“Forse alle benedizioni occorre un tempo maggiore per realizzarsi che alle maledizioni”
Joseph Roth, Giobbe, Adelphi, 1977, p.29
Le statue o le pose o gli animali che ci attraggono, inevitabilmente, raccontano chi siamo. Le nostre vite abbondano di immagini, di personaggi e di copioni: tutti meccanismi di difesa, spesso, a difesa del patriarcato. Incontriamo molte creature impotenti e prepotenti che si ritrovano vecchie e sole senza mai essere diventate adulte, anche a causa di incaute esposizioni e coperture sociali finte e forzate. I simboli sono importanti e capiamo subito che dietro a certe foto e filmati non ci sono idee, storie, ricerche, esperimenti di creatività. Nella formula sempreverde che recita «tradizione e innovazione» scorgiamo la solita operazione di modernariato che purtroppo trasmette gli stessi messaggi di conquista, di sottomissione, di ambizione frivola, di bellezza e di felicità solo miseramente dichiarate.
La scelta istintiva e inadeguata delle rappresentazioni per dire di noi sarebbe una svista di poco conto, solo la mancanza da addebitare all’ignoranza incolpevole se non rappresentasse un pericolo per la comunità familiare, sociale e aziendale, se la ricaduta non fosse rovinosa. Perché diventiamo complici nella circolazione di modelli culturali maniacali e depressivi, grandiosi e sfigati, giubilanti e inaffidabili. Non è vero che le statue servono solo a ricordare una persona e a preservare un pezzo del passato; esse hanno anche un valore performativo: danno autorità a chi rappresentano e autorizzano valori e comportamenti per il presente e per il futuro. È dannoso apprezzare ed esibire senza inibizioni, le simbologie e i miti di forza, di spericolato ingegno, di sfrontato attacco, di privilegiate possibilità economiche perché invitiamo a prestare attenzione a cose insignificanti come la vittoria, l’identità, il guadagno, la genitorialità vera, una e sola, e finiamo a presenziare call, workshop, a parlare sulle dipendenze o sulla fame nel mondo o sul servizio militare obbligatorio, o peggio, sulla necessità di reinserire la pena di morte, interiorizzando punti di vista e metodi da feudatari, senza incidere su possibili azioni di trasformazione. Sì, perché, in ogni caso, le statue, i personaggi e i copioni rimangono quelli del padrone. Riproponendo le facce di plastica da vecchia soap opera, riconosciamo donne e uomini che se la cantano e se la suonano e che, in un modo o nell’altro, rimangono nella simbiosi, strumentalizzando le parole e i gesti degli altri a proprio favore.
In una relazione, lo scambio è il godimento della circolarità, invece, nella simbiosi soffriamo l’abuso illegittimo dell’altrui presenza. La differenza è l’intimità, quando ne diventiamo capaci. Quanto le immagini di cui ci circondiamo e che scegliamo per rappresentarci veicolano, al di là della loro materialità, le relazioni sociali e aziendali e come agiscono sulle persone trasformandole in falsi sociali? A causa di una demagogia che diviene sempre più violenta da parte dei potenti che contano, l’incoraggiamento a capire è azione severa, improcrastinabile e non è solo un richiamo a informarci su tutto un po’. Il simulacro di sé facilita la menzogna del sempre identico, rassicurando l’aspetto nevrotico e danneggiando il fisiologico cambiamento. Notiamo la tendenza compulsiva a strutturare in icona le espressioni del sé insicuro, facilitata da un utilizzo malsano dei social media, i quali strumentalizzano ogni cosa, rendendo futile e volgare ogni pensiero dichiarato e ogni cera del volto.
Il rischio è la recita della realtà. Ognuno continua ad esibirsi nel se stesso del passato, però più frustrato, con l’orientamento a comandare tecnicamente e a non governare anche negli aspetti di anima. Recitare la realtà significa risparmiare l’investimento emotivo e cognitivo che fa pensare al bene dell’azienda e della comunità dinanzi ad ogni occasione di espansione, di miglioramento e di progettualità. C’è il dentro con i protocolli senza respiro, irriducibili e poi c’è il fuori che offre prospettive diverse. Lo status quo mantenuto con routinaria fissazione, allontana l’anima, scoraggia l’entusiasmo e la gioia per un’azione originale. Il riconoscimento e la promozione, l’energia vitale e il respiro di comunità non ci sono più. Guadagniamo per tirare a campare. Tutti, titolari e dipendenti, sono orientati all’accomodamento nella zona confort, pur lavorando alacremente. Anzi, operando in modo che nessuno, né cliente esterno né interno, abbia da ridire, da commentare, da confliggere. Diventiamo indifferenti, senza spinte al cambiamento giacché, in fondo, va tutto bene così. Il gruppo stesso genera una violenza sotterranea mentre, in superficie, emergono solo l’iperadattamento e le comunicazioni ridotte alla stretta necessità. Ascoltiamo un silenzio sgarbato perché cova rancore e ci scambiamo negli sguardi la certezza che niente può cambiare. Intimità fredde, senza il piacere e la creatività, senza il q.b., la misura quanto basta dell’artigiano che fa la differenza con il suo tocco unico.
