Ph.Fonte Silvia Meo
“Ebbe un attimo di paura: paura di lui, paura di se stessa; subito però si scosse sdegnosa, pensando ancora una volta che era padrona di sé e della sua sorte, che era stata abbastanza serva degli altri e non doveva rendere conto di nulla a nessuno.”
Sono le parole di Marianna Sirca a sottolineare come la struttura, la visione del mondo, sempre, è quella degli uomini. Le norme, le narrazioni, le punizioni, sono concepite dal potere virile, oggi come nel 1915, anno di pubblicazione del romanzo, ambientato nella Sardegna barbaricina. Grazia Deledda dà conto della famiglia disfunzionale, il più delle volte patriarcale, del sistema autocratico e profondamente regolamentato, in cui il desiderio delle giovani donne viene soffocato precocemente.
All’inizio, nessuna, come Deledda, può comparire con il nome, con il volto, con il pensiero libero: Ilia di Saint’Ismail fu lo pseudonimo della scrittrice. I temi della narrativa deleddiana sottolineano l’importanza dell’autocoscienza e della trasformazione psicologica ed esistenziale. I tempi e i luoghi della protezione di sé sono numerosi e imprevedibili: registriamo che, ad un certo punto, fra la sofferenza e il contesto reale, fra la colpa e l’amore, le donne decidono di prendere la parola e così inizia la trasformazione per se stesse e per i/le loro compagni/e, mariti, sorelle, fratelli, figli/e, amanti.
Nel romanzo, il triangolo padrone/servo/bandito, oltre che indicare i ruoli sociali, diviene caratteristica psicologica e modalità di esistenza. Le donne come Marianna, sono escluse dal contratto sociale e sono ridotte al contratto matrimoniale, vivono da serva, da padrona e da briganta, vivono da latitanti, nella solitudine esistenziale, come uno spaesamento nell’universo. Sola, dice di sé Marianna, come la fiera nel bosco. «Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci».
Da psicologa artigiana registro, in quarant’anni di attività, come lo sguardo della psicologia favorisca il patriarcato, spesso con il volto femminile, spesso inconsapevolmente. Senza le donne e gli uomini maschiliste/i, il dominio patriarcale non durerebbe così a lungo. Riconosco la forza e la profondità del sentire dolce e disruttivo di molte donne che, scegliendo di raccontarsi, rileggono la storia di tutti gli esseri umani. Donne e uomini che si offrono il permesso di divenire ciò che sono e di opporsi alla riduzione di sè.
È sempre tempo per attivare il pensiero e per trasformare le azioni minime quotidiane. “Sei pazza” o “sei una cattiva madre/lavoratrice/moglie”: non serve metterci a discutere quanto sia più o meno falso e non serve difenderci rilanciando le interazioni. Molte donne tacciono dinanzi alla calunnia, alla diffamazione, alla voce sfidante, per proteggersi, perché non interessa la scelta bellica. Sprucide appaiono, arroganti e, io stessa, in età adulta, anche a causa della claudicanza, rischio ancor più lo stigma dell’acidità e della scontrosità.
Presso il mio studio ragiono con le persone e, assieme, con ironia, ci permettiamo, anche, di sragionare, di seguire percorsi di pensieri ignoti e ignorati. Non è snobismo e non siamo sprucide: è un ritiro patito e fisiologico nelle riflessioni e nelle prospettive differenti, nei sottosuoli, nelle trincee delle nostre vite. Gli incontri rivelano un mondo in disparte, minimo, ma conosciuto a chi acquisisce la sensibilità all’autocoscienza. Coltiviamo più pensiero critico, più forza, più discernimento. Spesso, molte persone, per amor di pace, compiacciono e rinunciano alla parola oppure, allontanando da sè l’ipocrisia, definitivamente si tacciono. La loro azione finisce per essere fraintesa dall’occhio del padrone o per essere immaginata dalla sua parte. Diveniamo complici, diciamo per amore, ed è invece assuefazione al moralismo del senso di colpa.
Sono convinta che sia il potere a decidere la memoria storica, a decretare il torto e la sconfitta, a tramandare il racconto con il modello del vincitore. Al contrario, credo che la potenza relazionale possa ritrovare le ragioni degli eventi passati e riconsiderati. La cultura dominante svilisce intenzionalmente il servizio, allo scopo di mantenere la subordinazione, e chi svolge una professione di cura, di presa in carico, viene considerata inferiore, inutile, pericolosa. Ma lo spirito di servizio non coincide con la subordinazione. La resistenza è possibile attraverso la protezione di sé che viene spesso scambiata per egoismo. Invece, è potenza autoaffermativa. Ritrovo la potenza autoaffermativa in una intervista di Antonio Gnoli a Luisa Muraro, la filosofa del pensare la differenza.
I desideri e le proposte di trasformazione sono possibili attraverso le pratiche di libertà quotidiana, attraverso la testimonianza di ogni scelta personale e lavorativa. L’indignazione, il rigore e la misurazione della realtà svolgono una funzione vitale di autoprotezione, vigilando sulla vulnerabilità del sé. In certi momenti, tutti sono tenuti lontani, funzionando come uno schermo per la coscienza ferita.
Grazia Deledda, ritirando il Nobel nel 1927, nel suo discorso, parte da sé, nomina la famiglia, “composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi”: riconosce la forza e l’autonomia nel legame con la natura, con la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria. Anche lei, giudicata come sprucida dalla cultura dominante del suo tempo, si è rimessa al mondo, si è rigenerata, partendo da sé, dai suoi studi, dai desideri.
“Nulla le mancava: eppure ripiegata su se stessa, si guardava dentro, con piena coscienza di sé, e vedeva un crepuscolo, sereno, sì, ma crepuscolo: rosso e grigio, grigio e rosso e solitario come il crepuscolo della tanca.”
Riferimenti:
Grazia Deledda, Marianna Sirca, Edizione del Kindle