In queste buie stanze dove passo
Giornate soffocanti, io brancolo
In cerca di finestre. Una se ne aprisse
A mia consolazione. Ma non ci sono finestre
O sarò io che non le so trovare.
Meglio così, forse. Può darsi
Che la luce mi porti altro tormento.
E poi chissà mai quante cose nuove ci rivelerebbero.
Costantino Kavafis
“Offrire più strumenti”, “interventi più pratici”, “più concretezza”, insomma, “meno teoria”: sotto forma di invito, di rimprovero, di richiesta, di lamentela mi rivolgono sempre più spesso queste osservazioni, negli incontri formativi sulla comunicazione e dintorni.
Decido, dunque, di proporre alcune riflessioni per avviare, con le persone che incontro, nuovi pensieri e nuove azioni. Per teoria intendo, in questo lavoro, “la formulazione sistematica di principi generali relativi ad una branca del sapere e delle deduzioni che da tali principi si ricavano per via puramente logica.” (Devoto, Oli, Il dizionario della lingua italiana).
Con i termini tecnica o pratica, nell’ambito delle attività formative, intendo ciò che è facilmente o immediatamente traducibile in azione, con riferimento alla realtà del vivere quotidiano e, quindi, “alle capacità e disponibilità esistenti in rapporto all’ottenimento di risultati concreti di vantaggio immediato.”
Kant, in uno scritto del 1793, supera il dualismo fra pratica e teoria e afferma: “Si chiama teoria un complesso di regole anche pratiche quando siano pensate come principi generali e si faccia astrazione da una quantità di condizioni che hanno tuttavia l’influenza necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama pratica, non qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto a principi di condotta rappresentati universalmente.”
Teoria e pratica, insomma, rappresentano uno dei nodi centrali nella semantica storica e nel <conflitto ermeneutico> delle definizioni filosofico-concettuali, della rete dei saperi e dei modelli culturali e ideologici.
Invito gli amanti delle intelaiature filosofiche a consultare il Dizionario di filosofia di N.Abbagnano, ed.Utet, alla voce Teoria-prassi, pag. 1087.
Leggo la richiesta di tecniche, in un processo formativo sulla comunicazione, come una difesa, un rifiuto a guardare il “caos che ci abita” (Jung). Quando qualcuno chiede tecniche di comunicazione e consigli pratici, intendo: “Ci rifiutiamo di pensare, raccontaci quello che dobbiamo fare”. Il bisogno è di adeguarsi, di adattarsi alle regole, piuttosto che di avviare un processo di consapevolezza. Talvolta intuisco che la pratica che mi è richiesta rappresenta soltanto un cumulo di “idee ricevute senza averle pensate”, definizione di stupidità proposta da Vaclev Havel. Ritengo offensivo per le persone partecipanti che, come formatrice, riduca l’uditorio ad una scatola vuota da riempire con regole e formule da eseguire.
Pensare è un’attività che combatte la frustrazione e produce identità positiva, al di là del compenso percepito, della gloria conquistata. In più occasioni, quello che comunemente si chiama “pratico” finisce con il diventare un automatismo incontrollato che riduce ogni stimolo, ogni idea a tabella, a glossario con il risultato di chiudere, di stabilire una volta per tutte.
Nella relazione ogni persona non è all’esterno, a proporre una tecnica di comunicazione e a vedere l’effetto che fa, ma è all’interno dell’accadere con l’altro-da-sé, in un dato momento e luogo. Non ci sono azioni che ci vedono spettatori, la tecnica ha senso solo se utilizzata all’interno della relazione. Ogni teoria e applicazione che da essa conseguono sono filtrate attraverso la personale sensibilità di chi la usa.
Sono contraria a giustificare e a legittimare prassi preconfezionate e anche all’abolizione della tecnica tout-court a favore di interventi selvaggi e approssimativi. Scelgo la flessibilità critica, lo studio e il dubbio dinanzi a qualsiasi presunta ortodossia. Evito l’applicazione acritica delle tecniche di comunicazione sperimentando che soltanto la riflessione, la scelta, la convinzione custodiscono e si prendono cura della relazione. Non esistono teorie o metodi giusti, ma solo relazioni d’anime e sani coinvolgimenti. Avverto il bisogno di devozione più che di tecniche.
