Nella sua ultima pubblicazione “Diventare se stessi”, Irvin Yalom, psichiatra americano che stimo, racconta del ritrovamento di alcune lettere inedite di Ernest Hemingway all’amico Buch Lanham. Gli scritti riletti dallo psicoterapeuta offrono una lettura puntuale della psiche dello Scrittore, premio Nobel, suicidatosi nel 1961. Yalom dichiara: “… uomo estremamente problematico, con pulsioni accanite, che in preda a una psicosi depressiva paranoide si è ucciso all’età di 62 anni” (p.192). Scelgo di rileggere Il vecchio e il mare, non certo alla ricerca del disturbo psicologico, ma con un sentimento di lettrice compassionevole, condividendo lo sguardo e l’ascolto di Fernanda Pivano che all’Autore si dedicò, incontrandolo fra Venezia, Cuba e Cortina e che, appassionatamente, tradusse in italiano le sue opere.
Il romanzo racconta del vecchio cubano Santiago, sfortunato da mesi nella pesca e del suo giovane apprendista Manolin, consigliato malamente dai genitori di accompagnarsi a più esperti pescatori. Santiago, da solo, decide di avventurarsi per sfidare la malasorte e per rivendicare la sua professionalità. Finalmente, un gigantesco marlin abbocca all’amo e, per tre giorni, l’abile pescatore, con forza sovraumana, richiama il pesce verso lo scafo e riesce ad ucciderlo. Purtroppo, sulla via del ritorno, la carne del marlin attira gli squali, lasciando dietro di sé un’abbondante scia di sangue. Santiago è presente fino in fondo nella sua guerra, ma arriva in porto con pochi brandelli. Sfinito e rancoroso, il vecchio lascia la grande carcassa attaccata allo scafo e si addormenta, mentre molti, accorsi sulla spiaggia, ne ammirano l’impresa.
“Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L’hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand’era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?” (p.77)
È stanco il vecchio, è stanco dentro e sanguinante nelle mani che imbrigliano la preda, attraverso le funi solide e le azioni fiere. Il marinaio torna vincitore avendo perso e dichiara che: “… l’uomo non è fatto per la sconfitta… l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”. La pesca è scarsa, ma in quella barca vuota, è in gioco la dignità. “Pesce resterò con te fino alla morte” decide Santiago che non può accettare l’atto incompiuto. Il grande marlin che abbocca è la condanna che lo immobilizza nel moto all’infinito dell’attesa: deve farcela, non deve mollare, deve dominare l’enorme corpo del pesce conquistato, solo così potrà ancora essere vivo.
“Come vorrei che ci fosse il ragazzo”, è la parola ripetuta come un mantra, una preghiera, una sfida, come il rimpianto per il puer che vive dentro, disperso. È Manolin che si prende cura del vecchio amico, consentendogli di rinnovare la speranza, di sentirsi esistere.
Non azzardo diagnosi sull’Autore, ma riconosco l’odore e il sapore salato della tristezza, il colore scuro dell’impotenza, la consegna alla realtà che non è rassegnazione, ma è fiducia ultima nella vita, comprendendo anche la morte.
Hemingway ribadisce che, in fondo, l’uomo non vince mai ed è la fatica che importa e che rimane motivo di orgoglio. Da psicologa rifletto sulla vecchiaia come una condizione dello spirito, determinata non solo dagli anni, ma dal carico di fatica e di amarezza e mi soffermo sull’ordine patriarcale “Metticela tutta” con il quale io stessa, ancora, faccio i conti. Capisco che, talvolta, può valere la scelta di smetterla di sforzarsi, di insistere, di riprovarci. Seguendo il pregiudizio antico ed obsoleto, non è da uomo, è davvero da donna l’apprendimento di lasciare andare, ad un certo punto. La proposta per ogni persona in evoluzione è di scambiare l’ordine “Io devo sforzarmi” con la possibilità “Io posso sforzarmi, se desidero. Oppure, no”. Recupero, così, la parte sana della maledizione copionale. Provarci ancora e ancora e crederci, non per vincere, ma perché non c’è un’altra vita, per fedeltà alla vocazione di essere umano e di pescatore. Non è la lotta, è il naturale lavoro di chi, vecchio, desidera concludere. È l’inutilità della bellezza.
E, allora, la pesca diviene un pretesto, un mezzo per continuare a conversare fra sé e l’eterno. Il mare ne è la misura, a registrare il momento massimo della coscienza. Non è il vecchio, è la vecchiaia come esperienza di vita che cerca la risoluzione, il guadagno, la chiusura giusta. È che quella lisca di pesce enorme ha un prezzo altissimo. Ed è solo una carcassa. È l’ombra di ciò che sarebbe dovuto essere. È il riflesso scarno di un’azione faticosa e vitale. Rimane il segno. Lo scheletro forse non basterà a raccontare lo sforzo, il coraggio, la fede, la ragione del viaggio. Accolgo e attraverso la vecchiaia come esperienza, non da vecchia, infine, in autonomia e senza ricatti dell’ordine genitoriale, continuando a sognare i leoni.
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