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Torno Subito

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Ero uscita dalla sala operatoria: Qual è il funerale che vorresti? Abbozzo un sorriso – che tempismo! – ricordando la telefonata di Chiara Cannito. Qualche giorno prima, spaventata, avevo lasciato volontà testamentarie per i miei libri. Al funerale no, non avevo pensato. Dopo un anno di salute ristabilita e di paradossali interazioni amicali, la proposta della casa editrice Argentodorato e la possibilità offerta dall’autrice alle persone scriventi si è rivelata come un momento di autenticità e di autocoscienza.

Con ironia, immagino che ogni cliente della giovane agenzia di pompe funebri Lamorte & Figli inizia con il volersi liberare di un problema e capisce, invece, di rinascere, persistendo nei territori incontaminati delle conclusioni, dei perimetri ultimi. Il vissuto del proprio funerale è un momento essenziale in ogni età della vita, perché in fondo la fantasia racconta con trasparenza chi siamo e come, adesso, stiamo vivendo. È commovente leggere come i personaggi del romanzo prevedono gente, relazioni, scambi, promesse, abbondanti commiati, ricchi anche di calorie. È un romanzo di intrattenimento serio, propone una tecnica socioculturale, è creatore di un’alternativa fantastica alla felicità tradizionale: allontanare la morte, intristisce e indebolisce; invece, includerla e organizzarla rende felici di essere ancora vivi. Poi, nella realtà, il funerale sarà diverso e dipenderà da altre situazioni. Intanto, la richiesta personale, in previsione della propria morte, apre prospettive, disegna orizzonti intelligenti, socievoli e rivela il fine dell’esistenza: «Capire… capire cosa devo aspettarmi».

Le storie narrate vincono il primo premio al Concorso letterario “Argentodorato” e intraprendono un cammino di letture, di confidenze e di altre scritture ̶ perché no? Ci piace che ogni persona legga dieci volte, cento volte di più per ogni pagina che ha in cuore di scrivere. E nell’ultimo capitolo facciamo l’esperienza di conforto e di speranza, di gioia e di riflessione. Hanno vinto i lettori e le lettrici, ha vinto la casa editrice, ha vinto Chiara, la sua convinzione di comunità complice, le sue relazioni di riferimento. Tutti confessiamo di essere vivi, con la timidezza mal celata di mettere in scena il funerale. Il senso è riconoscere che gli altri e le altre esistono e contano, per un’alleanza che inaugura scenari interculturali.

Il marketing d’impresa in questo romanzo è una cosa seria e funziona perché Torno Subito prende posizione sociale, politica e sintattica. Tutta l’umanità che gira intorno all’agenzia di pompe funebri ha scelto la curiositas e la studiositas con lo spirito di modestia, con l’atteggiamento discreto di chi si impegna a capire e a considerare il prossimo e, solo come conseguenza, osa la fantasia e il divertere, l’esagerazione e il primo piano. In un tempo di riprese e di ricadute, di contraddizioni e di determinazione, abbiamo bisogno di questa lettura, formativa, sì, perché guida ad un percorso di indagine interiore e personalissimo, intorno alla vanità e all’arroganza, alla paura e alla tentazione, all’inganno e all’incanto dell’esperienza esistenziale.

E tu qual è il funerale che vorresti?

Nella vecchia Cina molti tenevano in casa le loro bare per ricordarsi della propria mortalità; alcuni ci si mettevano dentro quando dovevano prendere decisioni importanti, come per avere una migliore prospettiva sulla transitorietà del tutto.

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004, p.15

The Art Class, 1979

Ancora: vogliamo il pane e le rose

The Art Class, 1979

Beryl Cook, The Art Class, 1979

Noi vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose. Vogliamo tutte le cose belle, tutte le cose belle della vita. Rose Schneiderman, 1912

Mi piacciono le figure ampie di Beryl Cook, sgargianti ed estroverse, ironiche e irriverenti, in movimento rispetto alle abbondanti corporeità statiche e un po’ avvilite dell’amato Botero. Ricordo i racconti rimasti nell’aria del mio studio, quando le donne se ne vanno e penso che la bellezza della vita è nella contraddizione, negli stati diversi di salute, nelle interruzioni e nell’eccedenza.

Da più di vent’anni anni ho scelto capelli cortissimi, sale e pepe. Pago a caro prezzo la cultura patriarcale che promuove la separazione del corpo pericolosamente desiderante, a corrompere la mente superiore e, talvolta, distratta, la riconfermo. Non ho mai frequentato le palestre, raramente i centri benessere. Mi lavo e vaporizzo il profumo e tanto basta. Partendo dalla mia condizione, sono l’ultima donna che ha risentito della mancanza di estetiste e di parrucchiere durante la chiusura. Avverto, però, un’indignazione profonda dinanzi agli uomini che sottilmente provano ad imporre, a me e alle altre, la scala dei valori, la lista dei desideri, assumendo un tono di voce e di parole giudicanti rispetto alla scelta di preferire le rose al pane, avendo due soldi in tasca. In questo periodo di riaperture con difese, è bene informarci sul grado di sicurezza in cui si svolgono le varie attività commerciali, estetiche e sportive, senza assumere la velenosa morale sulle donne piacenti e sensuali, mai logiche e razionali.

Voglio dire che sono pronta a difendere la libertà delle donne attente a trucco e parrucco, perchè la superficie rivela la convinzione e la sostanza. Abbiamo riaperto le attività con grinta, ma con la stessa testa di maschi e di maschie, con le stesse leggi del padre, con la mentalità bizzoca e patriarcale. Non è polemica, è che i maschi e le donne dentro il sistema proprio non guariscono, non si ascoltano e non si rendono conto di mettere in atto dinamiche relazionali di supponenza e di manipolazione, rimanendo, sistematicamente, sotto le macerie. I modelli che crediamo naturali di virilità e di femminilità sono alienanti, i ruoli e le identità sono costruzioni sociali e culturali e, di conseguenza, sono modificabili. Una di noi suggerisce, dal pensiero di Einstein, di non pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. In un’esistenza quotidiana già complessa, ogni donna continui a scegliere per sé le priorità, non accettando imposizioni da chi pretende, pensando di far del bene, di essere nel giusto. Le illusioni si chiamano paternalismo, patriarcato, dominio. Evitiamo di costruire una comunità a immagine del maschio, con i narcisismi, le proiezioni e le paure degli uomini, e poi di stupircene quando veniamo respinte da quel sistema che abbiamo continuato a nutrire anche con la sola presenza. Cosa ci aspettavamo? E non credo di ingrandire le situazioni ritenute minime: l’età mi fa sentire da lontano l’odore di prevaricazione. Nelle scelte che riguardano il corpo delle donne non vogliamo essere sostituite e comandate da un ordine superiore, con lo sguardo che si riserva alle cose fragili. Modifichiamo le categorizzazioni restrittive che ci consigliano come deve essere una buona madre, una moglie invidiabile, una dipendente riconoscente, sempre, con un atteggiamento ideologico che nega il godimento.

Prendersi cura di sé, per prima, significa superare il dualismo egoista/altruista perché in alcune situazioni è bello essere così intime con se stesse da dimenticarcene. Evitiamo di trascorrere la vita a dimostrarci quanto siamo pronte e quanto ci amiamo, sapendo che in alcuni periodi non ci riconosciamo e non ci amiamo affatto. L’invito è ad allontanare il modello di perfezione femminile, comodo al vecchio sistema. Così vorrebbero i maschi, che fossimo sempre a modino, calme e sorridenti, un po’ socievoli e nervose, solo un po’. Riconosciamo le forme arcaiche di dominio e i sistemi sociali che hanno scarso valore perché fondati sull’esclusione o su una, più sofisticata, difficile inclusione. Talvolta, sentirci senza energie è la misura dell’impegno profuso e il sacrificio segnala l’intimità e la scelta dolorante in una relazione personale o professionale. La vittima sacrificale è un’altra cosa e prende forma proprio nella ricerca affannosa di assomigliare ad un modello, di seguire un protocollo pur di venire apprezzate.

Custodiamo il mito – irrisolto e vedremo se irrisolvibile – dell’uomo capo, marito e padre e diciamo di non riuscire a rimanere da sole. Così, rincorriamo le relazioni parassitarie e infelici, nutrendo l’apparato che le crea e le legittima. Se, invece, a morire, finalmente, fosse l’idea patriarcale di vita e di società, il richiamo e il compiacimento del maschio? Ridurci alle richieste dell’altro, ridurci a compiacere l’altro, significa riconoscerci in una identità offerta non dalla relazione che, al contrario, va costruendosi assieme, ma unicamente dalla convinzione dell’altro rispetto a noi. Continuiamo a fare poco o nulla, in tutti i campi, non dico per sovvertire l’ordine del vecchio feudatario ma, almeno, per offrirgli la possibilità di riflessioni non in linea, fuori-tema, decidendo di rompere la tradizione femminile ossequiosa con azioni e parole dette o scritte. Le parole usate per dire di noi diventano programmi psicologici, sociali e politici. La libertà è la costruzione di un’interiorità autonoma e segna il lavoro di consulenza psicologica con me. All’inizio, la solitudine è il luogo e il tempo dove smettiamo il consenso e l’esaurimento. La cura del movimento, la manutenzione del corpo, come vogliamo, segnala la liberazione dai vecchi usi e costumi, l’emancipazione rispetto al passato.

