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La prevenzione e lo sguardo adulto

Ho in cuore, da tempo, di riprendere gli appunti anche per chi si è allontanato oppure non ho mai incontrato. Il territorio ampio di indagine è la relazione, nella gioia e nel potere, con se stesse/i, con il prossimo e con il mondo sociale.

Recupero un pensiero di Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi, 2021, nelle pagine100-101:

Eppure penso anche che solo chi si abitua vede davvero, perché ha sgomberato il suo sguardo da ogni sentimento. I sentimenti sono occhiali colorati, ingannano la vista. Conosci quel detto zen che parla di montagne? Dice: «Prima di avvicinarmi allo zen, per me le montagne erano solo montagne e i fiumi erano solo fiumi. Quando ho cominciato a praticare, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi. Ma quando ho raggiunto la chiarezza, le montagne sono tornate montagne e i fiumi sono tornati fiumi».

Lo sguardo, il racconto e l’agire psicologici possono apparire scontati o, al contrario, inutilmente farraginosi.  Raggiungere la chiarezza significa poter vedere le cose per quelle che sono. Significa, metaforicamente e semplicemente, tornare a vedere le montagne come montagne e i fiumi come fiumi. Considero le due radici del verbo ὁράω, orao, in greco, -ἶδ (-id) e -ὁρ (-or), nel latino v-ĭd-ēre. Dunque, vedere è pensare, è prevenire; rimanda a un lavoro continuo di introspezione e di autocoscienza. L’idea, la visione non può che riferirsi alle primordiali previsione e prevenzione; l’immagine ultima, la convinzione ha origine nelle rappresentazioni mentali. Jung afferma più volte che la psiche non è dentro di noi, ma che siamo noi dentro la psiche e sviluppa l’idea di individuazione, sostituendo il modello medico e terapeutico freudiano.

Mi accorgo di utilizzare sempre più la parola e la pratica della prevenzione perché con gli anni diviene più sottile e profondo il ragionamento sulle conseguenze di ogni scelta, di ogni comportamento e cattiva abitudine assunti. La cura è la prevenzione. La cura interviene sul modello mentale che non registra il calcolo del rischio e che osa il permesso senza la protezione. Ragioniamo prima che la guerra abbia inizio, che la malattia mentale o fisica avanzi, che il passatempo si trasformi in vizio, prima della rottura definitiva. Prima è quando il controllo di sé e il governo della situazione sono ancora possibili.

È difficile scegliere di cercare e di accogliere l’aiuto.

Considero il binomio azione e reazione come un ricovero minimo del pensiero basico. Davanti agli eventi, non possiamo sempre sorprenderci, con lo sguardo da fashion statement, d’incanto e di ansia.  Cado dalle nubi è la diffusa deriva del gioco psicologico a stupido.1

Il giornalismo di inchiesta, la ricerca scientifica da tempo ci dicono dell’ingiustizia sociale, dell’emergenza ambientale, del patriarcato, delle discriminazioni secolari, delle crisi del lavoro, della scuola, della famiglia, della sanità… E siamo sempre più informati e sorpresi, dinanzi alla guerra, alla pandemia, ai femminicidi. Cadiamo dal pero dinanzi alle nostre stesse derive di sentimenti e di comportamenti.

Se il discorso pubblico è violento, anche la relazione intima ne risente e viceversa. Non coltiviamo linguaggi includenti e non ci stupiamo di poter divenire ricattabili, sotto lo schiaffo del potente di turno. Le radici culturali che affondano nel patriarcato, con l’orientamento sistematico alla violenza, al potere, alla guerra, minacciano tutta l’esistenza, di tutti. Desidero, invece, affinare, a mio favore e a favore delle persone in formazione, la pensosità lenta, ad evitare l’azione veloce. Attuo la cura al decisionismo occupando i tempi e gli spazi ampi del pensiero solitario e del pensare assieme ad altri e altre.

Infine, nella lettura psicologica della realtà, tutto c’entra, dal particolare al generale, dalla vita personale alla sopravvivenza dell’umanità, dal centro alla periferia. Condivido interamente la riflessione di Domenico Starnone su Internazionale del 7 aprile 2022:

La cultura bellica ha eroicizzato per troppi secoli il guerriero che allarga i confini di città, nazioni e imperi. E da sempre ha reso eccitante, avvincente, il colpo di lancia, o altra arma, che rompe il naso, spezza i denti, mozza la lingua, squarcia il mento. Certo, a noi esseri umani – buoni e farabutti, ben educati e beceri – viene naturale ritrarci inorriditi di fronte ai misfatti dell’esercito nemico e, caso mai, del nostro. Abbondano gli “ah, mai più orrori del genere, mai più”, pronunciati in pompa magna dopo una guerra locale o mondiale. Ma lo facciamo, scioccati, solo a orrori compiuti. Questo perché non ci riesce proprio di inorridire preventivamente e imparare ad avvertire quasi per istinto che impugnare le armi comporta sempre il cedimento della fragile costruzione dell’umano e il prevalere della disumanità più spietata. Di conseguenza continuiamo a meravigliarci quando, insieme ai ponti, agli edifici, a quel po’ di convivenza civile che siamo riusciti a realizzare, sono violati e fatti a pezzi corpi vivi ai quali la guerra ha assegnato all’improvviso assai meno valore che a una mosca d’estate o alle formiche sul lavello. “Mai più”, dunque, per via dello spirito guerriero che – gratta gratta – ci ruggisce dentro, è un’espressione di ipocrita solennità e di frivolo ottimismo. Solo chi impara a essere audacemente imbelle forse ha il diritto di dire “mai più”.

 Nota

1 Rimando a una precedente riflessione: https://www.liziadagostino.it/la-stupidita-le-stupidita-il-gioco-2/

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