza conflitto e senza odore. Ma scopro che ciò che è virtuale, in fondo, è reale. Voglio dire che la didattica a distanza rivela le luci e le ombre di ciascuno come una lente di ingrandimento.

Bisogna diffidare ma non rifiutare del tutto, affermava Simone de Beauvoir, in un altro discorso, ma esprimendo un pensiero con applicazioni diverse. E ci fa bene il tempo dilatato della diretta online, un tempo interrotto senza interruzione di intimità attesa e timorosa. In diretta, viviamo un tempo liquido, ma non liquidato in fretta, lento, di parole ancora più scelte con cura e scandite bene. Guidiamo il tempo paziente della riflessione, prima di ogni risposta, della comprensione, della ripresa naturale. Sperimentiamo la cura della interazione, la noità, il sentire di essere condannati ed eletti alla relazione, nel suo nucleo solitario e originario, protetti dal video e dalla distanza.

Viviamo un tempo sacro in cui l’intelligenza sociale può manifestare abilità mentali e psichiche: l’elaborazione di nuovi modelli, il pensiero astratto, la comprensione dell’essere al mondo solo come relazione e la capacità di affidarsi ad essa. Per chi partecipa, è l’esercizio di accettare l’inaccettabilità, dunque, di escludere la carnalità, il respiro addosso del corpo altrui. Non siamo più in presenza del corpo dell’altro ma solo della sua immagine. Dalla mancanza del contatto origina l’attenzione alla voce e alle parole, riformulando l’organizzazione sociale dell’incontro.

Sapere di essere potenzialmente visitati dal virus significa essere penetrabili, a prescindere dalla propria volontà. Non possiamo uscire dal tunnel della pandemia senza farne esperienza anche attraverso la formazione a distanza. Permetterci di contattare noi stessi e la voce interiore è un obbligo e non è più una opzione. L’analisi personale ha valore di necessità: è il tempo nuovo ed è in un monitor, la stanza tutta per sé. Richiamiamo la presenza percettibile, la consapevolezza della presenza per assenza, anzi, presente proprio perché assente. Sperimentare una vicinanza differente è possibile se una persona è risolta e, dunque, è capace di scambio, di autonoma condivisione di sentimenti e di pensieri. In questo modo, diventiamo persone portatrici di salute psicologica.

In realtà non sono davvero riuscita a vederla, sa; ma ho sentito che c’era.

In che senso?

Certe persone hanno una presenza percettibile*

 Rileggendo Arthur Miller, ogni persona è una presenza percettibile se affiniamo l’intuizione e il desiderio di spenderci in una relazione possibile. Nell’esercizio della professione in questo periodo di lontananza non voglio inventarmi nulla: i salotti, le lezioni, gli assolo. Se manca la relazione in presenza, vale l’intuizione affinata del respirare assieme, vale la pratica della distanza che presuppone la confidenza con il silenzio, con lo spazio e con il limite del tempo, con la durata delle cose. Apprendiamo il governo dello scuro e dell’ombra.

Durante gli incontri formativi, le immagini rimangono fisse per imparare a volare in basso, in profondità e non solo per pretendere di volare in alto. Infatti, la vista, attraverso il movimento innaturale, di posa, soli, dinanzi alla telecamera, può essere invadente. Le immagini ricche, le riprese luccicanti mi appaiono sciocche e non riesco a parlare con disinvoltura, da sola, davanti ad una telecamera accesa, come un antidoto contro la paura. Reputo indispensabile che dinanzi a me, dall’altra parte, ci sia una persona, viva, con la quale interagire in tempo reale, con tutti i filtri e i disturbi della linea. Apprendiamo a rimanere nella relazione senza precipitare nel fondo della mancata presenza, guardando a testa alta la prospettiva, l’orizzonte futuro, il desiderio dell’alterità, in qualunque modo possa esprimersi. Ho sempre pensato che quando la vita è precaria valga ancor più la pena di non sentirci precari nell’esistenza e capaci, di conseguenza, di non diventare oggetti senza valore.

La formazione da remoto consente un elemento nuovo: la psicologa e il cliente hanno paura assieme. Contemporaneamente, abbiamo il timore di perderci e il bisogno di protezione, al di là delle difese personali e viviamo in tempo reale il sentimento d’incertezza. Nel processo formativo, la differenza non la fa il medium, la piattaforma, ma le persone. Il video ci sposta dal centro, ci consente di percepirci parziali e di smetterla di far coincidere il proprio io con il tutto. Proprio quando il corpo dell’altro è distante, è possibile registrare un’altra esperienza con quel corpo, a partire dalla distanza, dalla voce e dalla parola. Siamo spettatori/trici gli uni delle altre ed entriamo nel luogo dell’altro, anche quando, quel luogo, alle sue spalle, è opaco. L’altro/a, il/la cliente non è l’oggetto inferiorizzato dal mio ruolo nel mio studio ma, in modo naturale, diviene il mio specchio. La distanza offre la possibilità di lavorare sul senso personale della prossimità.

L’uso dei social presuppone una profonda conoscenza psicologica dell’io e i vantaggi della tecnologia sono possibili solo quando la persona è consapevole di sé. In caso contrario, registro interazioni di manipolazione, di simbiosi, di abuso di potere, di mercificazione dell’interiorità. Più vasta è la scelta che offre la tecnologia, più alto è il rischio di un sovraccarico d’informazione. Ricordiamo di essere corpo e dotati di una storia, di un movimento, di iniziativa e di competenza emozionale. Anche a distanza, con la formazione promossa dalla scuola di educazione Alla persona, facciamo esperienza di realtà: rimaniamo tesi, insicuri, precari, poveri, spesso, in strutture sempre più gerarchiche e grasse di norme procedurali.

Purtroppo, negli ultimi anni, la visibilità, la popolarità, il riconoscimento avevano assunto un’importanza eccessiva. Anche la psicologia, all’interno dell’azienda, aveva rappresentato una forma diversa di controllo, sotterraneo e sottile, con l’illusione che fosse la personalità e non lo status ad avallare il successo del lavoratore. Alcuni non hanno mai ceduto né creduto al discorso ideologico dell’azienda come una famiglia, giacché la cooperazione e la socialità vantati erano strumenti di dominio e di arricchimento del feudatario e non una base culturale alla quale, per prima, il vertice aderisse. I corsi manageriali sulle competenze comunicative non prevedevano che la nozione psicologica di comunicazione riguardasse la fatica dell’analisi personale, ma rilanciavano, unicamente, in modo orizzontale, l’immagine di sé, funzionale al sistema, offerta agli altri. Infatti, conquistare il dominio prevedeva e, in molti casi prevede ancora, la verifica del proprio effetto sugli altri. In questa ottica obsoleta, un buon comunicatore è empatico, cioè interpreta (sic!) il comportamento e il sentimento altrui con l’imperativo di sintonizzarsi e adattarsi più facilmente allo stile comunicativo dominante.

