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La storia di Mara e il “Mother’s friendship Day”

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Rinnovo con piacere l’appuntamento con un nuovo romanzo di Ritanna Armeni, scegliendo di continuare a perder tempo con studiose e archeologhe del pensiero.

Nella loro abitazione romana, leggo i tempi dell’amicizia fra Mara Carucci e i fratelli Nadia e Giulio Mangelli. Con loro, la gioventù del regime, aitante e sognatrice, volenterosa e barbara. Partecipo all’adolescenza e alla prima età adulta di giovani fascisti – come non esserlo, fascisti, nelle prime ore di glorie inseguite? –  in un periodo lungo di guerra e di morti, sentendo forte l’amore e la paura, entusiasti e affamati, ad osare e a pregare. E poi, il disincanto e le montagne dei partigiani, il lavoro per sé e il sacrificio per i fratelli, le biciclette e le armi nascoste, le lettere arrivate tardi, i funerali negati e, sempre, la sapienza delle madri.

All’inizio, a tutte, il fascismo appare una possibilità di uscire dall’ombra. Ai totalitarismi, le donne servono, appunto, per servire senza discutere i princìpi del servizio stesso. Molte, come l’ingenua Nadia del romanzo, pur di apparire, di stare in mezzo a quel gioco, pensano di guadagnarci qualcosa, credendo nella massima causa di espansione, ritagliandosi un avanzo di spazio, vicino vicino al dux. E poi, si vedrà. Ed è solo un altro inganno.

“Poi arriva il fascismo e inaugura una nuova politica. Le donne le vuole sì nel ruolo di mogli e madri nel recinto delle mura domestiche, ma per la prima volta questo ruolo è riconosciuto e apprezzato dallo stato e dal duce. Ha un valore, diventa presenza pubblica. Nel ventennio non sono più fantasmi ma cittadine. Di serie B, inferiori agli uomini, le italiane esistono e sono indispensabili alla patria e alla nazione. L’ombra, con il fascismo, diventa persona.” (pag.28)

Il messaggio che leggo nelle righe bianche del racconto è che le donne del ventennio se la videro brutta e se ne accorsero, pur innamorate, schiette e generose, del mezzo busto possente del duce e delle sue promesse di progresso e di ampliamento.

Fianchi larghi e seno prosperoso, oggetto di concessioni e di adulazioni: le donne che incontro nel romanzo sono angeli del focolare, vittime sacrificali, amanti sfrontate e vergini istruite. Tutte madri o, meglio, materne, ad accogliere, a salvare dall’abbandono e dall’angoscia gli uomini sempre soli, forti, capaci di morire e mai di commuoversi, piuttosto di uccidersi.

L’incensare, la riconoscenza sorniona, l’immensa considerazione favoriscono, anche a causa dei superlativi, la propaganda del modello dei Fasci femminili. È in agguato la retorica ipocrita della cura come afflizione di sé ed espiazione in stato di sudditanza, sotto il controllo del partito, del marito, del capo. Fra saluti e inni, risalta sottilmente pericolosa la narrazione della madre prolifica e terapeutica, costruita dai maschi autocentrici.

Ancora oggi funziona il connubio donna e madre, di dedizione e di obbedienza, se il comando è sempre altrove e di altri, “secondo la convenienza della natura”. Così ricordava Antonio Rosmini, in quel passato che in parte ancora ci appartiene.

E le feste delle mamme, ancora, la scorsa settimana, vengono servite come pozione velenosa, a parassitare. L’autonomia di pensiero e di decisione è solo apparente ed è legata alla supremazia del narcisista di turno. La cura sociale è il welfare, il sistema che garantisce ai cittadini, a tutti e a tutte, la fruizione dei servizi ritenuti indispensabili. Invece, mancando una scelta di democrazia, la cura pare sia una virtù personale delle donne.

Voglio dire, tacendo nomi e situazioni, che mi accorgo da lontano quanto a me, alle altre professioniste, sia riconosciuto e affidato il ruolo di curare i sintomi.  È valutato come un atto di impertinenza e di ingratitudine, pretendere di ragionare sul senso delle scelte politiche e culturali, all’origine di quelle ferite. Ancora, sono legittimata nel ruolo di cura, per esempio, dello stress, meccanicamente, negandomi, di fatto, la possibilità di intervenire sulle responsabilità di chi, avendo il potere, ha causato, più o meno consapevolmente, quei malesseri.

Nella testa, i maschi guerrieri hanno sempre un impero da conquistare e un pezzo di umanità da sottomettere. Non raggiungono mai imperi e la frustrazione si trasforma in furia di dominio. La donna, spesso, è vista come un organismo di beneficienza e di propaganda, relegata in attività assistenziali, subordinata al padrone che comanda e dispone, incompetente e rozzo.

112 anni fa, Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, decise, nella seconda domenica di maggio, la festa ufficiale della mamma, per celebrare la procreazione. L’evento commerciale evidenziò, qualora ce ne fosse bisogno, il logos maschile. In realtà, Anna Jarvis aveva solo chiesto di poter ricordare e onorare sua madre, morta nel 1905 la quale, nell’intero corso della sua vita, aveva lottato per la tutela delle donne durante il parto, nel lavoro, nella malattia. Anna voleva promuovere il “Mother’s friendship Day”, le Giornate dell’amicizia tra madri. Meravigliosa e attuale necessità.

La solidarietà sincera fra le donne evita il patriottismo di disciplina e rimane aderente alla realtà, di pane e di rose. Mara e noialtre non siamo interessate ad andare in guerra come pari degli uomini, chiediamo di discutere il significato stesso dell’immane conflitto armato, di ragionare su cosa significa nella vita perdere o vincere. Abbiamo questo tempo opportuno, per prendere la parola e per viverla, la giornata dell’amicizia tra madri. E festeggiarla adeguatamente fra un anno.

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Ante virus – Post virus

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Le idee che uno può avere in testa non scacciano gli orsi dalle caverne

Lewis, p.43

Ho resistito due mesi e adesso compio questo atto di vanità che profana il silenzio del mio opulento mondo ammalato. Mi chiedo come ho potuto, un anno fa, sopportare, paziente, tre mesi di ospedalizzazione e di riabilitazione e perché la quarantena, invece, mi ha mal disposta dal primo giorno, pur riconoscendo le gioie dell’eremo. È che quando scelgo il ritiro, chiedo la garanzia e la confortante certezza che il prossimo continui a muoversi anche senza di me.

Una colonna sonora di questi pensieri in quarantena è il libro paradossale di Roy Lewis1, amaro e triste, non divertente come mi era sembrato anni fa. È il racconto della originaria e mitica virilità, potente e selvatica, imbarazzante nei mutamenti che ne hanno caratterizzato l’evoluzione. La legge paterna, il femminile destabilizzante, la misoginia violenta e il dominio sulla terra, temi rozzi perché atavici, insomma, di dolorosa basica attualità.

Tu, mi dispiace moltissimo dirlo, stai cercando di migliorare te stesso. E questo è innaturale, disobbediente, presuntuoso, e potrei aggiungere volgare, piccolo-borghese e materialistico… Non sei più innocente ma sei ignorante. Hai gettato alle ortiche l’obbedienza alla natura, e adesso credi di poterla guidare prendendola per la coda.

Lewis, p.58

A causa delle misure di contenimento della pandemia, ogni persona si è ammalata a modo suo, fra paralisi e iperattività. L’effetto collaterale è che il silenzio e il vuoto rendono il panorama più chiaro, evidenziandone le disfunzioni. Niente sarà come prima è solo una possibilità che ha bisogno di studio e di impegno. La parte malata, la parte ombra – e non dico l’inconscio – pensa di poter impunemente continuare ad imporsi senza che nessuno se ne accorga. La miserabilità e la disperazione sentite fino in fondo, non consentono di finire le preghiere, ma affinano la vista di chi sceglie di continuare a capire. Io non vedo, non vedo ancora, l’uomo nuovo che avanza.

