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Kurt Vonnegut, Perle ai porci, Feltrinelli, 1965, 2018

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Non date le cose sante ai cani

e non gettate le vostre perle davanti ai porci,

perché non le calpestino con le loro zampe

e poi si voltino per sbranarvi

Mt. 7,6

 

Ritrovo casualmente il testo di Kurt Vonnegut e, con audacia, arrischio di richiamare alla memoria i versi durissimi del Vangelo di Matteo. Anche per offrirmi una lettura ulteriore rispetto alle scelte di alcuni intellettuali impegnati nel Salone Internazionale del Libro di Torino. Credo che decidere la propria assenza o presenza non rappresenti un fatto solo polemico, di superficie, ma una questione sostanziale che richiama la visione profonda della cultura e della umanità di ciascuna persona coinvolta direttamente o, come me, indirettamente. Oggi, anche partecipare ad una rassegna di case editrici e di scritture, non può essere considerato un semplice passatempo, una vetrina per farsi pubblicità, ma acquisisce valore di scelta antropologica, sociale, politica.

E, per continuare a riflettere, richiamo l’ordine genitoriale “Compiaci” che non è una innocua captatio benevolentiae nelle famiglie borghesi degli anni ‘60 e ‘70. Infatti, nella lettura analitico transazionale, che proprio in quegli anni viene formulata da Eric Berne, il Compiaci acquisisce una valenza d’inganno, di condizione ricattatoria da parte di inconsapevoli figure genitoriali potenti, su cuccioli e cucciole che, nei primi anni di vita, strutturano il proprio copione, la primaria autodefinizione psicologica.

I cinque ordini – Compiaci, Sii perfetto, Sii forte, Sforzati, Spicciati – si esprimono attraverso transazioni che tendono a ripetersi ciclicamente, sempre sotto le influenze di diverse figure che contano e non solo di genitori storici. Compiaci! per far parte, per evitare scontri. Compiaci! per riconoscere il ruolo superiore, per non incorrere in rivendicazioni, perché chi paga, comanda. Nell’infanzia mi si consigliava di fare buon viso a cattivo gioco per sminuire il misfatto del patriarca, per proteggere, addirittura, il buon nome della famiglia, per mostrare una ipocrita signorilità pretesa tutta al femminile! Non una fase di controdipendenza psicologica adolescenziale, ma una vessazione continuativa anche negli anni della maturità. Oltre a favorire dermatiti e gastriti, ho sperimentato che la scelta di compiacere diviene attività socialmente pericolosa, non aiutando la pace autentica e legittimando visioni antropologiche escludenti e persecutorie. Guardo frequentemente l’atteggiamento di un potere ammalato, come ricorda Vonnegut, di “samaritrofia”, cioè “l’indifferenza isterica ai problemi dei meno fortunati”.

In tempi bui e confusi, è indispensabile essere consapevole e raccontare la mia storia, nominare i libri riletti e quelli acquistati, ribadire i nomi, sempre pochi, delle persone che riconosco e che frequento e quelli di coloro che ho scelto di allontanare, spesso con l’espediente di essere cacciata. Ribadire chi sono i porci, è pratica di realtà. Decidere di non offrire loro le perle è esercizio umile di protezione e di permesso verso se stessi. Sono convinta che l’essere compiacente non misura soltanto l’iperadattamento all’altro, ma diviene complicità immorale e illegale, ridicolmente a propria insaputa. Certi consensi non sono opportuni, ancor prima del richiamo alle leggi, prima che un giudice stabilisca il reato e la conseguente pena.

Nelle situazioni di grande sfrontatezza e imposizione del potere a cui assisto, lasciar correre, abbozzare un sorriso e ricoverarsi in una fatua ideologia di libertà, non solo non serve a garantire neanche la prebenda, ma irride, denigra la mia dignità psicologica e sociale. Una forma di resistenza sempre possibile è, almeno, decidere che no, non ci sto, è disobbedire, spostandomi al lato, avendo ben chiari i patti psicologici e comunitari in cui credo. Evito certi confronti, fuggo da alcuni dibattiti e non presenzio necessariamente tutti i territori perché prevedo di finire in attività che non c’entrano nulla con l’esercizio della democrazia, ma che possono facilitare il richiamo irrinunciabile ai giochi psicologici. Insomma, siccome non sono onnipotente e perfetta e forte, prevengo la deriva e il richiamo del male evitando i luoghi e gli incontri che con furbi e silenziosi automatismi portano al rialzo dell’offesa, del discredito, della guerra.

Non rinuncio a dire e a scrivere il mio pensiero e mi è costato uscire dalla dinamica inutile dell’opposizione e apprendere a non rivendicare, a non usare le scelte fatte come strumento per sfidare, per giocare al tiro alla fune, per dimostrare che io vinco e l’altro, ecco, ha perso. Mi convince Vonnegut perché racconta in modo efficace il triangolo drammatico in cui giocano il Salvatore, la Vittima e il Persecutore, perdendo tutti, irrimediabilmente:

“In ogni grossa transazione c’è un momento magico: esso si presenta quando un uomo ha ceduto un tesoro, e quando l’uomo che deve riceverlo non l’ha ancora ricevuto. Un avvocato sveglio s’impadronirà di quel momento, mettendo le mani sul tesoro per un magico microsecondo, prendendone una parte, passando il resto ad altri. Se l’uomo che deve ricevere il tesoro non è abituato alla ricchezza, e ha un complesso d’inferiorità e vaghi sensi di colpa, come la maggior parte della gente, spesso l’avvocato può intascare anche metà del gruzzolo e ricevere, nonostante ciò, i piagnucolosi ringraziamenti del destinatario”. p.11

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