Riflessioni pubblicate su Sinergia Periodico di Cultura d’Impresa, 2, 2007
Propongo in questo spazio scritti irregolari e vagabondi, riflessioni irriverenti e scanzonate.
Nelle organizzazioni incontro molti sopravvissuti, patiti della political correctness: adeguarsi, compiacere, fare buon viso a cattivo gioco, attaccare il povero somaro…
Dopo anni di pane e veleno, di libri e cioccolato, ecco affacciarsi il privilegio dell’età, l’esercizio del ripensamento, il coraggio della discussione non più contro qualcuno ma come fedeltà al reale.
Nell’attività che svolgo come psicologa nell’ampio territorio della Gestione delle Risorse Umane, un nodo cruciale è il passaggio dall’azienda, al senso di comunità dell’azienda. La parola chiave è autostima: mi chiedono di valutarla nei colloqui di selezione, di promuoverla negli incontri formativi, di evidenziarne la mancanza nei team di lavoro mal riusciti, di pretenderla dai responsabili, di elemosinarla dai nuovi assunti.
Autostima è la valutazione della persona rispetto al sé ed esprime il giudizio relativo al valore personale. Penso che l’autostima sia al centro di ogni problema di comunicazione. Chi non si stima, non ha relazioni sane. L’autostima viene meno negli stati di depressione e aumenta negli stati maniacali: questo nei manuali di psicologia. Nella quotidianità aziendale mi rendo conto che il rifugio nell’autostima, come richiesta, come accusa (dell’altro), come vanto (di sé), come argomento/passatempo è spesso il segnale di personalità egocentriche. Affermazione di sé, forza, efficacia, efficienza, determinazione, flessibilità, autocontrollo, vengono contrabbandate come sinonimi dell’ autostima e proprio questa, nel frattempo, sta diventando il peccato mortale delle persone inserite nelle nostre organizzazioni. La pre-occupazione di sé, in nome dell’autostima, è evidente, dovunque, nei corridoi e nei consigli di amministrazione. In nome dell’autostima, ci si occupa, prima e solo di sé.
Proporre consulenza all’ azienda è ermeneutica, nel senso di tradurre, interpretare, s-velare, condividere. Dunque, fermiamoci a considerare che è solo nella tensione verso l’altro che l’io trova conferma di sé. L’altro è la prova per il singolo di esserci (dasein), di essere gettato dentro la situazione, di vivere la realtà.
Sono convinta: all’inizio non c’è l’Uno ma il Due e tutto nasce dall’incontro. Persino Narciso, l’Autosufficiente per antonomasia, arriva, bisognoso di alterità, a riconoscere se stesso, la propria immagine come altro-da-sé. E Dio crea l’altro a <sua immagine e somiglianza>, l’altro che diviene, così, espressione della trascendenza dell’io.
Da Sartre, per il quale solo lo sguardo dell’altro ci <oggettivizza>, a Lévinas che guarda il volto dell’altro come traccia d’infinito, la richiesta è che gli esseri umani siano egocentrati, che abbiano già dimorato presso di sé il tempo adeguato per camminare verso l’altro e che condividano l’esperienza di Martin Buber: “Divento io nel tu; divento io, dico tu”.
Noto, nei gruppi di lavoro, che l’integrazione dell’altro, spesso richiesta e vantata è, in fondo, negazione dell’alterità. L’altro non è un voyeur rispetto alla nostra bontà e disponibilità affinché lui si adatti, ma esprime la conditio stessa dell’esistenza organizzativa.
Uscire dall’autoaffermazione, “lasciarsi andare” di fronte all’altro è permettere a sé e all’uomo con cui si è in dialogo di partecipare alla realtà della vita. La stima che ciascuno nutre per sé porta ad accogliere, assistere, curare, gestire, non serve a riconoscere, non a meravigliarsi, non a scoprire il visage come evento. Oltre l’autostima, c’è l’arte del dialogo, la sorpresa dell’incontro, l’inutilità della bellezza.
“Due non è il doppio ma il contrario di Uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato” (Erri De luca, Il contrario di uno, Feltrinelli)
Non condanno la ricerca dell’autostima, la considero solo un passaggio. Il conseguimento della stima di sé non può essere il fine, ma uno stadio iniziale dell’esperienza esistenziale. Mi piace chi si stima una volta per tutte e se lo dimentica a servizio del collega, del capo, chi sceglie di perdersi nell’evento/relazione vincente.
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