Perché dovremmo essere persone migliori, dopo uno o tre mesi? Chi era abituato ad assolversi, continuerà impunito a sentirsi a cavallo della storia e della sua azienda. Si sentiva già bravo e bello prima, e si ripresenterà, dopo, con la faccia tosta di sempre, senza rendersi conto che questa pausa silenziosa, lunga e breve, avrà incoraggiato chi, al contrario, il silenzio lo ha usato davvero come lente d’ingrandimento. E peggio mi sento se qualcuno darà prova di essere in buona fede. A me e a poche altre è bastata un po’, solo un po’, di lontananza di tempo e di spazio, per ascoltare che gli imperatori hanno ancora una volta risposto “come una potenza offesa e non come una umanità ferita”. Richiamo le parole di Luisa Muraro, in un’altra fondamentale epoca storica.

Ogni situazione può essere una opportunità solo per chi vuole, per chi sa e può. La recita della realtà è in agguato e ho il dubbio che molte risposte siano solo emozionali. Rimane da verificare con il passare del tempo se la solidarietà messa in bella mostra sarà un bene contagioso e non una finzione commerciale. Prima, la circolarità era figura scontata della mia forma mentis. Adesso, la considero tutta da ricostruire e riparto dall’assioma separatista io-l’altro e noi-loro. La considerazione della differenza crea un buon terreno per eventuali prossime possibilità di confronto.

Ascolto ancora i responsabili d’azienda che hanno bisogno di mascherarsi da uomini giusti. E alcuni non hanno ancora capito la differenza fra l’autorità e il potere di comandare e di controllare. Le parole che rilasciano anche pubblicamente sono la prova di una distanza che pare incolmabile. I padroni continuano a decidere sulla testa dei dipendenti, senza averli mai ascoltati. Riconosco il micropotere degli introversi iperattivi che in modo febbrile continuano a difendere, infondo, il proprio orto: quelli che l’azienda-sono-io e che se-non-ci-fossi-io.

Temo che chi non si accorgeva, prima, del rapporto indispensabile di interdipendenza, potrà reiterare il sistema di diseguaglianze anche dopo. Gli imprenditori, ferocemente lontani dalla consulenza della scuola di educazione Alla persona, erano affetti dalla malattia del dominio incontrastato e difficilmente ne usciranno senza una guida severa. Alla riapertura, non sarà scontato che guariscano dalla fascinazione verso l’esercizio della sottomissione e dalla tentazione antidemocratica del monarca. E dopo, più di prima, sarà improbabile che scelgano di pagare un lavoro di consulenza psicologica e culturale, se non obtorto collo. Ma chi torcerà quel collo rigido? Per pochi la malattia o la paura della malattia avranno favorito l’autoanalisi, la riflessione, la coscienza dell’introspezione.

L’obbligo, dopo, sarà di trasformare in energia politica, la pratica della ricerca e dello studio. Mi interessa l’etica delle tecnologie, delle task force e dei pool, l’etica del lasciapassare cartaceo o del sistema di geo-localizzazione obbligatorio e di ogni sistema di sorveglianza. In quale scenario sociale, in quale complessa cultura l’essere connessi e rintracciabili saranno ritenuti strumenti di sicurezza? La discriminante è la visione filosofica da cui originerà ogni decisione.  Il controllo democratico è un ossimoro se si basa sulla Risposta allo Stimolo di pavloviana memoria, e non sul riconoscimento di responsabilità da parte di ogni persona. Credo che nessun diritto possa essere assegnato dagli strumenti tecnologici i quali, certamente, portano risultati veloci al business. Al contrario, l’apprendimento è lento, la psiche è lenta e l’attitudine all’alterità è tutta da costruire.

Non mi preoccupano le nuove forme di cittadinanza che prevedono probabilmente l’aiuto dei Big Data (dovrò studiare bene) e sono disposta a mettere in discussione la libertà di movimento, almeno, come la consideravo in passato. Però, sarà sempre presto per allentare la stretta sulle attività produttive, senza avviare un ripensamento sulla idea fondante del sistema nel suo complesso. Il territorio della pulizia culturale appartiene alla psicologia applicata alle organizzazioni.

La psicologia del lavoro è fragile perché è una disciplina giovane ed è maschile. Su quest’ultimo concetto intuito – la psicologia del lavoro che custodisce il modello ben strutturato, maschile e vanaglorioso, anche nelle donne – vado approfondendo e ne riparlerò. Certo, sarebbe un vero disastro aziendale se l’unica risoluzione fosse l’ascolto delle lamentele, il contenimento delle rivendicazioni, la cura dello stress e non, soprattutto, la comprensione delle ragioni di sistema, più profonde e pericolose che, prima, avevano prodotto i malesseri.

Prevedo forme organizzative che non intravedo neanche in lontananza. L’ignoranza e l’impreparazione non saranno lenite da automatismi tecnologici. Essere preparati non significherà solo avere le mascherine, i vaccini e i tamponi e l’efficienza nella vendita online, ma anche provvedere a politiche del lavoro giuste e ad un sistema aziendale democratico e solido.

Gli esseri umani, per non sentire odor di sepoltura, hanno bisogno di organizzare il futuro. La psicologia a servizio delle organizzazioni deve essere capace di trasformarsi, sganciandosi dagli artigli del potere. Come psicologa del lavoro è opportuno che, più che mai adesso, stia attenta a non cedere a marchette e prebende, per timore di rimanere senza guadagno. Chiarisco la mia riflessione. La partita iva, in trentacinque anni di attività, ha rappresentato una scelta anche politica. Comparire mensilmente nel libro paga di un datore di lavoro avrebbe legittimato prima o poi il tacito lasciar correre degli scivolamenti autoritari nel governo umano dei lavoratori e delle lavoratrici. Senza diventare l’inferno per l’altro, riprenderò, per esempio, i testi di Harendt, di Romanini, di Mintzberg, di Schein, che timorosamente con il passar degli anni avevo taciuto, per il fatuo pregiudizio, confesso, che se il cliente – rivedrò anche questo termine – avesse misurato la sua ignoranza, io avrei perso il lavoro. Talvolta, sono caduta nella trappola di trattare l’altro, e peccaminosamente anche l’altra, come un bambino confuso, vecchio o pazzo.  E ugualmente ho perduto qualche attività lavorativa.

Immaginare il futuro non è solo un fatto emozionale, è lettura, pensiero, ricerca, dubbio. Ancor più in un clima di emergenza, il controllo sociale, legittimato dalla paura, mette a tacere il pensiero critico, in nome di un generico interesse comune.  Modificare il mondo del lavoro significherà cambiare la soggettività nella sua logica di base. La parte silente, colpevolizzata e cancellata della propria interiorità non trae beneficio dall’affollamento tecnologico delle videochiamate che servono a rimanere in relazione, solo se la relazione c’è. In azienda, la pratica di coscienza sarà in gruppo e sarà in presenza.

I giorni dell’uomo sulla terra sono pochi, e la specie stessa corre un continuo pericolo di estinzione. La nostra risposta è la sfida: ci daremo allo sterminio di tutte le specie che ci attaccano, risparmiando solo quelle che si sottometteranno. A tutte le altre specie gridiamo: attente! O farete nostre schiave, o sparirete dalla faccia della terra. Qui comanderemo noi; vi supereremo in forza, pensiero, abilità, numero ed evoluzione! Questa e nessun’altra sarà la nostra politica! Eppure un’altra c’è: tornare sugli alberi. Bah! Tornare al Miocene? Non era tanto male, il vecchio Miocene, la gente sapeva stare al suo posto… ma guardali adesso: sono dei fossili! Si può tornare indietro o andare avanti: ma non si può stare fermi, nemmeno sugli alberi. Vi ripeto che l’uomo scimmia ha un solo dovere: andare avanti… verso l’umanità, la storia, la civiltà.