Attraverso l’utilizzo della dad, la democrazia non è solo una forma di governo, ma rivela coniugazioni economiche e, soprattutto, psicologiche e sociali.  A differenza del capitalismo con un obiettivo elitario e centrato sul potere, la democrazia è un ventre e riflette faticosamente sulla relazione come nutrimento e forza. L’autonomia relazionale prevede l’alterità come pratica e come base di responsabilità. Ogni persona è l’altra oltre che se stessa, contagiata dalla diversità e non contaminata nella simbiosi, nella relazione pericolosa e salvifica, vincolante e liberante. L’interdipendenza, la giustizia, la fiducia originano dalla protezione di se stessi/e, dall’autotutela che non è obbedienza passiva. Non vantiamo la fretta di risolvere o l’arroganza della soluzione, solo la certezza di rimanere nella relazione, in una intimità cosciente: talvolta, non so che fare, ma rimaniamo assieme, in un verso di poeta.

 

*Arthur Miller, Presenza, Einaudi, 2017, p.138

Melville

L’opzione no

Melville

Turkey, Nippers, Ginger Nut, Bartleby sono tutti copisti in uno studio legale. Ma Bartleby è differente nel silenzio, nell’attesa, nel rigore della posizione e mestamente aggira il comando, nega il dovere, rifiuta l’obbligo: I would prefer not to. Gianni Celati traduce: Avrei preferenza di no.

 Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby. p.10

Come un derelitto, appare Bartleby, cocciuto, irragionevole, mendicante di una intimità autentica, privo della malizia e del sarcasmo evidenti in qualunque sfottò. Ma, riflettiamo: l’«aver preferenza di no» non è un rifiuto dell’alterità, è un’accoglienza a se stesso ed esprime l’appartenenza ad un altro sistema concettuale, non opponendoci alla richiesta dell’altro con l’impertinenza e la sfida, anzi, proteggendolo da una compiacenza ipocrita.

Parliamo di una categoria mentale diversa: mi proteggo nei miei desideri ritraendomi dall’assenso ripetitivo e meccanico e, di conseguenza, libero l’altro dall’automatismo del comando-risposta, dall’automatismo dell’azione-reazione. Non siamo dinanzi ad una risposta contro la richiesta altrui, piuttosto, confermiamo una relazione libera. Infatti,  è nella possibilità di negarci e di dissentire che riconosciamo l’autonomia dell’interazione, la libertà di rimanere ciò che siamo, rifiutando la simbiosi e la finzione.

Accogliamo il ruolo di autorità dell’altro, ribadendo ognuno per sé la capacità di pensiero e di scelta. Talvolta ascoltiamo il no oppositivo, rancoroso, sfidante e frustrato che pretende il rispetto, l’ osservanza delle regole e l’ammissione di colpa. L’«aver preferenza di no» significa che ci consegniamo alla possibilità della relazione senza cedere la forza, senza ridurci alle aspettative altrui.

L’apprendimento attraverso Bartleby incrocia la scelta che sempre confermo di una relazione conflittuale o niente. Utilizzando la teoria e la pratica dell’Analisi Transazionale, mi impegno a tener conto che la conflittualità sana prevede l’interazione parallela da uno Stato dell’Io Adulto ad un altro Stato dell’Io Adulto, nella differenza che apre, rompe, spariglia. Senza la parità di coscienza, necessariamente l’uno è Vittima e l’altro è Persecutore o Salvatore; il Genitore che critica e il Bambino Adattato che si offende. Chè poi, ad un livello appena più profondo, la vera vittima è il dispensatore di norme, e così, giriamo tutti a vuoto nel triangolo.

È risolutivo che, dall’inizio, come Bartleby, abbiamo preferenza dell’opzione «no», per garantire all’altro di esprimersi interamente, né per contraddire, né per convincere o vincere dialetticamente. La chiamiamo resistenza passiva e rimaniamo persone di preferenza, più che di assunti.

Stiamo imparando: gradirei di no, non significa solo no, evidenzia, tenacemente, che c’è un processo di pensiero, una scelta anche sofferta, un cammino faticoso per giungere a dire no. Il no che appare inizialmente senza speranza si rivela, invece, una misura del reale: adesso, in questa situazione è no.  «No» ci permette di riconoscere il dissenso come un valore doloroso. Il rischio è divenire settari, ma sostenere le ragioni della formazione psicologica non è come vendere un prodotto. Assumiamo la difficoltà di spingere la critica fino a consumarne la rottura, assumiamo la responsabilità di testimoniare il dissenso fino all’allontanamento o all’espulsione, al momento, irrimediabili.

Serve un necessario distacco dal lavoro e dal guadagno in senso stretto. E il distacco deve essere naturale e semplice. Non può che essere rottura.

“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse, e si ritirò nel suo eremo. p.25

Chagall

Nuovi inizi a nostra immagine e somiglianza

Chagall Marc Chagall, Giobbe, 1975

 

“Forse alle benedizioni occorre un tempo maggiore per realizzarsi che alle maledizioni”

Joseph Roth, Giobbe, Adelphi, 1977, p.29

Le statue o le pose o gli animali che ci attraggono, inevitabilmente, raccontano chi siamo. Le nostre vite abbondano di immagini, di personaggi e di copioni: tutti meccanismi di difesa, spesso, a difesa del patriarcato. Incontriamo molte creature impotenti e prepotenti che si ritrovano vecchie e sole senza mai essere diventate adulte, anche a causa di incaute esposizioni e coperture sociali finte e forzate. I simboli sono importanti e capiamo subito che dietro a certe foto e filmati non ci sono idee, storie, ricerche, esperimenti di creatività. Nella formula sempreverde che recita «tradizione e innovazione» scorgiamo la solita operazione di modernariato che purtroppo trasmette gli stessi messaggi di conquista, di sottomissione, di ambizione frivola, di bellezza e di felicità solo miseramente dichiarate.

La scelta istintiva e inadeguata delle rappresentazioni per dire di noi sarebbe una svista di poco conto, solo la mancanza da addebitare all’ignoranza incolpevole se non rappresentasse un pericolo per la comunità familiare, sociale e aziendale, se la ricaduta non fosse rovinosa. Perché diventiamo complici nella circolazione di modelli culturali maniacali e depressivi, grandiosi e sfigati, giubilanti e inaffidabili. Non è vero che le statue servono solo a ricordare una persona e a preservare un pezzo del passato; esse hanno anche un valore performativo: danno autorità a chi rappresentano e autorizzano valori e comportamenti per il presente e per il futuro. È dannoso apprezzare ed esibire senza inibizioni, le simbologie e i miti di forza, di spericolato ingegno, di sfrontato attacco, di privilegiate possibilità economiche perché invitiamo a prestare attenzione a cose insignificanti come la vittoria, l’identità, il guadagno, la genitorialità vera, una e sola, e finiamo a presenziare call, workshop, a parlare sulle dipendenze o sulla fame nel mondo o sul servizio militare obbligatorio, o peggio, sulla necessità di reinserire la pena di morte, interiorizzando punti di vista e metodi da feudatari, senza incidere su possibili azioni di trasformazione. Sì, perché, in ogni caso, le statue, i personaggi e i copioni rimangono quelli del padrone. Riproponendo le facce di plastica da vecchia soap opera, riconosciamo donne e uomini che se la cantano e se la suonano e che, in un modo o nell’altro, rimangono nella simbiosi, strumentalizzando le parole e i gesti degli altri a proprio favore.

