Il dolore delle donne, fisico e psicologico, inizia da una complessa e distorta idea di maternità e di abnegazione. Addestrarci a sopportare per amore è l’illusoria pratica della vittima sacrificale, della salvatrice che vuole, a costo della propria vita, salvare chi non ha chiesto di essere salvato, giacché non si è mai sentito in pericolo o fragile. L’amore che dà sofferenza è sempre imparentato con le dinamiche di potere.
Le donne che incontro sono spaventate dai compagni, mariti, figli, padri, colleghi, insomma, temono i maschi che pretendono di comandare gli spazi e i tempi, di controllare i cellulari, gli spostamenti, il denaro.
Un fenomeno di irrigidimento del patriarcato, per gli uomini e per le donne, è la tentazione di psicologizzare, di strumentalizzare in ogni modo la psicologia per confermare il dominio sull’altra. Riconosco le astuzie della manipolazione ogni volta che, senza averne la competenza, ascolto “discorsi da psicologa/o”. Di volta in volta, le donne risultano incapaci, esaurite, deficienti e cattive madri. Oppure sono descritte come deliziosamente fragili, incomprensibilmente infelici, visto che hanno proprio tutto.
Le valutazioni esagerate e superlative – le carezze verbali e non verbali incondizionate, positive e negative – dichiarano, in ogni modo, la riduzione dell’alterità. La oggettivazione della donna è fondamentale in un’idea che prevede l’incontro come simbiosi e non come libertà. L’aspettativa mal celata del patriarca che si manifesta onnipresente perché afferma di essere protettivo è che la donna accolga la sottomissione come l’unica salvezza; l’obbedienza come espressione di educazione; il sorriso perenne come forma di gratitudine.
Il maschilismo è l’espressione più immediata del sistema patriarcale il quale rappresenta la struttura fondante della nostra società, non solo un vizio occasionale. Tale visione strutturale prevede la virilità come misura di ogni cosa, dal linguaggio al pensiero. È sempre esistita la convinzione che l’uomo sia naturalmente portato al comando, alla competizione, alle materie scientifiche, ai commerci, alla forza, al mondo pubblico. La donna, di conseguenza, naturalmente, è pretesa come madre e sposa che cura, nutre e si emoziona, rimanendo ai margini e dentro.
Nelle relazioni malate, non rilevo crisi passeggere, episodi di caduta aggressiva, sviste momentanee, ma un sistema rigido e atavico sostenuto dall’egocentrismo. Gli uomini hanno paura e non possono registrare la forza delle donne che sì, hanno paura e continuano a pensare, a scegliere, a godersi l’azione, a ripensare e a riscegliere. Il patriarcato produce varianti e si coniuga in molti modi a fondamento della nostra società.
La mentalità diffusa prevede ancora la stabilità e la sicurezza – della famiglia, della relazione, dei rapporti lavorativi – come centrate sul potere del comando e del controllo, sulla disciplina dettata dal feudatario, sull’ordine genitoriale indiscusso. La conoscenza di sé è il fondamento di una trasformazione urgente di una visione di mondo che promuova la salvaguardia dell’ambiente e che risolva l’individualismo della salvezza solitaria, la mania di possesso, l’idea fissa di prevaricazione. I percorsi formativi della scuola di educazione Alla persona guidano ogni essere umano a riconoscere in sè il sessismo, il capitalismo, il razzismo, il patriarcato. L’esclusione, l’antisemitismo, l’omofobia traggono l’ispirazione e le pretese di sopravvivenza dalla predominanza fallica.
Ancora gira, e la chiamiamo cultura, il vissuto della donnafortecomeummaschio o del metodo carotaebastone o dell’uomochepperoaiuta: c’è tutto un sistema da assumere come responsabilità personale e, in seguito, da rivedere, iniziando dalla propria vita con interventi formativi adeguati e sistematici. Il femminismo intersezionale inserisce l’oppressione della donna all’interno di un quadro globale di sudditanza strutturale psicologica e sociale e si impegna a lavorare su numerosi piani. Abbiamo bisogno di chiederci cosa c’è oltre il dominio, come creare e allargare le relazioni e, in seguito, per non rimanere rennude/i, come lasciare il vecchio abito pacchiano di dominanti.
Affrontare la “questione maschile” significa capire e trasformare l’identità centrata sul comando e sulla violenza, l’identità che è sempre funzione del dominio invidioso. Desideriamo studiare e ragionare sull’invidia maschile per la maternità o sull’espulsione, in quanto maschio, dalla genealogia femminile: l’invidia del pene origina nell’invidia per l’utero, risolvendo Freud e contestualizzando nel periodo storico in cui vennero espressi i suoi assunti di base. Nessuno che si viva come il centro del mondo, va guardato e soccorso come una minoranza, una delle tante, come i neri, i disabili, gli ebrei, gli omosessuali. Non troviamo necessariamente un punto di incontro che, magari, non c’è e non può esserci avendo, ogni persona, la propria storia. È già una forza smettere di compiacere chiunque, ad oltranza, per tenerlo buono, per paura di un eventuale conflitto.
Ma mostrare la propria forza ha un costo, perché gli uomini preferiscono avere a che fare con donne fragili. Perciò alcune mogli, un po’ per compiacenza, un po’ per comodità, preferiscono recitare la parte delle vittime. E grazie a questa innocente simulazione che le donne riescono a navigare nelle acque agitate della vita, tessono le trame delle loro storie, costruiscono i destini delle loro famiglie. Poi, a forza di recitare, finiscono per immedesimarsi in quel ruolo e anche questo ha il suo costo, si sa che il potere è dei consapevoli.
Giuseppina Torregrossa, Manna e miele, ferro e fuoco, Mondadori, 2011, p.269