Lewis, p.134

Dopo, le parole come cura, relazione, empatia, desiderio, necessiteranno di essere usate in modo adeguato e dalla persona abituata a pensare oltre il proprio naso e interesse. Se no, come prima, rimarrà la presa per i fondelli. Rimarrà una copertura sociale che rivelerà la mancata scelta etica. Certo, non ci saranno parole sbagliate a prescindere, ma ogni frase, ogni metafora, rimanderà, in modo trasparente, ad una struttura di pensiero radicato e richiamerà rigurgiti di sfruttamento e di individualismo. Prima, il quadro di riferimento unico di sviluppo era legato alla produzione e al consumo, all’arroccamento del proprio utile, al dominio e all’assimilazione, alla subalternità padronale. Dalla piramide si dovrà passare dolorosamente al cerchio, senza le fasi intermedie dei trapezi che allargano il vertice e dei rettangoli che minimizzano la forza della base. Voglio dire che la gestione delle risorse umane, per forza, dopo, prevederà il cambio del nome e della sostanza in Governo Umano delle Risorse. E non parleremo più di capitale umano, ma di lavoratori e di lavoratrici liberati/e dai giochi psicologici aziendali che svalutavano e mortificavano. E si manifesterà interamente e miseramente la mentalità gaglioffa, manigolda e insolente che prevedeva, nei processi consulenziali, di raccontare di tutto un po’.

Mi attraversa un dubbio riguardo le aspettative: questa è mica l’apocalisse?! Come Totò, in una sua tragicomica scena: ma qui dentro c’è il paltò di Napoleone?

Potrò, fra qualche tempo, chiudermi alle spalle la porta di casa, ma varrà la pena di riaprire il portone del mio studio? E, soprattutto, per chi? Perché adesso non sarà come prima e non ci saranno sconti e sorrisi compiacenti: erano diplomazia e rischieranno di essere un crimine. Fuggivo, prima, dal facile bacioeabbraccio e non attendo alcun tempo favorevole per festeggiarcitutti. Aprirò quel portone, ma non come per un matrimonio a cui si deve essere invitati o come per un ricatto imposto dal mercato. Varrà ancor più il contratto psicologico, la dichiarazione protettiva del cinquanta per cento nella scelta libera dell’altro, il quale specularmente proteggerà me. Solo così saremo legittimati nell’uso futuro della relazione, anche in presenza meccanicamente indotta.

La vita della generazione C di responsabili aziendali cambierà a partire dalle scelte che faremo, dopo, e non dall’oggi al domani, quando riprenderemo le nostre attività formative sistematiche e non solo saltuarie, come dovere, magari finanziato.

Miei cari, ci esortava, fate che il vostro motto sia di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo avrete trovato, e di dare ai vostri figli condizioni di partenza un po’ migliori di quelle che avete avuto voi. Non contate sugli altri. Vivete come se l’intero futuro dell’umanità dipendesse dal vostro impegno; in fondo potrebbe anche darsi! Sono tempi critici, questi, molto critici. La padronanza del fuoco non è che un inizio; devono essere pensiero, pianificazione, organizzazione, per poter edificare su queste fondamenta. Dopo le scienze naturali, le scienze sociali! Chissà chi di noi avrà il privilegio di scoprire il modo di concentrare le energie degli uomini scimmia sui fini dell’evoluzione, e sarà il primo a guidarci su cammini davvero umani! Pensateci, miei cari. Io ho la massima fiducia in voi due. Dubito che vivrò tanto a lungo, ma voi, forse, potrete vederla… la gloriosa età dell’oro, ricompensa di tutte le nostre fatiche: essere umani, essere finalmente Homo sapiens! Io sto invecchiando, sapete, ma morirò contento se sentirò che i miei modesti sforzi hanno contribuito a mettere voi e i vostri figli su quella strada.

Lewis, p.160

 

1Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Gli Adelphi, 1960, 2008

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Sergio Ramazzotti, Su questa pietra, Mondadori, 2019

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Il fotogiornalista Sergio Ramazzotti scrive un libro di parole patite, di realtà e di verità, per continuare ad interrogare più che a trovare risposte, a conoscere più che a seguire opinioni o schieramenti sul suicidio assistito, sull’eutanasia, sul sacrosanto diritto al libero arbitrio. L’autore afferma di voler raccontare perché: “se non lo scrivo rischio di impazzire”. A leggere questa storia, posso impazzire davvero. Il tema è il fine vita e la lacuna legislativa, l’immaginaria patologia organica e l’attività di un giornalista serio.

Cosa accade ad un uomo quando è lui a fissare l’appuntamento con la morte? Cosa accade ai suoi sentimenti, ai pensieri, ai comportamenti? Assisto ad un colpevole aiuto ad uccidersi o registro un atto di compassione? Incontro un eroe o un codardo? Nel racconto conosco Erika, la medica svizzera che ascolta, visita e concede il suicidio ai pazienti in un monolocale di Basilea: una moderna accabadora pietosa o una spietata affarista che specula sulla paura della malattia e della sofferenza?

A tratti, l’autore si sente un avvoltoio voyeur, accompagnando in Svizzera, per quarantotto ore e per millequattrocento chilometri, l’ex magistrato sessantaduenne Pietro D’Amico, il sonnambulo che cammina verso la luce verde che indica il via libera al suicidio assistito. Dinanzi ad una scrittura umile ed energica mi impegno in un confronto libero e crudele.

Diventare compagna in questo viaggio significa meditare sull’intensità di una relazione innominabile, di due esseri umani estranei e, allo stesso tempo, legati da una intimità vitale che non consente di dimenticare. La vita, talvolta insopportabile, chiede di morire. I lettori e le lettrici non si dividono in sostenitori e in detrattori, ma creano una zona di ragionamento, di necessità, di analisi intorno alla sofferenza fisica e psichica e intorno alla solitudine in cui ogni persona precipita.

Il libro vince il premio “Alessandro Leogrande”. Come il giornalista prematuramente scomparso, Sergio Ramazzotti non presenta solo un’inchiesta e non trasferisce solo dati. Mi confronto con una esperienza al limite, diretta e destabilizzante che allontana dogmi e certezze e rimette al centro il pensare assieme, chiedendo un sincero atto di coscienza. Con la scrittura, Ramazzotti, come Leogrande, apre, non risolve, interroga e problematizza, non racconta giudicante le scelte degli altri, ma chiede a se stesso di riconoscere la paura, la rabbia e la certezza della libertà.

Cadute le grandi narrazioni e gli specialismi esasperati, l’autore propone il pensiero dell’esperienza senza ideologie. La quotidianità diviene un laboratorio di cambiamento in cui Sergio Ramazzoti offre la voce e la parola alle ombre, ai margini, alle periferie, agli scarti di una umanità destrutturata.

“… oggi per legge si può aiutare a morire solo chi è sano di mente, ma può dirsi sano di mente uno che desidera morire?” p.151

“Un letto d’ospedale è una trincea, un luogo dove dal paziente ci si aspetta che combatta. Eppure, a differenza delle trincee, quando comincia a desiderare la morte lo si taccia di viltà: da lui si esige che compia atti di eroismo, che non perda il buonumore, che fino alla fine sia d’esempio ai propri cari e addirittura li sostenga nel dolore che essi sono costretti a provare.” p.157

Ogni persona parte da se stessa e arriva all’incontro con l’altra-da-sé in una relazione che gira intorno e va in profondità. Non si tratta semplicemente di decidere da che parte stare, ma di allargare la visuale chiedendomi della solitudine, della fragilità della mente, dell’onnipotenza e dell’efficienza a cui mi sento condannata, dello spettacolo e dell’esposizione di me a tutti i costi. Come Leogrande, Ramazzotti appartiene al più sano giornalismo, utilizzando il potere delle parole di chi non idolatra il potere.

“Questa non è un’inchiesta giornalistica né un saggio, sono le parole di uno che scrive per provare a scendere a patti con se stesso.” p.92

“Ancora oggi mi chiedo se ci fosse una frase da dire migliore di quel silenzio, una frase che allora non seppi trovare e non ho trovato in tutti questi anni, per quanto ci abbia pensato quasi ogni giorno, da allora è il mio personale atto di dolore quotidiano.” p.121

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La traduzione del pensiero di Leogrande

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“È possibile creare le basi

per una storia condivisa

tra le due sponde dell’Adriatico?

È possibile farlo davvero?”