Gli uomini si alleano e si distribuiscono i poteri che contano, riconfermando i monopoli sulle scelte di vita sociali. La percezione del pericolo di simbiosi deve farsi costume, evitando pose da superdonne. In fondo, la libertà è la ricerca verso la libertà. La cultura, la politica non sono solo quelle istituzionali. I cammini di autonomia, le alleanze che migliorano il quotidiano, gli incontri per saperne di più o anche solo per strutturare il tempo, le nuove forme di lavoro sono già politiche e culture. Le donne hanno una concezione consapevole del lavoro, del welfare e della famiglia e sanno elaborare un proprio pensiero sull’attività, sulla produzione, sull’accudimento. Non vogliamo spendere il meno possibile, semmai, apprendiamo a prenderci cura della salute attraverso il colore di un rossetto, il tessuto del pigiama, la pelle della scarpa. È una nuova visione dell’acquisto come investimento per il benessere oltre le mode, a servizio, davvero, senza peccato, della moda.

Tenere al prossimo non significa non prendersi cura di sé. Al contrario, se ci importa delle relazioni comunitarie, è distraendoci dall’io che lo sveliamo e lo risolviamo. Non sempre è vincente mettersi al primo posto. Dipende dal contesto, dalle ragioni, dai desideri. La qualità della vita delle donne richiede anche l’accoglienza dei momenti di abbandono e di nervosismo. L’episodio ansioso, il sentimento di frustrazione, la somatizzazione esprimono l’umanità, la possibilità di non essere sempre all’altezza delle situazioni. Passare la vita a stabilire le priorità e a mettere in scala le persone o le azioni lavorative è un altro modo per pretendere di tenere tutto sotto controllo. Ci sono relazioni importanti, anche quella con se stesse, che in certi giorni trascuriamo. Il benessere consiste nel riconoscere l’esclusione, la mancanza, l’imperfezione, il fuori-testa. In alcuni periodi, reputiamo prioritaria l’attenzione ai figli, in altri, l’interesse per l’abitazione, in altri ancora, decidiamo che prevalga l’impegno di coppia o la concentrazione per il lavoro. Ogni situazione è un momento di sé, tenendo a cuore tutto. Valutiamo di volta in volta ciò che richiede prontezza e costanza, senza che lo sforzo di non affaticarci e di apparire sempre forti e perfette diventi la vera fatica.

Le parole di  James Oppenheim nel 1912:

Mentre marciamo e marciamo nella bellezza del giorno, un milione di cucine annerite, mille lucernari di fabbriche grigie, sono inondate da tutto il fulgore che un sole improvviso dischiude, per chi ci ascolta cantiamo: “Pane e rose! Pane e rose!” Mentre marciamo e marciamo, noi ci battiamo anche per gli uomini, perché sono figli di donna, e noi le loro madri. Le nostre esistenze non saranno sfruttamento dalla nascita sino alla tomba. I cuori patiscono la fame come i corpi, dateci il pane, ma dateci anche le rose! Mentre marciamo e marciamo, innumerevoli donne morte, piangono, attraverso il nostro canto, il loro antico lamento per il pane. Il loro spirito stremato conobbe poca arte, poca bellezza e poco amore. Si, è per il pane che combattiamo, ma noi combattiamo anche per le rose! Mentre marciamo e marciamo, noi portiamo giorni grandiosi. La riscossa delle donne significa la riscossa dell’umanità. Non più chi si massacra di lavoro e chi ozia, i tanti che soccombono alla fatica e i pochi che riposano, ma la condivisione delle glorie della vita: pane e rose! Pane e rose!

 

Berlinde De Bruyckere,Hanne

Posture psicologiche

Berlinde De Bruyckere,Hanne

Berlinde De Bruyckere, Hanne, 2002

 

Rientro nelle aziende e in punta di piedi rientro nella vita lavorativa e sociale delle persone e mi ritrovo in situazioni imbarazzanti per cui, inizialmente, rinuncio all’idea che la mia testimonianza professionale possa essere recepita. È significativa per me, ma ho difficoltà a trasmettere e a creare relazioni sane senza il contributo del mio interlocutore. Mi riduco spesso al silenzio, considerando il ritiro come la penultima possibilità di sentirmi libera. Ritorno, infine, alla libertà di parola, rivendicandola come un ultimo atto pedagogico e doloroso. Se faccio riferimento al mondo del riconoscimento pubblico, le proposte che dichiaro per la seconda o terza volta annoiano. Invece, in una prospettiva di comprensione e di cambiamento, ritornare con diverse riflessioni sulle identiche problematiche relazionali aziendali è utile a ricordare, a rivalutare, a sedimentare per la crescita della comunità.

Nelle conversazioni ritrovo una visione tolemaica delle risorse umane che pretende al centro la produzione e i ricavi: noi ce la faremo, ricominceremo, non ci fermeremo, siamo i migliori, sconfiggeremo tutti. Sono basita, trasecolata, avvilita quando ritrovo i maschi delle teorie produttivistiche in caduta di stile verbale e gestuale. La violenza patriarcale – anche patriarcale femminile – come la violenza razzista sono elementi strutturali su cui si fondano le disuguaglianze. Razza e genere non sono dati biologici e rappresentano la storia dell’appropriazione e del dominio di pochi su molti. Non è una banalità pensare che i cattivi siano davvero tanto infelici. La conoscenza, l’istruzione, lo studio continuativo sono l’inizio di un cambiamento culturale che non si può perseguire da soli.

La guida psicologica serve per dare un nome ai sentimenti sgradevoli, per segnare il passo, per indicare le visioni differenti, per analizzare il copione personale e i giochi psicologici più frequenti. C’è una dignità del ruolo da strutturare, c’è una postura psicologica diritta da assumere. Il corpo che riapprende l’arte del camminare ha bisogno di essere seguito da una fisioterapista che ne guidi la giusta postura. Così alleniamo la capacità di pensare con il confronto, nel conflitto, in una relazione a servizio. Con le cattive posture psicologiche non è il momento di essere arrendevoli. Intendo la postura come la posizione di un essere umano intero in uno spazio e in un tempo e chiarisco che la spazialità, l’antigravità e l’equilibrio sono concetti sia fisici e sia psicologici.

Diventiamo lavoratori e lavoratrici responsabili risolvendo le categorie mentali che ci obbligano a rimanere in balìa di sottoculture obsolescenti. Le liti capricciose possono ritrovare la dignità di reali conflitti con un’opera formativa personale e/o in gruppo. Lontano da impostazioni accademiche, ribadisco che ricominciare dalla coscienza di sé è l’unico modo adeguato per intravedere qualunque forma di rinascita personale e professionale. Sotto forma di stress cronico sono più evidenti le forme di violenza strutturale. L’intensità delle emozioni dipende dalla percezione che ognuno manifesta rispetto alla realtà. La bulimia di informazioni, il cortocircuito che si crea fra i bisogni e le frustrazioni, il sovraccarico causato dallo smart working, l’impossibilità di diversificare le attività della giornata con i passatempi e gli hobby attivi e all’aria aperta, hanno favorito l’intolleranza, l’impazienza, l’inquietudine.

Per chiarezza, in inglese è working from home o remore working; smart working è un’espressione ricorrente nelle notizie sulle misure per contrastare la diffusione del virus ed è usata genericamente per identificare l’opzione di lavorare da casa ricorrendo a strumenti informatici.

Rivalutiamo l’importanza di capire le cause; la causalità deve essere il codice stesso del sistema. Se agiamo per orientare l’organizzazione a cambiare, la rilevazione dello stress cambierà. Mentre, se agiamo per cambiare la rilevazione dello stress, l’organizzazione non cambia. Intervenendo sulla causa si può modificare l’effetto, ma qualsiasi intervento sull’effetto non modificherà la causa. Ogni problematica che riguarda la salute psicofisica dei lavoratori non può essere risolta meccanicamente. Allontano qualunque automatismo perché è negli automatismi che si smette di essere e di riconoscere le persone.

I programmi formativi sul benessere emotivo e sulla gestione dello stress sono attività di prevenzione che intervengono sulla diffidenza come stile di relazione difficile da invertire. L’adattamento posturale e l’atteggiamento mentale vanno di pari passo. Assumere una postura psicologica significa lavorare sullo sguardo e sull’ascolto di sé per prima, sul governo dei sentimenti e sulle azioni che ne conseguono. In una vita lavorativa pensata e disciplinata sparisce la voce dominante a favore di un discorso corale, di una contrattazione che non finisce perché non finiscono le possibili prospettive e risoluzioni.