In una relazione, lo scambio è il godimento della circolarità, invece, nella simbiosi soffriamo l’abuso illegittimo dell’altrui presenza. La differenza è l’intimità, quando ne diventiamo capaci. Quanto le immagini di cui ci circondiamo e che scegliamo per rappresentarci veicolano, al di là della loro materialità, le relazioni sociali e aziendali e come agiscono sulle persone trasformandole in falsi sociali? A causa di una demagogia che diviene sempre più violenta da parte dei potenti che contano, l’incoraggiamento a capire è azione severa, improcrastinabile e non è solo un richiamo a informarci su tutto un po’. Il simulacro di sé facilita la menzogna del sempre identico, rassicurando l’aspetto nevrotico e danneggiando il fisiologico cambiamento. Notiamo la tendenza compulsiva a strutturare in icona le espressioni del sé insicuro, facilitata da un utilizzo malsano dei social media, i quali strumentalizzano ogni cosa, rendendo futile e volgare ogni pensiero dichiarato e ogni cera del volto.

Il rischio è la recita della realtà. Ognuno continua ad esibirsi nel se stesso del passato, però più frustrato, con l’orientamento a comandare tecnicamente e a non governare anche negli aspetti di anima. Recitare la realtà significa risparmiare l’investimento emotivo e cognitivo che fa pensare al bene dell’azienda e della comunità dinanzi ad ogni occasione di espansione, di miglioramento e di progettualità. C’è il dentro con i protocolli senza respiro, irriducibili e poi c’è il fuori che offre prospettive diverse. Lo status quo mantenuto con routinaria fissazione, allontana l’anima, scoraggia l’entusiasmo e la gioia per un’azione originale. Il riconoscimento e la promozione, l’energia vitale e il respiro di comunità non ci sono più. Guadagniamo per tirare a campare. Tutti, titolari e dipendenti, sono orientati all’accomodamento nella zona confort, pur lavorando alacremente. Anzi, operando in modo che nessuno, né cliente esterno né interno, abbia da ridire, da commentare, da confliggere. Diventiamo indifferenti, senza spinte al cambiamento giacché, in fondo, va tutto bene così. Il gruppo stesso genera una violenza sotterranea mentre, in superficie, emergono solo l’iperadattamento e le comunicazioni ridotte alla stretta necessità. Ascoltiamo un silenzio sgarbato perché cova rancore e ci scambiamo negli sguardi la certezza che niente può cambiare. Intimità fredde, senza il piacere e la creatività, senza il q.b., la misura quanto basta dell’artigiano che fa la differenza con il suo tocco unico.

Proviamo, allora, a toglierci di dosso la stupidaggine e l’insipienza di certe scelte primitive, approfondendo le storie e i significati dei simulacri e di un certo atteggiarci. Non è opportuno sostituire le statue senza cambiare le narrazioni, spostandoci da un modello di successo ad un altro, sempre più fragile ed evanescente. I miti e le loro rappresentazioni artistiche offrono una lettura dell’umanità, ma di quale lettura si tratta ci tocca capire e decidere se è ancora adeguata alla nostra esperienza e al momento storico. Nella teoria analitico transazionale, demitizzare può voler indicare la trasformazione verso l’assunzione consapevole di più opzioni di possibilità. Non ci sono miti e statue giuste e sbagliate ma, certo, ogni rappresentazione esterna rimanda, purtroppo senza volerlo o saperlo, a ragioni interiori e a scelte copionali, uniche e ossessive.

Riconosciamo lo pseudo-eroismo di noi tutte creature umane a mostrare che, pur non piacendoci e non stimandoci, possiamo apparire forti e capaci, belle e potenti e fingerci abitanti in un mondo creato apposta per non affrontare il limite, la mancanza, la malattia che, sappiamo, ci distruggerebbero. Invece, è il contrario. Infatti, diventiamo autonomi confrontandoci con l’ombra, aiutati da una guida psicologica. Le liturgie finte dei social media non sono interessanti come l’essere umano che si indigna, che soffre, che confligge, che cade e riprende il cammino, che vuole curarsi e capire. La competenza e la preparazione fanno la differenza.

Nel marketing i professionisti rimangono pochi e i numerosi lavoratori dei social media offrono alle aziende servizi di comunicazione esterna alterati rispetto al cliente. Gli spot, i loghi, gli oggetti e i personaggi dagli aspetti grotteschi neanche lontanamente assomigliano al volto dei titolari, al volto dell’azienda e dei dipendenti. Rimuoviamo certe pubblicità e santini non solo per l’azione politicamente corretta, ma perché offendono l’evoluzione dei lavoratori e delle lavoratrici, in ogni ruolo. Possiamo utilizzare qualunque immagine rendendo, però, chiaro un messaggio moderno, di libertà, di interdipendenza con il passato, un messaggio ̶ perché no? ̶ di corporeità, ma non pesantemente sessuale e sessista, sempre a scapito delle donne. Guardando intuiamo sempre quanta preparazione c’è a servizio dell’impresa e quanto, al contrario, tradisce l’esposizione miserabile di mercanzia tecnologica.

I video, le foto, gli animali scelti per rappresentare l’azienda spesso solleticano una eccitabilità compulsiva che rimanda all’impotenza, all’incapacità di godimento e alla tristezza dell’autoreferenzialità. E l’immagine cliccata dieci, mille volte insiste e tiranneggia, senza contenuti, a imbrattare gli spazi di creatività, di immaginazione, di studio geniale, perché non rimanga più nulla del pensiero e della capacità critica e dell’ironia, sodale dell’intelligenza. L’azienda paga a un prezzo altissimo il sentimentalismo mellifluo, da quattro soldi. E se non era nelle intenzioni è ancora peggio perché, dunque, inconsapevolmente, recitiamo una parte brutalmente, senza neanche una scenografia pensata. L’opera d’arte, le produzioni del pensiero creativo sono poche e le benediciamo.

La caduta delle statue e lo studio dei miti origina dalla coscienza, dalla testa, dal cuore, dai comportamenti. Ogni personaggio mitologico ha una storia e rappresenta una prospettiva psicologico che è bene conoscere, se decidiamo di farne il nostro punto di riferimento. L’immagine di per sé non è un indicatore di successo e l’abbondanza finisce per evidenziare miseramente la mancanza di contenuti e di sostanza, finisce per escludere l’ipotesi di una storia da raccontare, e meno che mai una storia che includa le altre persone. Più patinate sono le riproduzioni di sé pubblicate e più dolore nascosto dovrà essere prima o poi svelato e liberato con le forme e le parole adeguate e reali di rabbia, di paura e di tristezza.

