Incontro libri diversi, ciascuno come un capitolo di una narrazione unica, di un pensiero sempre più scarno e più profondo. Rimango nell’attesa: potrà sempre accadere la possibilità nuova di un conflitto, nella comunione di una visione allineata. Attendere è una posizione esistenziale, una modalità di abitare i tempi e i luoghi.
A differenza dell’attesa dura, povera e patriarcale di Giovanni Drogo, nella fortezza Bastiani di Buzzati (1) e a differenza dell’attesa inconsapevole, ingenua e spontanea di Tululu, il personaggio di Mattioli (2), la figura di Génie la matta resiste, esprime la forza, piegata nella certezza della scelta cosciente e della condizione ineludibile.
Inès Cagnati, morta nel 2007, figlia di immigrati veneti e insegnante in Francia, è una scrittrice che convince. Rifiuta le luci finte dei salotti letterari che sceglie di non frequentare e, in tutta la sua opera, indaga i margini dell’esistenza. Le persone narrate sperimentano la vita senza ancore di salvezza.
… la chiamavano Génie la matta perché non parlava, ma lei non era matta, semplicemente non parlava e non rideva. (p.97)
La violenza subita, il silenzio di un dolore legittimo, l’attesa, la maternità: per una donna, talvolta, l’unica uscita possibile è fare la matta. E nelle società irrisolte e bisognose di cataloghi e di controlli, i matti sopravvivono come capri espiatori. Le matte come Génie accettano il ruolo perché la follia di tutti rimanga fuori. Se sei matta, la società può assicurarti la vita, perché sei una garanzia di normalità per tutti gli altri.
La gioia delle donne dinanzi ad una scelta è sempre un po’ triste, perché il passo dichiarato verso la liberazione di sé, tiene conto del contesto, degli altri e delle altre. La gioia della libertà e dell’autorità, nella parte dell’ombra, custodisce il senso del tradimento, della colpa e della tentazione di dover salvare l’altro dal dispiacere, a causa del proprio cambiamento. L’amore, in realtà, rivela la coscienza che ciascuna persona non può che essere quella che è, e non può che agire la trasformazione, tremenda e meravigliosa. Il limite non si può sorpassare, lo si accetta, con la protezione del silenzio e con la solidarietà fragile, per vedersi fino in fondo nella propria miseria.
Nel romanzo, le interazioni sono opportunamente ripetitive, segno non tanto di un difetto di respiro, quanto di un passo piccolo e deciso verso la comprensione profonda della vita. Se apprendiamo a proteggerci e a centrare il governo ognuna/o per sé, ci diamo il permesso di aiutare, di riconoscere e di accogliere la richiesta dell’altro/a; così, possiamo smettere la salvazione, il vittimismo e la colpa onnipotente e persecutrice.
Come afferma la stessa Cagnati nell’intervista con Laurence Paton, a chiudere il libro: sopravvive almeno il desiderio di diventare matti e di scegliere la forma della propria follia per protestare contro l’insopportabile.
Génie, con sua figlia Marie, vive ai margini della società, avendo rifiutato di sposare il suo stupratore. Le donne spesso vengono considerate matte, di fronte al diniego e al silenzio, come Génie che non rivolge più a nessuno la parola. La comunità primordiale del mondo contadino rifiuta l’accoglienza e si manifesta ancora più aberrante quando è accolta pienamente, come concezione del vivere, da quelle donne che ne assumono interamente la mentalità patriarcale. La crudele nonna di Marie, madre di Génie, è la prima a confinare figlia e nipote, a isolarle, a infliggere loro sofferenze, a disprezzarle.
Abitiamo un tipo di società in cui la figura del matto assume una doppia valenza: da una parte gli viene assegnata la responsabilità di ogni male; dall’altra, lo si considera come il garante dell’altrui normalità. Nulla può modificare l’energia scarsa, il respiro vitale che manca. Manca al nonno che pure è figura nutritiva attraverso le favole e il cibo; manca ad Antoine, il fattore che vuole riscattare Génie e manca a Pierre, l’innamorato perdente e sfortunato. Lo stigma supera le generazioni, diviene carattere e si struttura come destino. La natura, anche se matrigna, e la realtà severa, divengono un rifugio, l’unico possibile. La vacca Rose e l’anatroccolo Benoît offrono il fiato e la compagnia in una miseria emozionale che, prima ancora, è economica e sociale. La durezza della fatica quotidiana è un ricovero ed è anche l’impedimento alla pienezza e a ogni possibile felicità.
Tutte le parole si consumano e giungono al capolinea dove, infine, sono io, sei tu. “Sono Marie”, “Sono Pierre”. L’abbondanza comunicativa è sparita. Gli occhi “assumono il colore delle lacrime”. “Non starmi tra i piedi”, perché rischio di vederti e di vedermi riflessa nello sguardo altrui. “Non starmi alle calcagna”, per muovermi più in fretta possibile, per evitare il fastidio del saluto, perché anche la presenza muta è un richiamo vivo al respiro e alla carne. Nelle fattorie a sarchiare il granturco, a lavare le stalle, a uccidere il maiale, nei boschi a fare legna, senza diritti e senza privilegi, rimangono la fatica, il freddo, la fame, ad uccidere i pensieri e i desideri.
È il messaggio che colgo in molti incontri professionali: le persone, perlomeno quelle che scelgono il dialogo con me, manifestano il disagio psichico come il segnale più o meno ascoltato e visibile di un desiderio di relazione e di vita. La vita all’esterno, infatti, esposta a relazioni molteplici e pericolose, viene sostituita dal riserbo, dalla prossimità a se stesse e dall’affondo nella fatica quotidiana. È la resistenza silenziosa in un mondo interconnesso.
Prima ancora del legame fra madre e figlia, la storia di Génie rivela il desiderio d’amore, muto, stanco, brutale. Perché la relazione d’amore, nel contesto reale, può rivelarsi anche così, brutta e resistente.
(1) https://www.liziadagostino.it/dino-buzzati-il-deserto-dei-tartari-mondadori-19452016/
(2) https://www.liziadagostino.it/stelio-mattioni-tululu-adelphi-2002/