 Alessandro Leogrande

Creare le basi per una storia condivisa: così è stato nell’incontro fra Alessandro Leogrande e Arlinda Dudaj, presidente della omonima casa editrice che pubblica in albanese “Il naufragio”  e  “La frontiera”.  Leogrande parla di questa intesa profonda nell’articolo “Due o tre cose sull’Albania” pubblicato nella rivista Lettera Internazionale, 114/2012. Dopo meno di un decennio e a due anni dalla morte dello scrittore tarantino, io incontro Arlinda Dudaj presso la Feltrinelli barese, nel primo incontro del progetto “La Frontiera”, inaugurando un viaggio di sette workshop in sette Comuni pugliesi, da settembre a febbraio 2020.

L’Europa odierna si dibatte fra la pulsione confederativa, tutti insieme contro il nemico designato di volta in volta, e la tensione a due che condanna ogni Stato contro l’Altro. L’Unione Europea chiede di tenere lontana la guerra dal suo territorio ma, appena oltre la frontiera, al di là del mare, scivola nell’imporre il suo modello di dominio politico, economico e culturale. Crediamo, come testimonia Leogrande, che la cultura, lo studio, il sapere, la ricerca risolvono le idee fisse della guerra, del nemico e del potere che conquista, riduce e sottomette.

Oggi la traduzione di un testo è intesa anche come linguaggio e non solo come trasferimento di parole in una lingua diversa dall’originale. Il cammino di adattamento unidirezionale, da una lingua ad un’altra, diviene attività di mediazione pluridirezionale, di ripensamento sulla lingua originaria, su quella d’arrivo e sulle dinamiche di cambiamento. Intendiamo la traduzione come un territorio privilegiato per l’incontro fra culture e come un momento centrale nei processi relazionali. Tradurre è una attività complessa di coscienza e di conoscenza nella dialettica fra identità e alterità culturale. Vale ancor più l’idea di una traduzione che tradisca, conduca, ripercorra, trasformi e accompagni il testo d’inizio e di fine, irriducibili l’uno all’altro, verso un nuovo territorio, una terza via/opera.

Tradurre significa, essenzialmente, credere nell’incontro e costruire la relazione. Infatti, come ricorda Fernanda Pivano, maestra e guida, la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo. Essa rappresenta, invece, un processo, in un tempo e in uno spazio considerati. Il lavoro è generare e rigenerare non l’originale e la copia, ma i due testi forniti entrambi di dignità artistica.

La traduzione, dunque, come analisi critica e sintesi poetica, rivolta tanto verso il sistema linguistico straniero, quanto verso il proprio. Il risultato è una interazione verbale con un modello diverso recepito con discernimento e attivamente modificato. In questa ottica, il rapporto fra l’originale e la copia non implica una gerarchia di precedenza, cioè di maggiore importanza dell’originale rispetto alla copia, ma acquista un’altra dimensione: diviene dialogico, non più di rango, ma di tempo. La traduzione si trasforma in un vero e proprio genere letterario, dotato di una autonoma dignità. Pivano istintivamente ricorreva all’avantesto sub specie di testimonianza diretta e alla collaborazione continuativa con gli autori viventi, in una sorta di metodo socio-biografico applicato, impadronendosi del percorso di crescita, di creazione del testo nelle sue varie fasi, in una adesione simpatetica che diviene esperimento pedagogico.

La Storia segue sempre l’orma della Geografia. E in Italia, terra di conquiste, le culture degli altri hanno contribuito a formare la nostra. Quindi, possiamo accettare di essere naturalmente mediatori. La posizione della penisola italiana richiama un’immagine ampia, ariosa, aperta, accogliente, utilizzando parole che iniziano con la prima vocale che, detta, pretende l’apertura delle labbra. Ritorno con la memoria al periodo che va dal 1479 al 1552 quando, a seguito dell’avanzata turca dei Balcani e dell’occupazione delle terre d’Albania, molti abitanti si rifugiarono a Venezia. E la Serenissima, attraverso politiche di accoglienza, decise di avvalersi del contributo di molte menti albanesi alla cultura umanistica.

Attraverso la lettura dei testi di Leogrande superiamo il vizio di una visione ristretta e deterministica che non consente di trattare in modo civile e sapiente i numerosi temi che girano intorno all’immigrazione. Non possiamo continuare a pretendere l’impero del mondo al fine di evitare la paranoia, una malattia culturale fra le più feroci e imperdonabili. Apprendiamo assieme e costruiamo la capacità di tessere un reale dialogo transnazionale, smettendo di deridere e di negare, attraverso i divieti, i muri, le persecuzioni, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (dicembre 1948). La consapevolezza rappresenta l’assunto di base delle scelte politiche che riscoprono con onestà la vocazione europeistica dell’Italia, vocazione di viandanza e di originali contaminazioni.

L’augurio è che ogni persona parta dalla lettura dei libri e delle inchieste di Alessandro Leogrande non solo per onorarne la memoria, per ciò che lui è stato, ma per se stessa, per iniziare un cammino mentale e spirituale verso una diversa antropologia umana, verso una diversa modalità di costruire e di abitare il mondo.

“Una volta, Pasolini ha detto più o meno che il Terzo mondo iniziava nelle borgate di Roma. Ho pensato lo stesso passeggiando per Tirana. Non serve andare nella periferia estrema. Basta allontanarsi un centinaio di metri dal reticolo delle strade centrali: già alle spalle dell’ambasciata americana inizia un altro mondo, profondamente diverso da quello del Block e del Boulevard. Un dedalo di stradine confuse, palazzi diroccati, asfalto che si disfa, pozzanghere… ma anche tantissimi negozietti che vendono di tutto, ambulanti, caffè popolari affollati a ogni ora del giorno e della notte: un brulicare di vita levantina.”

Alessandro Leogrande, 2012

 

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Giuseppe Culicchia, il cuore e la tenebra, Mondadori, 2019

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Ogni persona ferita dal dolore della perdita e dell’assenza avvia naturalmente un percorso di consapevolezza. La morte è un’opportunità di vita e Giulio, il protagonista trentenne di questo romanzo, ritorna a Berlino per seppellire suo padre e ripercorrere il cammino di relazione, per domandare e per capire.

Nelle pagine finali l’autore raccomanda: questo romanzo è opera di fantasia… tratta di temi come il fallimento, la morte del padre, la dissoluzione della famiglia, l’amore per i figli, il dolore del distacco, l’impossibilità di fare davvero i conti con la nostra finitezza, l’egoismo insito nella nostra stessa natura, il ritorno vero o presunto di ideologie che hanno segnato il Novecento, la linea d’ombra che separa il Bene e il Male.

Leggo una storia violenta e tenera di uomini irrisolti fino a che non si donano il permesso di perdonarsi e di perdonare. È la paura dell’essere solo e abbandonato, è l’angoscia della morte, che Giulio riconosce dinanzi al rischio di un padre sicuramente maniacale e forse pure filonazista. Fra i libri e i documenti ritrovati, il giovane scopre l’inspiegabile passione paterna per il nazionalsocialismo e, in generale, per le proposte hitleriane. Cosa è accaduto perché un uomo libero, colto, brillante, intelligente si sia così tanto appassionato agli ideali populisti di estrema destra? Ma davvero senza Hitler e il nazionalsocialismo, Furtwängler non avrebbe mai diretto magistralmente quel concerto? Ma, in un regime totalitario, davvero vale l’idea di poter salvare qualcosa?

“Per questo sono arrivato alla conclusione che per eseguire la Nona Sinfonia nel solco del pur inarrivabile Wilhelm Furtwängler, sia assolutamente necessario ancora oggi studiare, anzi immergersi, in Hitler e nel Nazionalsocialismo. A partire dalla celebre biografia dello storico Joachim Fest.” p.56

La depressione prevede sempre l’impossibilità di perdere e di fallire, la necessità di tener duro, come ricorda il tatuaggio sulle dita del maestro d’orchestra. Un papà, Federico Rallo, che piangeva troppo e che si deprime nello sforzo di calare se stesso e la sua orchestra nell’epoca storica in cui Furtwängler diresse la Nona sinfonia di Beethoven, nell’aprile del ’42, in onore del compleanno di Hitler. Nella proposta del padre che vive in solitudine a Berlino, avendo perso il posto di lavoro, l’esistenza è registrata come una guerra in cui i traditori si condannano a morte ed in cui è bene non sposarsi mai e non arrendersi e resistere e considerare il Trionfo della Volontà. Il maestro Rallo crede nella “freddezza del grande giocatore d’azzardo”, nel “duro e intrepido sfidare il destino”, nella risolutezza senza fragilità e nella magica irresistibilità. Crede in un uomo che non ha mai capitolato e che insegue la perfezione e l’unicità escludente: insomma, segnala un paranoico.