Affermiamo ancora una volta che questo è il momento di mantenere un profilo basso, personale e aziendale, evitando le estremità di una propaganda che rifiuta il molteplice e la diversità, reclamando il comodo dualismo di chi sta sopra e di chi rimane sotto, di chi perde come conseguenza della vittoria dell’altro, di una ragione sola, perché la controparte deve necessariamente avere torto. Mentre scegliamo i modelli che ci rappresentano, il rischio, senza contenuti pensati e organizzati, è la rozzezza. Il profilo basso significa la testa bassa a studiare, se ci interessano le metafore animali, i cartoni disneyani, la mitologia greca e romana, la simbologia cristiana, i bestiari e l’immaginario medioevale, il bestiario delle nostre cattedrali romaniche, Esopo, Orwell, London, Melville, Rowling. La ricerca, la curiosità storica e artistica, lo sguardo originale sulle opere/icone del passato creano aperture, respiri ampi e voli ed è invece l’ignoranza ad essere pesantissima. Di persone e di aziende, il volto psicologico e il volto sociale che combaciano determinano l’adeguatezza delle foto nei social media, la fedeltà al reale, la verità di esistenze libere e davvero potenti a servizio delle persone.

Le parole di cui i presunti dominatori si appropriano e che usano strategicamente in modo generico, rimangono una menzogna perché, nella quotidianità, favoriscono il contrario di ciò che predicano e, creando fumo, non consentono di identificare l’inganno di una pratica ossessiva e persecutoria. La libertà non è libera se incatena e mortifica le altrui presenze. La forza che non crea luce e felicità nella comunità è potere sulla testa degli altri. Il coraggio – il non avere paura che a noi fa sempre più paura – è sfrontatezza e arroganza, senza l’analisi di realtà. Di persone e di aziende, il volto psicologico e il volto sociale che combaciano determinano l’adeguatezza delle immagini nei social media, la fedeltà al reale. La verità di esistenze libere e davvero potenti a servizio delle persone.

Quest’anno la figura che scelgo come mia guida è Giobbe, nella storia, proposta da Joseph Roth1, di Mendel Singer, considerato un tapino che non sa farsi valere, una coscienza pura, un’anima casta, il povero e mite maestro ebreo di bibbia. Scelgo quest’uomo non per la pazienza, luogo comune e lettura in superficie delle vicende bibliche, ma perché Giobbe, in cui Mendel si riflette, rimane fermo nel desiderio di capire con “la curiosità, sorella della giovinezza, messaggera del desiderio…” (p.31). Giobbe soffre, è dolente, patisce ancora e decide di continuare a capire. Mendel/Giobbe non ha affatto pazienza. Vuole capire le ragioni e la ragione e chiede di dare un senso agli accadimenti, convinto che ogni situazione sia un apprendimento e non solo una sciagura contro l’uomo. Di questi tempi, abbiamo bisogno di profeti, degli “occhi dei profeti. Uomini ai quali Dio stesso ha parlato e che hanno questi occhi. Tutto sanno, nulla tradiscono, la luce è in loro” (p.174). Significa anche che il lavoro faticoso per tutti e tutte noi è generare e liberare la parte muta e patita di un sé profetico che custodiamo.

“Mendel Singer non pregò più. Certo qualche volta ci si servì di lui, quando mancava il decimo per completare il prescritto numero degli oranti. Allora si faceva pagare la sua presenza. A volte prestava anche, all’uno o all’altro, i suoi filatteri dietro un piccolo compenso. Si raccontava di lui che andasse spesso nel quartiere italiano per mangiare carne di maiale e far dispetto a Dio. Le persone in mezzo alle quali viveva parteggiavano per Mendel nella lotta che egli aveva intrapreso contro il cielo. Sebbene fossero credenti, dovevano dare ragione all’ebreo. Troppo duramente Geova l’aveva trattato.” p.155

“… lo afferrò la paura che potesse essere successa una disgrazia: tanto il suo cuore era abituato alla disgrazia che egli continuava ancora a spaventarsi, perfino dopo una lunga preparazione alla felicità. Che cosa può capitare all’improvviso di allegro a un uomo come me, pensava. Tutto ciò che è improvviso è male, e il bene arriva pian piano.” p.120-121

 

1Joseph Roth, Giobbe, Adelphi, 1977

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Torno Subito

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Ero uscita dalla sala operatoria: Qual è il funerale che vorresti? Abbozzo un sorriso – che tempismo! – ricordando la telefonata di Chiara Cannito. Qualche giorno prima, spaventata, avevo lasciato volontà testamentarie per i miei libri. Al funerale no, non avevo pensato. Dopo un anno di salute ristabilita e di paradossali interazioni amicali, la proposta della casa editrice Argentodorato e la possibilità offerta dall’autrice alle persone scriventi si è rivelata come un momento di autenticità e di autocoscienza.

Con ironia, immagino che ogni cliente della giovane agenzia di pompe funebri Lamorte & Figli inizia con il volersi liberare di un problema e capisce, invece, di rinascere, persistendo nei territori incontaminati delle conclusioni, dei perimetri ultimi. Il vissuto del proprio funerale è un momento essenziale in ogni età della vita, perché in fondo la fantasia racconta con trasparenza chi siamo e come, adesso, stiamo vivendo. È commovente leggere come i personaggi del romanzo prevedono gente, relazioni, scambi, promesse, abbondanti commiati, ricchi anche di calorie. È un romanzo di intrattenimento serio, propone una tecnica socioculturale, è creatore di un’alternativa fantastica alla felicità tradizionale: allontanare la morte, intristisce e indebolisce; invece, includerla e organizzarla rende felici di essere ancora vivi. Poi, nella realtà, il funerale sarà diverso e dipenderà da altre situazioni. Intanto, la richiesta personale, in previsione della propria morte, apre prospettive, disegna orizzonti intelligenti, socievoli e rivela il fine dell’esistenza: «Capire… capire cosa devo aspettarmi».

Le storie narrate vincono il primo premio al Concorso letterario “Argentodorato” e intraprendono un cammino di letture, di confidenze e di altre scritture ̶ perché no? Ci piace che ogni persona legga dieci volte, cento volte di più per ogni pagina che ha in cuore di scrivere. E nell’ultimo capitolo facciamo l’esperienza di conforto e di speranza, di gioia e di riflessione. Hanno vinto i lettori e le lettrici, ha vinto la casa editrice, ha vinto Chiara, la sua convinzione di comunità complice, le sue relazioni di riferimento. Tutti confessiamo di essere vivi, con la timidezza mal celata di mettere in scena il funerale. Il senso è riconoscere che gli altri e le altre esistono e contano, per un’alleanza che inaugura scenari interculturali.

