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Le parole che vestono i corpi

 

Pochi testi mi convincono, resistendo alla immediata comprensione e chiedendo di essere trattenuti presso di me, prima di essere detti e condivisi. Desidero che la scrittura mi spiazzi, mi allontani, che mi mandi all’inferno e poi mi redima: mi rassicuro, così, perché è un modo per continuare a conoscermi, a ricercare. Nel linguaggio psicologico “non mi piace/mi piace” è inteso come “mi difendo/accolgo”. Necessariamente, dinanzi a significati nuovi, oppongo resistenza e, di conseguenza, desidero capire. Così, sono gioiosa.

Riconosco Camminamenti, collana di scritture viandanti, ideata da Marthia Carrozzo, come un’operazione culturale complessa: il verso e la prosa marcano la differenza fra l’utilizzo del corpo, anche nelle sue descrizioni e rappresentazioni minime, come processo di liberazione e, al contrario, lo sfruttamento dell’immagine femminile a uso del lettore/predatore.

Il corpo è la forza, è l’esistenza; nominarlo, attraverso le sue azioni, significa contribuire a cambiare i rapporti sociali di potere. Questa visione esprime il secondo volume Stazione degli occhi (O del corpo che si sottrae) Poesie in albanese di Jonida Prifti, Racconti di Donatella Della Ratta.

Fiuto da lontano il sessismo che guarda ai corpi viventi con benevolenza patriarcale esaltandone il ruolo di mogli e di riproduttori della patria, di collaboratrici infaticabili, a curare, a nutrire, a sostenere il copione sacrificale delle madri e dei padri. Siamo pronte/i e siamo degne/i, iniziando dall’esercizio della parola scelta consapevolmente, di raccontare una storia, di testimoniare un percorso trasformativo.

Questa piccola e intensa raccolta ci aiuta a dire il vero dei propri vissuti e desideri, evitando di conformarci a ideali, dottrine e morali, a modelli e misure costruite dal patriarcato. E vale per gli uomini e per le donne sessuati/e ché ripensino i ruoli predefiniti. In nome della libertà e non in nome della parità, perché il senso libero della differenza, come bene dice la filosofa Muraro, è interna ad ogni persona, non è tra uomini e donne.

La liberazione apre le vie con le parole di Jonida Prifti e di Donatella Della Ratta: sono versi di unità che vanno assunti e spiegati con la fatica del ragionamento e che in alcun modo abusano di sentimenti repressi diventando slogan perdenti. Il verso che non preveda l’azione politica e il movimento di comunità risulta fatuo, irreale e rimane nell’approssimazione di un sé qualunque.

È l’affondo nel corpo che rende le parole e le voci strumento di coscienza e di conoscenza personale. Non riconciliano come la preghiera, non sono depresse nei cunicoli emotivi, non si compiacciono del sarcasmo nella vecchiaia incattivita (anche a trent’anni si può essere vecchi e incattiviti). Sperimentiamo una rottura, guardiamo una voragine, avvertiamo un disagio, un’inquietudine che accompagnano l’ampliamento di prospettive.

Scelgo di tornare ai versi e ai racconti delle Autrici, lontani, come dicevo, dalla linea duale “mi piace/non mi piace”. È la bellezza necessariamente non bella, non dolce, è la bellezza sgradevole e ferita, la sola, però, che possa interrogarmi e bastarmi. Abbiamo ricevuto un corpo e apprendiamo a essere proprio quel corpo.

Ancora oggi, le donne e gli uomini hanno la necessità di essere ripensate/i e vissute/i come spazi di autorità e di autodeterminazione, evitando di restare prede e campi di battaglia sotto lo sguardo del potere dominante. Nascendo siamo accolte/i dalla culla di parole materne (Chiara Zamboni) che favoriscono la primaria identità. Il corpo è sesso ed è biologia e lo conosciamo lentamente con lo sguardo e con il tatto; il genere è cultura. Nel cammino di individuazione ci abbigliamo, innanzitutto, con le parole. Scopriamo il singolare e personale desiderio che ci guida. E anche il desiderio della pace nel mondo, oltre ogni demagogia, è legato al processo di conoscenza e di pacificazione di ogni persona con il suo corpo.

Dobbiamo riflettere e condividere e, stavolta, il dovere acquisisce un significato di crescita e di trasformazione. È tempo che Persefone ritorni a godere della rinascita e della primavera. L’apprendimento è proprio lì, nei luoghi e nelle scritture in cui la resistenza psicologica è tignosa e incomprensibile.

È con questo orientamento verso la comunità, con queste idee rispetto al lavoro e al godimento delle donne e degli uomini vivi che rileggo e condivido dall’Introduzione di Marthia Carrozzo:

“… il corpo è perno attorno al quale ruota il senso più intimo di una scrittura viva, che non sa starsene sulla pagina e che trova incarnazione, di volta in volta, in quei poeti capaci di declinare in versi quella particolare sfumatura fatta di presenza, quell’esserci che è peculiare alla poesia nel suo compiersi, nel suo farsi voce, sentinella esatta del proprio tempo, nell’imprescindibile atto politico dell’entrare in relazione con l’altro, mettendosi poi a disposizione della curiosità del pubblico, della sua sete, indicandogli il cammino verso un riappropriarsi delle testimonianze più nitide, appassionate e accorte che, non a caso, passano da sempre per gli occhi dei poeti…”

“Per un dovere etico, per un imperativo morale, per quell’esigenza imprescindibile che la poesia ha, da sempre, di guardare a fondo il mondo e la sua storia, offrendo al lettore, all’ascolto, una chiave di lettura più utile, spronandolo a cercarla da sé nelle narrazioni meno convenzionali. Lungi dal celebrare l’ego degli autori e delle autrici pure bravissime che ci sono state e che ci saranno, dietro Camminamenti c’è l’idea di una poesia al servizio dell’altro”

“In piena emergenza pandemica, la scrittura delle nostre due autrici vira naturalmente, quasi istintivamente a testimoniare un corpo in moto retrogrado – allarmato e vigile, vivo e bruciante, seppure nella sottrazione a cui è costretto. Allarmato e vigile, vivo e bruciante, proprio come doveva essere il corpo di Cassandra”

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