La postura psicologica da imprenditore, da manager, da visionario non si improvvisa. Per i responsabili, ripartire da sé e affinare il discernimento e il pensiero critico è pratica necessaria, utilizzando i prossimi mesi estivi. I colloqui di consulenza psicologica funzionano anche attraverso il video. In questi mesi di lavoro da casa abbiamo verificato ancor più che sono le persone a fare la differenza e che, attraverso lo schermo, la professionalità può custodire e può garantire l’intuizione, l’intimità e la relazione decontaminata.

Anche l’aspetto mondano dell’immagine aziendale deve essere supportata da una solida personalità, del responsabile e dell’organizzazione, e non prevede il mettersi in posa per dimostrare di essere performativi. Spesso la gestione mediatica, eccellente strumento di comunicazione, diviene gravemente dilettantesca. Così, la traduzione dall’inglese di photo-opportunity richiama l’opportunismo e la strumentalizzazione, sintomi sociali che, in una lettura psicologica, ritroviamo nella sindrome narcisistica. Il mood della presenzialità perenne diviene patologia.

Nessuno è contro i titolari o contro il socio perché la posizione contro, in qualche modo, significa rimanere sempre invischiati proprio nella situazione a cui vogliamo opporci. Certo, la consulenza aziendale e la formazione che ne deriva non possono permettersi di rimanere neutrali o comodamente equidistanti da tutte le posizioni assunte dal capitalismo. Significa che non sono la psicologa per tutti. Mi impegno a seguire un’azienda se io e il cliente ci riconosciamo, scegliendo una strada di visione comune da perseguire, credendo in uno stile di lavoro flessibile e conciliante, generoso e disciplinato, di giustizia sociale e di convivenza pacifica. Ci interessa il dentro e il fuori: il benessere interiore, perché non sia un baro, deve corrispondere a quello comunitario, non più basato sulla prestazione e sulla concorrenza, ma sulla cura, a partire da sé. Mi riferisco ai modelli di ruolo fondamentali: possiamo uscire dal trauma collettivo ad uno ad una con il lavoro personale e tutti assieme con il lavoro di comunità. Chiunque, iniziando una relazione con me, si assume il carico di una responsabilità, in percentuale diversa a seconda della situazione.

In azienda, forse ingenuamente, ma con determinazione, a favore del Governo Umano delle Risorse, chiedo di venire a contatto con il senso sano della colpa. Soprattutto vale per chi sotto il suo nome ha scritto, per esempio, founder oppure direttore generale oppure marketing manager. Chi sceglie e viene retribuito per ricoprire ruoli di responsabilità, deve riconoscere l’errore di mortificare e corrodere le relazioni con i dipendenti interni ed esterni, con la sua famiglia e con se stesso. Malati, sì, ma nella sottocultura che considera i dipendenti e, in generale, gli esseri umani, una spesa, un ostacolo al successo vero, quando li vorrebbe adattati, grati e sottomessi.

In percentuale, le donne che incontro sono più concentrate ad accudire e a soccorrere che a vantarsene di farlo, non hanno la smania di protagonismo, la maggior parte vuole lavorare e aiutare. Invece, è più frequente che il monopolio maschile del potere e delle posizioni organizzative e dirigenziali si autoproduca, generando all’infinito un se stesso identico. Il lavoro della scuola di educazione Alla persona non cerca rivelazioni su di sé o sul mondo, propone una relazione da avviare con se stessi e con gli altri per riconoscerne i confini e le prospettive, per capire con godimento e non per rivincita. Attraverso gli incontri formativi, in presenza oppure online, propongo una filosofia dell’educazione umana che ha in testa un progetto di giustizia sociale e che non si accontenta di reclamare diritti solo per se stessi, ma anche per tutte le altre minoranze.

È importante che i lavoratori e le lavoratrici acquisiscano, in tutti i ruoli, nuove mentalità e un nuovo senso del lavoro per operare senza dolore e senza ansie. Curare la cultura che sostiene l’opera quotidiana non prevede obiettivi da raggiungere in un tempo determinato, ma segnala un orientamento da acquisire per continuare a svolgere il proprio dovere, oltre le interazioni simbiotiche, lì dove siamo chiamati a svolgerlo.

Condivido un brano significativo, da Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino che, probabilmente, in Kim si proiettava:

“Kim è studente, invece: ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s’affolla a ogni istante d’interrogativi irrisolti. C’è un enorme interesse per il genere umano, in lui: per questo studia medicina, perché sa che la spiegazione di tutto è in quella macina di cellule in moto, non nelle categorie della filosofia. Il medico dei cervelli, sarà: uno psichiatra: non è simpatico agli uomini perché li guarda sempre fissi negli occhi come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri e a un tratto esce con domande a bruciapelo, domande che non c’entrano niente, su di loro, sulla loro infanzia. Poi, dietro agli uomini, la grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza lasciare traccia: la storia. Tutto deve esser logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l’una e l’altra resta un salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti. E il commissario Kim gira ogni giorno per i distaccamenti con lo smilzo sten appeso a una spalla, discute coi commissari, coi comandanti, studia gli uomini, analizza le posizioni dell’uno e dell’altro, scompone ogni problema in elementi distinti, «a, bi, ci», dice; tutto chiaro, tutto chiaro dev’essere negli altri come in lui.” pp.94-95

“Domani sarà una grande battaglia. Kim è sereno. «A, bi, ci», dirà.  Continua a pensare: ti amo, Adriana. Questo, nient’altro che questo, è la storia.” p.106

 

 

 

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Angeli ribelli, a ricominciare

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Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta degli angeli ribelli, 1562, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique des Beaux-Arts de Belgique
 
 
 
Ho ascoltato e accolto i pensieri malati, miei e degli altri, frutto della quarantena, attraverso volti abbarbicati dietro stoffe e fatture improbabili. Auguro a chi ricopre ruoli di responsabilità di iniziare o di continuare il lavoro strutturale e di prospettiva. La psicologia non è una disciplina “sentimentale” e, nell’organizzazione, indaga i motivi profondi dei malesseri, legati alla mentalità. C’è un sistema radicato che lascia indietro le persone. Il cambiamento della salute mentale e culturale è un processo complesso e se a qualcuno appare facile e scontato, sarà ancora più difficile da raggiungere e da cristallizzare. Serviranno l’esperienza e la razionalità per ricostruire il sistema senza finzioni.
La formazione permanente non prevede solo interventi sullo stress a causa delle mansioni lavorative, degli aspetti organizzativi e amministrativi. La scuola di educazione Alla persona amplia la prospettiva e interroga le ragioni e le pratiche quotidiane. Dopo aver amministrato – o provato ad amministrare l’emergenza – può essere che i bisogni sociali non sempre coincidano con i bisogni produttivi. Non servono persone eccezionali, ma uomini e donne differenti che con tempestività e intelligenza decidano: tutelare e proteggere non vuol dire rinchiudere ed escludere.
 
Gli arrampicatori di professione e gli influencer plastificati fanno credere che basti qualche chiacchiera, magari tutti connessi. E mi sono mortificata dinanzi all’autocelebrazione di alcuni, favorita dai social network. Ho guardato filmini di personaggi orgogliosi di meriti inesistenti e di scelte di cui davvero non c’è da menare vanto. Quando manca un autentico interesse alla relazione slegata dal guadagno, l’orgoglio di appartenenza ad un marchio è percepito da chi guarda come un peccato di superiorità, come superbia e presunzione.
 
Durante questi mesi, ho ascoltato l’abuso di aggettivi come meraviglioso, fantastico, bellissimo che hanno fatto perdere, oltre alla pazienza, la profondità del significato. Ho visto esseri umani ansiosi, sempre connessi, con la paura del fallimento, a dare addosso agli altri, per esempio, per la mancata internazionalizzazione. Rifletto sul lato oscuro e insipiente dei social, sul bla bla a rischio fake ostentato e offensivo, sui toni da alleluia sguaiati, sui sorrisi che si autocompiacciono. Cosa mai, stolti, abbiamo da sorridere e da congratularci, da manifestare ottimismo e pollici alzati, da soli, dinanzi a una telecamera?! Connessi col mondo intero senza riuscire a coltivare un rapporto diretto, costante e affidabile con i/le dipendenti. Voglio ascoltare una voce autorevole e non il gracchiare insolente che dà l’impressione di fare tutto perché il proprio piccolo mondo antico e dispotico non cambi. Non paga fare i simpatici a tutti i costi.
 
Sarà meglio mantenere un profilo basso, di competenza. Sarà adeguato agire tenendo conto degli altri, della dignità del lavoro, degli spazi e dei tempi. Decideremo fatti e azioni che combaciano con le visioni e con la tradizione come con la memoria che ha un peso.
 
Mostreremo di sentire la crisi e ci preoccuperemo di un nuovo assetto sociale in cui se il cliente non si fida dell’interlocutore non si fida del prodotto. Deve essere chiaro che l’altro non è un mezzo per produrre profitto. Sarà importante puntare su una diversa idea di sé evitando gli atteggiamenti guerreschi e muscolari e scegliendo di essere miti, sobri e intimi. Sarà bella la gestualità matura e patita, non farfugliata, minima e profonda, lenta e convinta, autentica.
 