Il marketing d’impresa in questo romanzo è una cosa seria e funziona perché Torno Subito prende posizione sociale, politica e sintattica. Tutta l’umanità che gira intorno all’agenzia di pompe funebri ha scelto la curiositas e la studiositas con lo spirito di modestia, con l’atteggiamento discreto di chi si impegna a capire e a considerare il prossimo e, solo come conseguenza, osa la fantasia e il divertere, l’esagerazione e il primo piano. In un tempo di riprese e di ricadute, di contraddizioni e di determinazione, abbiamo bisogno di questa lettura, formativa, sì, perché guida ad un percorso di indagine interiore e personalissimo, intorno alla vanità e all’arroganza, alla paura e alla tentazione, all’inganno e all’incanto dell’esperienza esistenziale.

E tu qual è il funerale che vorresti?

Nella vecchia Cina molti tenevano in casa le loro bare per ricordarsi della propria mortalità; alcuni ci si mettevano dentro quando dovevano prendere decisioni importanti, come per avere una migliore prospettiva sulla transitorietà del tutto.

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004, p.15

The Art Class, 1979

Ancora: vogliamo il pane e le rose

The Art Class, 1979

Beryl Cook, The Art Class, 1979

Noi vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose. Vogliamo tutte le cose belle, tutte le cose belle della vita. Rose Schneiderman, 1912

Mi piacciono le figure ampie di Beryl Cook, sgargianti ed estroverse, ironiche e irriverenti, in movimento rispetto alle abbondanti corporeità statiche e un po’ avvilite dell’amato Botero. Ricordo i racconti rimasti nell’aria del mio studio, quando le donne se ne vanno e penso che la bellezza della vita è nella contraddizione, negli stati diversi di salute, nelle interruzioni e nell’eccedenza.

Da più di vent’anni anni ho scelto capelli cortissimi, sale e pepe. Pago a caro prezzo la cultura patriarcale che promuove la separazione del corpo pericolosamente desiderante, a corrompere la mente superiore e, talvolta, distratta, la riconfermo. Non ho mai frequentato le palestre, raramente i centri benessere. Mi lavo e vaporizzo il profumo e tanto basta. Partendo dalla mia condizione, sono l’ultima donna che ha risentito della mancanza di estetiste e di parrucchiere durante la chiusura. Avverto, però, un’indignazione profonda dinanzi agli uomini che sottilmente provano ad imporre, a me e alle altre, la scala dei valori, la lista dei desideri, assumendo un tono di voce e di parole giudicanti rispetto alla scelta di preferire le rose al pane, avendo due soldi in tasca. In questo periodo di riaperture con difese, è bene informarci sul grado di sicurezza in cui si svolgono le varie attività commerciali, estetiche e sportive, senza assumere la velenosa morale sulle donne piacenti e sensuali, mai logiche e razionali.

Voglio dire che sono pronta a difendere la libertà delle donne attente a trucco e parrucco, perchè la superficie rivela la convinzione e la sostanza. Abbiamo riaperto le attività con grinta, ma con la stessa testa di maschi e di maschie, con le stesse leggi del padre, con la mentalità bizzoca e patriarcale. Non è polemica, è che i maschi e le donne dentro il sistema proprio non guariscono, non si ascoltano e non si rendono conto di mettere in atto dinamiche relazionali di supponenza e di manipolazione, rimanendo, sistematicamente, sotto le macerie. I modelli che crediamo naturali di virilità e di femminilità sono alienanti, i ruoli e le identità sono costruzioni sociali e culturali e, di conseguenza, sono modificabili. Una di noi suggerisce, dal pensiero di Einstein, di non pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. In un’esistenza quotidiana già complessa, ogni donna continui a scegliere per sé le priorità, non accettando imposizioni da chi pretende, pensando di far del bene, di essere nel giusto. Le illusioni si chiamano paternalismo, patriarcato, dominio. Evitiamo di costruire una comunità a immagine del maschio, con i narcisismi, le proiezioni e le paure degli uomini, e poi di stupircene quando veniamo respinte da quel sistema che abbiamo continuato a nutrire anche con la sola presenza. Cosa ci aspettavamo? E non credo di ingrandire le situazioni ritenute minime: l’età mi fa sentire da lontano l’odore di prevaricazione. Nelle scelte che riguardano il corpo delle donne non vogliamo essere sostituite e comandate da un ordine superiore, con lo sguardo che si riserva alle cose fragili. Modifichiamo le categorizzazioni restrittive che ci consigliano come deve essere una buona madre, una moglie invidiabile, una dipendente riconoscente, sempre, con un atteggiamento ideologico che nega il godimento.

Prendersi cura di sé, per prima, significa superare il dualismo egoista/altruista perché in alcune situazioni è bello essere così intime con se stesse da dimenticarcene. Evitiamo di trascorrere la vita a dimostrarci quanto siamo pronte e quanto ci amiamo, sapendo che in alcuni periodi non ci riconosciamo e non ci amiamo affatto. L’invito è ad allontanare il modello di perfezione femminile, comodo al vecchio sistema. Così vorrebbero i maschi, che fossimo sempre a modino, calme e sorridenti, un po’ socievoli e nervose, solo un po’. Riconosciamo le forme arcaiche di dominio e i sistemi sociali che hanno scarso valore perché fondati sull’esclusione o su una, più sofisticata, difficile inclusione. Talvolta, sentirci senza energie è la misura dell’impegno profuso e il sacrificio segnala l’intimità e la scelta dolorante in una relazione personale o professionale. La vittima sacrificale è un’altra cosa e prende forma proprio nella ricerca affannosa di assomigliare ad un modello, di seguire un protocollo pur di venire apprezzate.

Custodiamo il mito – irrisolto e vedremo se irrisolvibile – dell’uomo capo, marito e padre e diciamo di non riuscire a rimanere da sole. Così, rincorriamo le relazioni parassitarie e infelici, nutrendo l’apparato che le crea e le legittima. Se, invece, a morire, finalmente, fosse l’idea patriarcale di vita e di società, il richiamo e il compiacimento del maschio? Ridurci alle richieste dell’altro, ridurci a compiacere l’altro, significa riconoscerci in una identità offerta non dalla relazione che, al contrario, va costruendosi assieme, ma unicamente dalla convinzione dell’altro rispetto a noi. Continuiamo a fare poco o nulla, in tutti i campi, non dico per sovvertire l’ordine del vecchio feudatario ma, almeno, per offrirgli la possibilità di riflessioni non in linea, fuori-tema, decidendo di rompere la tradizione femminile ossequiosa con azioni e parole dette o scritte. Le parole usate per dire di noi diventano programmi psicologici, sociali e politici. La libertà è la costruzione di un’interiorità autonoma e segna il lavoro di consulenza psicologica con me. All’inizio, la solitudine è il luogo e il tempo dove smettiamo il consenso e l’esaurimento. La cura del movimento, la manutenzione del corpo, come vogliamo, segnala la liberazione dai vecchi usi e costumi, l’emancipazione rispetto al passato.

