Ph.Fonte Silvia Meo

Il paesaggio del ritorno

Ph.Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

Ph. Fonte Silvia Meo

 

Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. Nel dirlo tracciò, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. Infine fece una corona intorno al centro della ruota, che poteva essere, pensai, la cima innevata del Sumeru… E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? (Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 2016, p.116)

Anch’io ritorno dal giro delle otto montagne. Le trasformazioni inevitabili, i traslochi faticosi, le traduzioni incerte di lingue e di linguaggi segnano i radicamenti e le migrazioni interiori, con tutto il tempo che è servito. Costruiamo l’abitazione per il riposo, per lo studio, per l’incontro, per la preghiera con l’esperienza anche dell’età, e con il lavoro continuo di indagine interiore.

Da due mesi, non esco più dallo studio per tornare a casa, rimango nello stesso ambiente identitario. Non avere luoghi interni ed esterni, personali e lavorativi, mi permette di godermi i disallineamenti, i progetti, le delusioni, il dolore, senza infingimenti, senza soluzioni forzate, senza diluizioni: tutto qui dentro, a contagiarsi. Non posso uscire dallo studio per riprendere fiato altrove, a casa, oppure il contrario, come prima. Rimango nella sindrome di accerchiamento, nella casa-bottega.

Dal 1984 sono entrata e uscita, dallo studio, da casa dei miei, dalla casa con mio marito; i viaggi per lavoro, per vacanza, un movimento continuo per quarant’anni, anzi, quarantacinque, contando gli anni dell’Università a Roma. Di tutte le viandanze è qui che registro la restanza, di salvezza e di alleanza. Sono dove sono sempre tornata. Certo “la potatura necessaria dei rami non deve diventare amputazione del disegno vocazionale” (Luigino Bruni, I colori del cigno, Città Nuova Ed., 2020, p.24)

Il periodo sciagurato del covid evidenziò quanto fossi consumata dai traffici e dalle mancanze, come le mie cartilagini. Come non mai, raggiungo un punto di indistinzione e il mio posto nel mondo coincide con il posto in cui vivo e lavoro. L’inadeguatezza, l’inconcludenza, l’attesa sono le condizioni, la cifra dell’abitare questo luogo. Il successo, il raggiungimento dell’obiettivo non sono gli indicatori del senso e del valore che ha, in ogni caso, l’opera incompiuta, complicata e faticosa. “Camminare nello spirito è chinarsi verso la terra, non ascendere verso il cielo. È diventare più umani, non più divini, più uomini non più angeli” (op.cit.L.Bruni, p.53)

C’è sempre un luogo a rendere possibile i legami d’anima e le guarigioni, un luogo a ridisegnare il confine, inteso come separazione e come protezione ed esperienza dell’altra persona, di là, che è diversa. Giungo alla mia dimora, prossima al mio nucleo esistenziale, sbilenca, sgualcita, determinata e felice. E ha senso sentirmi smarrita in un luogo pur familiare. Mi consegno a questo posto di lama e di ricordi, come una residenza e un rifugio, come un dormitorio e una cella, come un laboratorio, uno studio professionale e uno spazio riservato. Abito la casa dei libri che ad uno ad uno, ogni giorno, mi vengono incontro.

Le parole che ispirano questa riflessione sono dello psichiatra Vittorio Lingiardi, sulla rivista online Snaporaz, pubblicate il 26 marzo 2023: i mindscapes sono luoghi sospesi tra mondo interno e mondo esterno. Sono i luoghi della nostra soggettività: abitano la memoria e lo sguardo, esprimono la nostra connessione con la storia familiare e collettiva, fondano la nostra dimensione estetica. Se landscape è il paesaggio come scena naturale, mindscape è il paesaggio come scena psichica: lo guardiamo perché ci ri-guarda.

Nel romanzo Babilonia, Yesmina Reza scrive una frase…: «Non si può capire chi sono le persone fuori dal paesaggio. Il paesaggio è fondamentale. La vera filiazione sta nel paesaggio. La stanza e la pietra non meno che il taglio del cielo». Per salvare l’ambiente, psichico e naturale, apprendiamo a guardarlo, a raccontarlo, a dipingerlo.

Qualunque racconto parte dall’analisi personale: è il materiale della narrazione, il dialogo continuo fra la realtà, la memoria e l’immaginazione. L’essere umano è onomaturgo, è creatore di parole, è coniatore di parole, dice il linguista Bruno Migliorini, menzionato da Vera Gheno in Grammamanti.

Le percezioni visive che diventano visioni mentali, dialogo genetico-culturale, primo incontro con il volto di chi ci ha guardato. O ha distolto lo sguardo. Ogni viso nasconde un paesaggio e ogni paesaggio è abitato dall’enigma di un viso amato. I filosofi Deleuze e Guattari coniano l’espressione paysage-visage. «Tua madre», ci domandano, «è un paesaggio o un viso?».

Stamattina per tre ore ho scelto di stordirmi con il rumore degli insetti e dei gatti e con il loro odore acre, sgradevole. Nel silenzio dell’alba, la terra è differente e l’acqua intona versi stonati. I luoghi santi hanno pazienza, attendono il tempo dei giri lunghi dell’amore e della comprensione. Durano, i luoghi santi, e trasudano storie e spirito. La cura di sé prevede necessariamente un luogo di comunità antica. L’autocoscienza è un atto, l’atto di devozione verso la vita che matura uno sguardo vigile su di sé e sul contesto.

A certe comprensioni si arriva solo rallentando e arrestando il movimento e la lama è come un corpo vivo fra me e il mondo, a separare ciò che non può più confondersi. Il luogo che rivela i pensieri e i desideri rinnovati attraverso lo scavo interiore, risentendo le presenze che mancano, le presenze sentite nutrendo l’ombra, non attraverso le azioni meccaniche.