Diventiamo professionisti scegliendo il processo faticoso della trasformazione e sapendo che leggere e documentarci non hanno uno scopo immediato. È pratica utile riconoscere il dolore, la rabbia, il timore di non farcela che il nostro corpo, innanzitutto, segnala. E parlarne, fra prossimi, a distanza. Apprendiamo ad avere paura per non fare paura a chi, purtroppo, dipende anche da noi.
 
Le strategie comunicative devono corrispondere ad una sostanza che richiami una coscienza di comunità, una esigenza profonda di giustizia sociale. Non si tratta di persuadere un pubblico a comprare o di arraffare quanti più clienti è possibile. Le persone riconoscono la serietà aziendale e ancora una volta varranno i volti e le esperienze di credibilità. Saremo capaci di inviare messaggi diversi ai clienti interni ed esterni? Ci prenderemo a cuore le problematiche dell’inquinamento, del logoramento umano e della dispersione economica? Saremo capaci di produrre le idee, gli oggetti, gli stili e i servizi che valga la pena di tramandare?
 
Alla ripresa, è probabile che i lavoratori e le lavoratrici, in ogni ruolo, manifestino rancore, sfida e frustrazione. Accoglieremo le eventuali rivendicazioni come un momento necessario di passaggio, una fase di controdipendenza, verso una relazione sana. Molti ricominceranno a muoversi: auguro che il viaggio sia pensato e ponderato. Ricordo quelli che viaggiavano frettolosamente da una parte all’altra del mondo senza combinare nulla, senza riflettere sul viaggio vero da compiere con la ricerca e con la riflessione. Il viaggio è nella testa, se no inquina e basta.
 
Auguro la saggezza di ricominciare da sé prima che dal denaro, dalle persone prima che dai protocolli, dalla psicologia prima che dalla tecnologia. Questa volta soltanto. E prometto che basterà per molto tempo.
 
Trasmetto qualche pensiero di un autorevole maestro che, stavolta, per caso e gratuitamente, ho ritrovato sulla mia bacheca.
 
Albert Camus, Esortazione ai medici della peste, Bompiani, 2020
 
La peste proviene dall’eccesso. È essa stessa eccesso, e non è in grado di contenersi. Sappiatelo, se volete combatterla da uomini consapevoli… Il flagello ama i recessi oscuri. Portatevi la luce dell’intelligenza e dell’equità… Infine dovete diventare padroni di voi stessi… Forti di tali rimedi e di tali virtù, non dovrete poi fare altro che respingere la stanchezza e conservare viva l’immaginazione. (p.12-13)
 
E continuate a rivoltarvi contro la terribile confusione in cui coloro che negano le cure agli altri muoiono nella solitudine mentre coloro che si prodigano muoiono ammucchiati gli uni sugli altri; in cui il piacere non ha più la propria sanzione naturale né il merito il proprio ordine; in cui si danza sull’orlo delle tombe; in cui l’amante respinge la compagna per non trasmetterle il morbo; in cui il peso del crimine non è mai sulle spalle del criminale, ma su quelle dell’animale espiatorio scelto nello smarrimento di un istante di terrore. Un animo in pace è il più saldo. Siate saldi di fronte a questa strana tirannia. (p.14-15)
 
Verrà il giorno in cui vorrete gridare il vostro orrore di fronte alla paura e al dolore di tutti. Quel giorno non avrò più rimedi da consigliarvi, se non la compassione che è la sorella dell’ignoranza. (p.16)
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La storia di Mara e il “Mother’s friendship Day”

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Rinnovo con piacere l’appuntamento con un nuovo romanzo di Ritanna Armeni, scegliendo di continuare a perder tempo con studiose e archeologhe del pensiero.

Nella loro abitazione romana, leggo i tempi dell’amicizia fra Mara Carucci e i fratelli Nadia e Giulio Mangelli. Con loro, la gioventù del regime, aitante e sognatrice, volenterosa e barbara. Partecipo all’adolescenza e alla prima età adulta di giovani fascisti – come non esserlo, fascisti, nelle prime ore di glorie inseguite? –  in un periodo lungo di guerra e di morti, sentendo forte l’amore e la paura, entusiasti e affamati, ad osare e a pregare. E poi, il disincanto e le montagne dei partigiani, il lavoro per sé e il sacrificio per i fratelli, le biciclette e le armi nascoste, le lettere arrivate tardi, i funerali negati e, sempre, la sapienza delle madri.

All’inizio, a tutte, il fascismo appare una possibilità di uscire dall’ombra. Ai totalitarismi, le donne servono, appunto, per servire senza discutere i princìpi del servizio stesso. Molte, come l’ingenua Nadia del romanzo, pur di apparire, di stare in mezzo a quel gioco, pensano di guadagnarci qualcosa, credendo nella massima causa di espansione, ritagliandosi un avanzo di spazio, vicino vicino al dux. E poi, si vedrà. Ed è solo un altro inganno.

“Poi arriva il fascismo e inaugura una nuova politica. Le donne le vuole sì nel ruolo di mogli e madri nel recinto delle mura domestiche, ma per la prima volta questo ruolo è riconosciuto e apprezzato dallo stato e dal duce. Ha un valore, diventa presenza pubblica. Nel ventennio non sono più fantasmi ma cittadine. Di serie B, inferiori agli uomini, le italiane esistono e sono indispensabili alla patria e alla nazione. L’ombra, con il fascismo, diventa persona.” (pag.28)

Il messaggio che leggo nelle righe bianche del racconto è che le donne del ventennio se la videro brutta e se ne accorsero, pur innamorate, schiette e generose, del mezzo busto possente del duce e delle sue promesse di progresso e di ampliamento.

Fianchi larghi e seno prosperoso, oggetto di concessioni e di adulazioni: le donne che incontro nel romanzo sono angeli del focolare, vittime sacrificali, amanti sfrontate e vergini istruite. Tutte madri o, meglio, materne, ad accogliere, a salvare dall’abbandono e dall’angoscia gli uomini sempre soli, forti, capaci di morire e mai di commuoversi, piuttosto di uccidersi.

L’incensare, la riconoscenza sorniona, l’immensa considerazione favoriscono, anche a causa dei superlativi, la propaganda del modello dei Fasci femminili. È in agguato la retorica ipocrita della cura come afflizione di sé ed espiazione in stato di sudditanza, sotto il controllo del partito, del marito, del capo. Fra saluti e inni, risalta sottilmente pericolosa la narrazione della madre prolifica e terapeutica, costruita dai maschi autocentrici.

Ancora oggi funziona il connubio donna e madre, di dedizione e di obbedienza, se il comando è sempre altrove e di altri, “secondo la convenienza della natura”. Così ricordava Antonio Rosmini, in quel passato che in parte ancora ci appartiene.

E le feste delle mamme, ancora, la scorsa settimana, vengono servite come pozione velenosa, a parassitare. L’autonomia di pensiero e di decisione è solo apparente ed è legata alla supremazia del narcisista di turno. La cura sociale è il welfare, il sistema che garantisce ai cittadini, a tutti e a tutte, la fruizione dei servizi ritenuti indispensabili. Invece, mancando una scelta di democrazia, la cura pare sia una virtù personale delle donne.

Voglio dire, tacendo nomi e situazioni, che mi accorgo da lontano quanto a me, alle altre professioniste, sia riconosciuto e affidato il ruolo di curare i sintomi.  È valutato come un atto di impertinenza e di ingratitudine, pretendere di ragionare sul senso delle scelte politiche e culturali, all’origine di quelle ferite. Ancora, sono legittimata nel ruolo di cura, per esempio, dello stress, meccanicamente, negandomi, di fatto, la possibilità di intervenire sulle responsabilità di chi, avendo il potere, ha causato, più o meno consapevolmente, quei malesseri.

Nella testa, i maschi guerrieri hanno sempre un impero da conquistare e un pezzo di umanità da sottomettere. Non raggiungono mai imperi e la frustrazione si trasforma in furia di dominio. La donna, spesso, è vista come un organismo di beneficienza e di propaganda, relegata in attività assistenziali, subordinata al padrone che comanda e dispone, incompetente e rozzo.

112 anni fa, Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, decise, nella seconda domenica di maggio, la festa ufficiale della mamma, per celebrare la procreazione. L’evento commerciale evidenziò, qualora ce ne fosse bisogno, il logos maschile. In realtà, Anna Jarvis aveva solo chiesto di poter ricordare e onorare sua madre, morta nel 1905 la quale, nell’intero corso della sua vita, aveva lottato per la tutela delle donne durante il parto, nel lavoro, nella malattia. Anna voleva promuovere il “Mother’s friendship Day”, le Giornate dell’amicizia tra madri. Meravigliosa e attuale necessità.

La solidarietà sincera fra le donne evita il patriottismo di disciplina e rimane aderente alla realtà, di pane e di rose. Mara e noialtre non siamo interessate ad andare in guerra come pari degli uomini, chiediamo di discutere il significato stesso dell’immane conflitto armato, di ragionare su cosa significa nella vita perdere o vincere. Abbiamo questo tempo opportuno, per prendere la parola e per viverla, la giornata dell’amicizia tra madri. E festeggiarla adeguatamente fra un anno.