“Il nazismo non tanto come dottrina politica ma come… concezione dell’esistenza.” p.107

Ed è questo sguardo a preoccuparmi: la visione di mondo e di vita, la weltanschauung drammaticamente chiara. Non mi scappa di fare la psicologa, ma questa è un’epoca in cui non è opportuno coltivare ingenuità storiche e scelgo di offrire una possibile chiave di lettura che ritengo essenziale, non certo l’unica. Non si tratta di demonizzare e liquidare velocemente le dottrine politiche che sostengono presunte superiorità e obbligate sottomissioni, semmai di capire la follia del potere nei primi atti e fermarne la deriva, innanzitutto, nella propria coscienza.

È una lettura che mi rende inquieta con le presenze richiamate: Hitler, Goebbels, Heydrich, Göring, seduti in prima fila nelle foto e nel romanzo. Uomini feroci perché matti. Ai lati le bandiere con la svastica. Ovunque. E un popolo tedesco vittima perché carnefice.

Nella storia narrata, i protagonisti sono meravigliati e ben disposti per l’affetto che i carnefici tedeschi mostrarono nei confronti dei loro pargoli e per l’attrazione e l’apprezzamento manifestate verso le forme artistiche. Il paranoico criminale, certo, può apparire come un genitore affettuoso e un amante dell’arte e pareggiare le tenebre della coscienza profonda con le luci abbaglianti di una ideologia salvifica. E, a questo punto, per chiarire lo scenario, è necessario richiamare alla memoria, brevemente, la paranoia definita come una psicosi caratterizzata da diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri che iniziano nella prima età adulta e che sono presenti in una varietà di contesti. La paranoia rimanda ad una forma di schizofrenia caratterizzata dalla presenza di uno o più deliri o di frequenti allucinazioni uditive. La costruzione delirante subordina tutta l’attività psichica ai propri fini e la quotidianità ne viene irreparabilmente contaminata. I deliri si rivelano relativamente coerenti, logici, relativamente plausibili nella loro forza macabra di convinzione. (1)

Ora, il cave canem è nel dubbio che i totalitarismi possano proporre, in fondo, anche ideali buoni o produrre opere d’arte! La malattia mentale non può essere venduta o sdoganata e accettata dalla massa come scelta politica. Il dittatore di turno cade e perde non perché ha osato scelte che si sono rivelate fatali, ma perché l’evoluzione della malattia ha seguito il suo corso. Il precipizio psicologico e antropologico è la patologia e non le scelte che eventualmente ne conseguono. Gli oppressori sono paranoici e, di conseguenza, se non fosse accaduta una vicenda mortifera ne sarebbe accaduta un’altra che ne avrebbe interamente manifestato il delirio. La generalizzazione e il relativismo sono presupposti pericolosi e nulla condividono con la prospettiva sana della complessità che trattiene in sé gli opposti, il bene e il male, l’ombra e la luce, la gioia e il dolore, il fallimento e la rinascita, la creatività e l’inquietudine psicologica.

Il cuore e la tenebra è un romanzo di formazione che avverte l’urgenza di indagare nella relazione fra padre e figlio, come da molti anni, la letteratura e la psicologia studiano il rapporto fra madre e figlia. Attraverso questa storia, sono contenta di aver avviato una riflessione che mi sta a cuore anche come cittadina e come formatrice. Con l’incontro in presenza, Giuseppe Culicchia si conferma persona e scrittore di adultità e di coraggio che non si sforza di trovare soluzioni, ma consente di incamminarci sulla via che dalla comprensione porta all’assunzione della responsabilità e alla rinascita. Auguro più che mai ad ogni lettrice e ad ogni lettore di questo libro, il pensiero critico e il discernimento, oltre alla capacità di accogliere storie complesse e di custodirne il mistero.

(1) DSM, Diagnostic and statistical manual of mental disorders

 

 

 

 

Durastanti

Claudia Durastanti, La straniera, La nave di Teseo, 2019

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Se la riconoscenza è la memoria del cuore, allora apprezzo questo romanzo che è grato alle storie passate e le illumina con gli occhi adulti da giovane di Claudia Durastanti, scrittrice, traduttrice, saggista e organizzatrice di eventi culturali. Il lavoro svolto dimostra il carattere attivo e volontario della memoria. Il futuro non può solo tenere a bada il passato che ringhia se rimane rinchiuso; le tracce recuperate attraverso i ricordi muovono il pensiero e la capacità di giudizio.

Leggendo il romanzo “La straniera” consento agli sguardi, alle parole, al sapore, agli odori dei diversi luoghi di attraversarmi. Da lettrice, recuperando le conoscenze passate, consegnate all’intelligenza e al cuore, amplio la consapevolezza del vissuto presente. Aggiungere prospettive e chiavi di lettura è l’esercizio della responsabilità e della libertà.

Carver definisce l’autobiografia come la storia dei poveri. Ma un’autobiografia non si scrive a 35 anni. L’autrice realizza un’opera che è diario e romanzo assieme in cui, non vincendo la cronologia, come in un puzzle ben assemblato, la dispersione diviene man mano unità. Il racconto non prevede l’analisi psicologica del profondo, non è sublimazione, ma è presa in carico della realtà. Non catarsi, ma appropriazione. Non denudamento, ma scelta letteraria descrittiva.

Penso ad una pratica psicologica della estraneità per garantire l’appartenenza a me stessa mentre cambio continuamente. Sentirmi estranea rimanda al dolore necessario dell’intimità che consente, in seguito, l’ironia. La precarietà, l’instabilità, l’ombra, l’errore, l’inciampo, la rottura, non sono il male, semmai rappresentano la condizione necessaria di migrante, di naufraga, appunto, di estranea, vicina e lontana, dentro e fuori.

Dare senso alla memoria vuol dire offrire significati ai fatti del passato e riconoscere la direzione del desiderio. Coscienza e orientamento, identità ed estraneità non sono poli opposti: l’io siamo noi e ciascuno si va definendo come persona nella relazione che accade. Esiste una lingua tutta intera, impenetrabile e intraducibile e poi ascolto una lingua “tutta rotta”, come nella famiglia di Claudia Durastanti, e scopro la lingua parlata e la lingua dei gesti, non dei segni, la lingua che cura, la lingua dell’esserci come presenze fondanti. L’idea delle radici o delle spore, come afferma la scrittrice, prevede la stanzialità e, anche, la possibilità del nomadismo. Ritrovo il senso del cammino in chiave iniziatica; è andando che si apprende di sé, oltre che dello straniero.

La democrazia mette insieme le diversità e crea una volontà collettiva unica, rendendo la differenza un bene comune. La visione democratica non si riduce alla legge della maggioranza: promuovendo la produttività del conflitto, rispetta le minoranze e utilizza in maniera feconda la prospettiva di ognuno. La tessitura delle diversità è un lavoro complesso che presuppone la scelta della pace e del dialogo. L’interdisciplinarità e la contestualizzazione sono necessarie: farsi mondo, come apprendo dal romanzo, nei luoghi e con il prossimo, significa scrivere la storia. L’autonomia si nutre di multiple dipendenze e l’autonomia mentale ha bisogno di dipendere da varie conoscenze ed è da queste basi che è possibile sviluppare un pensiero libero. Una cultura è tale perché integra culture straniere, opera métissage e sintesi.

È evidente nel romanzo il lavoro di ricerca sulla forma e sullo stile, infatti il testo rimane essenzialmente letterario ed esprime l’originalità nella capacità di combinare il diverso. Il libro è strutturato come le voci di un oroscopo, a parte i grandi temi della classe, della diversa abilità e dell’educazione culturale, ritrovo il lavoro, l’amore, la famiglia, i viaggi, la vita raccontata con ironia in Lucania, a Brooklyn, a Londra. Mi è caro questo romanzo perché è così che si fa per diventare adulti, in ogni età, andando indietro e tornando nel presente, capendo e perdonandosi. È il caso di essere gentili, ogni persona ricorda e racconta una storia.

