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Joyce Lussu, scrittura e politica

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Fonte Silvia Meo

 

Per molti anni, ho guidato percorsi formativi negli istituti bancari e nel 2012, fra Porto San Giorgio e Fermo, incontrai Alessandra (non ricordo il cognome), una dirigente disallineata, vestita di terra e d’aria, di fuoco e di acqua. In un periodo per me di mortale silenzio, mi ospitò nella sua casa, nella campagna marchigiana fra l’Adriatico e i monti Sibillini. Mi consegnò un libro, come un segno di comprensione, come una promessa di intesa. Con il vecchio libro mi donò una conoscenza: Joyce Lussu. Con Alessandra non ci siamo più riviste. Ho letto, invece, tutto di Joyce Lussu. È forte la loro presenza nella mia vita.

Riprendo il vecchio testo, Il libro Perogno, pubblicato nel 1982 e ormai introvabile, avendo terminato di leggere la storia raccontata, nel 2022, da Silvia Ballestra, La Sibilla, per la casa editrice Laterza. Il libro Perogno seculu secloru trasferisce con voce dialettale sarda un memento per omnia saecula saeculorum.

Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Lussu in seconde nozze, antifascista, poeta e traduttrice, lei, la sibilla del Novecento, ha pensato e parlato, ha scritto e ha testimoniato come trasformare le relazioni, esercitando l’energia femminile nello studio e nel movimento.

Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale, in pieno regime fascista, con le continue e violente manifestazioni delle bande di squadristi. La famiglia Salvadori, una tribù, la chiama Joyce, vive da principio a Firenze, città socialista e democratica, ma presto emigra in Svizzera, militando nei gruppi di Giustizia e Libertà. In un contesto di guerra e di sopravvivenza precaria, Joyce consegna la sua storia di resistenza “proletarizzata dalla lotta”, come lei stessa dichiara, evitando ogni matricentrismo. Si definisce “una donna per…” e costruisce un rapporto di coppia libero, un amore misurato con la distanza e l’autonomia, “se fossi rimasta in casa ad aspettarlo, lo avrei annoiato”.

Joyce Lussu, attivista politica e poeta, dedica la sua intensa vita alla lotta, unendo un instancabile lavoro d’azione alla ricerca teorica. I suoi testi rientrano nella memorialistica partigiana antiretorica e antiaccademica. Coltiva lo sguardo di genere come istitutrice a Bengasi, da clandestina in Francia, da insegnante e da guerrigliera, viaggiando e traducendo intellettuali e personaggi storici come Ho Chi Minh, Castro, Mandela, Hikmet, Neto. Intuisce come la poesia possa essere una via privilegiata per intervenire politicamente a servizio dei popoli sofferenti.

Come moglie del ministro Emilio Lussu, Joyce prende le distanze dal mondo romano dei ministeri e dei salotti, un mondo che integra gli individui in strutture già date, distribuendo cariche e poteri per accrescere i diritti dei singoli. La riduzione della parola delle donne è sempre stata, anche nella cultura della sinistra (partiti, deputati, organizzazioni, intellettuali), la questione femminile, il problema di una categoria sociale colpita da determinate ingiustizie.

Joyce Lussu si ferma ad ascoltare, non ha fretta di sistemare forzatamente la complessità. Con la sua presenza non strumentalizza gli incontri per accrescere i rapporti di forza, ma agisce democraticamente, sganciandosi dai dispositivi del potere, radicandosi nella realtà umana e vivendola in prima persona. Si accompagna a donne e a uomini in carne e ossa, non dipendenti da rappresentanti né da apparati, dotati, invece, singolarmente, di parola e di coscienza critica. Incontra persone patite, lavoratori e lavoratrici che, allora e tutt’oggi, servono come giustificazione ideologica per una pratica di dominio improntata sulla falsa e ipocrita coscienza lavorativa.

Il suo pionieristico studio sulle sibille incrocia alcuni aspetti del pensiero della differenza, nella ricerca di una linea di trasmissione del sapere matrilineare, ispirata per Joyce alle antiche comunanze picene e alla figura mitica della vergara, della strega che conosce le erbe, erede delle medichesse antiche, delle erboriste e delle mammane, a partire dalla grande Metrodora. Nell’arcaica Sardegna della Barbagia, uno dei nomi della femminilità oscura, come per Michela Murgia l’accabadora, fra violenza e sapienza è, per Lussu, la sibilla barbaricina, figure necessarie a situazioni di sussistenza in comunità periferiche e abbandonate.