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Ante virus – Post virus

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Le idee che uno può avere in testa non scacciano gli orsi dalle caverne

Lewis, p.43

Ho resistito due mesi e adesso compio questo atto di vanità che profana il silenzio del mio opulento mondo ammalato. Mi chiedo come ho potuto, un anno fa, sopportare, paziente, tre mesi di ospedalizzazione e di riabilitazione e perché la quarantena, invece, mi ha mal disposta dal primo giorno, pur riconoscendo le gioie dell’eremo. È che quando scelgo il ritiro, chiedo la garanzia e la confortante certezza che il prossimo continui a muoversi anche senza di me.

Una colonna sonora di questi pensieri in quarantena è il libro paradossale di Roy Lewis1, amaro e triste, non divertente come mi era sembrato anni fa. È il racconto della originaria e mitica virilità, potente e selvatica, imbarazzante nei mutamenti che ne hanno caratterizzato l’evoluzione. La legge paterna, il femminile destabilizzante, la misoginia violenta e il dominio sulla terra, temi rozzi perché atavici, insomma, di dolorosa basica attualità.

Tu, mi dispiace moltissimo dirlo, stai cercando di migliorare te stesso. E questo è innaturale, disobbediente, presuntuoso, e potrei aggiungere volgare, piccolo-borghese e materialistico… Non sei più innocente ma sei ignorante. Hai gettato alle ortiche l’obbedienza alla natura, e adesso credi di poterla guidare prendendola per la coda.

Lewis, p.58

A causa delle misure di contenimento della pandemia, ogni persona si è ammalata a modo suo, fra paralisi e iperattività. L’effetto collaterale è che il silenzio e il vuoto rendono il panorama più chiaro, evidenziandone le disfunzioni. Niente sarà come prima è solo una possibilità che ha bisogno di studio e di impegno. La parte malata, la parte ombra – e non dico l’inconscio – pensa di poter impunemente continuare ad imporsi senza che nessuno se ne accorga. La miserabilità e la disperazione sentite fino in fondo, non consentono di finire le preghiere, ma affinano la vista di chi sceglie di continuare a capire. Io non vedo, non vedo ancora, l’uomo nuovo che avanza.

Perché dovremmo essere persone migliori, dopo uno o tre mesi? Chi era abituato ad assolversi, continuerà impunito a sentirsi a cavallo della storia e della sua azienda. Si sentiva già bravo e bello prima, e si ripresenterà, dopo, con la faccia tosta di sempre, senza rendersi conto che questa pausa silenziosa, lunga e breve, avrà incoraggiato chi, al contrario, il silenzio lo ha usato davvero come lente d’ingrandimento. E peggio mi sento se qualcuno darà prova di essere in buona fede. A me e a poche altre è bastata un po’, solo un po’, di lontananza di tempo e di spazio, per ascoltare che gli imperatori hanno ancora una volta risposto “come una potenza offesa e non come una umanità ferita”. Richiamo le parole di Luisa Muraro, in un’altra fondamentale epoca storica.

Ogni situazione può essere una opportunità solo per chi vuole, per chi sa e può. La recita della realtà è in agguato e ho il dubbio che molte risposte siano solo emozionali. Rimane da verificare con il passare del tempo se la solidarietà messa in bella mostra sarà un bene contagioso e non una finzione commerciale. Prima, la circolarità era figura scontata della mia forma mentis. Adesso, la considero tutta da ricostruire e riparto dall’assioma separatista io-l’altro e noi-loro. La considerazione della differenza crea un buon terreno per eventuali prossime possibilità di confronto.

Ascolto ancora i responsabili d’azienda che hanno bisogno di mascherarsi da uomini giusti. E alcuni non hanno ancora capito la differenza fra l’autorità e il potere di comandare e di controllare. Le parole che rilasciano anche pubblicamente sono la prova di una distanza che pare incolmabile. I padroni continuano a decidere sulla testa dei dipendenti, senza averli mai ascoltati. Riconosco il micropotere degli introversi iperattivi che in modo febbrile continuano a difendere, infondo, il proprio orto: quelli che l’azienda-sono-io e che se-non-ci-fossi-io.

Temo che chi non si accorgeva, prima, del rapporto indispensabile di interdipendenza, potrà reiterare il sistema di diseguaglianze anche dopo. Gli imprenditori, ferocemente lontani dalla consulenza della scuola di educazione Alla persona, erano affetti dalla malattia del dominio incontrastato e difficilmente ne usciranno senza una guida severa. Alla riapertura, non sarà scontato che guariscano dalla fascinazione verso l’esercizio della sottomissione e dalla tentazione antidemocratica del monarca. E dopo, più di prima, sarà improbabile che scelgano di pagare un lavoro di consulenza psicologica e culturale, se non obtorto collo. Ma chi torcerà quel collo rigido? Per pochi la malattia o la paura della malattia avranno favorito l’autoanalisi, la riflessione, la coscienza dell’introspezione.

L’obbligo, dopo, sarà di trasformare in energia politica, la pratica della ricerca e dello studio. Mi interessa l’etica delle tecnologie, delle task force e dei pool, l’etica del lasciapassare cartaceo o del sistema di geo-localizzazione obbligatorio e di ogni sistema di sorveglianza. In quale scenario sociale, in quale complessa cultura l’essere connessi e rintracciabili saranno ritenuti strumenti di sicurezza? La discriminante è la visione filosofica da cui originerà ogni decisione.  Il controllo democratico è un ossimoro se si basa sulla Risposta allo Stimolo di pavloviana memoria, e non sul riconoscimento di responsabilità da parte di ogni persona. Credo che nessun diritto possa essere assegnato dagli strumenti tecnologici i quali, certamente, portano risultati veloci al business. Al contrario, l’apprendimento è lento, la psiche è lenta e l’attitudine all’alterità è tutta da costruire.

Non mi preoccupano le nuove forme di cittadinanza che prevedono probabilmente l’aiuto dei Big Data (dovrò studiare bene) e sono disposta a mettere in discussione la libertà di movimento, almeno, come la consideravo in passato. Però, sarà sempre presto per allentare la stretta sulle attività produttive, senza avviare un ripensamento sulla idea fondante del sistema nel suo complesso. Il territorio della pulizia culturale appartiene alla psicologia applicata alle organizzazioni.

La psicologia del lavoro è fragile perché è una disciplina giovane ed è maschile. Su quest’ultimo concetto intuito – la psicologia del lavoro che custodisce il modello ben strutturato, maschile e vanaglorioso, anche nelle donne – vado approfondendo e ne riparlerò. Certo, sarebbe un vero disastro aziendale se l’unica risoluzione fosse l’ascolto delle lamentele, il contenimento delle rivendicazioni, la cura dello stress e non, soprattutto, la comprensione delle ragioni di sistema, più profonde e pericolose che, prima, avevano prodotto i malesseri.

Prevedo forme organizzative che non intravedo neanche in lontananza. L’ignoranza e l’impreparazione non saranno lenite da automatismi tecnologici. Essere preparati non significherà solo avere le mascherine, i vaccini e i tamponi e l’efficienza nella vendita online, ma anche provvedere a politiche del lavoro giuste e ad un sistema aziendale democratico e solido.

Gli esseri umani, per non sentire odor di sepoltura, hanno bisogno di organizzare il futuro. La psicologia a servizio delle organizzazioni deve essere capace di trasformarsi, sganciandosi dagli artigli del potere. Come psicologa del lavoro è opportuno che, più che mai adesso, stia attenta a non cedere a marchette e prebende, per timore di rimanere senza guadagno. Chiarisco la mia riflessione. La partita iva, in trentacinque anni di attività, ha rappresentato una scelta anche politica. Comparire mensilmente nel libro paga di un datore di lavoro avrebbe legittimato prima o poi il tacito lasciar correre degli scivolamenti autoritari nel governo umano dei lavoratori e delle lavoratrici. Senza diventare l’inferno per l’altro, riprenderò, per esempio, i testi di Harendt, di Romanini, di Mintzberg, di Schein, che timorosamente con il passar degli anni avevo taciuto, per il fatuo pregiudizio, confesso, che se il cliente – rivedrò anche questo termine – avesse misurato la sua ignoranza, io avrei perso il lavoro. Talvolta, sono caduta nella trappola di trattare l’altro, e peccaminosamente anche l’altra, come un bambino confuso, vecchio o pazzo.  E ugualmente ho perduto qualche attività lavorativa.

Immaginare il futuro non è solo un fatto emozionale, è lettura, pensiero, ricerca, dubbio. Ancor più in un clima di emergenza, il controllo sociale, legittimato dalla paura, mette a tacere il pensiero critico, in nome di un generico interesse comune.  Modificare il mondo del lavoro significherà cambiare la soggettività nella sua logica di base. La parte silente, colpevolizzata e cancellata della propria interiorità non trae beneficio dall’affollamento tecnologico delle videochiamate che servono a rimanere in relazione, solo se la relazione c’è. In azienda, la pratica di coscienza sarà in gruppo e sarà in presenza.