“Tempo fa, l’ecologista Suzanne Simard ha dimostrato che la foresta è un sistema cooperativo e gli alberi “parlano” tra loro per scambiarsi sostanze nutritive o rilasciarle in caso di minaccia: quando scoppia un incendio, gli alberi usano i mycorrhizal fungi nel sottosuolo affinché trasmettano delle sostanze vitali alle specie più giovani attraverso una fitta rete neuronale in modo che le piante più deboli possano andare avanti.” p.34

“… valuto la possibilità che l’incontro tra due persone non abbia a che fare con la predestinazione quanto con una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’un l’altro, e si scopre che c’era un’intelligenza primitiva che governava i nostri corpi e rilasciava particelle elementari nell’aria ancora prima di incontrarsi, in modo che queste attraversassero città, pareti di cemento e membrane di pelle per entrare in contatto con sostanze simili e sviluppare una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo…” p.34

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Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, 1945/2016

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Quanti anni compie un desiderio perché non si trasformi in una fantasia delirante? E chi stabilisce il limite fra la giusta aspettativa e l’inizio della follia? Ne Il deserto dei Tartari, il trentaquattrenne Dino Buzzati, racconta il sentimento dell’attesa che, infine, può ammalare con la previsione del proprio destino di successo, con l’ostinazione nel sogno di un evento che possa dare senso, finalmente, alle rinunce di una vita.

Rivedo qualche spezzone del film, messo in scena nel 1976 dal regista Valerio Zurlini. Un giovanissimo Jacques Perrin, nel ruolo del tenente Giovanni Drogo, aspetta una improbabile invasione nemica. La immagina, la visualizza, la prevede nell’organizzazione, quella battaglia che gli offrirà onore, riscatto, vittoria. Rinchiuso dentro la fortezza Bastiani, rinunciando a farsi una famiglia, a costruire relazioni gioiose, a scegliere le comodità di una casa, Giovanni è riconoscente alla sua vita militare perché, ne è certo, arriverà il nemico e combatterà e vincerà. Insieme alla battaglia, scoppierà la felicità tenuta a freno per così tanto tempo.

In realtà, la fortezza Bastiani, dal nome altisonante, è una modesta bicocca, vissuta come il luogo dell’avventura memorabile, dell’emancipazione e del prestigio. L’imperturbabile presidio militare è un bluff e il grande avvenimento e l’invasione nemica arriveranno troppo tardi e passeranno, insieme alla vanità di una vita eroica.

Anch’io ho avuto il mio deserto a cui fare la guardia e un nemico/salvatore da aspettare. Una frontiera che si affaccia sul nulla è un modo per restare ferma e il deserto inanimato e inutile continua ad attrarre perché in quel vuoto può accadere tutto, come può essere scritta qualunque storia su un foglio che rimane bianco.

L’attesa nella fortezza Bastiani attribuisce al tenente Giovanni Drogo uno statuto di superiorità. È nel futuro il risarcimento: così il nemico invasore che salva, acquisisce un valore fondamentale, non può non essere vero e non può che manifestarsi come nemico a cui opporre resistenza. Nel frattempo il giovane Drogo accumula diritti rispetto all’altro e alla vita. È un’economia psicologicamente povera: dipendo dall’altro che non si manifesta, accumulando crediti inutili di felicità, maturando il rancore vendicativo, perché sono io che li faccio esistere, i Tartari! La rinuncia e la sofferenza diventano merce di scambio perché la gloria sia meravigliosa.

L’essere umano che attende diviene nevrotico perché sposta sull’altro che non arriva la possibilità di godimento e di scelta vitale. È l’altro, ancora assente, il responsabile della mia angoscia. È nell’inconcludenza che posso vivere, e mi ostino a resistere. Se appagassi il desiderio, non soffrirei più e, però, mi sentirei in colpa. Chi o quello che non arriva, proprio con la sua mancanza, garantisce la mia esistenza e mi tiene tesa, vigile, irrequieta. Se non ci fosse, mi toccherebbe scegliere, assumere la responsabilità di decidere e di agire. Quando l’attesa, di qualcuno o di un evento, si lega al sacrificio, la frustrazione è assicurata.

Nella voce dell’Autore, riascoltata da adulta, intravedo un’altra prospettiva della speranza, della pausa, più in ombra e più consapevole. Se il tempo dell’attesa non fosse di ricatto e di sottomissione? Se, insomma, non fosse il tempo isterico che richiede la conditio: continuo ad aspettare solo se non arrivi? Se quel tempo sospeso non fosse perduto, ma si rivelasse come cifra di coscienza e di riappacificazione con se stessi? Forse ogni persona deve passare da quell’incantamento per giungere alla possibilità critica, al discernimento, dinanzi alla realtà. Il desidero è salvo ed è liberato dalle catene della patologia e può essere duraturo perché non è più legato all’apparizione dell’altro, al suo assenso, ma alla curiosità della coscienza, all’approfondimento del proprio copione.

Se l’appuntamento atteso è con l’esistenza, allora, non c’è battaglia, e riconosco la riconciliazione armoniosa nell’utilizzo del tempo e dello spazio concessi per completare l’opera che è previsto che io porti a compimento. La relazione ricattatoria si risolve con la scelta e la certezza del dono. Non sono ostaggio di chi non arriva, ma faccio dono, innanzitutto a me stessa, delle ore di riflessione e di comprensione, attraverso quell’attesa che ha continuato a custodire apprendimenti che nessuno può portarmi via. Il conto torna.

Magari, l’augurio è di accorgerci di quest’ultima prospettiva prima della vigilia della morte.

Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita. Non si erano adattati all’esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima. p.48

No, non pensarci, Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare. p.201

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Al Maquam, la storia di Naìma (O del corpo che si rivela), Kurumuny, 2019

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La collana Camminamenti creata e diretta dalla poeta Marthia Carrozzo inaugura e benedice le vie diverse delle scritture in movimento da oriente ad occidente, dal femminile al maschile, dal poetico al politico, originando dalla visione di una corporeità integra e cosciente, al fine di “farci trascorrere un po’ di tempo in quella che è una posizione sempre scomoda, proprio perché ci obbliga ad abbandonare il nostro più confortevole punto di vista.” (M.Carrozzo)

Il progetto prevede il sentire e il pensare in profondità, assieme, verso un progresso inteso come un movimento circolare trasformativo e non solo come una linea ascensionale che rimanda sempre ad un potere. In questa opera, celebrata dalla significativa presenza di Joumana Haddad e di Nabil Salameh, Marthia Carrozzo è ancora più determinata ed è socialmente impegnata nel testimoniare un’idea, una erotica del corpo che, di conseguenza, diviene scelta di comunità politica.

Marthia, Joumana e Nabil attestano con i versi musicali la propria storia di carne, di idee, di scelte; non sono asociali esponenti di una subcultura che genericamente richiama i sentimenti. Al degrado odierno del linguaggio e dell’istinto occasionale ci guidano a riscoprire il Tarab, l’estasi dovuta alla parola cantata. Condivido, come nella dichiarazione di intenti, la poesia che anticipa e che prepara il riconoscimento della bellezza, predisponendo il corpo ad accogliere l’energia vitale. Ritrovo la passione consapevole che origina dalla ipseità e giunge faticosamente all’alterità, unico strumento solido di relazione e di cambiamento. La passione come vis, come valore e virtù, sostituisce il linguaggio emozionale dei luoghi comuni e della inutile autocelebrazione. Il dire poetico necessita che sia di éros e di pólis: il corpo personale partorisce la rivoluzione, dapprima silenziosa e sotterranea, e che si manifesta, in seguito, visibile e irrimediabile nel corpo sociale.

Al Maqam diviene il luogo dell’incontro naturale ma, prima, si propone come mappa mentale allargata e curiosa, disponibile e grata nella diversità. In questo caso, la Poesia non è solo un documento prezioso per esprimere buoni sentimenti o per saperne di più, ma svolge pienamente una funzione politica, assumendo in sé il canto, la musica, la danza dei corpi liberati.