Proviamo, allora, a toglierci di dosso la stupidaggine e l’insipienza di certe scelte primitive, approfondendo le storie e i significati dei simulacri e di un certo atteggiarci. Non è opportuno sostituire le statue senza cambiare le narrazioni, spostandoci da un modello di successo ad un altro, sempre più fragile ed evanescente. I miti e le loro rappresentazioni artistiche offrono una lettura dell’umanità, ma di quale lettura si tratta ci tocca capire e decidere se è ancora adeguata alla nostra esperienza e al momento storico. Nella teoria analitico transazionale, demitizzare può voler indicare la trasformazione verso l’assunzione consapevole di più opzioni di possibilità. Non ci sono miti e statue giuste e sbagliate ma, certo, ogni rappresentazione esterna rimanda, purtroppo senza volerlo o saperlo, a ragioni interiori e a scelte copionali, uniche e ossessive.
Riconosciamo lo pseudo-eroismo di noi tutte creature umane a mostrare che, pur non piacendoci e non stimandoci, possiamo apparire forti e capaci, belle e potenti e fingerci abitanti in un mondo creato apposta per non affrontare il limite, la mancanza, la malattia che, sappiamo, ci distruggerebbero. Invece, è il contrario. Infatti, diventiamo autonomi confrontandoci con l’ombra, aiutati da una guida psicologica. Le liturgie finte dei social media non sono interessanti come l’essere umano che si indigna, che soffre, che confligge, che cade e riprende il cammino, che vuole curarsi e capire. La competenza e la preparazione fanno la differenza.
Nel marketing i professionisti rimangono pochi e i numerosi lavoratori dei social media offrono alle aziende servizi di comunicazione esterna alterati rispetto al cliente. Gli spot, i loghi, gli oggetti e i personaggi dagli aspetti grotteschi neanche lontanamente assomigliano al volto dei titolari, al volto dell’azienda e dei dipendenti. Rimuoviamo certe pubblicità e santini non solo per l’azione politicamente corretta, ma perché offendono l’evoluzione dei lavoratori e delle lavoratrici, in ogni ruolo. Possiamo utilizzare qualunque immagine rendendo, però, chiaro un messaggio moderno, di libertà, di interdipendenza con il passato, un messaggio ̶ perché no? ̶ di corporeità, ma non pesantemente sessuale e sessista, sempre a scapito delle donne. Guardando intuiamo sempre quanta preparazione c’è a servizio dell’impresa e quanto, al contrario, tradisce l’esposizione miserabile di mercanzia tecnologica.
I video, le foto, gli animali scelti per rappresentare l’azienda spesso solleticano una eccitabilità compulsiva che rimanda all’impotenza, all’incapacità di godimento e alla tristezza dell’autoreferenzialità. E l’immagine cliccata dieci, mille volte insiste e tiranneggia, senza contenuti, a imbrattare gli spazi di creatività, di immaginazione, di studio geniale, perché non rimanga più nulla del pensiero e della capacità critica e dell’ironia, sodale dell’intelligenza. L’azienda paga a un prezzo altissimo il sentimentalismo mellifluo, da quattro soldi. E se non era nelle intenzioni è ancora peggio perché, dunque, inconsapevolmente, recitiamo una parte brutalmente, senza neanche una scenografia pensata. L’opera d’arte, le produzioni del pensiero creativo sono poche e le benediciamo.
La caduta delle statue e lo studio dei miti origina dalla coscienza, dalla testa, dal cuore, dai comportamenti. Ogni personaggio mitologico ha una storia e rappresenta una prospettiva psicologico che è bene conoscere, se decidiamo di farne il nostro punto di riferimento. L’immagine di per sé non è un indicatore di successo e l’abbondanza finisce per evidenziare miseramente la mancanza di contenuti e di sostanza, finisce per escludere l’ipotesi di una storia da raccontare, e meno che mai una storia che includa le altre persone. Più patinate sono le riproduzioni di sé pubblicate e più dolore nascosto dovrà essere prima o poi svelato e liberato con le forme e le parole adeguate e reali di rabbia, di paura e di tristezza.
