Ph.Fonte Silvia Meo

La legge dei padri e la giustizia delle donne: A Jury of Her Peers

ph. Fonte Silvia Meo

Scopro Susan Glaspell (1876-1948), scrittrice e drammaturga statunitense, e un suo librino imperdibile, A Jury of Her Peers, tradotto, Una giuria di sole donne, edito da Sellerio, un breve racconto poliziesco che si trasforma in un procedimento psicologico, in una riflessione sul bene e sul male.

In una fattoria sperduta e abbandonata, John Wright muore per impiccamento e sua moglie, Minnie Foster, la ragazza di città che cantava nel coro vent’anni prima, adesso ridotta in stracci, è incriminata. La signora Hale e la signora Peters, mogli acute, svalutate e derise dello sceriffo e del procuratore distrettuale, vengono invitate nella casa del delitto, nonostante la convinzione dei due uomini, per i quali le donne sono abituate a preoccuparsi per delle bazzecole.(p.32)

Prendo in prestito da Kimberlé Crenshaw il termine intersezionale per applicarlo all’analisi delle interazioni e delle intersezioni, alle diverse identità sociali, alle discriminazioni e alle oppressioni. Il testo offre una lettura psicologica, appunto, intersezionale, incrociando le problematiche simbiotiche, manipolative, di contaminazione fra le due donne e i due uomini e rende noti gli sguardi differenti sulla ipseità, sulla alterità, sul mondo.

L’utilizzo delle intuizioni è la formula rivoluzionaria femminile: vale lo scarto, il particolare insignificante, il segreto, la bazzecola, come malamente viene giudicata. La signora Hale e la signora Peters non cercano indizi di colpevolezza, semmai, si impegnano a capire chi è Minnie: le marmellate, la trapunta cucita, lo scialle, il grembiule, la stufa, la gabbietta scardinata del canarino, l’asciugamano sporco. Le due donne affinano la capacità di sentire i pensieri, di ascoltare la solitudine, di soffrire la mancanza dei figli e le incomprensioni nella coppia. La sorellanza è solidarietà e si esprime nella comprensione delle cause, nella visione sul contesto ampio; la sorellanza sempre registra e assume la superficie nella profondità.

Rifletto con interesse sulle scelte divergenti da quelle egemoni che le due donne silenziosamente compiono. Ci sono le leggi imposte dalle istituzioni e, accanto, ci sono i principi superiori alle leggi imposte; non esiste la legge cattiva dei maschi e, al contrario, la giustizia buona femminile. Al di là del criterio moralistico, emergono esigenze di prospettive, magari contrapposte, ma ugualmente utili per leggere la vita delle persone, delle famiglie, dei contesti sociali. Le donne che uccidono non sono folli, come recitava la cultura ottocentesca; la violenza non può essere elusa, né negata, va riconosciuta in noi stesse. I mali peggiori originano dalle forme svariate di ignoranza, non dai differenti pensieri femministi.

Rilevo che è possibile garantire la disciplina e l’ordine assieme alle incomprensioni dei registri comunicativi destabilizzanti delle donne che mettono in discussione e che dissentono dall’assetto sociale prestabilito. Tutti i giocatori psicologici difendono la stessa struttura mentale e rilanciano gli stessi pseudovalori per i quali se alcuni si salvano e ce la fanno, altri/e rimangono necessariamente scotomizzati/e, esclusi/e, tradotti/e in cella.

Il patriarcato non può essere oggetto di dibattito, rappresenta la follia che più spaventa, perché socialmente radicata e accettata come normalità. Le letture psicologiche della realtà non collimano con il canone in voga. E mi mortifica incontrare compagne di lavoro e di vita assoggettate, vittime sacrificali che dichiarano l’amore e patiscono il sacrificio.

La concessione di alcuni uomini e donne, anche la generosità che non è pari e che non possiamo ricambiare, è buonismo e diventa velocemente potere.

Il modello virile dichiara guerra al/la criminale, e le guerre sono roba importante, sono tutte sante e servono a sconfiggere il peccatore e a ridurlo in punizione. Nel racconto, lo sceriffo e il procuratore seguono un percorso prestabilito, pulito e ordinato, di indagini rituali e protocollate. Invece, le due donne, in relazione fra di loro e con il contesto, si fanno carico dei personali pensieri e sentimenti. Dunque, partono da se stesse e accolgono i dubbi, notano le differenze, si interrogano sulle disparità, sottolineano i contrasti, ritornano sulle divergenze; capendo e accogliendo il caos, seguono le esperienze visionarie che raccontano la realtà da molteplici prospettive di luci e di ombre. In tal modo, la pratica di vita coincide con il progetto lavorativo-professionale e politico.

Per la signora Hale e la signora Peters del romanzo non è in dubbio la giustizia che assicuri la pena al colpevole, ma la modalità di arrivare al mistero di ogni persona, per salvare se stesse, prima della eventuale condanna di Minnie Foster, e per scegliere, nel futuro prossimo, il cambiamento dei propri comportamenti, la trasformazione nell’interno interattivo della comunità. In una parola, la signora Hale e la signora Peters, apprendono e ci trasmettono il valore della prevenzione, oltre le colpe, i peccati e le punizioni.

“Alla fine ci si scoraggia… ci si perde d’animo.” p.43

“Non so come, però a volte non si capisce davvero come vivono gli altri finché… non succede qualcosa.” p.49

“Avrei dovuto capire che aveva bisogno di aiuto! Glielo dico io, è assurdo, signora Peters. Viviamo vicine, eppure siamo così lontane. E dobbiamo tutte sopportare le stesse cose… a guardarci non sembra, ma sono le stesse cose! Se non fosse che – perché io e lei lo capiamo? Perché sappiamo… quello che sappiamo adesso?” p.56

 

 

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