Siamo abituati a guardare i sintomi e non le cause. Cambiamo le tecniche senza cambiare convinzioni e valori. La pratica non è la traduzione concreta della teoria. L’operatività e l’azione non sono, semplicemente, la declinazione di un’attività di pensiero, di una filosofia. La teoria e la pratica non si incontrano mai, non coincidono, non diventano l’una l’applicazione brutale dell’altra. Altrimenti creano, quando rappresentano facce della stessa medaglia, il sospetto di incoerenza e, di conseguenza, il marchio, per l’una, di essere astratta, inutile e, per l’altra, di mirare ai profitti, ai prodotti, nell’accezione meno umana.
La relazione con l’altra persona esige l’arte, prima ancora delle tecniche.
“L’avvenire sarà fatto di individui, non di epoche e di scuole, le quali non sono altro che delle comodità della storia della letteratura… Le scuole non contano…. Le teorie non sono molto importanti, in generale. Possono però costituire degli stimoli per creare, e allora diventano di una certa utilità.” (J.L.Borges, Testamento poetico letterario, Giunti, 2004)
Se il sistema è complesso, c’è bisogno di multidisciplinarietà; chi sa tutto su poco rischia di rimanere a difendersi. Ricerco non le formule, ma le ragioni di quelle formule, non l’unica soluzione, ammesso che ci sia, ma la tensione verso tutte le soluzioni possibili. “Bisognerebbe sforzarsi di rendere ogni cosa il più semplice possibile, ma non più semplice.” (A. Einstein)
Oggi vale molto più rimettermi a pensare piuttosto che eseguire compiti. Controllare la situazione, in fondo, signfica solo fare in modo che vada per il suo verso. Se mi ostino a seguire una qualsiasi tecnica, interrompo l’energia che naturalmente indirizza gli eventi e le persone.
La relazione, il legame, la solidarietà non seguono tecniche, esse accadono. Perciò bisogna immaginare più che organizzare, coltivare anime, più che stabilire strumenti e risultati, riconoscere e scoprire, più che trovare e applicare soluzioni date come certe. L’incontro con l’altro opera nei campi del <sacro>, dell’<interiorità>, del <bello>, non solo del <normativo>. Invito a prenderci cura dei risultati e non solo ad avere fretta di conseguirli. Il lavoro in sé, per arrivare a qualsiasi risultato, è il vero valore.
Voglio interagire senza la smania di porre fine ai contrasti, alle contraddizioni, agli innumerevoli rivoli di discussione, ai rischi della continua ricerca. L’elaborazione teorica coinvolge necessariamente più discipline e più ambiti. Ho forse paura di perdermi? La pratica maniacale mi protegge perché, in fondo, chiude. Il pensiero, invece, mi scopre, apre in continuazione. Il pensiero è interrogante e chiede continuamente il conto alla motivazione che guida.
A proposito di motivazione, non mi riferisco all’interesse generico, allo slancio emotivo occasionale, ma alla motivazione come tensione specialistica, come talento che affino in continuazione.
La domanda non può essere unicamente: “Come?” A me importa: “Perché?”, “Chi?”, “Dove?” Il “come” deve sottintendere una weltanschauung, una visione della vita e del mondo, oppure è mera funzionalità staccata dal contesto, dalle persone, dai fini ultimi.
Una lavatrice può funzionare allo stesso modo dappertutto, un essere umano, no. Davanti a qualcuno che mi chiede: “Cosa faccio con questo figlio/capo/collega/studente?”, è sano rispondere che non lo so, che non sono al suo posto e, dunque, non so cosa è adeguato per lui, rispetto a quella persona, in una determinata situazione.
