8X7A0406ph

L’esperire di sè

 

 

La nevrosi che incontra la narrazione può divenire romanzo, l’ansia può ispirare la letteratura e il tormento interiore può sostenere come una leva e una misura di genialità. In Niente di vero, romanzo pubblicato da Einaudi e candidato quest’anno fra i dodici finalisti al premio Strega, riconosco Veronica Raimo, scrittrice di talento nell’intuizione, nel metodo e nella tecnica. Apprezzo lo stile incalzante e deciso, ammiro il coraggio, la disinvolta e spregiudicata perizia delle operazioni chirurgiche sull’anima.

Da lettrice psicologa mi commuovo e tengo a cuore le sorti della creatura piccola, Vero, Veronica o Verika o anche “oca”, figura centrale delle vicende narrate. E considero che, ad ogni età e in ogni professione, le donne si propongono nella loro diversa eccellenza ed eccedenza. Ritengo cosa buona apprendere la protezione di sé ché consenta la forza stabile e profonda. Sono generose, le donne e, quando scrivono, lo sono di più, fino a scorticare l’anima e fino al più profondo dei deserti.

La registrazione della realtà e l’ironia sono strumenti per uscire dai giochi psicologici. Però, nel romanzo, certa ironia, pur utilizzata con indiscussa e sottile maestrìa, non mi fa sorridere affatto, anzi, mi preoccupa. Giocare a proprie spese, raccontando di sé episodi e situazioni, è un gioco psicologico pericoloso. Non escludo che Veronica Raimo possa permettersi di entrare nel gioco dell’esposizione e di rompere dal di dentro la maledizione della svalutazione di sé, dell’altro e della situazione. Non lo escludo, ma è una operazione delicata, complessa e che prevede una guida psicologica.

Io chiedo di proteggerci, prima di donarci e di esporci. E questo vale anche per una letterata. “Spararsi pose da fallite” nell’adolescenza è un’azione seduttiva almeno quanto, nell’età adulta, manifestarsi risolte, guarite, sornione dinanzi alle ferite. Di queste ultime, il corpo, l’anima e la mente sanno e conservano, in qualche modo, i segni e la memoria. Il tono fra il comico e il surreale, nel lavoro formativo, è tragico.

La scrittrice dichiara nell’intervista di Rosa Carnevale, qualche giorno fa:

“Mi interessava fare esattamente il contrario di quanto avviene solitamente in molti libri e rovesciare l’idea che i percorsi esistenziali siano così lineari o che tendano, come nei romanzi di formazione, a qualche tipo di consapevolezza. Volevo mettere in crisi questa credenza che si debba per forza arrivare da qualche parte altrimenti la struttura narrativa non regge.”

Raimo riesce nel suo intento. A me rimane il dubbio che al nucleo, alla base, alla parte più intima e nascosta, bisogna che ci avviciniamo con cautela e rispetto. E nessuno entra in quel nucleo. Il rischio è continuare il cammino senza pelle: ci infettiamo, ci scottiamo. Il pudore, l’imbarazzo, la vergogna non sono solo categorie morali ma, soprattutto, sono protezioni psicologiche, più o meno adeguate, in situazioni diverse. Il ricordo è sempre “vero” perché è la lettura che io stessa offro di ogni accadimento e, dunque, se affermo niente di vero, leggo una inconsapevole scotomizzazione. Semmai, è tutto di vero, di sè. E siamo definite da quei ricordi, ci strutturiamo partendo da quel vero percepito che, talvolta, magari, non è accaduto realmente.

Per esempio, a me non importa quanto risultino ridicoli “il cimitero dei feti” o “il giardino degli angeli”: l’interruzione volontaria di gravidanza, non fa ridere nessuna donna. Mai. Perché anche la volontarietà prevede contesti, pensieri e sentimenti dolorosi. Non è mai facile e neppure adeguato riuscire a riderne. Il sospetto è che, in molti casi, l’ironia mostrata e venduta a se stesse per prima, equivalga alla risata della forca o la risata dell’impiccato. E vale dinanzi ai traumi infantili, dinanzi alle nevrosi della coppia genitoriale, dinanzi alle difficoltà relazionali, dinanzi alla finitudine e alla mancanza; vale per ogni dispiacere e in ogni situazione sgradevole. È retorica patriarcale la considerazione della visione psicologica come uno sdolcinato rimestare di pancia.

Il patriarcato è sempre spavaldo; la mente maschilista deride le fragilità, si fa beffa delle ferite, considerate onorificenze nelle guerre combattute. Con lo sguardo maschile la tragedia è esilarante, le manifestazioni di pazzia sono irresistibilmente buffe, e provocano ilarità gli spettacolini delle donne nervose perché mestruate. E, dopo la risata sarcastica, appunto, la risata della forca, il patriarcato si abbatte dinanzi all’insopportabilità delle proprie imperfezioni. L’auto fiction puzza di patriarcato.

Nell’esposizione libera di sé e liberante per gli altri, il dolore, la fatica, la vergogna rimangono compagni di viaggio governati, ma presenti. Condivido, riportando brevi frasi, la confidenza di una donna che scrive, che ha pubblicato e, ancora, desidera mantenere l’anonimato:

“Lizia, … A me è mancata la fierezza, … è una parte della mia vita che mi imbarazza, non mi inorgoglisce la consapevolezza di ammettere che quella sono io, persona derelitta, brutta e stupida… Ad essere sincera, non ho cura né fierezza neanche verso la me del presente che continua ad annaspare tra paura, incertezza e rabbia… Quel vissuto si è preso giovinezza, speranze, vita, e continuo a non avere alcuna voglia di dargli una bella veste che io stessa non riconosco… Poi lo rileggo e piango. Leggo le ultime pagine e solo là mi scorgo vera. E penso che sono a centinaia di chilometri e ad anni di distanza, in una città meravigliosa, ma ho ancora troppi macigni per riuscire a volare. Rileggo la fine per darmi coraggio e dirmi che se solo abbandonassi le zavorre farei passi da gigante… Sono sempre un po’ lenta, sono un po’ stanca, ma poi ci arrivo a far accadere le cose.”

Nel lavoro autobiografico, per ogni donna, leggo la “zavorra” della lentezza e della stanchezza come un bene, per proteggersi tutto il tempo che serve. Prima di dissacrare le ideologie e di demolire le certezze, prima di buttare i vestiti vecchi, apprendiamo a proteggerci, anche godendo, ciascuna presso di sé, della fragilità e delle ferite. Voglio dire che il vecchio e caro copione, perché si avvii l’autentica trasformazione, ha bisogno di essere considerato e ringraziato per la sua devozione e per averci accompagnato in un periodo esistenziale. Ad un certo punto, il copione non basta più, inizia ad apparire stretto, obsoleto, inutile e, di conseguenza, possiamo decidere, legittimamente, di avviarne il cambiamento consapevole, parziale o totale. La garanzia di liberazione e di felicità autentiche è segnata dalla permanenza nei territori del dispiacere.

Con la riflessione proposta sul metodo autobiografico come cura e formazione mi sono allontanata dal libro per ritornare ad esso, meritando ancor più il piacere della lettura. Ogni romanzo, ogni storia letta o ascoltata diviene un pretesto per indagare, per approfondire le potenzialità che le donne hanno di custodire la fedeltà a se stesse, la sensibilità al male, per le creature terrestri, la cura della “gettatità”; sì, la cura rispetto all’essere-gettati-nel-mondo (Heidegger).

E qui la lettura psicologica passa la mano alla filosofia.

Tags: No tags

Comments are closed.