In un momento di disorientamento generale, l’atto poetico che Carrozzo propone attraverso le voci diverse di Haddad e Salameh rappresenta un impegno personale, sociale, politico perché emerga una umanità forte e coesa nella difesa degli esseri umani vilipesi e oppressi. A partire da sé. Come Naìma e Jamila e i partecipanti tutti della loro scuola. I versi si rivelano una “necessità imprescindibile” (N.Salameh) e rimandano ineludibilmente al vissuto dell’umanità, senza veli e senza difese, ristabilendo il primato cognitivo ed emotivo della lingua come medium che rende possibile la conoscenza e l’appartenenza alla Terra.

La poesia, quindi, scelta come un nuovo palinsesto, “un inseguimento appassionato del Reale” (2), cosciente delle sue “terribili responsabilità” (2) rispetto alla creazione e alla strutturazione di una visione di mondo che non deforma la verità a sevizio dei potenti.

L’azione ha inizio da sé stessi, da Naìma, donna archetipo, che con l’arte orale della parola ci conduce verso l’estasi mistica e la poesia erotica. La ricerca, la conoscenza che è páthos e la rilettura del mondo arabo aprono passaggi di comprensione e di liberazione di un io occidentale ostinato e chiuso anche nella struttura identitaria del lessico. Non esiste profanazione peggiore della salvazione forzata e lo scontro di civiltà è solo scontro di ignoranze: riprendo il pensiero dello scrittore Edward Said.

Così, per ogni persona riconosciuta e rapita da questo primo volume, accade il tempo in cui la coscienza accoglie una lettura altra della Storia, alterata da una memoria che selezionando, spesso, mortifica e tradisce, recuperando, invece, l’arte di mandare a memoria che in arabo è il richiamo al cuore. Le persone esposte le une alle altre, attraverso e oltre le identità e le culture, riscoprono una filiazione, una appartenenza naturale, rizomatica, come è ben illustrato all’origine del pensiero nomade di Rosy Braidotti (3). Infatti, il rizoma è la radice multipla di una pianta che permette il superamento delle condizioni climatiche sfavorevoli rigenerandosi, come può accadere ad ogni persona in cammino. Il rizoma apre a storie differenti e ci aiuta nella dialogica interculturale con l’estraneità riferita, soprattutto, alle parti che giudichiamo differenti e strane di noi stesse.

I versi della poeta di origini libanese Joumana Haddad donano la possibilità di partecipare al suo cammino esistenziale e di riflettersi nella differenza. Come ogni Ninfa, Joumana è guardiana e depositaria di una sapienza che tende l’arco, che tende lo sguardo doppio, osservando e contemplando. Perseguiamo un apprendimento che dalla possessione erotica, manía erotiké, accompagna verso un rito purificatorio, katharmós, e verso un sapere precedente.

“Sono Lilith, … Talmente pudica da nascondermi in parole oscene. / Tanto insolente da arrossire gridando il mio fuoco.”

“… Donna libera, donna in catene, / donna libera persino dalla libertà, …”

“Credono che la mia libertà sia loro proprietà/ e io/ glielo lascio credere/ e avvengo”

(J.Haddad)

 

Riferimenti bibliografici

  • Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, 2005
  • Czesław Miłosz, La testimonianza della poesia, Adelphi, 2013
  • Rosi Braidotti, Soggetto nomade, Donzelli, 1995
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Antigone, non sempre

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Spesso ritrovo riferimenti ad Antigone per sottolineare, in alcune vicende, la scelta di una urgenza feroce, di una necessaria disubbidienza civile. Certo, dinanzi ad un comando che offende la vita, la coscienza chiede di intervenire senza indugiare. So di me, in relazioni di eccedenza, pronta a spendermi, a costo di bruciarmi, come le storie sacrificali del libro Cuore, allontanate in analisi, ma rimaste nella memoria del corpo. La procedura richiede di farsi eliminare, di offrire la vita o di impazzire dal dolore per cause di dignità, di giustizia e di difesa delle persone e delle idee. E ricordo episodi in cui mi costrinsi a dedicare tempo ed energie, anche economiche, a difendermi più che a studiare, a far circolare le idee e ad applicare le buone prassi. Scegliendo di comportarmi secondo coscienza, assumevo le conseguenze che magari all’inizio sottovalutavo, sopravalutando la mia forza. Con i riflettori da poco spenti sulla giovinezza, inizio a considerare Antigone una figura letteraria della tarda adolescenza e invito a riflettere su un’altra prospettiva possibile dell’età adulta: la capacità di prevedere e di creare in tempo situazioni nuove, evitando il contrasto diretto, la lotta vis à vis. È in campo la capacità profetica, come dichiaro in una recente riflessione. (1)

Disubbidire alle leggi non si può, anche per sicurezza, e in aula di formazione non si deve neanche dire. Esprimo la radicalità non più soltanto con l’esposizione di me e con l’esasperazione dei comportamenti, ma prevedendo e organizzando. Capire, Coinvolgersi e Compromettersi sono tre livelli ben distinti nello svolgimento delle attività professionali. E per compromettermi bisogna che abbia appreso bene a proteggermi, a costruire reti resistenti, ad avere alternative certe. Il ruolo, per esempio, può proteggere. Come anche proteggono le piccole comunità di riferimento su cui poter sempre contare. Il tempo che trascorre inesorabilmente e i luoghi diversi possono rappresentare protezioni. Mai penso di non aver nulla da perdere perché questo è l’inganno del salvatore, della vittima sacrificale e dell’arrogante persecutore.

Quando mi sono ridotta al tiro alla fune, al braccio di ferro, al muro contro muro, ho perso sicuramente, ma gli altri non hanno vinto e, soprattutto, mi è dispiaciuto perché si è diluita l’importanza della causa iniziale della giusta contesa. Il potere si nutre di giochi psicologici e trascina anche i più scafati, inevitabilmente, nel territorio a lui noto del triangolo drammatico. Il potere specula sulle paure, ma è sano ed è protettivo riconoscere di aver paura per valutare tutte le variabili prima di agire.  Se i tempi sociali non sono maturi e se le persone non affinano il discernimento si creano solo divisioni fra chi è d’accordo e chi è contrario, ma il dittatore non avverte neanche la vergogna e lo scorno.

Magari Antigone, nella sua situazione, chiede solo sepoltura degna per il fratello e non pensa di sfidare nessuno. Ma Creonte, il patriarca di turno, si sente sfidato e non aspetta altro. La giovane sceglie ciò che ritiene il bene e muore suicidandosi, dopo essere stata murata viva. La figlia di Edipo sceglie la morte per evitare la pena e il suicidio diviene così l’ultimo atto di disubbidienza, la chiusura tragica del copione, il finale drammatico del gioco al rialzo della posta. È una chiusura prevedibile. Il potente incarognito può produrre tre uscite di copione: l’omicidio, il suicidio e la follia. Non chiede di capire o di risolvere e parla di vittoria del principio e della legge lì dove, davanti ai suoi occhi, hanno già perso gli esseri umani. Il tiranno è cretino ed è volgare e, quindi, è pericoloso reggergli incautamente il gioco, nella parte che ci ha assegnato, paradossalmente, di sue persecutrici o vittime o salvatrici. Prestarmi ai giochi di chi finge la potenza negando la paura non significa, data la sua patologia, cedere al ricatto, ma facilitargli la deriva a calunniare, a delirare, a trovare forme diverse di sopraffazione.

Si sarebbe potuta evitare la scelta ultima e il coraggio estremo contro il dominio iniquo che si fa scudo con il protocollo e con la legge? A quel punto, no. Per questo, credo nella saggezza che previene ed evita il corpo a corpo perdente già dall’inizio. L’oppressore, anche donna, va riconosciuto e isolato creando bande, anche nel senso di orchestre, di uomini e donne perbene,  creando piccole comunità in viandanza che accolgono sempre più persone come testimoni di un altro modo di stare al mondo. L’inganno del despota è ridurre la forza dell’avversario, spostando la tensione dalla difesa delle persone e dell’idea alla sopravvivenza personale di chi si muove per soccorrere. E io taccio, mi allontano, scelgo di non farmi trovare, di non accogliere il marchio prefissato di nemica. E mi garantisco la salute e la continuazione tignosa e metodica dell’opera intrapresa.