“Il primo passo da fare è <lo svuotamento del come>. <Non lo so>. Il non lo so è il primo passo. <Non so proprio cosa fare>.” (Hillman J.,L’anima dei luoghi, 2004)
Queste riflessioni sono ovviamente lontane dall’alibi che offre a se stesso l’essere umano scansafatiche e assenteista, il quale non aspetta altro che di istituzionalizzare la noncuranza e di proporsi come neutro nel rapporto con gli altri.
Mi ritorna alla memoria un aneddoto letto tempo fa. Una bimba torna a casa da scuola con molto ritardo. La mamma preoccupata le chiede cosa è accaduto. La bambina spiega che la sua più cara amica ha perso il gattino e lei ha scelto di restare per aiutarla. “Cosa hai fatto?” chiede la mamma. “Nulla”, è la risposta della piccola, “mi sono seduta accanto a lei e l’ho aiutata a piangere!”.
La compassione, il patire accanto all’altro, è la risposta naturale dell’essere umano.
E’ improponibile l’utilizzo di tecniche, strumenti, esercitazioni, senza che da parte di tutti vengano condivisi la filosofia di base e i principi teorici. Credo che la vecchia scrivana, il quaderno di appunti e la ricerca continua offrano perlomeno economicità di denaro, tempi e spazi. Pensare a pensare è lo scopo primario che la formazione propone, il secondo è coinvolgere quante più persone possibili.
La capacità di ideazione è diversa dalla capacità di creazione e di operazione. In primo piano, nel processo ideativo, riconosco le relazioni, le emozioni, non i principi e le procedure.
L’essere umano ha bisogno di respiro, di metafore, di simboli, di allusioni, non di modelli da seguire per far funzionare qualcosa. Se prima non cerco di capire, se non rifletto sulle possibili opzioni, a cosa serve il fare se non a liberarmi frettolosamente dall’ingombro dell’altro?
Senza il pensiero e l’emozione non sarà mai un fare pratico, né utile. Una relazione, un gruppo non rispondono, soltanto, a criteri di utilità e di efficienza ma, soprattutto, di bellezza. Ma ciò che è bellezza, è poesia (poiesis, poieo, in greco è fare, costruire, produrre) e, allora, diventa utile, pratico.
“L’azione non è soltanto opzione e decisione, ma può anche essere creazione: non è solo la pratica che conduce le nostre vite, ma anche la <poetica> che produce cose e trasforma la realtà.” (F.Savater, Il coraggio di scegliere, Ed.Laterza, 2004)
L’essere umano agisce per esistere o l’essere umano è quello che fa? L’altro non è altro che l’atto che compie o l’azione è soltanto la parte visibile di un’interiorità smisurata?
Le domande di marzulliana memoria rimandano a studi e ricerche che coinvolgono l’etica, la libertà, i sentimenti, il caso, la verità… Non voglio arrivare ad una soluzione, non in queste pagine, ma studiando e discutendo, voglio continuare a non sapere con autostima ed orgoglio.
“L’azione è il contrario del realizzare un programma. Programmi sono i modelli vegetativi e gli istinti, le rose e le pantere sono <programmate> per essere ciò che sono, fare ciò che fanno e vivere come vivono…. Gli esseri umani sono programmati in quanto <esseri>, ma non in quanto <umani>…, l’azione non è fabbricazione di oggetti o di strumenti, bensì creazione di umanità.” (F.Savater, op.cit.)
Neutralizzando il pensiero, sparisce l’identità e la pratica fa emergere solo l’idoneità a svolgere determinate funzioni umane. L’apprendimento del pensiero (che si fa pensare prima di fare) è direttamente collegato all’abilità dell’ otium, alla virtù dell’attesa, alla confidenza con il senso del limite umano, al rapporto più o meno ansioso o libero con il tempo e lo spazio.
Certo, per evitare di fare, a qualsiasi costo, per evitare di usare strumenti e griglie preconfezionate, è importante capire e liberarmi di alcuni freni psicologici: la presunzione prometeica, che ci avvicina a Prometeo nell’atto di rubare il fuoco agli dei; il convincimento: esisto-solo-se-sono-utile; la pretesa di soluzione; il bisogno di offrire consigli non richiesti; la schiavitù del binomio dare-avere, la paura del silenzio e della solitudine.
