Rebecca Solnit è diventata mia compagna di viaggio. Come in un’altra precedente riflessione: http://www.ndcomunitadiricerca.it/la-possibile-prospettiva-del-cambiamento-attraverso-la-cura-della-memoria/, anche in questa pubblicazione apprezzo e mi conforta il suo pensiero.
“La credibilità è uno strumento di sopravvivenza fondamentale.” (p.13)
Considero essenziale questa affermazione. Perché non c’è più speranza di relazione se non credo a me e/o non credo all’altro/a e non vedo la realtà dei fatti. Screditare me stessa, l’altra persona, la situazione nella quale siamo coinvolte, è un atto conclusivo. Infatti, non risaliamo dall’inferno del niente serve a niente, dall’impotenza in cui precipitiamo. Credo ad ogni persona, da parte mia chiunque è credibile mentre dice un pensiero o un sentimento – spesso tutti e due contaminati – che rimandano alla sua storia, alla sua esperienza. Anche se le cose affermate non mi fanno piacere e non trovano riscontro nella mia vita, perché, appunto, diversa.
Fino a ieri, anch’io mi sono sentita dire “che le cose non erano andate affatto come dicevo io, che era la mia opinione soggettiva, che le cose me le immaginavo, che ero nervosa e in mala fede: insomma, mi comportavo da femmina.” (p.15). Aggiungo: mi comportavo da femmina, quindi, alterata nella capacità di pensare, quindi, pazza.
Oltre il riferimento a uomini e/o donne, io riconosco in ogni situazione un modello maschile che manipola e sottomette, che “amorevolmente” ammonisce e sconforta, che bacchetta e svaluta. L’assoggettamento alla cultura patriarcale del dominio e del controllo ha una origine certa nell’ignoranza e nella nefasta complicità di esseri umani inconsapevoli e bisognosi di affermarsi come i migliori.
Apprendiamo a Proteggerci e, contemporaneamente, a darci il Permesso di riconoscere, di smontare le tecniche predatorie sin dalle prime avvisaglie. L’aggressività anche sorridente non è mai casuale, anzi, peggiora. Più che ai processi dopo i misfatti, io credo alla educazione e alla prevenzione. Mi impegno a trasformare i rapporti gerarchici in relazioni egualitarie, diversamente felici.
L’imprenditore che incontro nel mio lavoro è un povero cieco quando ricatta le persone sulla difficoltà di trovare lavoro altrove. Quando avvelena il clima con vessazioni sottili operando scotomizzazioni con sarcasmo e calunnie. Quando tratta i/le dipendenti esclusivamente come un costo e crea gli alibi, strumentalizzando i fatti, per trattare tutte le persone come nemiche, usurpatrici, ladre, come perdigiorno. È un cieco ostinato ogni volta che ribadisce di essere l’unico a lavorare, a tenere all’azienda, a produrre.
“Appariva così ferocemente sprezzante e così aggressivo nella sua sicurezza, che discutere con lui sembrava un pauroso esercizio di inutilità e un ulteriore stimolo all’insolenza.” (p.16)
In psicologia, scotomizzare è l’operazione inconsapevole mediante la quale la persona esclude, occulta, mente, pur di confermare la sua inamovibile convinzione copionale.
Piuttosto che dichiarare che non è vero, che non ci credo, che non sono d’accordo, l’interazione che ristabilisce la relazione è: voglio capire meglio; ti chiedo di chiarirmi il tuo pensiero; parliamone ancora. Cosa mi sfugge della prospettiva che l’altro/a insiste a segnalare? Non credo in conclusioni affrettate, ma nel conflitto mantenuto aperto.
Solnit ricorda nomi, date, episodi: conoscere la realtà è indispensabile.
In giornate come questa leggo, penso, scrivo. Solo e da sola.
“Ogni donna sa a cosa mi riferisco: a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che impedisce di essere udite quando osano parlare… Per noi è un addestramento all’insicurezza e all’autolimitazione, mentre gli uomini tengono in esercizio la propria immotivata tracotanza.” (p.12)
“Certe volte credo che queste messinscene di sapere autorevole siano fallimenti del linguaggio: la lingua delle asserzioni spavalde è più semplice, meno faticosa rispetto alla lingua delle sfumature, dell’ambiguità, dell’ipotesi – e in quest’ultimo linguaggio Virginia Woolf non aveva pari.” (p.87)
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