Gli uomini si alleano e si distribuiscono i poteri che contano, riconfermando i monopoli sulle scelte di vita sociali. La percezione del pericolo di simbiosi deve farsi costume, evitando pose da superdonne. In fondo, la libertà è la ricerca verso la libertà. La cultura, la politica non sono solo quelle istituzionali. I cammini di autonomia, le alleanze che migliorano il quotidiano, gli incontri per saperne di più o anche solo per strutturare il tempo, le nuove forme di lavoro sono già politiche e culture. Le donne hanno una concezione consapevole del lavoro, del welfare e della famiglia e sanno elaborare un proprio pensiero sull’attività, sulla produzione, sull’accudimento. Non vogliamo spendere il meno possibile, semmai, apprendiamo a prenderci cura della salute attraverso il colore di un rossetto, il tessuto del pigiama, la pelle della scarpa. È una nuova visione dell’acquisto come investimento per il benessere oltre le mode, a servizio, davvero, senza peccato, della moda.

Tenere al prossimo non significa non prendersi cura di sé. Al contrario, se ci importa delle relazioni comunitarie, è distraendoci dall’io che lo sveliamo e lo risolviamo. Non sempre è vincente mettersi al primo posto. Dipende dal contesto, dalle ragioni, dai desideri. La qualità della vita delle donne richiede anche l’accoglienza dei momenti di abbandono e di nervosismo. L’episodio ansioso, il sentimento di frustrazione, la somatizzazione esprimono l’umanità, la possibilità di non essere sempre all’altezza delle situazioni. Passare la vita a stabilire le priorità e a mettere in scala le persone o le azioni lavorative è un altro modo per pretendere di tenere tutto sotto controllo. Ci sono relazioni importanti, anche quella con se stesse, che in certi giorni trascuriamo. Il benessere consiste nel riconoscere l’esclusione, la mancanza, l’imperfezione, il fuori-testa. In alcuni periodi, reputiamo prioritaria l’attenzione ai figli, in altri, l’interesse per l’abitazione, in altri ancora, decidiamo che prevalga l’impegno di coppia o la concentrazione per il lavoro. Ogni situazione è un momento di sé, tenendo a cuore tutto. Valutiamo di volta in volta ciò che richiede prontezza e costanza, senza che lo sforzo di non affaticarci e di apparire sempre forti e perfette diventi la vera fatica.

Le parole di  James Oppenheim nel 1912:

Mentre marciamo e marciamo nella bellezza del giorno, un milione di cucine annerite, mille lucernari di fabbriche grigie, sono inondate da tutto il fulgore che un sole improvviso dischiude, per chi ci ascolta cantiamo: “Pane e rose! Pane e rose!” Mentre marciamo e marciamo, noi ci battiamo anche per gli uomini, perché sono figli di donna, e noi le loro madri. Le nostre esistenze non saranno sfruttamento dalla nascita sino alla tomba. I cuori patiscono la fame come i corpi, dateci il pane, ma dateci anche le rose! Mentre marciamo e marciamo, innumerevoli donne morte, piangono, attraverso il nostro canto, il loro antico lamento per il pane. Il loro spirito stremato conobbe poca arte, poca bellezza e poco amore. Si, è per il pane che combattiamo, ma noi combattiamo anche per le rose! Mentre marciamo e marciamo, noi portiamo giorni grandiosi. La riscossa delle donne significa la riscossa dell’umanità. Non più chi si massacra di lavoro e chi ozia, i tanti che soccombono alla fatica e i pochi che riposano, ma la condivisione delle glorie della vita: pane e rose! Pane e rose!

 

Berlinde De Bruyckere,Hanne

Posture psicologiche

Berlinde De Bruyckere,Hanne

Berlinde De Bruyckere, Hanne, 2002

 

Rientro nelle aziende e in punta di piedi rientro nella vita lavorativa e sociale delle persone e mi ritrovo in situazioni imbarazzanti per cui, inizialmente, rinuncio all’idea che la mia testimonianza professionale possa essere recepita. È significativa per me, ma ho difficoltà a trasmettere e a creare relazioni sane senza il contributo del mio interlocutore. Mi riduco spesso al silenzio, considerando il ritiro come la penultima possibilità di sentirmi libera. Ritorno, infine, alla libertà di parola, rivendicandola come un ultimo atto pedagogico e doloroso. Se faccio riferimento al mondo del riconoscimento pubblico, le proposte che dichiaro per la seconda o terza volta annoiano. Invece, in una prospettiva di comprensione e di cambiamento, ritornare con diverse riflessioni sulle identiche problematiche relazionali aziendali è utile a ricordare, a rivalutare, a sedimentare per la crescita della comunità.

Nelle conversazioni ritrovo una visione tolemaica delle risorse umane che pretende al centro la produzione e i ricavi: noi ce la faremo, ricominceremo, non ci fermeremo, siamo i migliori, sconfiggeremo tutti. Sono basita, trasecolata, avvilita quando ritrovo i maschi delle teorie produttivistiche in caduta di stile verbale e gestuale. La violenza patriarcale – anche patriarcale femminile – come la violenza razzista sono elementi strutturali su cui si fondano le disuguaglianze. Razza e genere non sono dati biologici e rappresentano la storia dell’appropriazione e del dominio di pochi su molti. Non è una banalità pensare che i cattivi siano davvero tanto infelici. La conoscenza, l’istruzione, lo studio continuativo sono l’inizio di un cambiamento culturale che non si può perseguire da soli.

La guida psicologica serve per dare un nome ai sentimenti sgradevoli, per segnare il passo, per indicare le visioni differenti, per analizzare il copione personale e i giochi psicologici più frequenti. C’è una dignità del ruolo da strutturare, c’è una postura psicologica diritta da assumere. Il corpo che riapprende l’arte del camminare ha bisogno di essere seguito da una fisioterapista che ne guidi la giusta postura. Così alleniamo la capacità di pensare con il confronto, nel conflitto, in una relazione a servizio. Con le cattive posture psicologiche non è il momento di essere arrendevoli. Intendo la postura come la posizione di un essere umano intero in uno spazio e in un tempo e chiarisco che la spazialità, l’antigravità e l’equilibrio sono concetti sia fisici e sia psicologici.

Diventiamo lavoratori e lavoratrici responsabili risolvendo le categorie mentali che ci obbligano a rimanere in balìa di sottoculture obsolescenti. Le liti capricciose possono ritrovare la dignità di reali conflitti con un’opera formativa personale e/o in gruppo. Lontano da impostazioni accademiche, ribadisco che ricominciare dalla coscienza di sé è l’unico modo adeguato per intravedere qualunque forma di rinascita personale e professionale. Sotto forma di stress cronico sono più evidenti le forme di violenza strutturale. L’intensità delle emozioni dipende dalla percezione che ognuno manifesta rispetto alla realtà. La bulimia di informazioni, il cortocircuito che si crea fra i bisogni e le frustrazioni, il sovraccarico causato dallo smart working, l’impossibilità di diversificare le attività della giornata con i passatempi e gli hobby attivi e all’aria aperta, hanno favorito l’intolleranza, l’impazienza, l’inquietudine.

Per chiarezza, in inglese è working from home o remore working; smart working è un’espressione ricorrente nelle notizie sulle misure per contrastare la diffusione del virus ed è usata genericamente per identificare l’opzione di lavorare da casa ricorrendo a strumenti informatici.