I giorni dell’uomo sulla terra sono pochi, e la specie stessa corre un continuo pericolo di estinzione. La nostra risposta è la sfida: ci daremo allo sterminio di tutte le specie che ci attaccano, risparmiando solo quelle che si sottometteranno. A tutte le altre specie gridiamo: attente! O farete nostre schiave, o sparirete dalla faccia della terra. Qui comanderemo noi; vi supereremo in forza, pensiero, abilità, numero ed evoluzione! Questa e nessun’altra sarà la nostra politica! Eppure un’altra c’è: tornare sugli alberi. Bah! Tornare al Miocene? Non era tanto male, il vecchio Miocene, la gente sapeva stare al suo posto… ma guardali adesso: sono dei fossili! Si può tornare indietro o andare avanti: ma non si può stare fermi, nemmeno sugli alberi. Vi ripeto che l’uomo scimmia ha un solo dovere: andare avanti… verso l’umanità, la storia, la civiltà.

Lewis, p.134

Dopo, le parole come cura, relazione, empatia, desiderio, necessiteranno di essere usate in modo adeguato e dalla persona abituata a pensare oltre il proprio naso e interesse. Se no, come prima, rimarrà la presa per i fondelli. Rimarrà una copertura sociale che rivelerà la mancata scelta etica. Certo, non ci saranno parole sbagliate a prescindere, ma ogni frase, ogni metafora, rimanderà, in modo trasparente, ad una struttura di pensiero radicato e richiamerà rigurgiti di sfruttamento e di individualismo. Prima, il quadro di riferimento unico di sviluppo era legato alla produzione e al consumo, all’arroccamento del proprio utile, al dominio e all’assimilazione, alla subalternità padronale. Dalla piramide si dovrà passare dolorosamente al cerchio, senza le fasi intermedie dei trapezi che allargano il vertice e dei rettangoli che minimizzano la forza della base. Voglio dire che la gestione delle risorse umane, per forza, dopo, prevederà il cambio del nome e della sostanza in Governo Umano delle Risorse. E non parleremo più di capitale umano, ma di lavoratori e di lavoratrici liberati/e dai giochi psicologici aziendali che svalutavano e mortificavano. E si manifesterà interamente e miseramente la mentalità gaglioffa, manigolda e insolente che prevedeva, nei processi consulenziali, di raccontare di tutto un po’.

Mi attraversa un dubbio riguardo le aspettative: questa è mica l’apocalisse?! Come Totò, in una sua tragicomica scena: ma qui dentro c’è il paltò di Napoleone?

Potrò, fra qualche tempo, chiudermi alle spalle la porta di casa, ma varrà la pena di riaprire il portone del mio studio? E, soprattutto, per chi? Perché adesso non sarà come prima e non ci saranno sconti e sorrisi compiacenti: erano diplomazia e rischieranno di essere un crimine. Fuggivo, prima, dal facile bacioeabbraccio e non attendo alcun tempo favorevole per festeggiarcitutti. Aprirò quel portone, ma non come per un matrimonio a cui si deve essere invitati o come per un ricatto imposto dal mercato. Varrà ancor più il contratto psicologico, la dichiarazione protettiva del cinquanta per cento nella scelta libera dell’altro, il quale specularmente proteggerà me. Solo così saremo legittimati nell’uso futuro della relazione, anche in presenza meccanicamente indotta.

La vita della generazione C di responsabili aziendali cambierà a partire dalle scelte che faremo, dopo, e non dall’oggi al domani, quando riprenderemo le nostre attività formative sistematiche e non solo saltuarie, come dovere, magari finanziato.

Miei cari, ci esortava, fate che il vostro motto sia di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo avrete trovato, e di dare ai vostri figli condizioni di partenza un po’ migliori di quelle che avete avuto voi. Non contate sugli altri. Vivete come se l’intero futuro dell’umanità dipendesse dal vostro impegno; in fondo potrebbe anche darsi! Sono tempi critici, questi, molto critici. La padronanza del fuoco non è che un inizio; devono essere pensiero, pianificazione, organizzazione, per poter edificare su queste fondamenta. Dopo le scienze naturali, le scienze sociali! Chissà chi di noi avrà il privilegio di scoprire il modo di concentrare le energie degli uomini scimmia sui fini dell’evoluzione, e sarà il primo a guidarci su cammini davvero umani! Pensateci, miei cari. Io ho la massima fiducia in voi due. Dubito che vivrò tanto a lungo, ma voi, forse, potrete vederla… la gloriosa età dell’oro, ricompensa di tutte le nostre fatiche: essere umani, essere finalmente Homo sapiens! Io sto invecchiando, sapete, ma morirò contento se sentirò che i miei modesti sforzi hanno contribuito a mettere voi e i vostri figli su quella strada.

Lewis, p.160

 

1Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Gli Adelphi, 1960, 2008

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Sergio Ramazzotti, Su questa pietra, Mondadori, 2019

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Il fotogiornalista Sergio Ramazzotti scrive un libro di parole patite, di realtà e di verità, per continuare ad interrogare più che a trovare risposte, a conoscere più che a seguire opinioni o schieramenti sul suicidio assistito, sull’eutanasia, sul sacrosanto diritto al libero arbitrio. L’autore afferma di voler raccontare perché: “se non lo scrivo rischio di impazzire”. A leggere questa storia, posso impazzire davvero. Il tema è il fine vita e la lacuna legislativa, l’immaginaria patologia organica e l’attività di un giornalista serio.

Cosa accade ad un uomo quando è lui a fissare l’appuntamento con la morte? Cosa accade ai suoi sentimenti, ai pensieri, ai comportamenti? Assisto ad un colpevole aiuto ad uccidersi o registro un atto di compassione? Incontro un eroe o un codardo? Nel racconto conosco Erika, la medica svizzera che ascolta, visita e concede il suicidio ai pazienti in un monolocale di Basilea: una moderna accabadora pietosa o una spietata affarista che specula sulla paura della malattia e della sofferenza?

A tratti, l’autore si sente un avvoltoio voyeur, accompagnando in Svizzera, per quarantotto ore e per millequattrocento chilometri, l’ex magistrato sessantaduenne Pietro D’Amico, il sonnambulo che cammina verso la luce verde che indica il via libera al suicidio assistito. Dinanzi ad una scrittura umile ed energica mi impegno in un confronto libero e crudele.

Diventare compagna in questo viaggio significa meditare sull’intensità di una relazione innominabile, di due esseri umani estranei e, allo stesso tempo, legati da una intimità vitale che non consente di dimenticare. La vita, talvolta insopportabile, chiede di morire. I lettori e le lettrici non si dividono in sostenitori e in detrattori, ma creano una zona di ragionamento, di necessità, di analisi intorno alla sofferenza fisica e psichica e intorno alla solitudine in cui ogni persona precipita.

Il libro vince il premio “Alessandro Leogrande”. Come il giornalista prematuramente scomparso, Sergio Ramazzotti non presenta solo un’inchiesta e non trasferisce solo dati. Mi confronto con una esperienza al limite, diretta e destabilizzante che allontana dogmi e certezze e rimette al centro il pensare assieme, chiedendo un sincero atto di coscienza. Con la scrittura, Ramazzotti, come Leogrande, apre, non risolve, interroga e problematizza, non racconta giudicante le scelte degli altri, ma chiede a se stesso di riconoscere la paura, la rabbia e la certezza della libertà.

Cadute le grandi narrazioni e gli specialismi esasperati, l’autore propone il pensiero dell’esperienza senza ideologie. La quotidianità diviene un laboratorio di cambiamento in cui Sergio Ramazzoti offre la voce e la parola alle ombre, ai margini, alle periferie, agli scarti di una umanità destrutturata.

“… oggi per legge si può aiutare a morire solo chi è sano di mente, ma può dirsi sano di mente uno che desidera morire?” p.151

“Un letto d’ospedale è una trincea, un luogo dove dal paziente ci si aspetta che combatta. Eppure, a differenza delle trincee, quando comincia a desiderare la morte lo si taccia di viltà: da lui si esige che compia atti di eroismo, che non perda il buonumore, che fino alla fine sia d’esempio ai propri cari e addirittura li sostenga nel dolore che essi sono costretti a provare.” p.157

Ogni persona parte da se stessa e arriva all’incontro con l’altra-da-sé in una relazione che gira intorno e va in profondità. Non si tratta semplicemente di decidere da che parte stare, ma di allargare la visuale chiedendomi della solitudine, della fragilità della mente, dell’onnipotenza e dell’efficienza a cui mi sento condannata, dello spettacolo e dell’esposizione di me a tutti i costi. Come Leogrande, Ramazzotti appartiene al più sano giornalismo, utilizzando il potere delle parole di chi non idolatra il potere.