Giungo, così, ad una pratica colta (dal latino, colere , coltivare), che deriva dal coltivare idee, emozioni, condivisioni. Compito della nostra epoca non è insistere su una strada, ma scoprirne il più possibile. Non la scelta fra alfa, beta o gamma, ma l’apprendere a decifrare, ad interrogare, a capire e, anche, a non cercare di capire ciò che ancora non ha deciso di svelarsi. Mi abituo a lasciarmi proteggere dal vuoto, anzi, dal pieno di nulla. Come, in matematica, lo zero non è niente, ma è un numero. Non mi preoccupo di arrivare alla meta – a quale, poi? -, mi chiedo, pittostto, se sono sulla strada della relazione e se ho bisogno di rallentare o di fermarmi.
La bellezza della relazione è lenta. Nell’applicare sistemi, formule, regole, accade quello che voglio e conosco. Davanti ad una persona aspetto, invece, che accada a me e a lei ciò che non conosco, l’imprevedibile che non immagino. La pratica si esprime verso l’altro, il lavoro da fare è stare con lui. Il rischio del fare qualcosa per qualcuno senza incontrarlo assomiglia al rischio di acquistare i mobili senza valutare se l’abitazione è un trullo, una baita, un camper, un appartamento…
Una solida attività di pensiero è la base su cui edificare l’esperienza, l’azione, le operazioni concrete. Le griglie, le tecniche favoriscono spesso l’atteggiamento mentale di chi pensa produttivamente, ma non criticamente. Platone diceva che le tecniche sono capaci di fare le cose, ma non sono capaci di valutare le cose.
“… il mondo è costituito da una rete (più che da una catena) assai complessa di entità che hanno tra loro relazioni di questo tipo, con una differenza: molte di queste entità hanno provviste proprie di energia e forse anche idee proprie su dove vorrebbero dirigersi. In un mondo di questo tipo i problemi di controllo diventano più affini all’arte che alla scienza, non solo perché tendiamo a pensare che difficoltà e imprevedibilità siano contesti per l’arte, ma anche perché è assai probabile che l’errore produca cose sgradevoli.…noi, scienziati sociali, faremmo bene a tenere a freno la nostra fretta di controllare un mondo che comprendiamo così imperfettamente. Non dovremmo consentire all’imperfezione della nostra comprensione di alimentare la nostra ansia e di aumentare così il bisogno di controllo. I nostri studi potrebbero piuttosto ispirarsi a una motivazione più antica, anche se oggi appare meno rispettabile: la curiosità per il mondo di cui facciamo parte. La ricompensa per questo lavoro non è il potere ma la bellezza. È ben strano che tutti i grandi progressi scientifici – non ultimi quelli che dobbiamo a Newton – siano avvenuti sotto il segno dell’eleganza.” (Gregory Bateson pag.30 in Manghi S., a cura di, Attraverso Bateson, Raffaello Cortina Ed.,1998)
Prima di valutare una tecnica di comunicazione come più o meno adeguata, pre-occupiamoci di creare legami. Va bene utilizzare tantissime tecniche di comunicazione, ma all’interno di una relazione, seguendo un dialogo, proponendo un confronto, presentando ipotesi.
“La relazione al tu è immediata… Fra l’io e il tu non vi è alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione. E persino l’anelito si trasforma, poiché precipita dal sogno nell’apparizione. Ogni mezzo è impedimento. L’incontro avviene solo dove è caduto ogni mezzo. ” (M.Buber, Città Nuova, 2000)
Senza la theorìa (in greco contemplazione) c’è la frenesia del protagonismo filantropico, che ha bisogno di usare tecniche, controllare risultati, valutare con il bilancino dell’orefice guadagni e rischi.
Propongo un esodo, un cammino all’interno di sé, dove recuperare teorie e tecniche, procedendo verso lacreazione di relazioni, verso la libertà dell’espressione dell’umano.
Ma posso costringere qualcuno ad essere libero, forzarlo a pensare con la propria testa e chi si occupa di formazione ha questo compito?
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