“È possibile creare le basi
per una storia condivisa
tra le due sponde dell’Adriatico?
È possibile farlo davvero?”
Alessandro Leogrande
Creare le basi per una storia condivisa: così è stato nell’incontro fra Alessandro Leogrande e Arlinda Dudaj, presidente della omonima casa editrice che pubblica in albanese “Il naufragio” e “La frontiera”. Leogrande parla di questa intesa profonda nell’articolo “Due o tre cose sull’Albania” pubblicato nella rivista Lettera Internazionale, 114/2012. Dopo meno di un decennio e a due anni dalla morte dello scrittore tarantino, io incontro Arlinda Dudaj presso la Feltrinelli barese, nel primo incontro del progetto “La Frontiera”, inaugurando un viaggio di sette workshop in sette Comuni pugliesi, da settembre a febbraio 2020.
L’Europa odierna si dibatte fra la pulsione confederativa, tutti insieme contro il nemico designato di volta in volta, e la tensione a due che condanna ogni Stato contro l’Altro. L’Unione Europea chiede di tenere lontana la guerra dal suo territorio ma, appena oltre la frontiera, al di là del mare, scivola nell’imporre il suo modello di dominio politico, economico e culturale. Crediamo, come testimonia Leogrande, che la cultura, lo studio, il sapere, la ricerca risolvono le idee fisse della guerra, del nemico e del potere che conquista, riduce e sottomette.
Oggi la traduzione di un testo è intesa anche come linguaggio e non solo come trasferimento di parole in una lingua diversa dall’originale. Il cammino di adattamento unidirezionale, da una lingua ad un’altra, diviene attività di mediazione pluridirezionale, di ripensamento sulla lingua originaria, su quella d’arrivo e sulle dinamiche di cambiamento. Intendiamo la traduzione come un territorio privilegiato per l’incontro fra culture e come un momento centrale nei processi relazionali. Tradurre è una attività complessa di coscienza e di conoscenza nella dialettica fra identità e alterità culturale. Vale ancor più l’idea di una traduzione che tradisca, conduca, ripercorra, trasformi e accompagni il testo d’inizio e di fine, irriducibili l’uno all’altro, verso un nuovo territorio, una terza via/opera.
Tradurre significa, essenzialmente, credere nell’incontro e costruire la relazione. Infatti, come ricorda Fernanda Pivano, maestra e guida, la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo. Essa rappresenta, invece, un processo, in un tempo e in uno spazio considerati. Il lavoro è generare e rigenerare non l’originale e la copia, ma i due testi forniti entrambi di dignità artistica.
La traduzione, dunque, come analisi critica e sintesi poetica, rivolta tanto verso il sistema linguistico straniero, quanto verso il proprio. Il risultato è una interazione verbale con un modello diverso recepito con discernimento e attivamente modificato. In questa ottica, il rapporto fra l’originale e la copia non implica una gerarchia di precedenza, cioè di maggiore importanza dell’originale rispetto alla copia, ma acquista un’altra dimensione: diviene dialogico, non più di rango, ma di tempo. La traduzione si trasforma in un vero e proprio genere letterario, dotato di una autonoma dignità. Pivano istintivamente ricorreva all’avantesto sub specie di testimonianza diretta e alla collaborazione continuativa con gli autori viventi, in una sorta di metodo socio-biografico applicato, impadronendosi del percorso di crescita, di creazione del testo nelle sue varie fasi, in una adesione simpatetica che diviene esperimento pedagogico.
La Storia segue sempre l’orma della Geografia. E in Italia, terra di conquiste, le culture degli altri hanno contribuito a formare la nostra. Quindi, possiamo accettare di essere naturalmente mediatori. La posizione della penisola italiana richiama un’immagine ampia, ariosa, aperta, accogliente, utilizzando parole che iniziano con la prima vocale che, detta, pretende l’apertura delle labbra. Ritorno con la memoria al periodo che va dal 1479 al 1552 quando, a seguito dell’avanzata turca dei Balcani e dell’occupazione delle terre d’Albania, molti abitanti si rifugiarono a Venezia. E la Serenissima, attraverso politiche di accoglienza, decise di avvalersi del contributo di molte menti albanesi alla cultura umanistica.
Attraverso la lettura dei testi di Leogrande superiamo il vizio di una visione ristretta e deterministica che non consente di trattare in modo civile e sapiente i numerosi temi che girano intorno all’immigrazione. Non possiamo continuare a pretendere l’impero del mondo al fine di evitare la paranoia, una malattia culturale fra le più feroci e imperdonabili. Apprendiamo assieme e costruiamo la capacità di tessere un reale dialogo transnazionale, smettendo di deridere e di negare, attraverso i divieti, i muri, le persecuzioni, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (dicembre 1948). La consapevolezza rappresenta l’assunto di base delle scelte politiche che riscoprono con onestà la vocazione europeistica dell’Italia, vocazione di viandanza e di originali contaminazioni.
L’augurio è che ogni persona parta dalla lettura dei libri e delle inchieste di Alessandro Leogrande non solo per onorarne la memoria, per ciò che lui è stato, ma per se stessa, per iniziare un cammino mentale e spirituale verso una diversa antropologia umana, verso una diversa modalità di costruire e di abitare il mondo.
“Una volta, Pasolini ha detto più o meno che il Terzo mondo iniziava nelle borgate di Roma. Ho pensato lo stesso passeggiando per Tirana. Non serve andare nella periferia estrema. Basta allontanarsi un centinaio di metri dal reticolo delle strade centrali: già alle spalle dell’ambasciata americana inizia un altro mondo, profondamente diverso da quello del Block e del Boulevard. Un dedalo di stradine confuse, palazzi diroccati, asfalto che si disfa, pozzanghere… ma anche tantissimi negozietti che vendono di tutto, ambulanti, caffè popolari affollati a ogni ora del giorno e della notte: un brulicare di vita levantina.”
Alessandro Leogrande, 2012
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