“Questa non è un’inchiesta giornalistica né un saggio, sono le parole di uno che scrive per provare a scendere a patti con se stesso.” p.92

“Ancora oggi mi chiedo se ci fosse una frase da dire migliore di quel silenzio, una frase che allora non seppi trovare e non ho trovato in tutti questi anni, per quanto ci abbia pensato quasi ogni giorno, da allora è il mio personale atto di dolore quotidiano.” p.121

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La traduzione del pensiero di Leogrande

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“È possibile creare le basi

per una storia condivisa

tra le due sponde dell’Adriatico?

È possibile farlo davvero?”

 Alessandro Leogrande

Creare le basi per una storia condivisa: così è stato nell’incontro fra Alessandro Leogrande e Arlinda Dudaj, presidente della omonima casa editrice che pubblica in albanese “Il naufragio”  e  “La frontiera”.  Leogrande parla di questa intesa profonda nell’articolo “Due o tre cose sull’Albania” pubblicato nella rivista Lettera Internazionale, 114/2012. Dopo meno di un decennio e a due anni dalla morte dello scrittore tarantino, io incontro Arlinda Dudaj presso la Feltrinelli barese, nel primo incontro del progetto “La Frontiera”, inaugurando un viaggio di sette workshop in sette Comuni pugliesi, da settembre a febbraio 2020.

L’Europa odierna si dibatte fra la pulsione confederativa, tutti insieme contro il nemico designato di volta in volta, e la tensione a due che condanna ogni Stato contro l’Altro. L’Unione Europea chiede di tenere lontana la guerra dal suo territorio ma, appena oltre la frontiera, al di là del mare, scivola nell’imporre il suo modello di dominio politico, economico e culturale. Crediamo, come testimonia Leogrande, che la cultura, lo studio, il sapere, la ricerca risolvono le idee fisse della guerra, del nemico e del potere che conquista, riduce e sottomette.

Oggi la traduzione di un testo è intesa anche come linguaggio e non solo come trasferimento di parole in una lingua diversa dall’originale. Il cammino di adattamento unidirezionale, da una lingua ad un’altra, diviene attività di mediazione pluridirezionale, di ripensamento sulla lingua originaria, su quella d’arrivo e sulle dinamiche di cambiamento. Intendiamo la traduzione come un territorio privilegiato per l’incontro fra culture e come un momento centrale nei processi relazionali. Tradurre è una attività complessa di coscienza e di conoscenza nella dialettica fra identità e alterità culturale. Vale ancor più l’idea di una traduzione che tradisca, conduca, ripercorra, trasformi e accompagni il testo d’inizio e di fine, irriducibili l’uno all’altro, verso un nuovo territorio, una terza via/opera.

Tradurre significa, essenzialmente, credere nell’incontro e costruire la relazione. Infatti, come ricorda Fernanda Pivano, maestra e guida, la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo. Essa rappresenta, invece, un processo, in un tempo e in uno spazio considerati. Il lavoro è generare e rigenerare non l’originale e la copia, ma i due testi forniti entrambi di dignità artistica.

La traduzione, dunque, come analisi critica e sintesi poetica, rivolta tanto verso il sistema linguistico straniero, quanto verso il proprio. Il risultato è una interazione verbale con un modello diverso recepito con discernimento e attivamente modificato. In questa ottica, il rapporto fra l’originale e la copia non implica una gerarchia di precedenza, cioè di maggiore importanza dell’originale rispetto alla copia, ma acquista un’altra dimensione: diviene dialogico, non più di rango, ma di tempo. La traduzione si trasforma in un vero e proprio genere letterario, dotato di una autonoma dignità. Pivano istintivamente ricorreva all’avantesto sub specie di testimonianza diretta e alla collaborazione continuativa con gli autori viventi, in una sorta di metodo socio-biografico applicato, impadronendosi del percorso di crescita, di creazione del testo nelle sue varie fasi, in una adesione simpatetica che diviene esperimento pedagogico.

La Storia segue sempre l’orma della Geografia. E in Italia, terra di conquiste, le culture degli altri hanno contribuito a formare la nostra. Quindi, possiamo accettare di essere naturalmente mediatori. La posizione della penisola italiana richiama un’immagine ampia, ariosa, aperta, accogliente, utilizzando parole che iniziano con la prima vocale che, detta, pretende l’apertura delle labbra. Ritorno con la memoria al periodo che va dal 1479 al 1552 quando, a seguito dell’avanzata turca dei Balcani e dell’occupazione delle terre d’Albania, molti abitanti si rifugiarono a Venezia. E la Serenissima, attraverso politiche di accoglienza, decise di avvalersi del contributo di molte menti albanesi alla cultura umanistica.

Attraverso la lettura dei testi di Leogrande superiamo il vizio di una visione ristretta e deterministica che non consente di trattare in modo civile e sapiente i numerosi temi che girano intorno all’immigrazione. Non possiamo continuare a pretendere l’impero del mondo al fine di evitare la paranoia, una malattia culturale fra le più feroci e imperdonabili. Apprendiamo assieme e costruiamo la capacità di tessere un reale dialogo transnazionale, smettendo di deridere e di negare, attraverso i divieti, i muri, le persecuzioni, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (dicembre 1948). La consapevolezza rappresenta l’assunto di base delle scelte politiche che riscoprono con onestà la vocazione europeistica dell’Italia, vocazione di viandanza e di originali contaminazioni.

L’augurio è che ogni persona parta dalla lettura dei libri e delle inchieste di Alessandro Leogrande non solo per onorarne la memoria, per ciò che lui è stato, ma per se stessa, per iniziare un cammino mentale e spirituale verso una diversa antropologia umana, verso una diversa modalità di costruire e di abitare il mondo.

“Una volta, Pasolini ha detto più o meno che il Terzo mondo iniziava nelle borgate di Roma. Ho pensato lo stesso passeggiando per Tirana. Non serve andare nella periferia estrema. Basta allontanarsi un centinaio di metri dal reticolo delle strade centrali: già alle spalle dell’ambasciata americana inizia un altro mondo, profondamente diverso da quello del Block e del Boulevard. Un dedalo di stradine confuse, palazzi diroccati, asfalto che si disfa, pozzanghere… ma anche tantissimi negozietti che vendono di tutto, ambulanti, caffè popolari affollati a ogni ora del giorno e della notte: un brulicare di vita levantina.”

Alessandro Leogrande, 2012

 

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Giuseppe Culicchia, il cuore e la tenebra, Mondadori, 2019

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Ogni persona ferita dal dolore della perdita e dell’assenza avvia naturalmente un percorso di consapevolezza. La morte è un’opportunità di vita e Giulio, il protagonista trentenne di questo romanzo, ritorna a Berlino per seppellire suo padre e ripercorrere il cammino di relazione, per domandare e per capire.

Nelle pagine finali l’autore raccomanda: questo romanzo è opera di fantasia… tratta di temi come il fallimento, la morte del padre, la dissoluzione della famiglia, l’amore per i figli, il dolore del distacco, l’impossibilità di fare davvero i conti con la nostra finitezza, l’egoismo insito nella nostra stessa natura, il ritorno vero o presunto di ideologie che hanno segnato il Novecento, la linea d’ombra che separa il Bene e il Male.

Leggo una storia violenta e tenera di uomini irrisolti fino a che non si donano il permesso di perdonarsi e di perdonare. È la paura dell’essere solo e abbandonato, è l’angoscia della morte, che Giulio riconosce dinanzi al rischio di un padre sicuramente maniacale e forse pure filonazista. Fra i libri e i documenti ritrovati, il giovane scopre l’inspiegabile passione paterna per il nazionalsocialismo e, in generale, per le proposte hitleriane. Cosa è accaduto perché un uomo libero, colto, brillante, intelligente si sia così tanto appassionato agli ideali populisti di estrema destra? Ma davvero senza Hitler e il nazionalsocialismo, Furtwängler non avrebbe mai diretto magistralmente quel concerto? Ma, in un regime totalitario, davvero vale l’idea di poter salvare qualcosa?

“Per questo sono arrivato alla conclusione che per eseguire la Nona Sinfonia nel solco del pur inarrivabile Wilhelm Furtwängler, sia assolutamente necessario ancora oggi studiare, anzi immergersi, in Hitler e nel Nazionalsocialismo. A partire dalla celebre biografia dello storico Joachim Fest.” p.56

La depressione prevede sempre l’impossibilità di perdere e di fallire, la necessità di tener duro, come ricorda il tatuaggio sulle dita del maestro d’orchestra. Un papà, Federico Rallo, che piangeva troppo e che si deprime nello sforzo di calare se stesso e la sua orchestra nell’epoca storica in cui Furtwängler diresse la Nona sinfonia di Beethoven, nell’aprile del ’42, in onore del compleanno di Hitler. Nella proposta del padre che vive in solitudine a Berlino, avendo perso il posto di lavoro, l’esistenza è registrata come una guerra in cui i traditori si condannano a morte ed in cui è bene non sposarsi mai e non arrendersi e resistere e considerare il Trionfo della Volontà. Il maestro Rallo crede nella “freddezza del grande giocatore d’azzardo”, nel “duro e intrepido sfidare il destino”, nella risolutezza senza fragilità e nella magica irresistibilità. Crede in un uomo che non ha mai capitolato e che insegue la perfezione e l’unicità escludente: insomma, segnala un paranoico.