E La Comunità di Ricerca  è costituita da chi rimane e passa, anche casualmente, da chi si allontana e poi ritorna, a sperimentare un’idea diversa di società fra i libri, gli agrumi, gli ulivi e l’orto minimo, fra le pezze antiche e i pensieri silenziosi, le conversazioni e le scritture condivise fra dispari.

Convinta che la psicologia e l’architettura hanno una prospettiva ampia in comune, condivido alcuni brani della profonda riflessione di João Nunes, architetto e paesaggista portoghese, dall’articolo Paesaggi, passaggi, pubblicato in Lettera Internazionale, una rivista che non c’è più e che ha contribuito alla mia formazione:

… Il paesaggio ha modificato nel corso degli anni il suo significato fino a tradursi, al giorno d’oggi, nell’insieme delle impronte lasciate sul territorio dalle diverse comunità e dai diversi individui che lo condividono, sovrapponendosi a quelle della genesi fisica del territorio stesso e a quelle corrispondenti alle trasformazioni a cui è estranea la comunità vivente. Si tratta insomma di un insieme di impronte codificato dal sistema di significati; il paesaggio sarà, dunque, il complesso di relazioni a cui tali impronte corrispondono come manifestazioni percettibili della vita: relazioni che si sviluppano tra individui della stessa comunità, tra individui di comunità differenti, tra comunità differenti, collettivamente, e tra tutti loro e il territorio; relazioni che implicano uno sforzo di sopravvivenza, un meccanismo per assicurare la sopravvivenza della comunità, un gesto di protezione delle generazioni precedenti verso quelle successive. Le impronte, in sé, sono banali (corrispondono ai marchi causati da gesti semplici, quotidiani, spesso automatici e involontari); le ragioni che stanno dietro a tali gesti sono altrettanto banali (sopravvivere, vivere, appropriarsi dello spazio, proteggere i figli, calpestare, correre, saltare, accoppiarsi). E tali impronte si imprimono su uno strato precedente fatto di altre impronte di altri individui, della stessa o di altre comunità, o su impronte di erosione, di degradazione materiale del territorio stesso, anch’esse banali, causate da pioggia, vento, sole. Sono impronte elementari, in tutti i sensi, che costituiscono la manifestazione di processi legati ai fatti basilari della vita. Allo stesso tempo, sia a causa della sovrapposizione che si attua nel corso del tempo, sia per la complessa rete di relazioni che si esplicano in un paesaggio considerando tutti gli individui, tutte le comunità, tutte le ragioni, tutti i fenomeni geologici fondamentali della geomorfologia di un luogo e tutti i processi entropici legati ai processi di trasformazione per erosione, per degradazione, per alterazione dell’ordine iniziale di formazione di tali territori, il testo che si va così costruendo si rivela complesso e difficile da decodificare. Ciò significa che il paesaggio dovrebbe essere considerato una rappresentazione complessa dei processi in atto su un territorio e della sintesi storica dei processi passati che può essere descritta oggettivamente attraverso lo studio delle caratteristiche del territorio, delle comunità e delle loro relazioni.

… Possiamo, così, pensare al paesaggio come a un concetto a cui corrisponde non una situazione che è dato riconoscere e percepire, profondamente associata alla percezione visiva – ricordiamo che la definizione corrente del dizionario per il termine “paesaggio” è: “parte di spazio che la vista abbraccia con uno sguardo” –, quanto piuttosto a una situazione associata a un funzionamento di cui percepiamo l’unica manifestazione in grado di farci capire ciò che accade quando si interferisce con quel funzionamento. Il concetto di paesaggio, in quanto direttamente associato alle impronte di ciascun momento, di ogni generazione e di ogni cultura che si sovrappongono nello stesso luogo, è profondamente legato alla trasformazione. Il paesaggio è qualcosa in continua evoluzione ed è funzionale alle convinzioni che in ogni momento portano a gesti diversi a cui corrispondono impronte diverse per la soluzione di problemi di sopravvivenza delle comunità, diversi in ogni momento.

 … trasmettere paesaggi vuol dire anche responsabilità nel suscitare presso il potere, democraticamente istituito o meno, i modelli e i valori fondamentali per una costruzione del paesaggio equilibrata e valida per le popolazioni. Così, “comunicare paesaggio” si trasforma necessariamente e implicitamente in uno strumento di costruzione del paesaggio, dal momento che “comunicare paesaggio” costruisce la possibilità di sostituire lo stato di coesione culturale di altri tempi, ma permette anche di spiegare la portata e la perfezione di alcuni processi di costruzione del paesaggio di epoche passate che costituiscono oggi punti di riferimento universali. D’altra parte, trasmettere paesaggio in modo completo e profondo, anziché attraverso la ripetizione di modelli di comunicazione superficiali e mediocri, potrà essere un modo di divulgare e discutere modelli di trasformazione includendo la dimensione economica della trasformazione, suscitando nelle persone a cui arriva la comunicazione la coscienza dei processi che stanno dietro la formattazione delle piattaforme fisiche necessarie allo svolgimento delle loro vite, e ancora permettendo loro di venire a conoscenza sia dei processi che, in passato, hanno finito con l’essere responsabili del mondo così come oggi lo vediamo, sia delle logiche di trasformazione inerenti alle opzioni di vita e alle decisioni che, prese oggi, prefigurano gli scenari del futuro. Perché, infine, trasmettere paesaggi è anche un’altra cosa: è creare le condizioni di costruzione dei paesaggi del futuro, dei paesaggi in cui i nostri figli e nipoti vivranno, è trasmettere loro, fisicamente, i paesaggi che abbiamo saputo creare.

 

 

 

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