Per Joyce Lussu, il percorso di liberazione delle donne e degli uomini non è mai per sé stessi/e, coinvolge la comunità; il suo attivismo è nella testimonianza del servizio come variabile strutturale nella visione sociale, come un sistema di pratica politica, non come una concessione peregrina, un atto di bontà e gentilezza solitario. Anche quando sale sul palco predisposto, dà la parola al prossimo intervenuto, si trasforma in un megafono di carne. Una vita così avventurosa, è faticosa e non si può imporre a nessuno. Le battute d’arresto, le resistenze, la frustrazione non sono perdite o rese definitive, ma ribadiscono con determinazione un orientamento verso la giustizia sociale.

Joyce termina spesso i suoi interventi (e anche un suo libro) con la formula “larga la foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia”: è l’invito al passaparola, al diritto di tutti/e, a confrontarci, a discutere, a ricercare. L’autorità si costruisce con le relazioni, con l’esperienza e lo studio, non con il dominio e con l’oppressione del denaro. Le sibille scompaiono e si manifestano, in ogni tempo, lasciando segni, cammini, incontri e progetti; non sono solo appassionate di politica, ma agiscono nella vita pubblica per facilitare la qualità di rapporti fra gli esseri umani. Essi smettono di essere numeri, strumenti, variabili, categorie, e acquistano quella che i linguisti chiamano la competenza simbolica: l’autorità di dire con il racconto personale l’esperienza di vita e di lavoro. Così, Joyce Lussu intende la libertà, per sé e per gli altri.

Le sibille, donne intere, indipendenti e autonome, evitano i legami disfunzionali perché questi tendono a normalizzare la patologia, a clinicizzare il disaccordo e il disallineamento, a trasformare le proteste in colpe e in pene. Condividono un modo di essere e proporre la politica, il diritto, il lavoro, partendo dalla propria storia, senza delega, alla ricerca di linguaggi, di mediazione e di pratiche sapienti e creative, spostandosi su territori diversi dal denaro, dal dominio, dalla competizione e dalle dinamiche della prestazione, sempre, a disposizione del mercato. I dispositivi di omologazione riducono la capacità e la possibilità di essere chi siamo, e questo pericolo, le sibille, lo avvertono.

Oggi diciamo patriarcato, primitivo e selvaggio, riferendoci a stratificazioni culturali di epoche storiche che rimandano ad accumuli di elementi sociali, economici, giuridici, religiosi. Ci riferiamo a strutture sociali orientate sistematicamente a imporre condizioni di minorità e di passività. Una vittima è tale non solo per copione personale, ma perché sottoposta al contesto dominante che tende a deresponsabilizzare ogni persona, clinicizzandola e assumendone, un po’ per volta, il comando e il controllo sul corpo e sul pensiero. Le sibille lo sanno, e vigilano.

Talvolta, le conquiste legali e culturali, sono impercettibili. Ancora esistono la violenza, la disuguaglianza, le intersezioni fra la razza e il genere, ma registriamo sempre più la consapevolezza rispetto ai diritti, all’istruzione, al lavoro. Essere una sibilla vuol dire essere orientata alla conoscenza, oltre le abitudini mentali, i pregiudizi e i luoghi comuni, vuol dire andare libera nel mondo per trasformarlo e non per omologarsi. Lentamente, sta funzionando, abbiamo idee più chiare, abbiamo più fiducia nel diritto ad avere diritti, anche se mai dati per acquisiti definitivamente.

La storia è storia di esseri umani e di minoranze, non solo di uomini ricchi, bianchi e potenti, e Joyce chiede, attraverso i suoi scritti, che le donne si organizzino autonomamente, per produrre storie locali. Nelle comunità sibilline, la conservazione collettiva delle storie, la democrazia comunitaria, il rapporto corretto con l’ambiente naturale, la custodia della sapienza antica, la distribuzione equa del lavoro, la responsabilità etico-sociale condivisa, sostituiscono il governo guerriero e la cultura di morte.

Joyce Lussu, scrittura e politica – La Stanza di Virginia

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