Rivalutiamo l’importanza di capire le cause; la causalità deve essere il codice stesso del sistema. Se agiamo per orientare l’organizzazione a cambiare, la rilevazione dello stress cambierà. Mentre, se agiamo per cambiare la rilevazione dello stress, l’organizzazione non cambia. Intervenendo sulla causa si può modificare l’effetto, ma qualsiasi intervento sull’effetto non modificherà la causa. Ogni problematica che riguarda la salute psicofisica dei lavoratori non può essere risolta meccanicamente. Allontano qualunque automatismo perché è negli automatismi che si smette di essere e di riconoscere le persone.

I programmi formativi sul benessere emotivo e sulla gestione dello stress sono attività di prevenzione che intervengono sulla diffidenza come stile di relazione difficile da invertire. L’adattamento posturale e l’atteggiamento mentale vanno di pari passo. Assumere una postura psicologica significa lavorare sullo sguardo e sull’ascolto di sé per prima, sul governo dei sentimenti e sulle azioni che ne conseguono. In una vita lavorativa pensata e disciplinata sparisce la voce dominante a favore di un discorso corale, di una contrattazione che non finisce perché non finiscono le possibili prospettive e risoluzioni.

La postura psicologica da imprenditore, da manager, da visionario non si improvvisa. Per i responsabili, ripartire da sé e affinare il discernimento e il pensiero critico è pratica necessaria, utilizzando i prossimi mesi estivi. I colloqui di consulenza psicologica funzionano anche attraverso il video. In questi mesi di lavoro da casa abbiamo verificato ancor più che sono le persone a fare la differenza e che, attraverso lo schermo, la professionalità può custodire e può garantire l’intuizione, l’intimità e la relazione decontaminata.

Anche l’aspetto mondano dell’immagine aziendale deve essere supportata da una solida personalità, del responsabile e dell’organizzazione, e non prevede il mettersi in posa per dimostrare di essere performativi. Spesso la gestione mediatica, eccellente strumento di comunicazione, diviene gravemente dilettantesca. Così, la traduzione dall’inglese di photo-opportunity richiama l’opportunismo e la strumentalizzazione, sintomi sociali che, in una lettura psicologica, ritroviamo nella sindrome narcisistica. Il mood della presenzialità perenne diviene patologia.

Nessuno è contro i titolari o contro il socio perché la posizione contro, in qualche modo, significa rimanere sempre invischiati proprio nella situazione a cui vogliamo opporci. Certo, la consulenza aziendale e la formazione che ne deriva non possono permettersi di rimanere neutrali o comodamente equidistanti da tutte le posizioni assunte dal capitalismo. Significa che non sono la psicologa per tutti. Mi impegno a seguire un’azienda se io e il cliente ci riconosciamo, scegliendo una strada di visione comune da perseguire, credendo in uno stile di lavoro flessibile e conciliante, generoso e disciplinato, di giustizia sociale e di convivenza pacifica. Ci interessa il dentro e il fuori: il benessere interiore, perché non sia un baro, deve corrispondere a quello comunitario, non più basato sulla prestazione e sulla concorrenza, ma sulla cura, a partire da sé. Mi riferisco ai modelli di ruolo fondamentali: possiamo uscire dal trauma collettivo ad uno ad una con il lavoro personale e tutti assieme con il lavoro di comunità. Chiunque, iniziando una relazione con me, si assume il carico di una responsabilità, in percentuale diversa a seconda della situazione.

In azienda, forse ingenuamente, ma con determinazione, a favore del Governo Umano delle Risorse, chiedo di venire a contatto con il senso sano della colpa. Soprattutto vale per chi sotto il suo nome ha scritto, per esempio, founder oppure direttore generale oppure marketing manager. Chi sceglie e viene retribuito per ricoprire ruoli di responsabilità, deve riconoscere l’errore di mortificare e corrodere le relazioni con i dipendenti interni ed esterni, con la sua famiglia e con se stesso. Malati, sì, ma nella sottocultura che considera i dipendenti e, in generale, gli esseri umani, una spesa, un ostacolo al successo vero, quando li vorrebbe adattati, grati e sottomessi.

In percentuale, le donne che incontro sono più concentrate ad accudire e a soccorrere che a vantarsene di farlo, non hanno la smania di protagonismo, la maggior parte vuole lavorare e aiutare. Invece, è più frequente che il monopolio maschile del potere e delle posizioni organizzative e dirigenziali si autoproduca, generando all’infinito un se stesso identico. Il lavoro della scuola di educazione Alla persona non cerca rivelazioni su di sé o sul mondo, propone una relazione da avviare con se stessi e con gli altri per riconoscerne i confini e le prospettive, per capire con godimento e non per rivincita. Attraverso gli incontri formativi, in presenza oppure online, propongo una filosofia dell’educazione umana che ha in testa un progetto di giustizia sociale e che non si accontenta di reclamare diritti solo per se stessi, ma anche per tutte le altre minoranze.

È importante che i lavoratori e le lavoratrici acquisiscano, in tutti i ruoli, nuove mentalità e un nuovo senso del lavoro per operare senza dolore e senza ansie. Curare la cultura che sostiene l’opera quotidiana non prevede obiettivi da raggiungere in un tempo determinato, ma segnala un orientamento da acquisire per continuare a svolgere il proprio dovere, oltre le interazioni simbiotiche, lì dove siamo chiamati a svolgerlo.

Condivido un brano significativo, da Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino che, probabilmente, in Kim si proiettava:

“Kim è studente, invece: ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s’affolla a ogni istante d’interrogativi irrisolti. C’è un enorme interesse per il genere umano, in lui: per questo studia medicina, perché sa che la spiegazione di tutto è in quella macina di cellule in moto, non nelle categorie della filosofia. Il medico dei cervelli, sarà: uno psichiatra: non è simpatico agli uomini perché li guarda sempre fissi negli occhi come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri e a un tratto esce con domande a bruciapelo, domande che non c’entrano niente, su di loro, sulla loro infanzia. Poi, dietro agli uomini, la grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza lasciare traccia: la storia. Tutto deve esser logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l’una e l’altra resta un salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti. E il commissario Kim gira ogni giorno per i distaccamenti con lo smilzo sten appeso a una spalla, discute coi commissari, coi comandanti, studia gli uomini, analizza le posizioni dell’uno e dell’altro, scompone ogni problema in elementi distinti, «a, bi, ci», dice; tutto chiaro, tutto chiaro dev’essere negli altri come in lui.” pp.94-95

“Domani sarà una grande battaglia. Kim è sereno. «A, bi, ci», dirà.  Continua a pensare: ti amo, Adriana. Questo, nient’altro che questo, è la storia.” p.106

 

 

 

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Angeli ribelli, a ricominciare

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Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta degli angeli ribelli, 1562, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique des Beaux-Arts de Belgique
 
 
 
