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Contraddizioni, fallimenti e altre prospettive

Invito non solo a guardare la contraddizione e il fallimento come opportunità, ma ad accogliere come un valore la situazione che, in vecchi modelli, è dichiarata come una sconfitta o un’incertezza. Discuto l’idea stessa di ciò che viene valutato come fallimento o come perdita.  “Ho vinto/ho perso” è una riduzione patriarcale, è il binomio di una mentalità stretta fra due poli opposti. Oltre la coppia valutativa “positivo/negativo” scopriamo lo sguardo ampio rispetto alla realtà considerata.

Le parole “colpa”, “errore”, “contraddizione” rimandano ad una visione umana punitiva, accusatoria, escludente; una visione a scale, in cui qualcuno è sopra e qualcun altro sotto, ad alternarsi con la stessa rivendicazione. È un sistema che guadagna a tenere in scacco, sotto lo schiaffo del senso di colpa, soprattutto le donne. Sbagliamo, veniamo punite e attiviamo i meccanismi perdenti del senso di colpa, nella misura in cui non assomigliamo al modello dominante, risultando, di conseguenza, disturbanti, offensive e cattive. In uno stato di avvilimento colpevole, rimaniamo taciturne, lamentose, adattate, ricattabili. Ridurci al senso di colpa è ancora la scelta dalla parte del patriarcato.

Ogni evento è un ostacolo ed è una situazione di apprendimento. La realtà ci attraversa avvicinandoci alla individualità, affinché diveniamo ciò che siamo, ciascuna combaciando con il nucleo. Chiamo arte della resa l’accoglienza della realtà. Non è arrenderci. È scegliere di capire, è accompagnare l’accadere, consentirne lo svelamento. L’arte della resa è permettere alla quotidianità di non infrangersi contro un muro di cemento, ma di trasformare la carne di ogni persona, trovandola porosa e trasparente.

Discuto l’idea dell’esistenza scambiata per un campo di battaglia, della scuola per quelli “portati a studiare” e del lavoro in fabbrica che “schiaccia a tal punto da renderti disabile” – mi racconta un caro amico rimasto “consapevole del suo stato”. I risultati di ogni persona possono apparire minimi e precari rispetto ad un sistema in cerca di schede definitive e di protocolli dentro cui invalidare le persone.

Siamo il risultato di quello che la genetica e l’ereditarietà, le figure genitoriali, l’ambiente e il caso hanno seminato dentro e intorno a noi. Infine, c’è la responsabilità, la libertà dell’ultima parola, della scelta attraverso un contesto che c’entra, che conta e che facilita o imbroglia alcune vie più di altre. A causa del potere, il patriarcato è interiorizzato dalle donne, forse, per alcune, a loro insaputa. Ogni persona ha la sua via da percorrere, ci incontriamo e condividiamo frammenti di strade.

Lo sforzo di mettere ordine non si oppone al caos e non evita la perdizione. L’ordine psicologico Sii perfetto ci riduce a strutturare gerarchie, elenchi ed esclusioni. Invece, lo spazio per l’azione comunitaria è nel disordine e nell’incertezza. Accettare di essere come morte e non vedere una via d’uscita, allontanarci dalle figure un po’ retoriche dell’eroina e della vittima sacrificale sono la guida verso l’autorità femminile, verso la responsabilità in un determinato contesto. La profondità evita l’impianto dualistico e il modello unico. Assumendo la via della differenza sessuale, il pensiero che esprimo non è confrontabile con il modello maschile e non esprime di esso il capovolgimento: non sono pari; sento, penso e decido su un altro binario/livello di relazione.

La vita come ζωη (zoe) è la condizione biologica che ci è data, la vita come βίος (bíos) è la vita consapevole e, dunque, libera. La formazione della scuola di educazione Alla persona benedice il conflitto, la contraddizione, assumendone le ombre, resistendo alla immediata elaborazione e risoluzione. Esperienze diverse, naturalmente, l’una dall’altra, ma anche diverse in sé, nella singolarità e nella unicità della trasformazione di ogni persona. Non cedere una sovranità che pensiamo continui a proteggerci, ribaltare il rapporto di potere mantenendo la stessa logica di dominio, con variazioni sul tema, non indica alcun cambiamento profondo e strutturale. Apprendiamo a sopportare l’instabilità e la contraddizione e a godercele, come l’attacco di labirintite che invita a trovare nuove centrature ed equilibri non previsti. È terribile. È lo smarrimento, inevitabile e prezioso.

La guida a queste riflessioni è un piccolo testo appena pubblicato da Laterza, l’ultimo scritto del compianto Franco Cassano, La contraddizione dentro.

“Ogni tentativo di capire non può vivere senza una costante esperienza della contraddizione, … La contraddizione è forse la forma di esperienza più acuta della propria insufficienza e precarietà, …” p.14

“… pensare non significa nascondersi sotto le coltri di queste rassicurazioni comuni. Il pensiero ha la sua dimensione iniziale in questa mobilità dolorosa, diversa dalla sua versione iper-moderna, nevrotica e bulimica, che sempre più rassomiglia ad una forma di dis-trazione, in una mobilità che nasce da uno strappo che fa abbandonare le cose amate e fidate, perché avverte che il mondo è largo, più largo delle nostre certezze. Questo movimento è in primo luogo trascendenza, capacità di uscire da sé, di guardarsi da un punto di vista superiore e più comprensivo.” pp.16-17

“Non si tratta quindi della placida ricerca del giusto mezzo, ma di avvertire ogni volta la dissonanza, l’attrito capace di rivelare l’esistenza di altri versi, la necessità di non rimanere seduti, come fa chi non mette mai il proprio pensiero alla prova perché sin dall’inizio tiene pronti nel suo repertorio i congegni per riuscire ogni volta a salvarlo (e soprattutto a salvarsi).” p.30

“… l’unica certezza che possediamo è la coscienza di questa imperfezione, di questa incompletezza, l’insuperabilità dell’ambivalenza che ci caratterizza. La coscienza infelice non è uno stadio da superare, ma una condizione permanente di tensione, è la consapevolezza che l’unico modo per andare avanti è avere la contraddizione dentro senza farsene travolgere.” p.49

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