“Il nazismo non tanto come dottrina politica ma come… concezione dell’esistenza.” p.107

Ed è questo sguardo a preoccuparmi: la visione di mondo e di vita, la weltanschauung drammaticamente chiara. Non mi scappa di fare la psicologa, ma questa è un’epoca in cui non è opportuno coltivare ingenuità storiche e scelgo di offrire una possibile chiave di lettura che ritengo essenziale, non certo l’unica. Non si tratta di demonizzare e liquidare velocemente le dottrine politiche che sostengono presunte superiorità e obbligate sottomissioni, semmai di capire la follia del potere nei primi atti e fermarne la deriva, innanzitutto, nella propria coscienza.

È una lettura che mi rende inquieta con le presenze richiamate: Hitler, Goebbels, Heydrich, Göring, seduti in prima fila nelle foto e nel romanzo. Uomini feroci perché matti. Ai lati le bandiere con la svastica. Ovunque. E un popolo tedesco vittima perché carnefice.

Nella storia narrata, i protagonisti sono meravigliati e ben disposti per l’affetto che i carnefici tedeschi mostrarono nei confronti dei loro pargoli e per l’attrazione e l’apprezzamento manifestate verso le forme artistiche. Il paranoico criminale, certo, può apparire come un genitore affettuoso e un amante dell’arte e pareggiare le tenebre della coscienza profonda con le luci abbaglianti di una ideologia salvifica. E, a questo punto, per chiarire lo scenario, è necessario richiamare alla memoria, brevemente, la paranoia definita come una psicosi caratterizzata da diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri che iniziano nella prima età adulta e che sono presenti in una varietà di contesti. La paranoia rimanda ad una forma di schizofrenia caratterizzata dalla presenza di uno o più deliri o di frequenti allucinazioni uditive. La costruzione delirante subordina tutta l’attività psichica ai propri fini e la quotidianità ne viene irreparabilmente contaminata. I deliri si rivelano relativamente coerenti, logici, relativamente plausibili nella loro forza macabra di convinzione. (1)

Ora, il cave canem è nel dubbio che i totalitarismi possano proporre, in fondo, anche ideali buoni o produrre opere d’arte! La malattia mentale non può essere venduta o sdoganata e accettata dalla massa come scelta politica. Il dittatore di turno cade e perde non perché ha osato scelte che si sono rivelate fatali, ma perché l’evoluzione della malattia ha seguito il suo corso. Il precipizio psicologico e antropologico è la patologia e non le scelte che eventualmente ne conseguono. Gli oppressori sono paranoici e, di conseguenza, se non fosse accaduta una vicenda mortifera ne sarebbe accaduta un’altra che ne avrebbe interamente manifestato il delirio. La generalizzazione e il relativismo sono presupposti pericolosi e nulla condividono con la prospettiva sana della complessità che trattiene in sé gli opposti, il bene e il male, l’ombra e la luce, la gioia e il dolore, il fallimento e la rinascita, la creatività e l’inquietudine psicologica.

Il cuore e la tenebra è un romanzo di formazione che avverte l’urgenza di indagare nella relazione fra padre e figlio, come da molti anni, la letteratura e la psicologia studiano il rapporto fra madre e figlia. Attraverso questa storia, sono contenta di aver avviato una riflessione che mi sta a cuore anche come cittadina e come formatrice. Con l’incontro in presenza, Giuseppe Culicchia si conferma persona e scrittore di adultità e di coraggio che non si sforza di trovare soluzioni, ma consente di incamminarci sulla via che dalla comprensione porta all’assunzione della responsabilità e alla rinascita. Auguro più che mai ad ogni lettrice e ad ogni lettore di questo libro, il pensiero critico e il discernimento, oltre alla capacità di accogliere storie complesse e di custodirne il mistero.

(1) DSM, Diagnostic and statistical manual of mental disorders

 

 

 

 

Durastanti

Claudia Durastanti, La straniera, La nave di Teseo, 2019

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Se la riconoscenza è la memoria del cuore, allora apprezzo questo romanzo che è grato alle storie passate e le illumina con gli occhi adulti da giovane di Claudia Durastanti, scrittrice, traduttrice, saggista e organizzatrice di eventi culturali. Il lavoro svolto dimostra il carattere attivo e volontario della memoria. Il futuro non può solo tenere a bada il passato che ringhia se rimane rinchiuso; le tracce recuperate attraverso i ricordi muovono il pensiero e la capacità di giudizio.

Leggendo il romanzo “La straniera” consento agli sguardi, alle parole, al sapore, agli odori dei diversi luoghi di attraversarmi. Da lettrice, recuperando le conoscenze passate, consegnate all’intelligenza e al cuore, amplio la consapevolezza del vissuto presente. Aggiungere prospettive e chiavi di lettura è l’esercizio della responsabilità e della libertà.

Carver definisce l’autobiografia come la storia dei poveri. Ma un’autobiografia non si scrive a 35 anni. L’autrice realizza un’opera che è diario e romanzo assieme in cui, non vincendo la cronologia, come in un puzzle ben assemblato, la dispersione diviene man mano unità. Il racconto non prevede l’analisi psicologica del profondo, non è sublimazione, ma è presa in carico della realtà. Non catarsi, ma appropriazione. Non denudamento, ma scelta letteraria descrittiva.

Penso ad una pratica psicologica della estraneità per garantire l’appartenenza a me stessa mentre cambio continuamente. Sentirmi estranea rimanda al dolore necessario dell’intimità che consente, in seguito, l’ironia. La precarietà, l’instabilità, l’ombra, l’errore, l’inciampo, la rottura, non sono il male, semmai rappresentano la condizione necessaria di migrante, di naufraga, appunto, di estranea, vicina e lontana, dentro e fuori.

Dare senso alla memoria vuol dire offrire significati ai fatti del passato e riconoscere la direzione del desiderio. Coscienza e orientamento, identità ed estraneità non sono poli opposti: l’io siamo noi e ciascuno si va definendo come persona nella relazione che accade. Esiste una lingua tutta intera, impenetrabile e intraducibile e poi ascolto una lingua “tutta rotta”, come nella famiglia di Claudia Durastanti, e scopro la lingua parlata e la lingua dei gesti, non dei segni, la lingua che cura, la lingua dell’esserci come presenze fondanti. L’idea delle radici o delle spore, come afferma la scrittrice, prevede la stanzialità e, anche, la possibilità del nomadismo. Ritrovo il senso del cammino in chiave iniziatica; è andando che si apprende di sé, oltre che dello straniero.

La democrazia mette insieme le diversità e crea una volontà collettiva unica, rendendo la differenza un bene comune. La visione democratica non si riduce alla legge della maggioranza: promuovendo la produttività del conflitto, rispetta le minoranze e utilizza in maniera feconda la prospettiva di ognuno. La tessitura delle diversità è un lavoro complesso che presuppone la scelta della pace e del dialogo. L’interdisciplinarità e la contestualizzazione sono necessarie: farsi mondo, come apprendo dal romanzo, nei luoghi e con il prossimo, significa scrivere la storia. L’autonomia si nutre di multiple dipendenze e l’autonomia mentale ha bisogno di dipendere da varie conoscenze ed è da queste basi che è possibile sviluppare un pensiero libero. Una cultura è tale perché integra culture straniere, opera métissage e sintesi.

È evidente nel romanzo il lavoro di ricerca sulla forma e sullo stile, infatti il testo rimane essenzialmente letterario ed esprime l’originalità nella capacità di combinare il diverso. Il libro è strutturato come le voci di un oroscopo, a parte i grandi temi della classe, della diversa abilità e dell’educazione culturale, ritrovo il lavoro, l’amore, la famiglia, i viaggi, la vita raccontata con ironia in Lucania, a Brooklyn, a Londra. Mi è caro questo romanzo perché è così che si fa per diventare adulti, in ogni età, andando indietro e tornando nel presente, capendo e perdonandosi. È il caso di essere gentili, ogni persona ricorda e racconta una storia.

“Tempo fa, l’ecologista Suzanne Simard ha dimostrato che la foresta è un sistema cooperativo e gli alberi “parlano” tra loro per scambiarsi sostanze nutritive o rilasciarle in caso di minaccia: quando scoppia un incendio, gli alberi usano i mycorrhizal fungi nel sottosuolo affinché trasmettano delle sostanze vitali alle specie più giovani attraverso una fitta rete neuronale in modo che le piante più deboli possano andare avanti.” p.34

“… valuto la possibilità che l’incontro tra due persone non abbia a che fare con la predestinazione quanto con una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’un l’altro, e si scopre che c’era un’intelligenza primitiva che governava i nostri corpi e rilasciava particelle elementari nell’aria ancora prima di incontrarsi, in modo che queste attraversassero città, pareti di cemento e membrane di pelle per entrare in contatto con sostanze simili e sviluppare una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo…” p.34