Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 1, 2008
”A qualcuno la vita deve sembrare così, una continua carestia,
e tutto quello che rimane da fare è consumare
tutto quello che si può,
anche se non riesce mai a soddisfarti”
(Hanif Kureishi, Il corpo, 2003)
L’invito del nostro tempo è a trovare se stessi, ad amarsi, accettarsi, appagarsi, svilupparsi, cambiarsi, guarirsi, affermarsi, ossessionati dall’apparire forti e vincenti.
Sono sempre più spesso colpita da persone che manifestano benessere, simpatia sociale, vivacità nell’affrontare le attività. Noto un presunto, falso e pericoloso <io sono ok-tu sei ok> recitato sui palcoscenici delle aziende. Incontro persone brillanti che utilizzano in maniera appropriata termini come consapevolezza, autonomia, conoscenza di sé. Abusano termini come libertà, lucidità, sapere. Mi appaiono vincenti, riuscite, dominano perfettamente qualsiasi situazione e in qualsiasi situazione si comportano più che con leggerezza, come affermano, a cuor leggero, stufe, talvolta, di non potersi permettere il loro tenore di vita. Guardo una sorta di estroversione recitata, una confidenza esagerata, un <tutto bene, tutto bene> dichiarato troppo e troppo in fretta. Manifestano un comportamento alterato, sempre sopra le righe, chiassosamente gioiose o tristi. Confondono senza accorgersene i feedback con i giudizi, usano un linguaggio specialistico che le conforta e le autorizza a dire di tutto. Le proprie difese psicologiche vengono giocosamente sostenute con l’idea di sapere bene, con la certezza adolescenziale che tutti hanno diritto alla coperta di Linus. Guardo la capacità di vincere, ma non l’essere vincenti, talvolta intuisco un copione perdente. Ricominciano nelle loro vite sempre da zero, mai da capo. Non salvano nulla del passato prossimo e/o remoto; fanno tabula rasa di ogni pensiero/emozione incomprensibile, evitando la compagnia del dubbio. Non continuano il viaggio portandosi dietro gli apprendimenti, ma ne iniziano uno nuovo che sembra nascere dal nulla, non generato da un conflitto e da una riscelta interiore. Il cambiamento, tra l’altro continuo e incongruente, non manifesta inquietudine, piuttosto una pressante esigenza di azzeramento. Possono essere come ognuno li vuole, amici adesso e di sempre, profondi come pozzanghere, impegnati nel gioco delle sedie: c’è sempre qualcuno che rimane in piedi. Senza una base certa, non c’è solidità, solo forza mal dosata, esagerazioni. Ascolto i loro racconti e noto che, talvolta, sono il risultato di psicoterapie troppo brevi o superficiali. Molti studiano le cose della psicologia, sociologia e dintorni, dichiarano convinzioni precise, scelte convinte, si autocertificano la verità. Chiamo queste persone falsamente positive. E’ difficilissimo il confronto giacché diventano scontrose o compiacenti e sono bravissime a rimettere tutto a posto, anzi, a riconoscere che sono proprio d’accordo, che non c’è bisogno di dir nulla, perché sono certe di conoscere o di essere addirittura un passo più avanti. Dove? Credo da nessuna parte. Non hanno storia, ma tantissime storie che, spudoratamente, raccontano, quando capita e a chi capita per convincere l’altro e se stessi di come sono stati capaci, pronte. Non arroganza, piuttosto un esagerato e innaturale benessere, a tutti i costi. Penso all’egoismo nel senso che l’io rifiuta di ampliarsi, proponendosi in continuo rifacimento. Trascorrono l’esistenza a ristrutturare l’io, come a rimestare nel solito tegame. Ma l’identità – che non è immagine pubblica – passa unicamente attraverso il riconoscere, l’assumere e il trattenere silenziosamente e dolorosamente l’altro.
Molti usano parole come se non avessero elaborato il lutto, la perdita, il dolore, l’assenza, il tradimento lasciandosi, semplicemente, tutto alle spalle. Il senso del lutto è sentire che la verità è inaccettabile. Se manca questo, di conseguenza, manca l’elaborazione della gioia. Non parlo né di nevrosi, vista l’assenza di conflitti profondi, né di psicosi, in cui la personalità è completamente destrutturata. Non una sindrome, piuttosto un vizio, una abitudine manifesti soprattutto nella socialità, tendenze di gruppo, presentate come nuovi valori della modernità. Mi convinco che si tratta di un corpus ostinato di comportamenti ripetitivi, coatti, poggiati come un telo sulla personalità. Galimberti (L’ospite inquietante, 2007) riprende l’idea del nichilismo e la fa sembrare una malattia, più che una scusa. Certo, il disagio non è psicologico, è culturale, afferma il filosofo. Evitando il dilettantismo affettato, il rimedio è in una nuova forma mentis, nella libertà di ricerca e nella riflessione di senso per pensare altrimenti l’esistenza. L’invito primario è a volere una predisposizione del corpo, dello spirito, della mente alla sobrietà, all’essenziale, al raccoglimento, evitando la meticolosità e l’austerità, segnali opposti di una stessa mancanza di comunicazione. “La mia fragilità mi porta ad amare, dunque, l’amore è la risposta a un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione che senza l’altro il mio esserci nel mondo è votato solo alla morte, al non esserci; e la solitudine dell’uomo di vetro è la peggiore delle malattie, delle malattie del vivere” (V.Andreoli, L’uomo di vetro, 2008)
Rileggo: più che riflessioni, ho utilizzato i 5467 caratteri per esprimere un mio malessere.
Invio: condividere con più persone uno stato d’animo è la parola necessaria per creare un silenzio nel quale avvicinarsi.
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