Antigone è una delle scelte possibili, è giovane, è donna e il maternage è inevitabilmente atteso da un modello maschilista che trova le ragioni per perpetrare i suoi scempi e rimanere identico a sé stesso, proprio nel sacrificio estremo di una giovane donna. Qualche volta le va bene e se ne può tornare a casa, magari sparendo per un po’ di tempo o per sempre dalla socialità. Invece, altre volte, come nel caso di Antigone, alla fanciulla disubbidiente è riservata solo la morte. Mi piacerebbe che l’assunzione della responsabilità e del rischio potesse non pretendere sempre l’ardore della giovinezza, ma la lenta impostazione e il coordinamento e la lungimiranza dell’adultità, dell’età genitoriale. In alcuni casi, le giovani vanno protette da sé stesse, dalla loro urgenza di giustizia davanti a interventi pur provvidenziali. La generosità senza protezione può essere una grave ingenuità, visto che il persecutore è sleale e utilizza armi, purtroppo note, come il ratto e lo stupro, intesi non solo come metafore, e come la calunnia e il discredito.

Oggi sono convinta che il dissenso, partendo dai professionisti più anziani, non può manifestarsi solo con proposte ardite, ma può diventare uno stile di vita organizzato con studio, calma e determinazione. L’eroismo come sistema, anche di contraddizioni, non richiede di diventare eroine che il potere velocemente consuma. La lotta alla tirannia non è mai del tutto pacifica, ma può non essere sempre patita in prima linea e può evitare il martirio. Il carnefice beneficia delle situazioni oppositive, le cerca e se ne nutre con avidità. Da una parte lo Stato con la legge della giurisprudenza e dall’altra la legge dell’umanità e della coscienza: questa scissione è costruita, difesa e strumentalizzata dal potere maschilista che prova a cancellare la politica sana della relazione. Non sono inibita e non cedo sulle visioni nelle quali credo e non discuto sulla militanza e sulla responsabilità di coscienza.

L’impegno è considerare tutte le prospettive, continuando a discutere: il generale e il particolare, lo scenario ampio e il contesto, il personale e il sociale, la legge e la virtù. Cogliere il kairós significa riconoscere lo statuto umano che non separa il diritto e la morale, ma ne conosce le ragioni e ne condivide i processi decisionali. Nel lavoro di formazione, la legge fuori da sé e la legge dentro di sé non sono in antitesi e rappresentano il territorio per confrontarsi e modificare, allargando le mappe mentali. Il nuovo apprendimento è la misura del limite e, ancora una volta, l’analisi di realtà che affina il pensiero e trattiene la scelta immediata, consolidando, contro il dominio che sbrana, un cammino segreto più sotterraneo, e forse più doloroso, una antropologia della comunità da condividere con più persone possibili.

(1)

http://www.ndcomunitadiricerca.it/la-relazione-di-consulenza-e-il-fastidio-della-profezia-da-cassandra-archetipo-della-maga-a-ecate-dea-psicopompa/

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Anna Folli, MoranteMoravia, Neri Pozza, 2018

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Qualche giorno fa, presentando la sua ultima pubblicazione MoranteMoravia edito da Neri Pozza, ho conosciuto Anna Folli, giornalista mite, scrupolosa e di affinata sensibilità.

Dalle prime pagine capisco che questo libro è costato studio, ricerca, interviste difficili, visite in luoghi diversi. Ogni capitolo esprime l’interesse onesto e riservato per Elsa Morante e Alberto Moravia. Non c’è voyerismo, non c’è l’urgenza di guardare dal buco della serratura le vite di due geni. Riconosco una scrittura di rispetto e di gentilezza che svela una storia d’amore attraverso venticinque anni di storia d’Italia: il fascismo, la guerra, la ricostruzione, la comunità degli intellettuali. Durante la lettura sono concentrata e commossa e mi avvicino in silenzio ad ascoltare la coppia dei contrasti: Elsa e Alberto, legatissimi e liberi, nati in contesti familiari diversi, complici e nemici, dannatamente entusiasti e felici. Una relazione tormentata contro la noia che esprime la meraviglia del pensiero custodito prima e, dopo, condiviso.

Il percorso nei sotterranei dell’anima è sempre doloroso. Gli amanti della letteratura intuiscono che procedere significa andare indietro, in fondo, a recuperare le origini, a cercare nelle visceri le ragioni della vita e delle relazioni. Il sentire profondo sperimenta il paradiso e l’inferno, la benedizione e la maledizione, il dolore e la felicità. Coloro che decidono di vivere sprofondando nella coscienza non scelgono il masochismo, ma la libertà. L’assoluta passione per la letteratura non rappresenta solo un incastro nevrotico, ma diviene respiro unico di due anime oltre la quotidianità e la morte, angosciate e gioiose, a capire la profondità, l’abisso dell’esserci. Coloro che credono si condannano e condannano il prossimo agli inferi: così, i poeti e le poete, così per chi è scelto dall’arte.

Rivedo Elsa e il suo volto di gatto, come ricorda lo scrittore Raffaele La Capria. Elsa che ama i bambini, il mare, i gatti, in quest’ordine. E che per tutta la vita assume la parte della donna folle e geniale, a rivendicare le sue idee. Solo una donna timida, salutando Moravia la sera del loro primo incontro, può lasciare scivolare nelle sue mani le chiavi della propria casa. Rigore e fantasia, sogno popolare e sogno di principessa, autonoma e assoggettata, talvolta, Elsa sembra davvero richiedere relazioni simbiotiche:

“… io vorrei disperatamente essere te per essere te” (p.49)

“Alberto mi fa venire le rughe e io a lui faccio venire gli attacchi” (p.59)

Moravia è sistematico nella scrittura, Morante cerca l’incantamento e l’ispirazione. All’inizio della loro vita assieme, si scambiano l’unico tavolino per scrivere, lui di mattina, lei di pomeriggio. Moravia racconta: “era più facile pensare di ucciderla che separarsi” e l’accusa di non saper stare al mondo, le rimprovera di non essere mondana né diplomatica. Sempre, però, riconosce l’eccellenza di Morante in letteratura. Lui cerca donne autonome, intelligenti, giovani e, soprattutto, innamoratissime e si rivela un uomo simpaticissimo che adora mangiare in compagnia.

Fra Elsa e Alberto riscopro il linguaggio della notte, intimo e feroce che non può sopravvivere alla luce senza risultare inadeguato, eccessivo. E la profondità invecchia, fa sentire pesanti, aggravati da tutto il rumore e il dolore del mondo. Elsa parla della pesanteur come il suo difetto principale, “la pedanteria, il bisogno di dare giudizi definitivi, l’incapacità di dimenticare e di dimenticarsi” (p.220), il dubbio, l’insoddisfazione, la pretesa d’assoluto.

Nelle pagine scorrono i luoghi, i viaggi, le relazioni amorose, gli amici e le amiche, la natura e gli animali, la guerra e la fame, la malattia, i conflitti e le urla, la vita da bohème, il rapporto con la maternità e la paternità, una genitorialità diversamente espressa, la frequentazione di pittori e scrittori nell’ambiente culturale romano. Il dopoguerra è anche il tempo vivacissimo degli artisti e degli imprenditori che si incontrano creando un mondo di idee. Nel 1947 nasce il premio Strega e nel 1953 Adriano Olivetti finanzia la rivista Nuovi Argomenti che accoglierà presenze significative.

L’invito, dopo questo libro, è a rileggere gli scritti di Morante e di Moravia per capire di più, esercitando, magari, il diritto al bovarismo che racconta Daniel Pennac: il diritto a emozionarci, a lasciarci prendere dalla storia. Il diritto a piangere, a sorridere e ad analizzare, se è il caso, perché i libri ci salvano la vita riconsegnandocela ricca di prospettive diverse. Grazie ad Anna Folli, io spero nel contagio del bovarismo come una malattia benedetta.