Ho ascoltato e accolto i pensieri malati, miei e degli altri, frutto della quarantena, attraverso volti abbarbicati dietro stoffe e fatture improbabili. Auguro a chi ricopre ruoli di responsabilità di iniziare o di continuare il lavoro strutturale e di prospettiva. La psicologia non è una disciplina “sentimentale” e, nell’organizzazione, indaga i motivi profondi dei malesseri, legati alla mentalità. C’è un sistema radicato che lascia indietro le persone. Il cambiamento della salute mentale e culturale è un processo complesso e se a qualcuno appare facile e scontato, sarà ancora più difficile da raggiungere e da cristallizzare. Serviranno l’esperienza e la razionalità per ricostruire il sistema senza finzioni.
La formazione permanente non prevede solo interventi sullo stress a causa delle mansioni lavorative, degli aspetti organizzativi e amministrativi. La scuola di educazione Alla persona amplia la prospettiva e interroga le ragioni e le pratiche quotidiane. Dopo aver amministrato – o provato ad amministrare l’emergenza – può essere che i bisogni sociali non sempre coincidano con i bisogni produttivi. Non servono persone eccezionali, ma uomini e donne differenti che con tempestività e intelligenza decidano: tutelare e proteggere non vuol dire rinchiudere ed escludere.
 
Gli arrampicatori di professione e gli influencer plastificati fanno credere che basti qualche chiacchiera, magari tutti connessi. E mi sono mortificata dinanzi all’autocelebrazione di alcuni, favorita dai social network. Ho guardato filmini di personaggi orgogliosi di meriti inesistenti e di scelte di cui davvero non c’è da menare vanto. Quando manca un autentico interesse alla relazione slegata dal guadagno, l’orgoglio di appartenenza ad un marchio è percepito da chi guarda come un peccato di superiorità, come superbia e presunzione.
 
Durante questi mesi, ho ascoltato l’abuso di aggettivi come meraviglioso, fantastico, bellissimo che hanno fatto perdere, oltre alla pazienza, la profondità del significato. Ho visto esseri umani ansiosi, sempre connessi, con la paura del fallimento, a dare addosso agli altri, per esempio, per la mancata internazionalizzazione. Rifletto sul lato oscuro e insipiente dei social, sul bla bla a rischio fake ostentato e offensivo, sui toni da alleluia sguaiati, sui sorrisi che si autocompiacciono. Cosa mai, stolti, abbiamo da sorridere e da congratularci, da manifestare ottimismo e pollici alzati, da soli, dinanzi a una telecamera?! Connessi col mondo intero senza riuscire a coltivare un rapporto diretto, costante e affidabile con i/le dipendenti. Voglio ascoltare una voce autorevole e non il gracchiare insolente che dà l’impressione di fare tutto perché il proprio piccolo mondo antico e dispotico non cambi. Non paga fare i simpatici a tutti i costi.
 
Sarà meglio mantenere un profilo basso, di competenza. Sarà adeguato agire tenendo conto degli altri, della dignità del lavoro, degli spazi e dei tempi. Decideremo fatti e azioni che combaciano con le visioni e con la tradizione come con la memoria che ha un peso.
 
Mostreremo di sentire la crisi e ci preoccuperemo di un nuovo assetto sociale in cui se il cliente non si fida dell’interlocutore non si fida del prodotto. Deve essere chiaro che l’altro non è un mezzo per produrre profitto. Sarà importante puntare su una diversa idea di sé evitando gli atteggiamenti guerreschi e muscolari e scegliendo di essere miti, sobri e intimi. Sarà bella la gestualità matura e patita, non farfugliata, minima e profonda, lenta e convinta, autentica.
 
Diventiamo professionisti scegliendo il processo faticoso della trasformazione e sapendo che leggere e documentarci non hanno uno scopo immediato. È pratica utile riconoscere il dolore, la rabbia, il timore di non farcela che il nostro corpo, innanzitutto, segnala. E parlarne, fra prossimi, a distanza. Apprendiamo ad avere paura per non fare paura a chi, purtroppo, dipende anche da noi.
 
Le strategie comunicative devono corrispondere ad una sostanza che richiami una coscienza di comunità, una esigenza profonda di giustizia sociale. Non si tratta di persuadere un pubblico a comprare o di arraffare quanti più clienti è possibile. Le persone riconoscono la serietà aziendale e ancora una volta varranno i volti e le esperienze di credibilità. Saremo capaci di inviare messaggi diversi ai clienti interni ed esterni? Ci prenderemo a cuore le problematiche dell’inquinamento, del logoramento umano e della dispersione economica? Saremo capaci di produrre le idee, gli oggetti, gli stili e i servizi che valga la pena di tramandare?
 
Alla ripresa, è probabile che i lavoratori e le lavoratrici, in ogni ruolo, manifestino rancore, sfida e frustrazione. Accoglieremo le eventuali rivendicazioni come un momento necessario di passaggio, una fase di controdipendenza, verso una relazione sana. Molti ricominceranno a muoversi: auguro che il viaggio sia pensato e ponderato. Ricordo quelli che viaggiavano frettolosamente da una parte all’altra del mondo senza combinare nulla, senza riflettere sul viaggio vero da compiere con la ricerca e con la riflessione. Il viaggio è nella testa, se no inquina e basta.
 
Auguro la saggezza di ricominciare da sé prima che dal denaro, dalle persone prima che dai protocolli, dalla psicologia prima che dalla tecnologia. Questa volta soltanto. E prometto che basterà per molto tempo.
 
Trasmetto qualche pensiero di un autorevole maestro che, stavolta, per caso e gratuitamente, ho ritrovato sulla mia bacheca.
 
Albert Camus, Esortazione ai medici della peste, Bompiani, 2020
 
La peste proviene dall’eccesso. È essa stessa eccesso, e non è in grado di contenersi. Sappiatelo, se volete combatterla da uomini consapevoli… Il flagello ama i recessi oscuri. Portatevi la luce dell’intelligenza e dell’equità… Infine dovete diventare padroni di voi stessi… Forti di tali rimedi e di tali virtù, non dovrete poi fare altro che respingere la stanchezza e conservare viva l’immaginazione. (p.12-13)
 
E continuate a rivoltarvi contro la terribile confusione in cui coloro che negano le cure agli altri muoiono nella solitudine mentre coloro che si prodigano muoiono ammucchiati gli uni sugli altri; in cui il piacere non ha più la propria sanzione naturale né il merito il proprio ordine; in cui si danza sull’orlo delle tombe; in cui l’amante respinge la compagna per non trasmetterle il morbo; in cui il peso del crimine non è mai sulle spalle del criminale, ma su quelle dell’animale espiatorio scelto nello smarrimento di un istante di terrore. Un animo in pace è il più saldo. Siate saldi di fronte a questa strana tirannia. (p.14-15)
 
Verrà il giorno in cui vorrete gridare il vostro orrore di fronte alla paura e al dolore di tutti. Quel giorno non avrò più rimedi da consigliarvi, se non la compassione che è la sorella dell’ignoranza. (p.16)