Affermiamo ancora una volta che questo è il momento di mantenere un profilo basso, personale e aziendale, evitando le estremità di una propaganda che rifiuta il molteplice e la diversità, reclamando il comodo dualismo di chi sta sopra e di chi rimane sotto, di chi perde come conseguenza della vittoria dell’altro, di una ragione sola, perché la controparte deve necessariamente avere torto. Mentre scegliamo i modelli che ci rappresentano, il rischio, senza contenuti pensati e organizzati, è la rozzezza. Il profilo basso significa la testa bassa a studiare, se ci interessano le metafore animali, i cartoni disneyani, la mitologia greca e romana, la simbologia cristiana, i bestiari e l’immaginario medioevale, il bestiario delle nostre cattedrali romaniche, Esopo, Orwell, London, Melville, Rowling. La ricerca, la curiosità storica e artistica, lo sguardo originale sulle opere/icone del passato creano aperture, respiri ampi e voli ed è invece l’ignoranza ad essere pesantissima. Di persone e di aziende, il volto psicologico e il volto sociale che combaciano determinano l’adeguatezza delle foto nei social media, la fedeltà al reale, la verità di esistenze libere e davvero potenti a servizio delle persone.
Le parole di cui i presunti dominatori si appropriano e che usano strategicamente in modo generico, rimangono una menzogna perché, nella quotidianità, favoriscono il contrario di ciò che predicano e, creando fumo, non consentono di identificare l’inganno di una pratica ossessiva e persecutoria. La libertà non è libera se incatena e mortifica le altrui presenze. La forza che non crea luce e felicità nella comunità è potere sulla testa degli altri. Il coraggio – il non avere paura che a noi fa sempre più paura – è sfrontatezza e arroganza, senza l’analisi di realtà. Di persone e di aziende, il volto psicologico e il volto sociale che combaciano determinano l’adeguatezza delle immagini nei social media, la fedeltà al reale. La verità di esistenze libere e davvero potenti a servizio delle persone.
Quest’anno la figura che scelgo come mia guida è Giobbe, nella storia, proposta da Joseph Roth1, di Mendel Singer, considerato un tapino che non sa farsi valere, una coscienza pura, un’anima casta, il povero e mite maestro ebreo di bibbia. Scelgo quest’uomo non per la pazienza, luogo comune e lettura in superficie delle vicende bibliche, ma perché Giobbe, in cui Mendel si riflette, rimane fermo nel desiderio di capire con “la curiosità, sorella della giovinezza, messaggera del desiderio…” (p.31). Giobbe soffre, è dolente, patisce ancora e decide di continuare a capire. Mendel/Giobbe non ha affatto pazienza. Vuole capire le ragioni e la ragione e chiede di dare un senso agli accadimenti, convinto che ogni situazione sia un apprendimento e non solo una sciagura contro l’uomo. Di questi tempi, abbiamo bisogno di profeti, degli “occhi dei profeti. Uomini ai quali Dio stesso ha parlato e che hanno questi occhi. Tutto sanno, nulla tradiscono, la luce è in loro” (p.174). Significa anche che il lavoro faticoso per tutti e tutte noi è generare e liberare la parte muta e patita di un sé profetico che custodiamo.
“Mendel Singer non pregò più. Certo qualche volta ci si servì di lui, quando mancava il decimo per completare il prescritto numero degli oranti. Allora si faceva pagare la sua presenza. A volte prestava anche, all’uno o all’altro, i suoi filatteri dietro un piccolo compenso. Si raccontava di lui che andasse spesso nel quartiere italiano per mangiare carne di maiale e far dispetto a Dio. Le persone in mezzo alle quali viveva parteggiavano per Mendel nella lotta che egli aveva intrapreso contro il cielo. Sebbene fossero credenti, dovevano dare ragione all’ebreo. Troppo duramente Geova l’aveva trattato.” p.155
“… lo afferrò la paura che potesse essere successa una disgrazia: tanto il suo cuore era abituato alla disgrazia che egli continuava ancora a spaventarsi, perfino dopo una lunga preparazione alla felicità. Che cosa può capitare all’improvviso di allegro a un uomo come me, pensava. Tutto ciò che è improvviso è male, e il bene arriva pian piano.” p.120-121
1Joseph Roth, Giobbe, Adelphi, 1977
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